Comunità educante o dis-educante?

di Cinzia Mion

A proposito del concetto di “comunità educante” é apparso con forza, intendo con intenzione persuasiva, nell’ultimo contratto nazionale del comparto scuola, all’articolo 24, che qui mi permetto di riportare: “La scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”.

Il secondo comma sottolinea: “ Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs.n.297/1994

Credo risulti evidente a tutti l’eccessiva enfasi con cui è stato steso tale articolo che avrebbe dovuto essere, secondo me, più che una asserzione così convinta, un auspicio.
Ciò che infatti penso sia sotto gli occhi di tutti oggi (ma improvvisamente mi viene un dubbio: sotto gli occhi di tutti?) sono le “derive sociali”, a dir poco nefaste che, nella migliore delle ipotesi, gli educatori, docenti, genitori e tutti quelli che il contratto elenca come appartenenti alla cosiddetta comunità educante, dovrebbero darsi da fare soprattutto per contrastarle, non per confermarle! Naturalmente se sono ancora in grado di riconoscerle come derive diseducative e pericolose, vale a dire se non sono ancora stati sommersi da esse anche loro….

Derive sociali.

La prima, devastante, è l’indifferenza diffusa, chiamata anche noncuranza, ovvero mancanza di cura. Immagino che non serva descriverla, è sufficiente rievocare qualche atto di violenza consumato in presenza di passanti che osservano appunto indifferenti, senza sentirsi chiamati in causa.
Trent’anni di neoliberismo sempre più spinto hanno rinforzato lindividualismo come ha affermato la filosofa fiorentina Elena Pulcini[1], mancata per covid recentemente.
A questa deriva si collegano immediatamente l’affievolirsi dell’ empatia e la mancanza di com-passione. Diventa molto difficile farci una ragione di tale fenomeno soprattutto da quando la scoperta dei neuroni specchio ha rivelato che siamo tutti programmati dalla nascita per l’intersoggettività, quindi per rispondere l’uno all’altro del reciproco sentire.
Mi sovviene a questo punto l’immagine di Lévinas: “il volto dell’altro mi interpella…”[2].
Il volto dell’altro uomo sofferente e morente al quale però oggi ci siamo tutti assuefatti, tanto che non ci risuona più dentro, a livello viscerale , come intendeva dire questo filosofo lituano, di origine ebraica, quando si è espresso così. Assuefazione dovuta allora alla sovraesposizione mediatica? Pensiamoci…
Credo che direttamente collegata a queste derive possiamo mettere la progressiva e sempre più accentuata difficoltà all’ascolto dell’altro.

Marianella Sclavi[3] ha affrontato molto bene tale problematica, legata alla necessità di uscire dalle proprie cornici di riferimento, delle quali non siamo consapevoli, per riuscire a decentrare il nostro punto di vista ma soprattutto direi oggi più semplicemente di allentare il nostro egocentrismo per sintonizzarci autenticamente all’ascolto.

Passiamo ora al narcisismo dilagante, su cui non è necessario soffermarci tanto è lampante la sua diffusione.
Direttamente però collegata a questo effetto dirompente risulta essere la voglia di apparire (e mostrarsi) al posto di essere. Non si tratta più soltanto della voglia tracimante da parte di certe ragazze di avere una comparsata in TV sculettando davanti a un rapper ma , molto più grave, il riferimento va oggi  ai recenti fatti di cronaca che ci hanno rivelato, attraverso i canali di Youtube l’esistenza di gruppi deliranti come The Borderline, che nella più completa insensatezza hanno provocato un mortale incidente stradale in cui ha perso la vita un bambino di 5 anni.

Sullo sfondo si intravede uno dei  padri adultescenti,( cfr M.Ammaniti) non in grado di fare da guida genitoriale valida, perché eternamente teenager.
Oltre ad un rapporto difficile con l’alterità, già esaminato, appare sempre più rinforzata una difficoltà a considerare in modo adeguato la diversità, aspetto che lascia trasparire un aumento del razzismo e della omofobia, evidentissimo attraverso l’analisi del voto recente di moltissimi italiani che non si professano razzisti o omofobi ma hanno premiato partiti che lo sono. Vorrà dire qualcosa!!!.
Non possiamo trascurare l’importanza sempre più evidente data all’avere, rappresentata dalla valorizzazione crescente del profitto, a scapito dell’essere. Ne è dimostrazione evidente la crescente disparità e forbice nel Paese tra ricchi e poveri (in preoccupante aumento).
Alla fine, ma non per importanza, possiamo annoverare, non senza un grande rammarico da parte mia, il crescente deficit di Etica Pubblica, rivelando il soggiacente familismo amorale[4], intriso di volgare “tornacontismo”, sdoganato recentemente ai massimi livelli, ecc,ecc. Potrei continuare…

Voi capite che prima di aver la forza e la competenza per contrastare tali derive bisogna averne consapevolezza e sapersi interrogare e autovalutare rispetto alla propria adeguatezza in proposito. In altre parole saper chiamare con il loro vero nome i fenomeni intorno a noi. Amici miei allora questa che ci circonda, ma che soprattutto circonda i nostri ragazzi in crescita, non è una “comunità educante” ma una COMUNITA’ DIS-EDUCANTE. O partiamo da questa consapevolezza o ci troveremo sempre peggio con una famiglia e una scuola devastate. E non ditemi che sono pessimista.

 

 

[1] Pulcini E. L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, 2001.

[2] Lévinas E., Totalità e infinito.Joca Book, 1961.

[3] Sclavi M.,L’arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano-Pescara,2002.

[4] Banfield E.,Le basi morali di una società arretrata.,Il Mulino, 1976, Bologna.




Con il PNRR molti soldi per molti progetti, ma manca un progetto

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Nicola Puttilli

Sta crescendo la sensazione che anche per la scuola la valanga di risorse che si sta riversando con il PNRR sia, appunto, soltanto una valanga, una massa imponente e inattesa destinata a sciogliersi nel tempo senza, praticamente, lasciare traccia. In questi mesi assistiamo al paradosso di dirigenti scolastici che lamentano l’arrivo massiccio e continuativo di finanziamenti, quasi sempre vincolati alla digitalizzazione, manifestando quasi il pudore di dover continuare a spendere per materiali e servizi di cui già si ha ampia disponibilità o, comunque, considerati non prioritari. Senza dubbio una singolare constatazione per un sistema che ha visto un progressivo e inesorabile depauperamento di risorse nell’ultimo trentennio.

Ma il paradosso che colpisce maggiormente, nell’epoca della moltiplicazione dei progetti e dei progettifici, è proprio la mancanza di progetto.
Il più grande problema della scuola italiana, sia in termini di equità sociale sia di freno allo sviluppo economico del Paese, è quello della dispersione scolastica e della forte disomogeneità nell’acquisizione di competenze fra i diversi territori (nord-sud, centro-periferie, ecc).
Basta dare uno sguardo ai paesi che più e meglio di noi hanno risolto questo problema per capire che la chiave sta tutta in una didattica attiva, modulare, laboratoriale, attenta alla qualità della relazione. L’esatto contrario della didattica frontale e trasmissiva, inesorabilmente uguale per tutti, da sempre imperante nelle nostre scuole. Del resto c’è poco di che stupirsi, né più né meno di ciò che, dall’inizio del secolo scorso, hanno sostenuto tutti i pedagogisti più illustri , da John Dewey alla nostra Maria Montessori, fino a  Célestin Freinet che ha, fra l’altro, ispirato quel Movimento di Cooperazione Educativa che ha fortemente contribuito all’unica vera riforma dal basso, la sola possibile, della nostra scuola.

Trasformazione in senso democratico e ugualitario, suggellata ed enfatizzata dalla lettera di Don Milani, ma che ha avuto insormontabili limiti di natura storica e geografica. Ha infatti dato il meglio di sé tra i primi anni ‘60 e la fine degli anni ’70, soprattutto in alcuni comuni del nord decisi a investire in educazione nelle scuole materne, allora non ancora di competenza statale, con esiti di assoluta eccellenza (Reggio Emilia, Torino, Milano, Bologna, per citarne alcuni) e nella scuola elementare, di nuovo principalmente al nord, fino a produrre fondamentali provvedimenti legislativi come la legge 820 sul tempo pieno e la 517 sulla valutazione formativa e l’inserimento dei disabili.


A distanza di molti anni non appare un semplice caso se negli ordini di scuola e nelle zone del Paese maggiormente toccati dall’innovazione didattica si registrano, ancora oggi, gli esiti migliori per la scuola italiana, anche nelle comparazioni internazionali per la primaria. Resta, d’altro canto, la percezione di come la forte spinta innovatrice di quegli anni abbia sicuramente lasciato tracce ben presenti nelle nostre scuole,  ma non le abbia tuttavia modificate nel profondo e, soprattutto, in modo generalizzato.

