Ispettori e autonomia scolastica: quando diventeranno davvero una risorsa per il sistema?

Stefaneldi Pietro Calascibetta

Si fa un gran parlare del fatto che la bozza del regolamento che dovrebbe disciplinare il concorso per dirigente tecnico con funzione ispettiva sia una svolta per adeguare tale figura alla scuola dell’autonomia.
I posti non saranno più suddivisi tra settori e sottosettori perché si opterà per una figura “generalista” come è stato per il dirigente scolastico.
Si tratta sicuramente di una novità positiva che giunge in ritardo, ma a mio avviso non rappresenta la vera svolta nell’utilizzo di questa figura come risorsa realmente fruibile dalle scuole come risorsa.
Ho recuperato a proposito il contributo di Mario Maviglia in questo sito 
perché mette ben in evidenza due elementi che ostacolano un vero cambiamento nell’utilizzo degli ispettori: il numero esiguo a livello nazionale, direi ridicolo, rispetto al numero degli istituti scolastici e il loro impiego prevalente nella funzione di controllo che li rende più una risorsa del Ministero per attività amministrative e per le emergenze che una risorsa che le scuole possono realmente utilizzare in modo diretto e continuativo.
Apparentemente parlare di ispettori potrebbe sembrare un argomento per addetti ai lavori, invece riguarda tutti, per questo vorrei aggiungere qualche ulteriore considerazione sul ruolo che gli Ispettori possono svolgere proprio per rilanciare l’autonomia scolastica.
Io credo che gli Ispettori possano costituire uno di quei tasselli mancanti per l’attuazione dell’autonomia a patto di poterli (ripeto, poterli) utilizzare realmente come una risorsa di sistema per le scuole piuttosto che come longa manus del Ministero o come tappabuchi negli organici degli Uffici territoriali per coprire i posti dei dirigenti amministrativi man mano che vanno in pensione come è stato negli ultimi anni.
La prendo da lontano perché altrimenti è difficile capire la valenza che il corpo ispettivo può avere per il rilancio dell’ autonomia.
L’autonomia, come tutti sappiamo, non è stata varata per importare il liberismo nella scuola, né per favorire le scuole private, ma per dare la possibilità ai collegi di ciascuna scuola pubblica di costruire i percorsi più adatti e su misura ai bisogni formativi dei propri studenti e per rendere così effettivo il diritto allo studio superando la scuola come catena di montaggio con un programma uguale per tutti e con la pretesa che ogni alunno, svolto il programma, possa uscire anno dopo anno formato automaticamente. La conseguenza è che chi non ce la fa finisce come lo sfrido della catena di montaggio nel novero di quella che oggi si chiama eufemisticamente dispersione, come se il diritto allo studio sia solo il diritto alla frequenza di una scuola.
La novità dell’autonomia non sta “nell’autonomia” stessa perché esisteva ed esiste la libertà di insegnamento, ma nell’articolo 6 del Regolamento (275/99) considerato dai più un optional, ma che finalizza l’autonomia didattica e organizzativa non alla libera concorrenza, ma alla “ ricerca, sperimentazione e sviluppo” di percorsi su misura che tengono “conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali ”.
Per poter adeguare l’azione didattica e formativa ai bisogni degli studenti è necessario quindi che ciascun collegio faccia non un semplice menù di offerte chiamato PTOF, ma un progetto vero e proprio con un’ipotesi pedagogica, didattica e organizzativa per adeguare il servizio scolastico ai propri utenti e si domandi periodicamente se le scelte che ha compiuto siano state efficaci, dove hanno funzionato, dove vanno migliorate e come vanno cambiate in base anche al turnover degli studenti che ovviamente non sono sempre gli stessi.

Questa perenne ricerca, sperimentazione e miglioramento/adeguamento al mutamento del contesto richiesto dall’applicazione dell’autonomia ha nella autovalutazione di istituto il vero motore. Non c’è autonomia senza autovalutazione e riprogettazione.
Vi è un altro aspetto importante. Contrariamente a quanto vorrebbe qualcuno, i singoli istituti non sono monadi vaganti in libertà, ma costituiscono un sistema vero e proprio e interdipendente.
L’attuazione del dettato costituzionale a livello di Paese, in altre parole l’efficacia della riforma, dipende dall’efficacia del processo sopra descritto in ciascun istituto e dalla capacità del sistema stesso di migliorare tale processo a livello nazionale.
E’ quindi importante che vi sia una governance di questo processo non tanto e non solo che controlli l’applicazione delle norme, ma che aiuti le scuole a migliore la qualità dei propri processi di autovalutazione e di riprogettazione perché è lì che si attua l’autonomia, non nel numero di corsi extrascolastici o dei progetti che offre o nel pedissequo rispetto formale delle norme.
Il sostegno alle scuole, l’aiuto nell’attuazione dell’autonomia sono attività che hanno un peso significativo nello sviluppo di un sistema scolastico nazionale.

E qui arriviamo al ruolo degli Ispettori.
Il Sistema Nazionale di Valutazione ( DPR 80) che avrebbe dovuto costituire l’intelaiatura portante di una governance nazionale è venuto finalmente alla luce solo nel 2013 (il che la dice lunga sul sospetto di un sistematico boicottaggio dell’attuazione dell’autonomia).
Il SNV istituisce i Nuclei di Valutazione esterni ciascuno dei quali composto da un Ispettore e due esperti con il compito di supportare gli istituti individuati dall’INVALSI con un’attività di vero e proprio tutoraggio non solo perché realizzino piani di miglioramento più efficaci di quelli utilizzati, ma anche per aiutarli ad acquisire il know-how per farlo in modo efficiente.
Il SNV attraverso gli Ispettori avrebbe dovuto svolgere un ruolo centrale nel miglioramento della qualità dei processi di autovalutazione di istituto e di formazione in situazione dei docenti. Questo è avvenuto su larga scala o si sono tappate solo le falle nei casi più gravi, visto il numero esiguo di ispettori? Conoscere questi dati sarebbe interessante visto il fatto che molte scuole invece di cercare nella propria riprogettazione le soluzioni per migliorare la situazione hanno dovuto ricorrere abbondantemente ad attività di recupero extrascolastico in collaborazione con Associazioni del terzo settore con i fondi destinati alla dispersione. .

Ciò che è importante sottolineare è che la creazione dei Nuclei in sé introduce comunque il principio di un tutoring istituzionale di sistema per le scuole dell’autonomia riconoscendo in questo processo il cuore dell’autonomia stessa.
Se non funziona bene il sostegno all’autovalutazione, non funziona la riforma.
I dati che ci fornisce Maviglia sull’attuale organico ispettivo lasciano “basiti”, come direbbe qualcuno.

Tutta questa enfasi sulla novità del concorso nasconde la messa a bando di un numero di posti ridicolo che rende questa un’operazione di facciata che non farà che costringere, per ragioni di cose, un utilizzo degli ispettori in mansioni amministrative o ispettive piuttosto che di sviluppo ricerca e sostegno ai processi di cui all’art. 6 . Non trovo altra spiegazione ad una scelta così miope.

Invece di incrementare l’organico degli Ispettori per l’attuazione del SNV dal 2013 si è lasciato che il loro numero si riducesse ai 191 attuali da cui dobbiamo togliere gli Ispettori assegnati a ruoli amministrativi d’ufficio, i prossimi pensionamenti e aggiungere ora la straordinaria cifra di 146 unità costituita dai posti che dovrebbero essere messi a bando.
E’ un bel dire che finalmente si copre per intero l’organico del corpo ispettivo, ma l’organico del corpo ispettivo è adeguato al compito?
In altre parole si è fatta la scelta ieri e si è confermata oggi indipendentemente dai governi di lasciare le scuole a cavarsela da sole interpretando ancora una volta l’autonomia come un liberi tutti e non un dispositivo didattico-strutturale per permettere ai singoli istituti di individualizzare e personalizzare i percorsi dentro un sistema nazionale unitario e solidaristico che si prende cura dei propri istituti non con la pretesa di dirigerli, ma di incentivare e sviluppare quel empowerment professionale diffuso a cui mirava l’autonomia proprio con l’art. 6, da coltivare come risorsa di sistema.

La retorica di una difesa formale dell’autonomia degli istituti, la convinzione che un istituto vale un altro e che ciascun collegio è libero e nessuno può mettere il naso in quello che fa, stride con il fatto che l’autonomia delle singole scuole è tale all’interno di un sistema nazionale.
Se leggiamo il recente decreto n. 41/2022 sulla ridefinizione della “funzione tecnico-ispettiva da parte del corpo ispettivo ministeriale” che tenta timidamente di porre le premesse di un cambiamento, ci accorgiamo che l’Ispettore è sì definito come una “risorsa professionale del Ministero dell’istruzione” (sarebbe stato meglio definirlo una risorsa del sistema delle autonomie di cui anche il Ministero fa parte , “bontà sua”), ma che il compito assegnato è di “ sostiene le scuole nel miglioramento della qualità dei processi e nel perseguimento dei traguardi”. Come?

Leggiamo che gli Ispettori offrono o dovrebbero offrire, se fossero in numero adeguato aggiungo io, “supporto, assistenza e consulenza; formulano proposte e pareri sui temi dello sviluppo dei curricoli, della progettazione didattica, delle metodologie di insegnamento, della valutazione degli apprendimenti”

Dovrebbero poi occuparsi delle “ scuole presenti in aree a rischio educativo e di marginalizzazione sociale, cui andrà indirizzato particolare sostegno”.
Dietro questo sottovalutare l’importanza degli Ispettori e il loro ruolo da parte del governo destinando risorse residuali in un compito così importante , dietro un diffuso disinteresse da parte del personale scolastico per la sorte degli ispettori, vi è troppo spesso una visione culturalmente distorta del ruolo e della figura dell’ispettore nella scuola di oggi che non è più quella deamicisiana.

Accanto alla funzione di controllo, di cui non si discute la necessità, sia con il SNV che con il decreto 41, si fa strada una funzione ben diversa di sostegno e di consulenza esperta alle scuole e ai suoi dirigenti.
Come ex preside non disdegno affatto una tale collaborazione perché non interferisce con le prerogative del dirigente né dei collegi, ma è molto utile se impostata come collaborazione professionale tra soggetti con competenze diverse per evitare il rischio sempre presente di autoreferenzialità, per facilitare le relazioni di rete con le altre scuole e per mantenere un rapporto non burocratico con il Ministero, avendo gli Ispettori una visione di insieme dei territori in cui operano.
Giancarlo Cerini non era forse un Ispettore? Probabilmente sono state più le occasioni in cui è entrato in una scuola come esperto e formatore chiamato dai collegi piuttosto delle volte in cui è entrato mandato dal Ministero per qualche incombenza burocratica. Lo stesso può dirsi per tanti altri Ispettori.
Già questo può far riflettere.

Non si capisce perché l’attività di tutoring svolta dai docenti sia considerata così essenziale nel supportare gli studenti a raggiungere i loro obiettivi e a sviluppare le loro competenze e la stesso approccio tutoriale non possa essere preso in considerazione per supportare i collegi dei docenti e/o i consigli di classe o i dipartimenti disciplinari per raggiungere i loro obiettivi di miglioramento . Per gli studenti questa si chiama valutazione formativa.
Sarebbe una svolta epocale liberarsi una volta per tutte dallo stereotipo dell’Ispettore visto solo come il controllore, come scrive Maviglia, che vidima i registri, spulcia tra le carte o che viene chiamato per dirimere controversie tra genitori, docenti e dirigenti. Oddio, arriva l’ispettore!

Poter tradurre in pratica quanto recita il decreto 41 permetterebbe di distinguere la tradizionale funzione ispettiva di controllo da quella di “ tutor” o consulente di cui l’autonomia ha bisogno come ho scritto.
Sarebbe un primo passo per farne uno degli snodi operativi di sistema in grado di contribuire a migliorare i processi di miglioramento non solo nelle scuole in difficoltà come prevede il SNV, ma più in generale nelle scuole di un dato territorio assegnando ad esempio ad un ispettore o, meglio, al Nucleo stesso di valutazione il ruolo di consulente per un numero ristretto di istituti scelti secondo criteri funzionali a permettere di svolgere adeguatamente questo ruolo, penso alle aree di povertà educativa ad esempio.

Basterebbe agire sui criteri che l’INVALSI deve adottare per individuare gli istituti da seguire trovando una modalità che possa permettere ad un numero più ampio di istituti di utilizzare il Comitato di valutazione come risorsa.
D’altronde si sottolinea nel decreto 41 che “la funzione di studio, di ricerca e consulenza tecnica costituisce asse strutturale della funzione tecnico-ispettiva”.

Un cambiamento di prospettiva nell’utilizzo degli Ispettori non può non prevedere dunque un aumento significativo nell’organico del corpo ispettivo e non un ridicolo incremento come quello che pare sia previsto dal Ministero nostrano, a fronte, come ci ricorda Maviglia, di ben 3.789 Ispettori in Francia.
Affinché il decreto 41 non sia carta straccia non basta abolire la settorializzazione della figura dell’ispettore, ci vuole ben altro con un ritocco coordinato della normativa perché gli ispettori possano svolgere quella funzione auspicata.
Come si fa ad attuare il profilo previsto con un organico siffatto. Il solito argomento dei tagli e delle difficoltà di bilancio è fin troppo abusato quando si tratta di investimenti per qualcosa di determinante per il futuro.
Vi è poi un altro elemento che trovo interessante per stabilire un rapporto più organico degli ispettori con l’autonomia.
Perché non cogliere l’occasione per cominciare a parlare di carriera dei docenti in servizio offrendo loro uno sbocco nel corpo ispettivo trasformando in crediti il curricolo di ricerca?
Ci si è dimenticati della famosa figura del “docente esperto” uscita dal cappello del PNRR senza prospettive di avanzamento neppure in funzioni di middle management all’interno del proprio istituto.
Con una revisione dei percorsi formativi speciali previsti dalla Legge 79/2022 potrebbe ben confluire almeno come esperto nel Nucleo di Valutazione.
Forse è chiedere troppo ai Ministri di avere una visione di insieme del sistema e di cercare di creare sinergie tra le risorse già presenti invece di vedere i vari segmenti come parti a sé? . Sarebbe un “merito” riuscire a vedere finalmente la scuola come un sistema e utilizzare strategie di sistema per governarla.

La proposta di Treelle, a cui fa rifermento Maviglia nel suo contributo, potrebbe costituire un’interessante base per dare a questa figura una vero e proprio ruolo strutturale e organico come proponevo nell’aiutare le scuole ad ’utilizzare in modo efficace ed efficiente la loro autonomia .
Questa proposta potrebbe essere una possibile alternativa in grado di compensare la prematura scomparsa dell’ANSAS nata allora per prendere il posto degli IRRSAE in questo compito.
Senza ANSAS e senza gli IRRSAE che un sostegno alle scuole del territorio lo stavano dando da anni soprattutto nell’innovazione, le scuole sono state lasciate sole proprio nel momento in cui sono diventate autonome e si è chiesto di basare la loro flessibilità sulla ricerca e l’innovazione.
E’ stato anche questo un caso ?




Concorso ispettivo: chi ha tempo aspetti tempo

di Mario Maviglia

 Si farà? Non si farà?

È la domanda che in questi giorni attraversa imperiosamente l’Italia togliendo il sonno a tante persone. Sembra però che questa sia la volta buona: dopo tanta spasmodica attesa, finalmente si arriverà al dunque, qualunque cosa ciò voglia dire. Ma un po’ di cautela è d’obbligo; d’altro canto per fare le cose per bene ci vuole del tempo. Non dimentichiamo che anche il Padreterno (non so se rendo l’idea…) per fare il mondo ci ha impiegato sei lunghi giorni e al settimo si è addirittura riposato! Ed era Lui!
La domanda inziale non si riferisce al Ponte sullo Stretto e nemmeno alla lotta all’evasione fiscale. In fondo questi interventi sono quisquilie rispetto all’impresa titanica che attende il Ministro dell’Istruzione (e del Merito, non dimentichiamolo!): l’emanazione del bando di concorso per ispettori tecnici! (Anzi, più correttamente, per dirigenti tecnici con funzioni ispettive. Le parole sono importanti in un’epoca in cui tutto tende a confondersi e a slabbrarsi, qualunque cosa ciò voglia dire…).
Pensate che l’ultimo concorso si è concluso dieci anni fa, dopo un iter durato cinque anni.Non affrettatevi però a dire che è durato troppo o che è passato troppo tempo da allora! Fareste un torto alla vostra intelligenza. Se si vogliono fare bene le cose ci vuole il tempo che ci vuole, qualunque cosa ciò voglia dire… D’altro canto non pensiate che l’Amministrazione in questi lunghi dieci anni non abbia fatto nulla: ha elaborato idee, ha fatto studi e progetti, “è andata in giro, ha visto gente, si è mossa, ha conosciuto, ha fatto delle cose” (cfr. Ecce bombo).