Sull’onda della destra governante assistiamo sempre di più a un’opinione pubblica che attribuisce, ideologicamente e senza alcun dato di fatto, al post ’68 tutti i mali, o quasi, della nostra scuola. Verrebbe da rispondere che di ’68 ce n’è stato troppo poco o che è finito troppo presto, non che ce n’è stato troppo. Al di là, infatti, di una buona dose di massimalismo e di velleitarismo, sicuramente controproducente ma quasi fisiologica in un movimento così massiccio e dall’esordio così tumultuoso, furono poste allora le premesse per un rinnovamento complessivo della nostra scuola che non hanno purtroppo trovato seguito nei decenni a venire.

Ciò che è mancato, e che continua clamorosamente a mancare, è stata la canalizzazione delle molteplici spinte riformatrici in una visione di insieme e la sua traduzione in un progetto di medio- lungo termine. I principali nodi problematici della nostra scuola sono nodi storici e soprattutto fortemente interrelati, non si possono sciogliere singolarmente ma solo attraverso un approccio sistemico.

  • Gli spazi di apprendimento: quasi tutte le nostre scuole sono predisposte per una didattica trasmissiva e frontale, spazi tutti uguali per ripetere all’infinito il rito della lezione collettiva, una palestra (non sempre e spesso inadeguata) per l’attività fisica, qualche spazio rimediato qua e là per i laboratori e un locale mensa nei casi più fortunati, quasi mai al sud. Le scuole italiane sono per lo più vecchie e insicure, nella maggioranza manca perfino il certificato antincendio. Non è procrastinabile un piano nazionale di rinnovamento e messa in sicurezza certamente molto impegnativo sul piano finanziario, ma di cui il PNRR può costituire un primo, importante tassello. La costruzione di nuove scuole o la riconversione e messa a norma di quelle esistenti dovrebbe considerare le esigenze di una didattica attiva e rinnovata; esperienze molto significative in questo senso, alle quali fare riferimento, esistono nel nostro Paese e soprattutto all’estero.

A metà degli anni ’70 a Torino, dove vivo e ho lavorato,  furono costruiti alcuni plessi scolastici con caratteristiche molto innovative sulla scorta dell’esperienza della scuola a tempo pieno, nato nel quartiere popolare delle “Vallette”, che cominciava ad avere in città una certa diffusione: pareti delle aule mobili per diversificare gli spazi, buca per il teatro, spazi esterni dedicati agli orti, ecc. Dopo una decina d’anni le pareti erano diventate fisse, la buca per il teatro ricoperta, gli spazi esterni restituiti alla libera ricreazione. Spazi innovativi di apprendimento rischiano di essere una spesa inutile se non affiancati da un serio piano di formazione.

  • La formazione del personale: la legge definisce la formazione come strutturale, obbligatoria e permanente ma, di fatto, non è così. I vincoli contrattuali limitano fortemente queste caratteristiche fino a ridurla a una sorta di benemerito volontariato. Le risorse, pur cospicue in questa fase, arrivano alle scuole in modo disorganico rischiando di convergere su iniziative non proprio prioritarie o nelle mani delle realtà  più virtuose che meno ne avrebbero bisogno. Un serio piano nazionale richiederebbe obiettivi espliciti e dichiarati, finanziamenti adeguati e valide strutture di supporto alle scuole in grado di fornire progettazione ed esperti di qualità. C’erano una volta gli IRRSAE (Istituti Regionali per la Ricerca la Sperimentazione e l’Aggiornamento Educativo), a un certo punto qualcuno ha cominciato a sostenere che fossero inutili e costosi carrozzoni. Per quello che può valere l’esperienza personale ne ho avuto una percezione totalmente diversa e resto convinto che la loro soppressione fosse principalmente dovuta a mere ragioni di risparmio, piccola parte di quel taglieggiamento partito a metà degli anni ’90 e che ha portato, in quasi un trentennio, a praticamente dimezzare la quota di PIL destinato al sistema nazionale di formazione. Strutture simili, ovviamente rivisitate e adattate alle esigenze attuali, sarebbero invece di grande utilità.

Un serio e qualificato piano di formazione, inserito in un progetto di rinnovamento partecipato e credibile, potrebbe anche essere motivante per il personale docente ma comporterebbe nuovi carichi lavorativi e comporterebbe il superamento degli attuali vincoli contrattuali, si tratterebbe realisticamente di porre in essere un altro contestuale e massiccio intervento.

  • Gli stipendi e la carriera dei docenti: nella primavera del 2019 la commissione europea inviava una formale raccomandazione al governo italiano affinché provvedesse sollecitamente ad aumentare gli stipendi degli insegnanti, di gran lunga fra i più bassi di Europa. Da allora nulla è cambiato, i previsti e rituali aumenti contrattuali nel frattempo intervenuti non hanno in alcun modo colmato il divario, né introdotto alcuna realistica possibilità di carriera. Difficile pensare che una categoria frustrata sul piano stipendiale, oggetto di scarso riconoscimento sociale e lontana dalle attenzioni della politica possa partecipare con entusiasmo a un grande processo di cambiamento come quello che sarebbe necessario e senza gli insegnanti, l’esperienza lo dimostra, non si va da nessuna parte.

Molti altri sono evidentemente i problemi irrisolti della scuola italiana ma quelli sopra delineati sono passaggi obbligati se si vuole tentare seriamente di recuperare il “gap” con i paesi europei più evoluti. I ritardi accumulati sono enormi ma non esistono alternative anche se, al punto in cui siamo, i costi potrebbero sembrare proibitivi. Ancora una volta sono decisive la “capacità di visione” e la volontà della politica, quelle che sono mancate negli ultimi decenni e che sembrano oggi più che mai assenti se è vero che, nel Paese con il maggior tasso di abbandono scolastico e di analfabetismo funzionale, il governo in carica si preoccupa di inserire il merito nella propria intestazione istituzionale. Si inseguono la cronaca e il facile consenso inserendo le ore di educazione civica se il bullismo diventa argomento televisivo, l’orientatore se il tema del giorno è il disallineamento tra l’offerta formativa e il mercato del lavoro e già si prospettano le ore di contrasto al femminicidio, mentre il problema reale è l’innalzamento generale delle competenze dei nostri ragazzi, tutti i nostri ragazzi, in quanto cittadini attivi e responsabili in primo luogo e in quanto lavoratori  adeguatamente inseriti nel processo di crescita del Paese.

Lavorare a un grande e condiviso progetto per il raggiungimento di questi fondamentali obiettivi potrebbe contribuire a dare un senso e una visione anche all’azione quotidiana dei nostri insegnanti e dei nostri dirigenti scolastici. Per la classe politica si tratterebbe di una scelta strategica sulla quale far convergere risorse in buona misura provenienti dalla scuola stessa, dal PNRR a quelle, ancora più ingenti, derivanti dal calo demografico, fino a raggiungere gradualmente  una quota di PIL destinata al sistema di formazione paragonabile a quella degli anni ’90, in linea con quella dei paesi europei. Si tratterebbe, senza dubbio, di un grande impegno e di un grande investimento, inevitabile se si vuole evitare l’ulteriore declino della nostra scuola e, a stretto giro di posta, dell’intero Paese.




Non lo psicologo ma tanta psicologia per curare le patologie della scuola

di Giovanni Fioravanti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

Lo psicologo a scuola c’è ormai da tempo, con un eccesso di certificazioni per ogni disturbo specifico dell’apprendimento, per ogni bisogno educativo speciale.

È la scuola che non è mai ricorsa all’ausilio di uno psicologo per curarsi, eppure è da tempo che si segnalano vere e proprie malattie, crisi di identità, malesseri, sintomi di disadattamento e di sfinimento, addirittura pare che sia la scuola ad essere dannosa a se stessa. Ma non è attraverso il continuo ricorso alla clinica che la scuola può pensare di guarire dalle sue patologie.

La scuola più che di psicologi ha bisogno di psicologia a tutti i livelli.
Nelle professioni di relazione la competenza psicologica è fondamentale. Nella scuola questo vale dall’ultimo dei collaboratori scolastici fino al primo dei dirigenti.

Ma la relazione tra psicologia e scuola nel nostro paese non è mai stata delle più felici.
Ci aveva tentato, all’indomani della Liberazione, Carleton Washburne, pedagogista statunitense, a capo della ricostruzione della scuola italiana, mandando cinque insegnanti della scuola elementare all’Università di Ginevra perché apprendessero le teorie di Piaget. Ma il progetto naufragò perché il governo italiano di allora non aveva i soldi per pagare il viaggio e il soggiorno.


Il resto l’hanno fatto lo spiritualismo e il personalismo per anni imperanti nella scuola italiana, di fatto ostacolando una compiuta formazione psicologica dei suoi operatori.