Adesso sembra che tutto sia pronto per il bando che recluterà ben 146 dirigenti tecnici con funzioni ispettive.
L’attuale pianta organica degli ispettori prevede 191 unità a livello nazionale, quelli di ruolo ancora in servizio sono circa una decina. Nel corso di questi anni molti sono andati in pensione, qualcuno è passato a miglior vita, tanti hanno sposato i figli, magari hanno conosciuto l’emozione di tenere in braccio i nipoti. Così è la vita. Sareste comunque malfidenti a pensare che i 191 ispettori (sulla carta) siano pochi. Sì, è vero, i cugini francesi, con una popolazione scolastica appena superiore alla nostra, hanno 3789 ispettori [1], ma quelli sono ammalati di grandeur! (Anche se davanti a Bartali “si incazzano e le palle ancora gli girano…” cfr. Conte).
L’Italia ha fatto una scelta diversa, all’insegna della razionalizzazione delle risorse, della valorizzazione delle (poche) professionalità e soprattutto del risparmio (che però non ha riguardato in egual misura i dirigenti amministrativi… chissà perché). I 696 ispettori del 1989 sono diventati 440 nel 2001 fino ad arrivare agli attuali 191[2].

Andando avanti di questo passo, troverà finalmente attuazione quella storiella che racconta di un contadino che volendo risparmiare sulla biada da dare all’asino ne diminuiva progressivamente la razione finché il povero asino tirò le cuoia con grande disappunto del contadino: l’asino era morto proprio nel momento in cui aveva imparato a non mangiare… Il Ministro Valditara sicuramente conoscerà questa storiella.

Quando io ho cominciato a fare l’ispettore, nel 1991, in quel di Brescia eravamo assegnati cinque ispettori solo per quella provincia (quattro per la scuola primaria e uno per quella dell’infanzia, oltre ad altri colleghi che operavano a livello regionale presso la Sovrintendenza Scolastica). Oggi in tutta la Lombardia sono in servizio circa cinque ispettori per tutti i gradi scolastici. Quando furono istituite le Direzioni Regionali (all’inizio del 2000) tutti gli ispettori furono collocati funzionalmente presso gli USR; in Lombardia eravamo circa cinquanta ispettori: c’era la sede, ma spesso mancavano le sedie… Adesso le sedie sono in eccedenza.

Questo dimagrimento progressivo può avere varie ragioni, alcune del tutto inverosimili, altre più realistiche, anche se politicamente scorrette. Tra le ragioni inverosimili possiamo citare il risparmio della spesa pubblica. Gli ispettori in effetti costano, anche se non tutti mangiano poi così tanto… Comunque, calcolando una media di stipendio annuo lordo di 100 mila euro (per eccesso) si ha una spesa di circa 19.100.000 euro annui per tutti i 191 ispettori.
Il Sole 24-ore ha calcolato che un caccia militare F-35 costa all’Italia circa 99 milioni di euro (F-35A) e 106,7 milioni di euro (F-35B). La legge di Bilancio 2023 prevede una spesa militare del 2% del Pil corrispondente a 38 miliardi di euro all’anno (quasi il doppio dei 21,4 miliardi di euro spese nel 2019, prima della pandemia).
Se comprendiamo bene, all’interno delle varie voci di spesa della contabilità pubblica alcune sono in rialzo (spese militari) altre sono in ribasso (spese per l’istruzione). Non si tratta quindi di un problema di spesa in sé, ma di scelte politiche, di visioni del mondo, di concezioni etico-culturali.

Tra le ragioni (politicamente scorrette) possiamo sicuramente annoverare il fatto che da sempre il sistema scolastico italiano ha un’impronta fortemente burocratica e dunque i “veri” dirigenti sono quelli amministrativi, la spina dorsale del sistema. Che poi tale management ne capisca anche di curricula, di valutazione, di dinamica dei processi di apprendimento questo è del tutto irrilevante. Le figure tecniche, all’interno di tale sistema, sono considerate degli intralci o degli incompetenti o – nelle espressioni più avanzate – dei civil servant utili per dare un qualche supporto alla stesura della circolare di turno.

C’è poi una ragione più profonda, una sorta di spettro che si aggira per l’Italia (tranquilli, nulla a che fare con lo spettro che si aggirava nel 1848 in Europa…): lo spettro del controllo.
L’Italia è un Paese ontologicamente refrattario ad ogni forma di controllo (e, ovviamente, alle figure che lo interpretano). D’altro canto, ad un popolo che “devasta il territorio, imbratta, trasgredisce le regole, usa il bene pubblico come terra di nessuno, confonde sistematicamente il pubblico col privato”[3], le strutture che, almeno sul piano civile (diverso è il discorso per quello militare), sono adibite al controllo non possono godere di grande considerazione. Se poi questo “controllo” si fonda su dati tecnici è ancor più malvisto.

Detto in altre parole e trasponendo il discorso sul piano scolastico, avere un numero adeguato di ispettori che “controllino” le scuole o le supportino nella valutazione del servizio e nei processi di insegnamento-apprendimento, sembra che non interessi nessuno.
Ancor meno interessa avere un corpo ispettivo autonomo, con un proprio programma di lavoro e una propria struttura ordinamentale, secondo la proposta formulata qualche anno fa dall’Associazione Treellle[4], che si concretizzava nell’istituzione di una Direzione Generale per l’Ispettorato con funzioni di:
a) valutazione esterna delle scuole;
b) valutazione dei dirigenti scolastici;
c) ispezioni disposte per sospette patologie professionali individuali;
d) consulenza tecnica per il Ministero
e) autogoverno del corpo ispettivo.
Ma Santo Iddio, una categoria di professionisti così concepita rischia di sottrarre “potere” alla dirigenza amministrativa! E senza il faro giuridico-amministrativo onniveggente del management amministrativo il sistema scolastico è destinato ad andare alla deriva, in balìa del caos, del disordine, a non garantire le nomine dei docenti nei termini, a non indire i concorsi in modo regolare. Insomma, si rischierebbe di non godere più di quella paradisiaca situazione di ordine ed efficienza che ben conosciamo.

Ogni sistema umano, per quanto perfetto, ha i suoi difetti: il corpo ispettivo è uno di questi per il nostro sistema scolastico. Il concorso per dirigenti tecnici con funzioni ispettive può attendere.

[1] C. Evangelisti, I “corpi ispettivi” nella scuola francese. Un sistema articolato per garantire la qualità di tutte le scuole, Scuola7, n. 333, 14/05/2023

[2] E. Acerra, La funzione ispettiva nel sistema scolastico italiano, in A. Giannelli, M. Faggioli (a cura di), Concorso a dirigente tecnico 2021, Guerini e Associati, Milano, 2021.

[3] R. Simone, Il paese del pressappoco, Garzanti, Milano, 2005, p. 141

[4] Associazione TreeLLLe, Un nuovo Ispettorato per assicurare la qualità di tutte le scuole, Quaderno n. 14 dicembre 2017, scaricabile da http://www.treellle.org/files/lll/Quaderno%20Q14.pdf




Comunità educante o dis-educante?

di Cinzia Mion

A proposito del concetto di “comunità educante” é apparso con forza, intendo con intenzione persuasiva, nell’ultimo contratto nazionale del comparto scuola, all’articolo 24, che qui mi permetto di riportare: “La scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”.

Il secondo comma sottolinea: “ Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs.n.297/1994

Credo risulti evidente a tutti l’eccessiva enfasi con cui è stato steso tale articolo che avrebbe dovuto essere, secondo me, più che una asserzione così convinta, un auspicio.
Ciò che infatti penso sia sotto gli occhi di tutti oggi (ma improvvisamente mi viene un dubbio: sotto gli occhi di tutti?) sono le “derive sociali”, a dir poco nefaste che, nella migliore delle ipotesi, gli educatori, docenti, genitori e tutti quelli che il contratto elenca come appartenenti alla cosiddetta comunità educante, dovrebbero darsi da fare soprattutto per contrastarle, non per confermarle! Naturalmente se sono ancora in grado di riconoscerle come derive diseducative e pericolose, vale a dire se non sono ancora stati sommersi da esse anche loro….

Derive sociali.