David Paul Ausubel è stato uno psicologo statunitense, seguace delle teorie di Jean Piaget. Ha fornito contributi significativi nel campo della psicologia dell’educazione, delle scienze cognitive e della didattica delle discipline scientifiche.
Ha introdotto la differenza tra l’apprendimento di qualcosa che ci interessa e qualcosa di noioso che abbiamo acquisito in modo meccanico.
Nel primo caso parliamo di apprendimento profondo, di apprendimento significativo, di un apprendimento costruito e legato al bagaglio di conoscenze che già si possiedono, in cui l’individuo svolge un ruolo attivo ristrutturando e riorganizzando le informazioni.
Come si può intuire la teoria di Ausubel è influenzata dal costruttivismo: per Ausubel la vera conoscenza è costruita dal soggetto attraverso le sue interpretazioni.
Allora già qui si pone il problema. L’ apprendimento non è una questione di condotta, di disciplina, di attenzione passiva. L’apprendimento si costruisce, richiede una partecipazione attiva del soggetto, l’apprendimento significativo è un apprendimento relazionale.

In una scuola il cui perno organizzativo ancora ruota intorno alla disciplina e alla condotta è difficile concepire una didattica della relazione, della reciprocità.
La didattica che ancora prevale è quella condizionata dal comportamentismo, stimolo-risposta, da un “istruzionismo” meccanico e ripetitivo anziché da una prassi costruttivista della conoscenza.

E già questa è la prima patologia della scuola, non di chi la frequenta.

Attenzione, condotta e disciplina alimentano l’errore di Cartesio, segnalato dal neuroscienziato Antonio Damasio.
Classe, cattedra, banco, voti, rigidità degli orari impongono il divorzio tra intelligenza ed emozione. Tra intelletto ed emotività.
Del resto l’intelligenza richiesta dalla scuola non è mai quella del pensiero divergente, ma se la mente deve convergere sull’unica direzione della cattedra di quale intelligenza parliamo? Dunque altra patologia della nostra scuola.

Howard Gardner con le sue intelligenze multiple ha offerto alla scuola l’opportunità di curarsi dai suoi disturbi, ma dimostrazioni che si sia sottoposta a sedute terapeutiche di questo tipo non mi ritornano.

Dopo Gardner non è andata meglio neppure con Daniel Goleman e la sua “Emotional Intelligence”, in Italia appare nel ’97 con il titolo “L’intelligenza emotiva che cos’è, perché può renderci felici.”
Si tratta di un aspetto della nostra intelligenza che consiste nella capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole sia le nostre emozioni che quelle altrui.
È appunto di quelle altrui che la scuola patologicamente non sa occuparsi. L’educazione emotiva non riguarda solo gli studenti, che si pretenderebbe di formare alla resilienza ed altre varie amenità, come certi progetti di legge prospettavano e forse prospettano ancora.
Chi si deve formare all’emotività in questo caso è l’istituzione. Ciò spiega l’incompetenza delle scuole di fronte alle difficoltà e al disagio di adolescenti e bambini.
È in gioco la relazione tra sistema e comportamenti disfunzionali degli studenti che richiedono non reazioni disciplinari ed emarginalizzanti, ma capacità empatiche che aiutino a ricercare risposte alternative. Pause di attenzione, tempi di decantazione, accompagnamento, cura, pluralità di opzioni, ma soprattutto accoglienza e capacità di riflessione, di ripensamento, flessibilità da parte del sistema stesso.

C’è un’altra patologia di cui soffre istituzionalmente la scuola che si chiama classe e classificazione.
In sostanza l’idionsicrasia conclamata nei confronti del sé. Una classe con troppi sé è una depressione o un’esplosione. A volte sono solo scintille isolate, che immediatamente vengono spente con l’espulsione diretta o indiretta, tale sempre da non turbare il normale follow up della programmazione.
Potremmo riassumere il concetto di sé come fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.
Elemento delicato soprattutto per un giovane, per il quale il concetto di sé è fortemente condizionato dagli adulti che entrano in relazione con lui.
Il concetto di sé non è qualcosa di statico, è dinamico perché in noi giocano le aspettative e le prospettive. Vale a dire i “Sé possibili”, i Sé orientati al futuro. I sé possibili sono quelli che alimentano il desiderio di raggiungere un certo obiettivo, di migliorare un certo stato, di crescere, di realizzarsi, sono la molla della motivazione ad agire, sono la spinta del sé agente.
La scuola mette in gioco i sé possibili e i sé futuri, molti troppo spesso rimangono sacrificati sul campo, ma di questo la scuola non si preoccupa perché neppure se ne accorge.

C’è poi la patologia dell’identità incerta di un luogo che non ha mai risolto il suo rapporto con i saperi e la conoscenza, limitandosi a fornirli in dosi già confezionate, prendere o lasciare, tipo i libri di testo.
Pertanto non si comprende se la scuola abbia una chiara consapevolezza della sua identità, schiacciata dalla schizofrenia mai risolta, dissociata tra “prendere” e “ap-prendere”. Come passare da un imparare passivo (prendere) ad un imparare attivo (ap-prendere), cos’è che fa dell’imparare un apprendimento?
È come ricevere le conoscenze senza sapere nulla delle conoscenze, della loro natura, come funzionano, come si riversano nella mente, come si combinano quando entrano nel nostro cervello e incontrano quelle che già possediamo. Si chiama meta-cognizione.
La Metacognizione per tradursi in apprendimento ha necessità che le cognizioni calde e fredde si incontrino: intelligenza, motivazione, consapevolezza di sé.
Ha bisogno di attivare quelle abilità mentali superiori che vanno oltre i “semplici” e scontati processi cognitivi primari come ad esempio: leggere, ricordare, calcolare, in pratica si tratta di stimolare il soggetto a controllare come lavora la sua mente.
La scuola soffre di identità mai risolte, di malessere e sfinimento prodotti dalla ripetitività, tali da renderla insofferente al cambiamento.
Il rapporto con il cambiamento è un grosso ostacolo per un’utenza che cambia, la cui peculiarità è il cambiamento, in quanto in via di sviluppo. In queste condizioni il conflitto è inevitabile, è inutile fingere di ignorarlo, porlo a tacere.

Ma poi cos’è lo sviluppo, cosa sarà mai? Ne siamo sempre usciti tutti.
E qui sta il più grande deficit psicologico della scuola che rende particolarmente fragili le relazioni con la sua utenza, dentro e fuori della scuola.
Allo sviluppo è connesso il cambio di stato, sviluppo non è solo crescita, non è soltanto passaggio da una fase all’altra della vita.
Sviluppo è cambiamento. E questo del cambiamento è un fattore importante per chi esercita una professione di relazione con chi deve cambiare per crescere, perché implica l’inaspettato, la sorpresa, come la fiducia.

Umberto Galimberti nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia definisce lo sviluppo come: “Processo evolutivo di un organismo con modificazioni di struttura, di funzione e di organizzazione per tre ordini di cause: maturazione intrinseca, influenza dellambiente e apprendimento che avviene assumendo una posizione attiva nei confronti dell’ambiente.”
Qui ci interessa sottolineare “la posizione attiva nei confronti dell’ambiente”, di tutti gli ambienti, compreso l’ambiente di apprendimento: la scuola e l’insegnamento.
È la posizione attiva nell’ambiente che consente di apprendere dall’ambiente, di organizzare le conoscenze e maturare le nostre funzioni superiori: ragionamento, memoria, attenzione, elaborazione delle informazioni.

Ce n’è abbastanza per mandare sul lettino dello psicanalista la scuola e il suo personale, compreso lo psicologo di cui il ministro vorrebbe rifornire le scuole.




A proposito di autonomia funzionale e PNRR, caro Stefanel, ti scrivo… .

di Antonio Valentino

  1. La prima delle tre parti dell’articolo di Stefanel[1], pubblicato qualche giorno fa su questa Rivista, si conclude, dopo aver elencato la maggior parte degli investimenti del PNRR per la scuola (PNRR “Dispersione e divari territoriali, PNRR Classroom e Labs, Docenti Tutor, Piano Nazionale Scuola Digitale – STEAM, Poli Formativi per la transizione digitale  ….), con le seguenti considerazioni: “…. ritengo che le tempistiche [dei vari investimenti] siano mal modulate, le finalità non sempre chiare e l’impianto piuttosto debole nella sua strutturazione didattica e contorto in quella economica e gestionale.” Considerazioni che ho letto come una sostanziale bocciatura dell’operato ministeriale.

La seconda parte vira invece specificamente sulle questioni della natura e della gestione del sistema scolastico nazionale e introduce la problematica dell’autonomia scolastica, definita ‘funzionale’ nel Regolamento dell’Autonomia[2] e ne richiama la differenza rispetto alle autonomie locali. E questo perché l’autore dell’articolo ritiene che la ‘debole comprensione’ di tale differenza porti molti ds, docenti e dsga a pensare “ che lo stato debba negoziare con le autonomie funzionali [tra cui la Scuola] i suoi obiettivi di sistema [essendo queste] deputate a sviluppare, nella realtà locale in cui operano, gli obiettivi del sistema”.

Considerazione che lo spinge a pensare che anche i progetti e gli investimenti del PNRR, che rispondono a obiettivi di sistema (volti a superarne difficoltà e criticità) difficilmente potranno andare a buon fine in quanto sono destinati ad essere neutralizzati – semplifico sperando di interpretare correttamente l’assunto di Stefanel – da quegli insegnanti che non vogliono sottostare ad essi in nome dell’autonomia funzionale. E continuare quindi – tali insegnanti – in una “pratica didattica ancora trasmissiva e cartacea che ormai non ha uguali nel mondo”  e ad una pratica valutativa che li rende “paladini dei voti bassi e delle bocciature in nome della libertà d’insegnamento, considerata come un bene assoluto del docente”.

La cosa che lascia più perplessi – e increduli – quanti conoscono Stefanel anche solo attraverso le cose che scrive, è che i paladini, tra l’altro ‘numericamente consistenti’ sarebbero tutti docenti di sinistra.  (Ohibò!)
Da ciò soprattutto dipenderebbe la situazione particolarmente allarmante di questa fase; e sotto accusa sono quanti si opporrebbero alle misure previste dal Piano nazionale scuola nel PNRR, sempre in nome dell’autonomia funzionale.
Accusa richiamata ancora all’inizio della terza parte, che riporta specificamente alcune  proposte sui nodi dell’organizzazione scolastica (dagli organici all’orario di lavoro dei docenti, …,); qui non riprese (per quanto interessanti), perché esulano dalle ragioni di queste note.

  1. Ritorno a questo punto alle valutazioni complessive che Stefanel dà dei progetti e degli investimenti messi in campo dal Piano Scuola del PNRR e decisi in autonomia dal Ministero, seppur dentro le linee operative convenute a livello europeo; giudizi, come si è già detto, decisamente pesanti  sotto ogni aspetto  (finalità, impianto, tempistiche).

D’altra parte,  i  progetti e gli investimenti del nostro Piano Nazionale sono tutti – di fatto – farina del sacco del Ministero, perchè non c’è stata nessuna negoziazione sugli stessi per quanto è dato sapere con le Associazioni professionali della scuola, né con i sindacati.  Le piattaforme ministeriali per la gestione dei progetti sono infatti rigorosamente costruite secondo i decreti del Ministro e le Note esplicative.
(Resta comunque da capire se questo modo di procedere sia in assoluto il migliore. Personalmente, a conti fatti, ho più di un dubbio).

  1. C’è quindi qualcosa che non torna nei ragionamenti fatti nell’articolo. D’altra parte, sempre più numerose e autorevoli voci evidenziano che, se i progetti targati PNRR non vanno avanti o procedono con enorme difficoltà e lentezza, il vizio di fondo dell’intera operazione è molto probabilmente la troppa carne messa al fuoco: troppa la carne e debole il fuoco.

Ma c’è anche dell’altro, e ben lo fa capire lo stesso Stefanel attraverso il suo giudizio sull’operazione in corso.
Si respira infatti nella formulazione dei progetti, soprattutto in quelli in cui i protagonisti dovrebbero essere le scuole, un’aria di improvvisazione, di mancanza di un’idea credibile di scuola, di leggerezza – in senso non proprio calviniano – in dosi decisamente ragguardevoli.

Vogliamo ricordare, facendo focus sui Decreti e sulle Note operative che li accompagnano, che il Ministro ha cominciato a parlare di PNRR con la continuità e l’impegno che l’operazione richiedeva, solo a partire dal febbraio scorso? E che nei lunghi mesi precedenti – in tutte le interviste (numerosissime), in tutte le apparizioni in tv e ne convegni (idem) e in tutte le sue autopromozioni (come sopra) – le sue parole d’ordine erano solamente merito e talento a cui si è aggiunta, alla fine di gennaio, anche competizione[3]?

Temi e questioni cari al ministro, che, come è noto, sono in tutta evidenza al centro delle attenzioni e dell’interesse di insegnanti e dirigenti!
E se passiamo dalle parole d’ordine ai suoi argomenti preferiti, troviamo, in ordine cronologico, l’uso dei telefonini in classe, la disciplina e l’ordine nelle scuole e ultimamente le grandi rivoluzioni delle sue riforme e se stesso come il grande rivoluzionario.

Ancora una considerazione: l’impegno sul PNRR delle Direzioni scolastiche regionali, quale è stato?  Chiedere ai Ds.  Caso, questo, da manuale di quanto i comportamenti dei superiori facciano testo (definiscano i comportamenti dei dirigenti sottostanti) soprattutto nelle articolazioni funzionali della Pubblica Amministrazione.

  1. Comunque il messaggio implicito di Stefanel, rispetto ai progetti e alle riforme del PNRR, non mi sembra in nessun modo che sia quello di lasciar perdere. Gettare la spugna in questo momento, e lui lo sa bene, sarebbe sbagliato e perdente e creerebbe, in Europa, discredito per il nostro Paese – che pure è risultato favorito, con una qualche ragione, nell’attribuzione delle risorse finanziarie -; ma anche e soprattutto per lo stesso mondo della scuola.

Con riferimento ai contenuti immediatamente procedenti – e cambiando registro espressivo per una comunicazione più diretta – penso potrebbe essere utile a questo punto, caro Stefanel, individuare e condividere le leve su cui potrebbe essere utile puntare per un recovery volto a contrastare le più forti criticità della nostra scuola. Assumendo ovviamente a riferimento, soggetti come l’Associazionismo professionale – o almeno alcune sue parti – e le organizzazioni sindacali disponibili.
Per esempio, caro Stefanel, io penso – e credo che ne convieni – che costruire un protagonismo ad ampio raggio di docenti e Ds – un po’ come è avvenuto in molte realtà del Paese durante la pandemia – è in questa fase (e non solo) la prospettiva da privilegiare e coltivare: per quando riguarda sia la realizzazione dei progetti in atto, sia l’attenzione, nell’intera operazione PNRR, all’idea di miglioramenti sensati e possibili delle attività in corso.

Protagonismo necessario e particolarmente importante anche nei percorsi di formazione previsti,  che tu richiami opportunamente nella prima parte del tuo articolo: una grande opportunità che può diventare tale a certe condizioni (che anche tu implicitamente richiami), quali:
– una loro distribuzione sensata nei prossimi tre anni (affollamenti e indigestione sarebbero letali);
– una organizzazione dei percorsi formativi centrata su metodologie attive come la ricerca azione e/o le pratiche laboratoriali;
– far rivivere le esperienze di formazione e condividerle (e questo è un aspetto per alcuni versi decisivo) all’interno dei consigli di classe, dei dipartimenti e delle commissioni di lavoro; da vivere – queste aggregazioni – come ‘comunità professionali di pratica’.

Sono sicuro anche che sarebbe facile condividere, in questa operazione, un ruolo attivo di  tutte le Associazioni Professionali della scuola che più sono interessate alla dimensione cooperativa del lavoro scolastico e alla sua liberazione da culture e pratiche formative ormai insensate; pratiche che oggi sono spesso causa non irrilevante del mal di scuola[4], a cui vanno ricondotte  le criticità più pesanti di cui soffrono le nostre scuole e i nostri studenti. E anche i nostri insegnanti e ds.

[1] S. Stefanel, Autonoma differenziata, autonomia delle scuole, PNRR

[2]DPR 275/1999, Art.1 (Natura e scopi dell’autonomia delle istituzioni scolastiche) 1.Le istituzioni scolastiche sono espressioni di autonomia funzionale e provvedono alla definizione e alla realizzazione dell’offerta formativa, …. A tal fine interagiscono tra loro e con gli enti locali promuovendo il raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali e gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione. 2. L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione….

[3] Lanciata all’interno  del Programma annuale per la valorizzazione delle eccellenze (Avviso M.I.M. del 25.01.’23, n. 2437).

[4] Mal di scuola è il titolo di una pubblicazione di Piero Romei – La Nuova Italia editrice – negli ultimi anni del secolo scorso.