La prima, devastante, è l’indifferenza diffusa, chiamata anche noncuranza, ovvero mancanza di cura. Immagino che non serva descriverla, è sufficiente rievocare qualche atto di violenza consumato in presenza di passanti che osservano appunto indifferenti, senza sentirsi chiamati in causa.
Trent’anni di neoliberismo sempre più spinto hanno rinforzato lindividualismo come ha affermato la filosofa fiorentina Elena Pulcini[1], mancata per covid recentemente.
A questa deriva si collegano immediatamente l’affievolirsi dell’ empatia e la mancanza di com-passione. Diventa molto difficile farci una ragione di tale fenomeno soprattutto da quando la scoperta dei neuroni specchio ha rivelato che siamo tutti programmati dalla nascita per l’intersoggettività, quindi per rispondere l’uno all’altro del reciproco sentire.
Mi sovviene a questo punto l’immagine di Lévinas: “il volto dell’altro mi interpella…”[2].
Il volto dell’altro uomo sofferente e morente al quale però oggi ci siamo tutti assuefatti, tanto che non ci risuona più dentro, a livello viscerale , come intendeva dire questo filosofo lituano, di origine ebraica, quando si è espresso così. Assuefazione dovuta allora alla sovraesposizione mediatica? Pensiamoci…
Credo che direttamente collegata a queste derive possiamo mettere la progressiva e sempre più accentuata difficoltà all’ascolto dell’altro.

Marianella Sclavi[3] ha affrontato molto bene tale problematica, legata alla necessità di uscire dalle proprie cornici di riferimento, delle quali non siamo consapevoli, per riuscire a decentrare il nostro punto di vista ma soprattutto direi oggi più semplicemente di allentare il nostro egocentrismo per sintonizzarci autenticamente all’ascolto.

Passiamo ora al narcisismo dilagante, su cui non è necessario soffermarci tanto è lampante la sua diffusione.
Direttamente però collegata a questo effetto dirompente risulta essere la voglia di apparire (e mostrarsi) al posto di essere. Non si tratta più soltanto della voglia tracimante da parte di certe ragazze di avere una comparsata in TV sculettando davanti a un rapper ma , molto più grave, il riferimento va oggi  ai recenti fatti di cronaca che ci hanno rivelato, attraverso i canali di Youtube l’esistenza di gruppi deliranti come The Borderline, che nella più completa insensatezza hanno provocato un mortale incidente stradale in cui ha perso la vita un bambino di 5 anni.

Sullo sfondo si intravede uno dei  padri adultescenti,( cfr M.Ammaniti) non in grado di fare da guida genitoriale valida, perché eternamente teenager.
Oltre ad un rapporto difficile con l’alterità, già esaminato, appare sempre più rinforzata una difficoltà a considerare in modo adeguato la diversità, aspetto che lascia trasparire un aumento del razzismo e della omofobia, evidentissimo attraverso l’analisi del voto recente di moltissimi italiani che non si professano razzisti o omofobi ma hanno premiato partiti che lo sono. Vorrà dire qualcosa!!!.
Non possiamo trascurare l’importanza sempre più evidente data all’avere, rappresentata dalla valorizzazione crescente del profitto, a scapito dell’essere. Ne è dimostrazione evidente la crescente disparità e forbice nel Paese tra ricchi e poveri (in preoccupante aumento).
Alla fine, ma non per importanza, possiamo annoverare, non senza un grande rammarico da parte mia, il crescente deficit di Etica Pubblica, rivelando il soggiacente familismo amorale[4], intriso di volgare “tornacontismo”, sdoganato recentemente ai massimi livelli, ecc,ecc. Potrei continuare…

Voi capite che prima di aver la forza e la competenza per contrastare tali derive bisogna averne consapevolezza e sapersi interrogare e autovalutare rispetto alla propria adeguatezza in proposito. In altre parole saper chiamare con il loro vero nome i fenomeni intorno a noi. Amici miei allora questa che ci circonda, ma che soprattutto circonda i nostri ragazzi in crescita, non è una “comunità educante” ma una COMUNITA’ DIS-EDUCANTE. O partiamo da questa consapevolezza o ci troveremo sempre peggio con una famiglia e una scuola devastate. E non ditemi che sono pessimista.

 

 

[1] Pulcini E. L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, 2001.

[2] Lévinas E., Totalità e infinito.Joca Book, 1961.

[3] Sclavi M.,L’arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano-Pescara,2002.

[4] Banfield E.,Le basi morali di una società arretrata.,Il Mulino, 1976, Bologna.




Con il PNRR molti soldi per molti progetti, ma manca un progetto

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Nicola Puttilli

Sta crescendo la sensazione che anche per la scuola la valanga di risorse che si sta riversando con il PNRR sia, appunto, soltanto una valanga, una massa imponente e inattesa destinata a sciogliersi nel tempo senza, praticamente, lasciare traccia. In questi mesi assistiamo al paradosso di dirigenti scolastici che lamentano l’arrivo massiccio e continuativo di finanziamenti, quasi sempre vincolati alla digitalizzazione, manifestando quasi il pudore di dover continuare a spendere per materiali e servizi di cui già si ha ampia disponibilità o, comunque, considerati non prioritari. Senza dubbio una singolare constatazione per un sistema che ha visto un progressivo e inesorabile depauperamento di risorse nell’ultimo trentennio.

Ma il paradosso che colpisce maggiormente, nell’epoca della moltiplicazione dei progetti e dei progettifici, è proprio la mancanza di progetto.
Il più grande problema della scuola italiana, sia in termini di equità sociale sia di freno allo sviluppo economico del Paese, è quello della dispersione scolastica e della forte disomogeneità nell’acquisizione di competenze fra i diversi territori (nord-sud, centro-periferie, ecc).
Basta dare uno sguardo ai paesi che più e meglio di noi hanno risolto questo problema per capire che la chiave sta tutta in una didattica attiva, modulare, laboratoriale, attenta alla qualità della relazione. L’esatto contrario della didattica frontale e trasmissiva, inesorabilmente uguale per tutti, da sempre imperante nelle nostre scuole. Del resto c’è poco di che stupirsi, né più né meno di ciò che, dall’inizio del secolo scorso, hanno sostenuto tutti i pedagogisti più illustri , da John Dewey alla nostra Maria Montessori, fino a  Célestin Freinet che ha, fra l’altro, ispirato quel Movimento di Cooperazione Educativa che ha fortemente contribuito all’unica vera riforma dal basso, la sola possibile, della nostra scuola.

Trasformazione in senso democratico e ugualitario, suggellata ed enfatizzata dalla lettera di Don Milani, ma che ha avuto insormontabili limiti di natura storica e geografica. Ha infatti dato il meglio di sé tra i primi anni ‘60 e la fine degli anni ’70, soprattutto in alcuni comuni del nord decisi a investire in educazione nelle scuole materne, allora non ancora di competenza statale, con esiti di assoluta eccellenza (Reggio Emilia, Torino, Milano, Bologna, per citarne alcuni) e nella scuola elementare, di nuovo principalmente al nord, fino a produrre fondamentali provvedimenti legislativi come la legge 820 sul tempo pieno e la 517 sulla valutazione formativa e l’inserimento dei disabili.


A distanza di molti anni non appare un semplice caso se negli ordini di scuola e nelle zone del Paese maggiormente toccati dall’innovazione didattica si registrano, ancora oggi, gli esiti migliori per la scuola italiana, anche nelle comparazioni internazionali per la primaria. Resta, d’altro canto, la percezione di come la forte spinta innovatrice di quegli anni abbia sicuramente lasciato tracce ben presenti nelle nostre scuole,  ma non le abbia tuttavia modificate nel profondo e, soprattutto, in modo generalizzato.

Sull’onda della destra governante assistiamo sempre di più a un’opinione pubblica che attribuisce, ideologicamente e senza alcun dato di fatto, al post ’68 tutti i mali, o quasi, della nostra scuola. Verrebbe da rispondere che di ’68 ce n’è stato troppo poco o che è finito troppo presto, non che ce n’è stato troppo. Al di là, infatti, di una buona dose di massimalismo e di velleitarismo, sicuramente controproducente ma quasi fisiologica in un movimento così massiccio e dall’esordio così tumultuoso, furono poste allora le premesse per un rinnovamento complessivo della nostra scuola che non hanno purtroppo trovato seguito nei decenni a venire.

Ciò che è mancato, e che continua clamorosamente a mancare, è stata la canalizzazione delle molteplici spinte riformatrici in una visione di insieme e la sua traduzione in un progetto di medio- lungo termine. I principali nodi problematici della nostra scuola sono nodi storici e soprattutto fortemente interrelati, non si possono sciogliere singolarmente ma solo attraverso un approccio sistemico.

  • Gli spazi di apprendimento: quasi tutte le nostre scuole sono predisposte per una didattica trasmissiva e frontale, spazi tutti uguali per ripetere all’infinito il rito della lezione collettiva, una palestra (non sempre e spesso inadeguata) per l’attività fisica, qualche spazio rimediato qua e là per i laboratori e un locale mensa nei casi più fortunati, quasi mai al sud. Le scuole italiane sono per lo più vecchie e insicure, nella maggioranza manca perfino il certificato antincendio. Non è procrastinabile un piano nazionale di rinnovamento e messa in sicurezza certamente molto impegnativo sul piano finanziario, ma di cui il PNRR può costituire un primo, importante tassello. La costruzione di nuove scuole o la riconversione e messa a norma di quelle esistenti dovrebbe considerare le esigenze di una didattica attiva e rinnovata; esperienze molto significative in questo senso, alle quali fare riferimento, esistono nel nostro Paese e soprattutto all’estero.