Autonomia scolastica, autonomia differenziata, Pnrr

Stefaneldi Stefano Stefanel

Il primo anno scolastico “regolare” dopo la pandemia finisce in un turbine di scadenze, adempimenti, progetti, che determinano, nei dirigenti scolastici e nelle scuole, una sovrapposizione tra pareri personali e azioni istituzionali.
Proviamo dare una forma sintetica ed ordinata all’obiettivo disordine che circonda le scuole:

  • PNRR Classroom e Labs, cioè gli acquisti per la transizione digitale nelle scuole: entro il 30 giugno (ma tutti sperano, auspicano, brigano per uno slittamento del termine di almeno tre mesi) bisogna chiudere la procedura negoziale per finanziamenti cospicui che si contano a centinaia e non a decine di migliaia di euro.
  • PNRR “divari territoriali” (D.M. 170/2022), cioè le azioni per contrastare la dispersione scolastica nelle scuole individuate dal Ministero appoggiandosi soprattutto ai risultati nell’Invalsi da strutturare e organizzare secondo target definiti, ma con sfumature interpretative non da poco e che devono essere organizzati per partire quanto prima.
  • PNRR Poli Formativi per la transizione digitale che devono raggiungere un target specifico di soggetti formati (docenti e ata) per attività formative connesse alla transizione digitale, comunque non obbligatorie.
  • Piano Nazionale Scuola Digitale – STEAM che dovrebbe concludere al 30 giugno le sue attività formative sempre di carattere non obbligatorio (con una patologia evidente che permette ai docenti di iscriversi anche a 20 corsi contemporaneamente e poi a non frequentarne nessuno, abbassando il target minimo e rendendo inattuabile il corso).
  • DOCENTI TUTOR da individuare entro il 31 maggio e poi da avviare ad una formazione estiva per poi iniziare le attività di tutoraggio a settembre.
  • PIANO NAZIONALE DI FORMAZIONE 2023 finanziato ai primi di aprile che deve concludersi entro il 31 agosto con ingenti somme non spendibili viste le tempistiche (anche qui è necessaria, logica, indispensabile una proroga a fine novembre).
  • Attività formative finanziate anche qui con oltre centomila euro di media per scuola con i DM 65/2023 – “Nuove competenze e nuovi linguaggi” e DM 66/2023 – “Didattica digitale integrata e formazione alla transizione digitale per il personale scolastico“.
  • Liceo del Made in Italy, avviato con una certa fretta operativa che va a scontrarsi con un’offerta formativa che dovrebbe essere ponderata soprattutto in rapporto ai numeri molto decrescenti degli studenti.

Forse ho dimenticato qualcosa, ma credo che il quadro delineato sia molto chiaro. Ognuno di noi ha la sua idea in merito ed è giusto che l’abbia, sia favorevole a tutto questo, sia contraria a tutto o a una sua parte. Personalmente ritengo che le tempistiche siano mal modulate, le finalità non sempre chiare e l’impianto piuttosto debole nella sua strutturazione didattica e contorto in quella economica e gestionale. Questa, in sintesi la mia opinione.

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Mi pare, però, che esista e stia dilagando una certa confusione sul rapporto tra i propri pensieri (miei inclusi) e la gestione di un sistema scolastico nazionale.
Proviamo, anche qui, ad andare per punti:

  • le scuole sono “autonomie funzionali dello stato” e non hanno nessuna comunanza con le autonomie locali dello stato: la debole comprensione di questo passaggio fa ritenere a troppi (dirigenti, dsga, docenti) che lo stato debba negoziare con le autonomie funzionali i suoi obiettivi di sistema, mentre, più semplicemente, le autonomie funzionali sono deputate a sviluppare, nella realtà locale in cui operano, gli obiettivi del sistema.
  • il PNRR è una forma di finanziamento europeo straordinaria che agisce sulle due grandi transizioni (digitale ed ecologica) individuate come strategiche: per i cospicui soldi dati all’Italia dall’Europa devono andare lì non altrove (quindi non nell’ordinario, negli stipendi del personale, nell’aumento di dotazioni organiche, nella manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici scolastici, nei pre-pensionamenti, ecc.) e questo non pare essere compreso da chi lavora nella scuola;
  • l’Italia è il Paese più finanziato dal PNRR non perché siamo i più furbi a farci finanziare o perché gli altri stati sono buoni e si sono commossi per la nostra reazione alla pandemia, ma semplicemente perché il nostro grado di arretratezza nelle due transizioni è stato ampiamente misurato, dimostrato, accettato;
  • la caratteristica base sia del PNRR, sia degli obiettivi che l’Italia si è impegnata a raggiungere a livello europeo è quella relativo alla diminuzione della dispersione scolastica, che va drasticamente ridotta perché la nostra è altissima (la più alta in Europa): quindi anche questo è un chiaro obiettivo di sistema (che non può essere armonizzato con chi ritiene che la dispersione scolastica si risolva da sé aumentando le bocciature).
  • la formazione del personale sulle due transizioni è strategica e di sistema: ma poiché non è raggiungibile in Italia per via obbligatoria (“tutti i dipendenti statali che lavorano a scuola devono formarsi”) perché questo è un ostacolo non aggirabile, visto che nessuna forza sindacale è disponibile ad accettare in contratto una formazione obbligatoria al di fuori dell’orario di servizio così come è rigidamente definito, si va per grandi cifre e target da raggiungere, al fine di centrare ugualmente l’obiettivo di formare tutti, anche quelli che non vogliono sentir parlare dell’argomento.

È sorprendente come la grandissima parte del personale scolastico non voglia stare a tema e ritenga che le argomentazioni corrette siano quelle che decide lui: l’autonomia deve essere assoluta quando fa comodo, deve essere nulla quando invece ci sono problemi, il dirigente scolastico deve assumersi tutte le responsabilità, ma agendo come un unum inter pares di docenti e ata, a molti dei quali degli obiettivi del sistema scolastico nazionale interessa poco o nulla.

Questa forma di schizofrenia ideale va a frangersi poi su due questioni molto evidenti:

  • per attuare le varie pretese delle scuole servirebbe l’autonomia differenziata, che, così come è stata delineata a larghe linee, di fatto elimina il sistema scolastico nazionale, parcellizzando gli obiettivi a livello locale e creando un baratro tra le varie zone d’Italia;
  • Per combattere la dispersione scolastica e le sue terribili prospettive (aumento dei ragazzi che dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano, aumento delle qualifiche inutili legate alle classi di concorso dei docenti e non alle necessità del sistema economico e imprenditoriale, aumento della popolarità della selezione a scuola soprattutto da parte di un consistente numero di docenti di sinistra diventati paladini dei voti bassi e delle bocciature in nome della libertà d’insegnamento considerata come un bene assoluto del docente, che non intende sottostare agli obiettivi del sistema) è necessario rivedere completamente le modalità didattica e gestionali del rapporto tra insegnamento, apprendimento e valutazione, ancorato in italiana ad un’idea didattica trasmissiva e cartacea che ormai non ha eguali nel mondo.

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L’autonomia funzionale non piace perché limita le idee di chi lavora nella scuola convinto di aver capito per bene il sistema e le sue necessità, magari lavorando per 30 anni nello stesso luogo.
L’autonomia differenziata è il tentativo di una parte politica di scardinare il sistema scolastico nazionale, partendo da bisogni oggettivi dei territori. Oggi è nelle intenzioni di chi la propugna uno strumento di differenziazione irreversibile che in questo momento non può convivere con gli obiettivi unitari del sistema scolastico nazionale, decisi dallo stato, non dalle sue autonomie funzionali. Dentro un sistema scolastico nazionale il Ministero può attivare tutti gli indirizzi che ritiene opportuno, senza interagire con le sue autonomie funzionali. Il Liceo del Made in Italy può sembrare o forse proprio è una “stramberia”, ma non vedo perché non possa essere attivato, visto che tanti indirizzi nella scuola secondaria sono legati ad una vecchia logica e non al mondo che cambia (e sono, appunto, altrettanto “strambi”).

Il PNRR è un piano straordinario per accompagnare delle transizioni, cioè per cambiare radicalmente il nostro modo di vivere, anche a scuola. La digitalizzazione non è una semplice opzione, ma il futuro sotto gli occhi di tutti. Anche di quelli che invece di insegnare le discipline insegnano i libri di testo e mettono in atto tutta la loro straordinaria furbizia per fermare i plagi da internet.
C’è poi la patologia cronica di chi ritiene che le cose si possano risolvere con l’aumento del personale, senza considerare che personale generico e non formato non produce benefici ad alcun livello. Da nessuna parte sento dire che è necessario slegare gli organici dal numero degli studenti e collegarli alle necessità locali, rendendo migliore il supporto alle piccole scuole dilaniate da organici ata esigui e spesso poco competenti e da organici doventi che faticano o a gestire l’ordinario. Né sento parlare di una stabilizzazione reale dell’organico di sostegno, basato su docenti specializzati e non su docenti che si improvvisano in un settore così delicato.

La questione vera è che l’organico definito sul numero di alunni produce dispersione e che l’orario di lavoro contrattualizzato non risponde agli obiettivi da raggiungere. Io credo si arriverà prima o poi a due soluzioni semplici, ma proprio per questo osteggiate:

  • organico quinquennale di scuola senza alcuno spezzonista, con possibilità di modulare l’offerta formativa scolastica di ogni scuola, non legato alle iscrizioni;
  • orario del personale docente calcolato su base annuale (io dico 1250 ore) da declinarsi su tutte le attività della scuola (insegnamento, recuperi, supplenze brevi, esami, attività funzionali, riunioni, correzioni elaborati, preparazione lezioni, ecc.) nei periodi dell’anno in cui è necessario operare (con una chiusura delle scuole per 15 giorni ad agosto).

Penso che in questa fase sia necessario, però, comprendere che i due grandi obiettivi del sistema (transizione digitale e lotta alla dispersione scolastica) non sono obiettivi di una parte politica, ma proprio obiettivi del sistema scolastico nazionale. Invece si parala d’altro, cioè del perché lo stato ha messo i soldi lì e non là, confondendo la propria idea col proprio ruolo.




Rilanciare l’autonomia partendo dalla qualità del lavoro

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Pietro Calascibetta

“LA SCUOLA SI RIPRENDE LA PAROLA”

E’ sicuramente una buona notizia l’appello lanciato delle associazioni professionali AIMC-CIDI-MCE-PROTEO FARE SAPERE per rimettere in moto quel protagonismo del mondo della scuola che aveva contraddistinto gli anni ’70/80.
Allora si trattava di dare forma, metodologie e contenuti ad una scuola solo enunciata nella Costituzione e tutta da realizzare, oggi di rilanciare l’autonomia scolastica.
Ma perché è necessario “rilanciare l’autonomia”?

L’AUTONOMIA NON È UNA RIFORMA QUALUNQUE

L’autonomia che siamo chiamati a difendere fa parte di quelle riforme che sono state realizzate per attuare i principi della Costituzione.
In Italia il sistema scolastico del dopoguerra si è caratterizzato per una sostanziale continuità con il passato fascista e addirittura prefascista, fatta ovviamente eccezione per il maquillage degli elementi esplicitamente legati al regime tolti immediatamente.
Il dettato costituzionale ha cominciato ad attuarsi e a cambiare il nostro ordinamento scolastico solo negli anni successivi e per tappe attraverso quelle che noi chiamiamo sbrigativamente “riforme”.
Nello specifico gli organi collegiali hanno creato il quadro giuridico per “l’effettiva partecipazione” permettendo che la democrazia partecipativa da valore enunciato nell’ ultimo comma dell’art. 3 divenisse prassi anche nella scuola; l’autonomia scolastica a seguire ha creato il quadro operativo affinché la partecipazione non fosse solo formale dando “potere” e strumenti agli organi collegiali di adeguare la progettazione « ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti» nel territorio ponendo le basi per rendere possibile anche nella scuola un altro pilastro della democrazia: “l’autonoma iniziativa dei cittadini” (art.118); la rendicontazione sociale, lo Statuto delle studentesse e la valutazione di sistema attiene all’art.97 sulla trasparenza della pubblica amministrazione.
La difesa degli organi collegiali e dell’autonomia e la loro completa attuazione non è quindi la difesa di riforme qualunque o la riforma di questo o quel ministro, ma la difesa di norme che, pur con i loro limiti , incompletezze e lacune da emendare, hanno attuato la Costituzione rompendo la continuità con il passato facendo della scuola una comunità gestita in base ai principi democratici, una comunità di cui fa parte anche il dirigente con precisi vincoli molto più stringenti di quanto fosse a guardar bene prima dell’autonomia e durante il regime fascista. Questa è l’autonomia.
Chiarito il perché l’autonomia è così importante per la democrazia e che quindi bisogna far funzionare realmente queste “riforme” , bisogna chiedersi perché l’autonomia è in crisi.

LA CRISI E’ LA MANIFESTAZIONE DI UN DISAGIO REALE

Di fronte all’ importante compito di formare gli studenti ad affrontare le sfide sociali e dell’ambiente di domani che proprio l’autonomia avrebbe dovuto rendere più efficace, la scuola presenta oggi delle criticità che il manifesto elenca compiutamente.
La crisi della partecipazione agli organi collegiali; la crisi delle politiche delle riforme a fronte alla loro concreta applicazione; l’impoverimento delle relazioni interne in ciascun istituto che si esauriscono “in dinamiche prevalentemente individuali,”; il ripiegamento e l’isolamento di chi aveva “scommesso sull’autonomia“, insomma uno strisciante e generalizzato abbandono dell’impegno.
Per rilanciare l’autonomia credo che si debba necessariamente affrontare le radici di questa crisi e capirne il perché, non basta chiamare alla mobilitazione. Credo che il rilancio dell’autonomia parta proprio dal trovare delle proposte per superare questa crisi. Proposte, però, che vadano al nocciolo della questione.
La crisi nasconde un profondo disagio degli operatori della scuola che è maturato in questi anni per il modo con cui sono costretti a lavorare proprio nella scuola dell’autonomia su cui molti avevano “scommesso” e avevo contribuito a realizzare.
Una contraddizione molto dolorosa che spesso disorienta chi ci ha creduto veramente e ha lottato per essa.
Un disagio che, purtroppo, non è una fantasia alimentata dai media, un atteggiamento vittimistico di una categoria o una oscura manovra politica, ma una realtà tangibile perché si vive proprio sul piano professionale e sulla propria pelle.
Un disagio che si sta trasformando in deriva per la mancanza di un’iniziativa comune in cui riconoscersi .Un disagio che ha prodotto quel disimpegno e quel “ripiegamento” che rischia ora di aprire la strada a soluzioni populiste, particolaristiche e autoreferenziali facendo perdere la dimensione comunitaria del sistema scolastico e del lavoro nel proprio istituto esponendo la scuola al rischio di “derive autoritative se non, talvolta, autoritarie” come si paventa nell’appello.

IL RISCHIO DI BUTTAR VIA L’AUTONOMIA PER SBARAZZARSI DELLA CRISI

La tentazione di trovare una soluzione attraverso vie brevi è forte come forte è il disagio e concreto il rischio di “buttar via la stessa autonomia insieme a questa crisi”.
Aderire ad una dimensione regionale del servizio scolastico nell’ambito di un’autonomia differenziata può esercitare una certa attrattiva a fronte di un centralismo che invece di offrire all’autonomia una credibile governance di sistema, come puntavano le stesse norme, si barcamena tra il laissez faire e il dirigismo centralista come abbiamo ampiamente sperimentato anche durante la pandemia e come sta riprendendo piede oggi.
Può essere attrattiva anche l’idea di ridimensionare se non di archiviare gli organi collegiali, l’autonomia e le stesse riforme additate come la causa della burocratizzazione della scuola .
Il malcontento trova infatti nell’autonomia e nelle riforme ad essa correlate un facile capro espiatorio.
Tutta la lamentela sulla burocratizzazione della scuola è alimentata dal fatto che l’autonomia ha introdotto nel lavoro del docente una serie di attività di progettazione, di monitoraggio e autovalutazione oltre alla lezione d’aula che si sono trasformate attualmente in semplici adempimenti e non in attività significative e di conseguenza gratificanti sul piano professionale e riconosciute sindacalmente in modo adeguato come tali, come invece dovrebbero essere.
Non è un segreto ricordare che le critiche all’autonomia e alle riforme provengono anche da settori significativi dell’area democratica, alcuni ossessionati dall’idea che l’autonomia sia il cavallo di troia di una presunta aziendalizzazione della scuola, altri preoccupati che l’autonomia favorisca le scuole private, altri ancora contrariati agli obblighi di rendicontazione , di autovalutazione e valutazione dei risultati che la normativa sull’autonomia e sugli organi collegiali impongono nell’ottica della trasparenza e della partecipazione democratica nei confronti dei genitori e degli studenti e non certo per una logica puramente efficientistica come spesso si crede.
Il pensiero verticale porta poi a ritenere che il superamento della crisi possa passare attraverso la solita leva della formazione dei docenti che è sì una delle condizioni che permette l’autonomia, ma non il dispositivo per superare questo disagio che risiede altrove, come dirò più avanti, e colpisce più duro, se possiamo dire, addirittura il personale con maggiore formazione e più impegnato nelle attività necessarie a far funzionare la scuola perché si sente soverchiato dalle incombenze che si scaricano proprio su chi è più disponibile aprendo la porta ad un burnout diffuso.
Un’ altra via breve, anzi brevissima, è l’aumento dello stipendio, sicuramente sacrosanto, ma che sarebbe un modo per far tacere la categoria se non si toccano le condizioni di lavoro.
Se da una parte c’è il disagio del personale della scuola, dall’altro c’è un atteggiamento diffidente dell’opinione pubblica verso la scuola e i docenti dovuto ai risultati non particolarmente brillanti degli studenti e dalla situazione della dispersione e degli abbandoni che non segna una significativa inversione di tendenza, tanto che si deve ricorrere a misure straordinarie.
Tutto questo costituisce una formidabile sponda ai detrattori dell’autonomia.

MA LA SCUOLA IN CUI LAVORIAMO E’ VERAMENTE LA SCUOLA DELL’AUTONOMIA?