A metà degli anni ’70 a Torino, dove vivo e ho lavorato,  furono costruiti alcuni plessi scolastici con caratteristiche molto innovative sulla scorta dell’esperienza della scuola a tempo pieno, nato nel quartiere popolare delle “Vallette”, che cominciava ad avere in città una certa diffusione: pareti delle aule mobili per diversificare gli spazi, buca per il teatro, spazi esterni dedicati agli orti, ecc. Dopo una decina d’anni le pareti erano diventate fisse, la buca per il teatro ricoperta, gli spazi esterni restituiti alla libera ricreazione. Spazi innovativi di apprendimento rischiano di essere una spesa inutile se non affiancati da un serio piano di formazione.

  • La formazione del personale: la legge definisce la formazione come strutturale, obbligatoria e permanente ma, di fatto, non è così. I vincoli contrattuali limitano fortemente queste caratteristiche fino a ridurla a una sorta di benemerito volontariato. Le risorse, pur cospicue in questa fase, arrivano alle scuole in modo disorganico rischiando di convergere su iniziative non proprio prioritarie o nelle mani delle realtà  più virtuose che meno ne avrebbero bisogno. Un serio piano nazionale richiederebbe obiettivi espliciti e dichiarati, finanziamenti adeguati e valide strutture di supporto alle scuole in grado di fornire progettazione ed esperti di qualità. C’erano una volta gli IRRSAE (Istituti Regionali per la Ricerca la Sperimentazione e l’Aggiornamento Educativo), a un certo punto qualcuno ha cominciato a sostenere che fossero inutili e costosi carrozzoni. Per quello che può valere l’esperienza personale ne ho avuto una percezione totalmente diversa e resto convinto che la loro soppressione fosse principalmente dovuta a mere ragioni di risparmio, piccola parte di quel taglieggiamento partito a metà degli anni ’90 e che ha portato, in quasi un trentennio, a praticamente dimezzare la quota di PIL destinato al sistema nazionale di formazione. Strutture simili, ovviamente rivisitate e adattate alle esigenze attuali, sarebbero invece di grande utilità.

Un serio e qualificato piano di formazione, inserito in un progetto di rinnovamento partecipato e credibile, potrebbe anche essere motivante per il personale docente ma comporterebbe nuovi carichi lavorativi e comporterebbe il superamento degli attuali vincoli contrattuali, si tratterebbe realisticamente di porre in essere un altro contestuale e massiccio intervento.

  • Gli stipendi e la carriera dei docenti: nella primavera del 2019 la commissione europea inviava una formale raccomandazione al governo italiano affinché provvedesse sollecitamente ad aumentare gli stipendi degli insegnanti, di gran lunga fra i più bassi di Europa. Da allora nulla è cambiato, i previsti e rituali aumenti contrattuali nel frattempo intervenuti non hanno in alcun modo colmato il divario, né introdotto alcuna realistica possibilità di carriera. Difficile pensare che una categoria frustrata sul piano stipendiale, oggetto di scarso riconoscimento sociale e lontana dalle attenzioni della politica possa partecipare con entusiasmo a un grande processo di cambiamento come quello che sarebbe necessario e senza gli insegnanti, l’esperienza lo dimostra, non si va da nessuna parte.

Molti altri sono evidentemente i problemi irrisolti della scuola italiana ma quelli sopra delineati sono passaggi obbligati se si vuole tentare seriamente di recuperare il “gap” con i paesi europei più evoluti. I ritardi accumulati sono enormi ma non esistono alternative anche se, al punto in cui siamo, i costi potrebbero sembrare proibitivi. Ancora una volta sono decisive la “capacità di visione” e la volontà della politica, quelle che sono mancate negli ultimi decenni e che sembrano oggi più che mai assenti se è vero che, nel Paese con il maggior tasso di abbandono scolastico e di analfabetismo funzionale, il governo in carica si preoccupa di inserire il merito nella propria intestazione istituzionale. Si inseguono la cronaca e il facile consenso inserendo le ore di educazione civica se il bullismo diventa argomento televisivo, l’orientatore se il tema del giorno è il disallineamento tra l’offerta formativa e il mercato del lavoro e già si prospettano le ore di contrasto al femminicidio, mentre il problema reale è l’innalzamento generale delle competenze dei nostri ragazzi, tutti i nostri ragazzi, in quanto cittadini attivi e responsabili in primo luogo e in quanto lavoratori  adeguatamente inseriti nel processo di crescita del Paese.

Lavorare a un grande e condiviso progetto per il raggiungimento di questi fondamentali obiettivi potrebbe contribuire a dare un senso e una visione anche all’azione quotidiana dei nostri insegnanti e dei nostri dirigenti scolastici. Per la classe politica si tratterebbe di una scelta strategica sulla quale far convergere risorse in buona misura provenienti dalla scuola stessa, dal PNRR a quelle, ancora più ingenti, derivanti dal calo demografico, fino a raggiungere gradualmente  una quota di PIL destinata al sistema di formazione paragonabile a quella degli anni ’90, in linea con quella dei paesi europei. Si tratterebbe, senza dubbio, di un grande impegno e di un grande investimento, inevitabile se si vuole evitare l’ulteriore declino della nostra scuola e, a stretto giro di posta, dell’intero Paese.




Non lo psicologo ma tanta psicologia per curare le patologie della scuola

di Giovanni Fioravanti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

Lo psicologo a scuola c’è ormai da tempo, con un eccesso di certificazioni per ogni disturbo specifico dell’apprendimento, per ogni bisogno educativo speciale.

È la scuola che non è mai ricorsa all’ausilio di uno psicologo per curarsi, eppure è da tempo che si segnalano vere e proprie malattie, crisi di identità, malesseri, sintomi di disadattamento e di sfinimento, addirittura pare che sia la scuola ad essere dannosa a se stessa. Ma non è attraverso il continuo ricorso alla clinica che la scuola può pensare di guarire dalle sue patologie.

La scuola più che di psicologi ha bisogno di psicologia a tutti i livelli.
Nelle professioni di relazione la competenza psicologica è fondamentale. Nella scuola questo vale dall’ultimo dei collaboratori scolastici fino al primo dei dirigenti.

Ma la relazione tra psicologia e scuola nel nostro paese non è mai stata delle più felici.
Ci aveva tentato, all’indomani della Liberazione, Carleton Washburne, pedagogista statunitense, a capo della ricostruzione della scuola italiana, mandando cinque insegnanti della scuola elementare all’Università di Ginevra perché apprendessero le teorie di Piaget. Ma il progetto naufragò perché il governo italiano di allora non aveva i soldi per pagare il viaggio e il soggiorno.


Il resto l’hanno fatto lo spiritualismo e il personalismo per anni imperanti nella scuola italiana, di fatto ostacolando una compiuta formazione psicologica dei suoi operatori.

David Paul Ausubel è stato uno psicologo statunitense, seguace delle teorie di Jean Piaget. Ha fornito contributi significativi nel campo della psicologia dell’educazione, delle scienze cognitive e della didattica delle discipline scientifiche.
Ha introdotto la differenza tra l’apprendimento di qualcosa che ci interessa e qualcosa di noioso che abbiamo acquisito in modo meccanico.
Nel primo caso parliamo di apprendimento profondo, di apprendimento significativo, di un apprendimento costruito e legato al bagaglio di conoscenze che già si possiedono, in cui l’individuo svolge un ruolo attivo ristrutturando e riorganizzando le informazioni.
Come si può intuire la teoria di Ausubel è influenzata dal costruttivismo: per Ausubel la vera conoscenza è costruita dal soggetto attraverso le sue interpretazioni.
Allora già qui si pone il problema. L’ apprendimento non è una questione di condotta, di disciplina, di attenzione passiva. L’apprendimento si costruisce, richiede una partecipazione attiva del soggetto, l’apprendimento significativo è un apprendimento relazionale.

In una scuola il cui perno organizzativo ancora ruota intorno alla disciplina e alla condotta è difficile concepire una didattica della relazione, della reciprocità.
La didattica che ancora prevale è quella condizionata dal comportamentismo, stimolo-risposta, da un “istruzionismo” meccanico e ripetitivo anziché da una prassi costruttivista della conoscenza.