Scrive Berlinguer nella prefazione al volume «Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome» (a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020), “Bisogna essere chiari: è inequivocabile che questa sia ancora la fase di attuazione dell’autonomia; non si può infatti affermare che i vent’anni trascorsi […] abbiano già introdotto sufficiente autonomia nelle scuole».
Questa è un’affermazione politicamente rilevante che è necessario tenere presente nel momento in cui vogliamo parlare di rilancio dell’autonomia.
A questo punto viene da chiedersi. La scuola dell’autonomia è proprio quella che si vive tutti i giorni nella quotidianità dei propri istituti? Oppure quella che viviamo è la brutta copia di un’autonomia che ancora non c’è?
C’è il rischio che gli insegnanti stessi considerino un fallimento l’autonomia e le riforme successive senza averle sperimentate per come erano state pensate.
Berlinguer ci conferma che il processo di riforma del sistema, che lui ben conosce, non si è ancora compiuto del tutto.
Se le cose stanno così la prima cosa da fare per difendere l’autonomia è indicare chiaramente ciò che manca e chiedere con chiarezza che l’autonomia sia completata.

L’ AUTONOMIA INCOMPIUTA

Varato il Regolamento si è creduto o voluto credere che ormai la riforma fosse tutta lì e che bastasse applicare il Regolamento perché l’autonomia si realizzasse per incanto.
Chi per un motivo chi per un altro, chi in buona fede chi con il fine preciso di boicottarla non si è posto il problema di come il lavoro del docente sarebbe dovuto cambiare con l’introduzione della flessibilità sia rispetto agli studenti sia rispetto ai colleghi.
Guardando ciò che è avvenuto allora e la situazione in cui ci troviamo adesso ci si rende conto che il pezzo mancante riguarda proprio il lavoro, come se la professione docente fosse ancora un’attività individuale circoscritta nell’interazione tra il singolo docente e lo studente, orientata alla selezione di una classe dirigente e non un processo collettivo di formazione dei cittadini in cui la comunità scolastica e l’autonomia in sé ( se funzionano) diventano un vero e proprio dispositivo di apprendimento di competenze disciplinari e sociali per gli studenti e per gli adulti.
In particolare non si sono affrontate due questioni che sono determinanti per l’attuazione dell’autonomia.

L’ORGANICO COME RISORSA

La prima riguarda l’organico, cioè l’entità delle risorse umane necessarie al lavoro nella scuola. Appena dopo il varo del Regolamento prese l’avvio una sperimentazione nazionale che prevedeva al posto dell’organico tradizionale conteggiato in base ai parametri della scuola selettiva, l’assegnazione alle scuole di un organico in base al “progetto di autonomia” degli istituti cioè conteggiato in base ai bisogni metodologici necessari nello specifico contesto di ciascun istituto in base all’utenza.
Ci si era resi conto evidentemente che la flessibilità organizzativa e didattica avrebbe richiesto la disponibilità di un organico più ampio di quello strettamente necessario alle lezioni a classe intera e tradizionalmente assegnato in base alle classi da coprire e alle ore curricolari di ciascuna disciplina, un nuovo organico che sarebbe servito per la predisposizione di nuovi contesti di apprendimento con un tempo più lungo, non con attività extracurricolari (vedi doposcuola, recupero o L.A.C.) come si vuole fare oggi, ma per rendere possibile quella riorganizzazione del curricolo disciplinare prevista dal Regolamento, l’operativizzazione del curricolo, la personalizzazione, l’individualizzazione, la sperimentazione e la ricerca.
Lo stretto legame tra organico, organizzazione del lavoro e successo formativo era stato ampiamente dimostrato dalle scuole nelle esperienze di avanguardia degli anni ’70.
Una proposta di organico però subito sepolta e finita nel dimenticatoio, ripresa solo dalla “Buona scuola”, ma, tra un compromesso e l’altro, solo come potenziamento condizionato dall’entità delle quote di personale rimaste a disposizione nelle graduatorie di ciascuna disciplina dopo le assegnazioni ordinarie. Qualcuno direbbe “con il personale residuale” alla faccia del rispetto della professionalità di quei docenti e dei bisogni progettuali delle diverse realtà scolastiche.

IL LAVORO E’ CAMBIATO

La seconda questione riguarda più propriamente le modalità di lavoro dei docenti.
Che ci fosse allora la consapevolezza che l’autonomia avrebbe comportato un’innovazione anche nel lavoro dei docenti è testimoniato addirittura da quanto leggiamo nella piattaforma unitaria di allora dei sindacati (“Un contratto per la scuola dell’autonomia”, Piattaforma CGIL – CISL – UIL Scuola , 2002 – 2005, 13 Giugno 2002) dove si sottolinea proprio la necessità nella scuola per l’attuazione dell’autonomia di “ un’attività organizzata su modelli di lavoro differenziati, professionalità articolate, itinerari di ricerca continui in un contesto relazionale che, oltre a valorizzare l’impegno individuale dell’insegnante, si connoti con una dimensione cooperativa.”
Ancora Berlinguer scrive nel volume citato che l’autonomia è nata per realizzare nella scuola un contesto di lavoro capace di «produrre ricchezza intellettuale, sperimentare metodologie, di fare della partecipazione una condizione essenziale», in altre parole per valorizzare chi vi lavora e gli stessi utenti, studenti e genitori presenti in base al dettato costituzionale in quanto membri della società civile e portatori anch’essi di cultura.
Questo avrebbe comportato prendere in considerazione un orario di lavoro del docente in cui la docenza, le attività di tutoraggio degli studenti, di confronto con le famiglie e di progettazione, monitoraggio, ricerca e sviluppo tra colleghi potessero avere la stessa dignità ed essere messe sullo stesso piano dell’insegnamento in aula.
nascondere il problema di come affrontare l’autonomia sul piano del lavoro sotto il tappeto dei tagli al bilancio senza che nessuno mettesse un limite a questo depauperamento della scuola ha compromesso in modo irrimediabile la “dimensione cooperativa” , la ricerca di nuovi contesti di apprendimento e ha di fatto ristretto l’autonomia alla didattica d’aula facendo credere che la flessibilità nei programmi e nelle metodologie anche con l’aiuto delle TIC fosse sufficiente a raggiungere le finalità che l’autonomia voleva perseguire, confondendo l’autonomia didattica con quella che si chiama libertà di insegnamento.
Una responsabilità anche dell’area democratica. Ciò che è stato sacrificato è stato il “core” dell’autonomia e la vera novità: l’autonomia organizzativa, di sperimentazione, ricerca e sviluppo che richiede tempi e spazi adeguati per realizzarsi.
Se guardiamo con attenzione tutte le riforma successive constatiamo che sono state pensate sulla premessa che ci fosse nella scuola lo spazio e il tempo di agire la “dimensione cooperativa” della professione, da qui la difficoltà oggi nella loro applicazione concreta (ad esempio per i professionali o per l’inclusione)
La realizzazione e il monitoraggio del PDP, del PEI e del Progetto individuale, del Progetto formativo individuale, del Progetto orientamento del PCTO, del curricolo trasversale di educazione civica ecc. ecc., solo per fare qualche esempio, da progettazioni e strumenti operativi di lavoro per i docenti diventano adempimenti con crocettati e taglia e incolla da mettere a verbale e archiviare.
Chi li fa come dovrebbero essere fatti ( e sono in molti per fortuna ) lo fa attraverso il lavoro volontario, al massimo con una mancetta in busta paga.
L’autonomia ha finito per prendere la fisionomia di un decentramento di funzioni amministrative ed è spesso diventata un modo per scaricare sui collegi e i dirigenti la responsabilità dei risultati senza dare né le risorse umane né gli strumenti organizzativi per gestire la flessibilità e la progettualità richiesta dalle norme. Anche i distacchi dei docenti che una volta venivano dati alle scuole per seguire i progetti (segno che erano necessari) sono stati subito eliminati in cambio di…niente.
In altre parole l’autonomia ha dovuto muoversi nelle strettoie di una struttura e di un’organizzazione del lavoro che fa riferimento al modello gentiliano diventandone prigioniera.
Un autonomia fatta con i fichi secchi. Una categoria umiliata due volte sul piano professionale.