E già questa è la prima patologia della scuola, non di chi la frequenta.

Attenzione, condotta e disciplina alimentano l’errore di Cartesio, segnalato dal neuroscienziato Antonio Damasio.
Classe, cattedra, banco, voti, rigidità degli orari impongono il divorzio tra intelligenza ed emozione. Tra intelletto ed emotività.
Del resto l’intelligenza richiesta dalla scuola non è mai quella del pensiero divergente, ma se la mente deve convergere sull’unica direzione della cattedra di quale intelligenza parliamo? Dunque altra patologia della nostra scuola.

Howard Gardner con le sue intelligenze multiple ha offerto alla scuola l’opportunità di curarsi dai suoi disturbi, ma dimostrazioni che si sia sottoposta a sedute terapeutiche di questo tipo non mi ritornano.

Dopo Gardner non è andata meglio neppure con Daniel Goleman e la sua “Emotional Intelligence”, in Italia appare nel ’97 con il titolo “L’intelligenza emotiva che cos’è, perché può renderci felici.”
Si tratta di un aspetto della nostra intelligenza che consiste nella capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole sia le nostre emozioni che quelle altrui.
È appunto di quelle altrui che la scuola patologicamente non sa occuparsi. L’educazione emotiva non riguarda solo gli studenti, che si pretenderebbe di formare alla resilienza ed altre varie amenità, come certi progetti di legge prospettavano e forse prospettano ancora.
Chi si deve formare all’emotività in questo caso è l’istituzione. Ciò spiega l’incompetenza delle scuole di fronte alle difficoltà e al disagio di adolescenti e bambini.
È in gioco la relazione tra sistema e comportamenti disfunzionali degli studenti che richiedono non reazioni disciplinari ed emarginalizzanti, ma capacità empatiche che aiutino a ricercare risposte alternative. Pause di attenzione, tempi di decantazione, accompagnamento, cura, pluralità di opzioni, ma soprattutto accoglienza e capacità di riflessione, di ripensamento, flessibilità da parte del sistema stesso.

C’è un’altra patologia di cui soffre istituzionalmente la scuola che si chiama classe e classificazione.
In sostanza l’idionsicrasia conclamata nei confronti del sé. Una classe con troppi sé è una depressione o un’esplosione. A volte sono solo scintille isolate, che immediatamente vengono spente con l’espulsione diretta o indiretta, tale sempre da non turbare il normale follow up della programmazione.
Potremmo riassumere il concetto di sé come fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.
Elemento delicato soprattutto per un giovane, per il quale il concetto di sé è fortemente condizionato dagli adulti che entrano in relazione con lui.
Il concetto di sé non è qualcosa di statico, è dinamico perché in noi giocano le aspettative e le prospettive. Vale a dire i “Sé possibili”, i Sé orientati al futuro. I sé possibili sono quelli che alimentano il desiderio di raggiungere un certo obiettivo, di migliorare un certo stato, di crescere, di realizzarsi, sono la molla della motivazione ad agire, sono la spinta del sé agente.
La scuola mette in gioco i sé possibili e i sé futuri, molti troppo spesso rimangono sacrificati sul campo, ma di questo la scuola non si preoccupa perché neppure se ne accorge.

C’è poi la patologia dell’identità incerta di un luogo che non ha mai risolto il suo rapporto con i saperi e la conoscenza, limitandosi a fornirli in dosi già confezionate, prendere o lasciare, tipo i libri di testo.
Pertanto non si comprende se la scuola abbia una chiara consapevolezza della sua identità, schiacciata dalla schizofrenia mai risolta, dissociata tra “prendere” e “ap-prendere”. Come passare da un imparare passivo (prendere) ad un imparare attivo (ap-prendere), cos’è che fa dell’imparare un apprendimento?
È come ricevere le conoscenze senza sapere nulla delle conoscenze, della loro natura, come funzionano, come si riversano nella mente, come si combinano quando entrano nel nostro cervello e incontrano quelle che già possediamo. Si chiama meta-cognizione.
La Metacognizione per tradursi in apprendimento ha necessità che le cognizioni calde e fredde si incontrino: intelligenza, motivazione, consapevolezza di sé.
Ha bisogno di attivare quelle abilità mentali superiori che vanno oltre i “semplici” e scontati processi cognitivi primari come ad esempio: leggere, ricordare, calcolare, in pratica si tratta di stimolare il soggetto a controllare come lavora la sua mente.
La scuola soffre di identità mai risolte, di malessere e sfinimento prodotti dalla ripetitività, tali da renderla insofferente al cambiamento.
Il rapporto con il cambiamento è un grosso ostacolo per un’utenza che cambia, la cui peculiarità è il cambiamento, in quanto in via di sviluppo. In queste condizioni il conflitto è inevitabile, è inutile fingere di ignorarlo, porlo a tacere.

Ma poi cos’è lo sviluppo, cosa sarà mai? Ne siamo sempre usciti tutti.
E qui sta il più grande deficit psicologico della scuola che rende particolarmente fragili le relazioni con la sua utenza, dentro e fuori della scuola.
Allo sviluppo è connesso il cambio di stato, sviluppo non è solo crescita, non è soltanto passaggio da una fase all’altra della vita.
Sviluppo è cambiamento. E questo del cambiamento è un fattore importante per chi esercita una professione di relazione con chi deve cambiare per crescere, perché implica l’inaspettato, la sorpresa, come la fiducia.

Umberto Galimberti nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia definisce lo sviluppo come: “Processo evolutivo di un organismo con modificazioni di struttura, di funzione e di organizzazione per tre ordini di cause: maturazione intrinseca, influenza dellambiente e apprendimento che avviene assumendo una posizione attiva nei confronti dell’ambiente.”
Qui ci interessa sottolineare “la posizione attiva nei confronti dell’ambiente”, di tutti gli ambienti, compreso l’ambiente di apprendimento: la scuola e l’insegnamento.
È la posizione attiva nell’ambiente che consente di apprendere dall’ambiente, di organizzare le conoscenze e maturare le nostre funzioni superiori: ragionamento, memoria, attenzione, elaborazione delle informazioni.

Ce n’è abbastanza per mandare sul lettino dello psicanalista la scuola e il suo personale, compreso lo psicologo di cui il ministro vorrebbe rifornire le scuole.




A proposito di autonomia funzionale e PNRR, caro Stefanel, ti scrivo… .

di Antonio Valentino

  1. La prima delle tre parti dell’articolo di Stefanel[1], pubblicato qualche giorno fa su questa Rivista, si conclude, dopo aver elencato la maggior parte degli investimenti del PNRR per la scuola (PNRR “Dispersione e divari territoriali, PNRR Classroom e Labs, Docenti Tutor, Piano Nazionale Scuola Digitale – STEAM, Poli Formativi per la transizione digitale  ….), con le seguenti considerazioni: “…. ritengo che le tempistiche [dei vari investimenti] siano mal modulate, le finalità non sempre chiare e l’impianto piuttosto debole nella sua strutturazione didattica e contorto in quella economica e gestionale.” Considerazioni che ho letto come una sostanziale bocciatura dell’operato ministeriale.

La seconda parte vira invece specificamente sulle questioni della natura e della gestione del sistema scolastico nazionale e introduce la problematica dell’autonomia scolastica, definita ‘funzionale’ nel Regolamento dell’Autonomia[2] e ne richiama la differenza rispetto alle autonomie locali. E questo perché l’autore dell’articolo ritiene che la ‘debole comprensione’ di tale differenza porti molti ds, docenti e dsga a pensare “ che lo stato debba negoziare con le autonomie funzionali [tra cui la Scuola] i suoi obiettivi di sistema [essendo queste] deputate a sviluppare, nella realtà locale in cui operano, gli obiettivi del sistema”.

Considerazione che lo spinge a pensare che anche i progetti e gli investimenti del PNRR, che rispondono a obiettivi di sistema (volti a superarne difficoltà e criticità) difficilmente potranno andare a buon fine in quanto sono destinati ad essere neutralizzati – semplifico sperando di interpretare correttamente l’assunto di Stefanel – da quegli insegnanti che non vogliono sottostare ad essi in nome dell’autonomia funzionale. E continuare quindi – tali insegnanti – in una “pratica didattica ancora trasmissiva e cartacea che ormai non ha uguali nel mondo”  e ad una pratica valutativa che li rende “paladini dei voti bassi e delle bocciature in nome della libertà d’insegnamento, considerata come un bene assoluto del docente”.

La cosa che lascia più perplessi – e increduli – quanti conoscono Stefanel anche solo attraverso le cose che scrive, è che i paladini, tra l’altro ‘numericamente consistenti’ sarebbero tutti docenti di sinistra.  (Ohibò!)
Da ciò soprattutto dipenderebbe la situazione particolarmente allarmante di questa fase; e sotto accusa sono quanti si opporrebbero alle misure previste dal Piano nazionale scuola nel PNRR, sempre in nome dell’autonomia funzionale.
Accusa richiamata ancora all’inizio della terza parte, che riporta specificamente alcune  proposte sui nodi dell’organizzazione scolastica (dagli organici all’orario di lavoro dei docenti, …,); qui non riprese (per quanto interessanti), perché esulano dalle ragioni di queste note.

  1. Ritorno a questo punto alle valutazioni complessive che Stefanel dà dei progetti e degli investimenti messi in campo dal Piano Scuola del PNRR e decisi in autonomia dal Ministero, seppur dentro le linee operative convenute a livello europeo; giudizi, come si è già detto, decisamente pesanti  sotto ogni aspetto  (finalità, impianto, tempistiche).

D’altra parte,  i  progetti e gli investimenti del nostro Piano Nazionale sono tutti – di fatto – farina del sacco del Ministero, perchè non c’è stata nessuna negoziazione sugli stessi per quanto è dato sapere con le Associazioni professionali della scuola, né con i sindacati.  Le piattaforme ministeriali per la gestione dei progetti sono infatti rigorosamente costruite secondo i decreti del Ministro e le Note esplicative.
(Resta comunque da capire se questo modo di procedere sia in assoluto il migliore. Personalmente, a conti fatti, ho più di un dubbio).

  1. C’è quindi qualcosa che non torna nei ragionamenti fatti nell’articolo. D’altra parte, sempre più numerose e autorevoli voci evidenziano che, se i progetti targati PNRR non vanno avanti o procedono con enorme difficoltà e lentezza, il vizio di fondo dell’intera operazione è molto probabilmente la troppa carne messa al fuoco: troppa la carne e debole il fuoco.

Ma c’è anche dell’altro, e ben lo fa capire lo stesso Stefanel attraverso il suo giudizio sull’operazione in corso.
Si respira infatti nella formulazione dei progetti, soprattutto in quelli in cui i protagonisti dovrebbero essere le scuole, un’aria di improvvisazione, di mancanza di un’idea credibile di scuola, di leggerezza – in senso non proprio calviniano – in dosi decisamente ragguardevoli.

Vogliamo ricordare, facendo focus sui Decreti e sulle Note operative che li accompagnano, che il Ministro ha cominciato a parlare di PNRR con la continuità e l’impegno che l’operazione richiedeva, solo a partire dal febbraio scorso? E che nei lunghi mesi precedenti – in tutte le interviste (numerosissime), in tutte le apparizioni in tv e ne convegni (idem) e in tutte le sue autopromozioni (come sopra) – le sue parole d’ordine erano solamente merito e talento a cui si è aggiunta, alla fine di gennaio, anche competizione[3]?

Temi e questioni cari al ministro, che, come è noto, sono in tutta evidenza al centro delle attenzioni e dell’interesse di insegnanti e dirigenti!
E se passiamo dalle parole d’ordine ai suoi argomenti preferiti, troviamo, in ordine cronologico, l’uso dei telefonini in classe, la disciplina e l’ordine nelle scuole e ultimamente le grandi rivoluzioni delle sue riforme e se stesso come il grande rivoluzionario.

Ancora una considerazione: l’impegno sul PNRR delle Direzioni scolastiche regionali, quale è stato?  Chiedere ai Ds.  Caso, questo, da manuale di quanto i comportamenti dei superiori facciano testo (definiscano i comportamenti dei dirigenti sottostanti) soprattutto nelle articolazioni funzionali della Pubblica Amministrazione.

  1. Comunque il messaggio implicito di Stefanel, rispetto ai progetti e alle riforme del PNRR, non mi sembra in nessun modo che sia quello di lasciar perdere. Gettare la spugna in questo momento, e lui lo sa bene, sarebbe sbagliato e perdente e creerebbe, in Europa, discredito per il nostro Paese – che pure è risultato favorito, con una qualche ragione, nell’attribuzione delle risorse finanziarie -; ma anche e soprattutto per lo stesso mondo della scuola.

Con riferimento ai contenuti immediatamente procedenti – e cambiando registro espressivo per una comunicazione più diretta – penso potrebbe essere utile a questo punto, caro Stefanel, individuare e condividere le leve su cui potrebbe essere utile puntare per un recovery volto a contrastare le più forti criticità della nostra scuola. Assumendo ovviamente a riferimento, soggetti come l’Associazionismo professionale – o almeno alcune sue parti – e le organizzazioni sindacali disponibili.
Per esempio, caro Stefanel, io penso – e credo che ne convieni – che costruire un protagonismo ad ampio raggio di docenti e Ds – un po’ come è avvenuto in molte realtà del Paese durante la pandemia – è in questa fase (e non solo) la prospettiva da privilegiare e coltivare: per quando riguarda sia la realizzazione dei progetti in atto, sia l’attenzione, nell’intera operazione PNRR, all’idea di miglioramenti sensati e possibili delle attività in corso.

Protagonismo necessario e particolarmente importante anche nei percorsi di formazione previsti,  che tu richiami opportunamente nella prima parte del tuo articolo: una grande opportunità che può diventare tale a certe condizioni (che anche tu implicitamente richiami), quali:
– una loro distribuzione sensata nei prossimi tre anni (affollamenti e indigestione sarebbero letali);
– una organizzazione dei percorsi formativi centrata su metodologie attive come la ricerca azione e/o le pratiche laboratoriali;
– far rivivere le esperienze di formazione e condividerle (e questo è un aspetto per alcuni versi decisivo) all’interno dei consigli di classe, dei dipartimenti e delle commissioni di lavoro; da vivere – queste aggregazioni – come ‘comunità professionali di pratica’.

Sono sicuro anche che sarebbe facile condividere, in questa operazione, un ruolo attivo di  tutte le Associazioni Professionali della scuola che più sono interessate alla dimensione cooperativa del lavoro scolastico e alla sua liberazione da culture e pratiche formative ormai insensate; pratiche che oggi sono spesso causa non irrilevante del mal di scuola[4], a cui vanno ricondotte  le criticità più pesanti di cui soffrono le nostre scuole e i nostri studenti. E anche i nostri insegnanti e ds.

[1] S. Stefanel, Autonoma differenziata, autonomia delle scuole, PNRR

[2]DPR 275/1999, Art.1 (Natura e scopi dell’autonomia delle istituzioni scolastiche) 1.Le istituzioni scolastiche sono espressioni di autonomia funzionale e provvedono alla definizione e alla realizzazione dell’offerta formativa, …. A tal fine interagiscono tra loro e con gli enti locali promuovendo il raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali e gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione. 2. L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione….

[3] Lanciata all’interno  del Programma annuale per la valorizzazione delle eccellenze (Avviso M.I.M. del 25.01.’23, n. 2437).

[4] Mal di scuola è il titolo di una pubblicazione di Piero Romei – La Nuova Italia editrice – negli ultimi anni del secolo scorso.




Autonomia scolastica, autonomia differenziata, Pnrr

Stefaneldi Stefano Stefanel

Il primo anno scolastico “regolare” dopo la pandemia finisce in un turbine di scadenze, adempimenti, progetti, che determinano, nei dirigenti scolastici e nelle scuole, una sovrapposizione tra pareri personali e azioni istituzionali.
Proviamo dare una forma sintetica ed ordinata all’obiettivo disordine che circonda le scuole:

  • PNRR Classroom e Labs, cioè gli acquisti per la transizione digitale nelle scuole: entro il 30 giugno (ma tutti sperano, auspicano, brigano per uno slittamento del termine di almeno tre mesi) bisogna chiudere la procedura negoziale per finanziamenti cospicui che si contano a centinaia e non a decine di migliaia di euro.
  • PNRR “divari territoriali” (D.M. 170/2022), cioè le azioni per contrastare la dispersione scolastica nelle scuole individuate dal Ministero appoggiandosi soprattutto ai risultati nell’Invalsi da strutturare e organizzare secondo target definiti, ma con sfumature interpretative non da poco e che devono essere organizzati per partire quanto prima.
  • PNRR Poli Formativi per la transizione digitale che devono raggiungere un target specifico di soggetti formati (docenti e ata) per attività formative connesse alla transizione digitale, comunque non obbligatorie.
  • Piano Nazionale Scuola Digitale – STEAM che dovrebbe concludere al 30 giugno le sue attività formative sempre di carattere non obbligatorio (con una patologia evidente che permette ai docenti di iscriversi anche a 20 corsi contemporaneamente e poi a non frequentarne nessuno, abbassando il target minimo e rendendo inattuabile il corso).
  • DOCENTI TUTOR da individuare entro il 31 maggio e poi da avviare ad una formazione estiva per poi iniziare le attività di tutoraggio a settembre.
  • PIANO NAZIONALE DI FORMAZIONE 2023 finanziato ai primi di aprile che deve concludersi entro il 31 agosto con ingenti somme non spendibili viste le tempistiche (anche qui è necessaria, logica, indispensabile una proroga a fine novembre).
  • Attività formative finanziate anche qui con oltre centomila euro di media per scuola con i DM 65/2023 – “Nuove competenze e nuovi linguaggi” e DM 66/2023 – “Didattica digitale integrata e formazione alla transizione digitale per il personale scolastico“.
  • Liceo del Made in Italy, avviato con una certa fretta operativa che va a scontrarsi con un’offerta formativa che dovrebbe essere ponderata soprattutto in rapporto ai numeri molto decrescenti degli studenti.

Forse ho dimenticato qualcosa, ma credo che il quadro delineato sia molto chiaro. Ognuno di noi ha la sua idea in merito ed è giusto che l’abbia, sia favorevole a tutto questo, sia contraria a tutto o a una sua parte. Personalmente ritengo che le tempistiche siano mal modulate, le finalità non sempre chiare e l’impianto piuttosto debole nella sua strutturazione didattica e contorto in quella economica e gestionale. Questa, in sintesi la mia opinione.

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Mi pare, però, che esista e stia dilagando una certa confusione sul rapporto tra i propri pensieri (miei inclusi) e la gestione di un sistema scolastico nazionale.
Proviamo, anche qui, ad andare per punti:

  • le scuole sono “autonomie funzionali dello stato” e non hanno nessuna comunanza con le autonomie locali dello stato: la debole comprensione di questo passaggio fa ritenere a troppi (dirigenti, dsga, docenti) che lo stato debba negoziare con le autonomie funzionali i suoi obiettivi di sistema, mentre, più semplicemente, le autonomie funzionali sono deputate a sviluppare, nella realtà locale in cui operano, gli obiettivi del sistema.
  • il PNRR è una forma di finanziamento europeo straordinaria che agisce sulle due grandi transizioni (digitale ed ecologica) individuate come strategiche: per i cospicui soldi dati all’Italia dall’Europa devono andare lì non altrove (quindi non nell’ordinario, negli stipendi del personale, nell’aumento di dotazioni organiche, nella manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici scolastici, nei pre-pensionamenti, ecc.) e questo non pare essere compreso da chi lavora nella scuola;
  • l’Italia è il Paese più finanziato dal PNRR non perché siamo i più furbi a farci finanziare o perché gli altri stati sono buoni e si sono commossi per la nostra reazione alla pandemia, ma semplicemente perché il nostro grado di arretratezza nelle due transizioni è stato ampiamente misurato, dimostrato, accettato;
  • la caratteristica base sia del PNRR, sia degli obiettivi che l’Italia si è impegnata a raggiungere a livello europeo è quella relativo alla diminuzione della dispersione scolastica, che va drasticamente ridotta perché la nostra è altissima (la più alta in Europa): quindi anche questo è un chiaro obiettivo di sistema (che non può essere armonizzato con chi ritiene che la dispersione scolastica si risolva da sé aumentando le bocciature).
  • la formazione del personale sulle due transizioni è strategica e di sistema: ma poiché non è raggiungibile in Italia per via obbligatoria (“tutti i dipendenti statali che lavorano a scuola devono formarsi”) perché questo è un ostacolo non aggirabile, visto che nessuna forza sindacale è disponibile ad accettare in contratto una formazione obbligatoria al di fuori dell’orario di servizio così come è rigidamente definito, si va per grandi cifre e target da raggiungere, al fine di centrare ugualmente l’obiettivo di formare tutti, anche quelli che non vogliono sentir parlare dell’argomento.

È sorprendente come la grandissima parte del personale scolastico non voglia stare a tema e ritenga che le argomentazioni corrette siano quelle che decide lui: l’autonomia deve essere assoluta quando fa comodo, deve essere nulla quando invece ci sono problemi, il dirigente scolastico deve assumersi tutte le responsabilità, ma agendo come un unum inter pares di docenti e ata, a molti dei quali degli obiettivi del sistema scolastico nazionale interessa poco o nulla.

Questa forma di schizofrenia ideale va a frangersi poi su due questioni molto evidenti:

  • per attuare le varie pretese delle scuole servirebbe l’autonomia differenziata, che, così come è stata delineata a larghe linee, di fatto elimina il sistema scolastico nazionale, parcellizzando gli obiettivi a livello locale e creando un baratro tra le varie zone d’Italia;
  • Per combattere la dispersione scolastica e le sue terribili prospettive (aumento dei ragazzi che dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano, aumento delle qualifiche inutili legate alle classi di concorso dei docenti e non alle necessità del sistema economico e imprenditoriale, aumento della popolarità della selezione a scuola soprattutto da parte di un consistente numero di docenti di sinistra diventati paladini dei voti bassi e delle bocciature in nome della libertà d’insegnamento considerata come un bene assoluto del docente, che non intende sottostare agli obiettivi del sistema) è necessario rivedere completamente le modalità didattica e gestionali del rapporto tra insegnamento, apprendimento e valutazione, ancorato in italiana ad un’idea didattica trasmissiva e cartacea che ormai non ha eguali nel mondo.

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L’autonomia funzionale non piace perché limita le idee di chi lavora nella scuola convinto di aver capito per bene il sistema e le sue necessità, magari lavorando per 30 anni nello stesso luogo.
L’autonomia differenziata è il tentativo di una parte politica di scardinare il sistema scolastico nazionale, partendo da bisogni oggettivi dei territori. Oggi è nelle intenzioni di chi la propugna uno strumento di differenziazione irreversibile che in questo momento non può convivere con gli obiettivi unitari del sistema scolastico nazionale, decisi dallo stato, non dalle sue autonomie funzionali. Dentro un sistema scolastico nazionale il Ministero può attivare tutti gli indirizzi che ritiene opportuno, senza interagire con le sue autonomie funzionali. Il Liceo del Made in Italy può sembrare o forse proprio è una “stramberia”, ma non vedo perché non possa essere attivato, visto che tanti indirizzi nella scuola secondaria sono legati ad una vecchia logica e non al mondo che cambia (e sono, appunto, altrettanto “strambi”).

Il PNRR è un piano straordinario per accompagnare delle transizioni, cioè per cambiare radicalmente il nostro modo di vivere, anche a scuola. La digitalizzazione non è una semplice opzione, ma il futuro sotto gli occhi di tutti. Anche di quelli che invece di insegnare le discipline insegnano i libri di testo e mettono in atto tutta la loro straordinaria furbizia per fermare i plagi da internet.
C’è poi la patologia cronica di chi ritiene che le cose si possano risolvere con l’aumento del personale, senza considerare che personale generico e non formato non produce benefici ad alcun livello. Da nessuna parte sento dire che è necessario slegare gli organici dal numero degli studenti e collegarli alle necessità locali, rendendo migliore il supporto alle piccole scuole dilaniate da organici ata esigui e spesso poco competenti e da organici doventi che faticano o a gestire l’ordinario. Né sento parlare di una stabilizzazione reale dell’organico di sostegno, basato su docenti specializzati e non su docenti che si improvvisano in un settore così delicato.

La questione vera è che l’organico definito sul numero di alunni produce dispersione e che l’orario di lavoro contrattualizzato non risponde agli obiettivi da raggiungere. Io credo si arriverà prima o poi a due soluzioni semplici, ma proprio per questo osteggiate:

  • organico quinquennale di scuola senza alcuno spezzonista, con possibilità di modulare l’offerta formativa scolastica di ogni scuola, non legato alle iscrizioni;
  • orario del personale docente calcolato su base annuale (io dico 1250 ore) da declinarsi su tutte le attività della scuola (insegnamento, recuperi, supplenze brevi, esami, attività funzionali, riunioni, correzioni elaborati, preparazione lezioni, ecc.) nei periodi dell’anno in cui è necessario operare (con una chiusura delle scuole per 15 giorni ad agosto).

Penso che in questa fase sia necessario, però, comprendere che i due grandi obiettivi del sistema (transizione digitale e lotta alla dispersione scolastica) non sono obiettivi di una parte politica, ma proprio obiettivi del sistema scolastico nazionale. Invece si parala d’altro, cioè del perché lo stato ha messo i soldi lì e non là, confondendo la propria idea col proprio ruolo.