QUANDO IL LAVORO E’ DI SERIE A E QUANDO DI SERIE B

Le riforme assegnano un ruolo centrale ai contesti collegiali, al consiglio di classe, ai dipartimenti disciplinari e ad una serie di figure il cui elenco si allunga ogni anno tra cui il coordinatore di classe, illustre fantasma, non previsto neppure da una norma, ma fondamentale per fare del consiglio di classe una vera équipe che può occuparsi della dispersione.
Il coordinatore di classe vale dunque meno del tutor dell’orientamento a cui si vorrebbe riconoscere un punteggio extra per i trasferimenti? I docenti con 9 o 6 classi. che spesso sono i docenti delle aree di indirizzo nelle superiori, non possono materialmente esercitare la “dimensione cooperativa” costretti a passare da una riunione all’altra e a cui si chiede di fare il tutor del PCTO.
Manca uno stato giuridico del personale a misura dell’autonomia, una modalità di comporre gli organici che permetta realmente l’autonomia progettuale, un ordinamento e delle figure professionali che possano essere messe in grado a ciascuno di poter svolgere il proprio lavoro in modo conforme ai compiti richiesti dall’autonomia, un contesto in cui ciò che si impara nei corsi di formazione si possa realmente applicare.
Mentre l’autonomia richiederebbe una collaborazione tra docenti posti sullo stesso piano e un lavoro di pari dignità indipendentemente dai compiti svolti, nella realtà l’unico lavoro riconosciuto professionalmente è quello di cattedra mentre tutto il resto e accessorio, aggiuntivo e soprattutto facoltativo mettendo in difficoltà non solo i dirigenti, ma anche gli stessi collegi e chi ha a cuore la scuola.
Gli aspetti strutturali e organizzativi rappresentano i nodi più delicati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme perché da questi dipende la qualità delle prestazioni professionali in aula e di conseguenza i risultati degli studenti, ma questo sembra non si possa più dire, non a caso i testi di Piero Romei non sono più neppure nella bibliografia dei concorsi.
Rilanciare l’autonomia richiede che ci sia una proposta per “liberare” finalmente il lavoro in modo che possa adattarsi in modo compiuto all’autonomia e alle riforme successive.

IL RUOLO DELLE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI

In questi anni quando si pronuncia la parola “ lavoro” si pensa subito al contratto e non allo stato giuridico e ai compiti che la normativa assegna ai docenti e ai dirigenti dai quali dipende in realtà la qualità del lavoro. L’organizzazione viene vista più da un punto di vista sindacale che professionale confondendo spesso i due piani che vanno affrontati separatamente anche se ovviamente ciascuno è in relazione con l’altro.
Ancora una lettura della piattaforma contrattuale del 2002 chiarisce bene questi due piani.
“ Le risorse vanno attribuite direttamente alle scuole per la individuazione e la gestione delle funzioni obiettivo al fine di valorizzare e sostenere la flessibilità progettuale delle scuole […]
Per quanto riguarda, invece, le figure di sistema: uno specifico intervento legislativo dovrà prevedere la loro istituzione, le modalità di selezione, il reclutamento e la dotazione organica. Solo successivamente il contratto potrà definirne i regimi orari e gli inquadramenti.”
Una precisazione importante. L’idea della necessità di un Middle Management ante litteram.
Per rilanciare l’autonomia mettendo in primo piano il lavoro nella sua interezza e non solo la didattica è necessario chiedere alla politica e al legislatore di ridefinire lo stato giuridico dei docenti su “modelli di lavoro differenziati” e “ professionalità articolate” funzionali ai nuovi compiti che l’autonomia e le riforme richiedono nella loro attuazione.
Oggi questa esigenza è ancor più presente di quanto fosse allora perché sono state introdotte nella scuola una dopo l’altra delle nuove figure che non possono che essere definite di sistema perché devono essere obbligatoriamente presenti in tutte le scuole con gli stessi compiti e nulla hanno a che fare con le funzioni strumentali legate alla specificità dei diversi istituti come il contratto del 2002 ben chiariva.
Il ruolo delle associazioni professionali può essere a questo punto molto importante per aprire una riflessione sul lavoro nella scuola e sulla sua articolazione sulla base degli effettivi compiti che la normativa assegna al personale scolastico per capire quale assetto ordinamentale dovrebbe avere la scuola perché questi compiti possano essere assolti in modo efficace senza mortificare la professionalità di nessuno.
Le associazioni possono avere un ruolo determinante per formulare alla politica delle proposte che valorizzino la professionalità dei docenti.
Le esperienze pluriennali di scuole come l’Istituto Rinascita di Milano, Scuola Città di Firenze e don Milani di Genova, per citare quelle che conosco meglio, essendo sperimentazioni non solo didattiche, ma strutturali ( che lavorano fuori ordinamento per intenderci) hanno potuto individuare dei modelli che possono offrire sicuramente delle idee al dibattito che si vuole animare, ma ciò che è importante e che i tavoli interassociativi che si chiede di costituire nelle scuole possano, sulla base dell’esperienza che il personale vive quotidianamente elaborare una proposta di un nuovo stato giuridico e di un ordinamento che possa permettere di innovare l’organizzazione dando dignità al lavoro.
Ridefinito il contesto in cui operare diventerà determinante il ruolo del sindacato per trovare il modo migliore per tutelare il personale attraverso una revisione contrattuale in grado di riconoscere questa nuova dimensione del lavoro del docente sul piano economico e della carriera.
Invertendo la sequenza il risultato purtroppo cambia di molto.




Esame di Stato primo ciclo: come prepararsi serenamente al colloquio

di Annalisa Filipponi[1]

L’esame di stato conclusivo del primo ciclo dell’istruzione torna nella sua veste conosciuta (tre prove scritte e un colloquio orale) prima della pandemia. La Nota ministeriale informativa n° 4155 del 7 febbraio 2023 del Ministero dell’Istruzione del Merito in relazione al colloquio conclusivo recita: “Il colloquio (DM. 741/2017, articolo 10), condotto collegialmente dalla sottocommissione, valuta il livello di acquisizione delle conoscenze, abilità e competenze descritte nel profilo finale dello studente previsto dalle Indicazioni nazionali per il curricolo, con particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio. Il colloquio accerta anche il livello di padronanza delle competenze connesse all’insegnamento trasversale di educazione civica.

La prima domanda da porsi è quella relativa all’efficacia del colloquio d’esame della Secondaria di I grado, condotto dagli insegnanti di classe a pochi giorni dalla fine della scuola e come ultimo momento di un ciclo di studi, con una modalità che molto spesso si risolve in una carrellata di contenuti raccolti in una “tesina” o con risposte del discente a domande specifiche dell’insegnante quasi esclusivamente correlate alle singole discipline. Una attenta lettura della nota ministeriale nella parte centrale del suo articolato sul colloquio (“particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio”) apre la possibilità a valutare se vi possono essere altre modalità, oltre a quelle conosciute, per condurre un esame che soddisfi appieno la norma e al tempo stesso costituisca un elemento di novità e un’occasione formativa per gli studenti nell’ultima parte e nel primo esame del loro percorso scolastico nel Primo ciclo d’istruzione.

Per questo l’Accademia di Argomentazione e Debate del Friuli-Venezia Giulia- DeAFVG.APS- ha avviato in due importanti Istituti comprensivi del Friuli-Venezia Giulia delle azioni formative per preparare gli studenti e le studentesse a nuove modalità e nuovi moduli didattici che li conducano con rinnovata motivazione al colloquio d’esame. Una delle due esperienze innovative ha carattere sperimentale e introduce il Debate come modalità facoltativa di svolgimento del colloquio d’esame; l’altra invece si sviluppa in alcuni moduli formativi propedeutici al colloquio, liberamente scelti da allievi e famiglie, e utilizza la metodologia del Dialogo euristico peer to peer in Comunità di ricerca oltre a porre le basi del Public Speaking.

Entrambe le sperimentazioni sono tese verso uno sviluppo problematizzante della dialettica argomentativa per costruire, insieme agli studenti e ai loro insegnanti, una modalità che sposti la comunicazione in sede d’esame dalla sola esposizione ad una argomentazione ragionata. Dunque, la finalità che accomuna le due diverse esperienze è quella di poter osservare e valutare le competenze acquisite da ciascun discente nel processo cognitivo maturato nel corso del triennio della Secondaria di I grado.

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L’attività sperimentale condotta in un Istituto vuole verificare gli effetti della trasformazione del colloquio d’esame attraverso l’utilizzo del
Debate, levando quella prova sia dalla sua forma tradizionale (esposizione di un argomento e poi eventuali domande sulle varie materie di studio), sia da forme sperimentali ma trasmissive (redazione ed illustrazione di tesine, power point, ricerche, ecc.). Si tratta di cercare di spostare il focus del colloquio dalla trasmissione di contenuti all’utilizzo, in quella sede, di abilità analitiche, critiche, argomentative e di vere competenze comunicative anche nell’ambito di diversi contenuti, da presentare e rielaborare per sostenere un colloquio d’esame sereno, divertente ma profondo.
Il Debate possiede tutte le caratteristiche per toccare gli elementi sopra citati, nell’ambito di un apprendimento critico in cui l’argomentazione si costruisce per un’azione comunicativa efficace e approfondita. La sperimentazione trasforma il colloquio d’esame in una forma di innovazione didattica di Debate formativo, che non ha alcun valore agonistico, ma permette allo studente di usare la struttura argomentativa come strumento di comunicazione trasversale di contenuti didattici. Le conoscenze disciplinari saranno utilizzate per rendere solida la ricerca documentale, che costituisce la basa strutturale della prova, dato che l’esame si svolgerà a coppie di studenti e in forma dialettica, all’interno di argomentazioni PRO e CONTRO su una Mozione data. La Mozione, comunicata agli studenti una quindicina di giorni prima dell’esame, sarà formulata dai docenti esaminatori e verterà su argomenti afferenti ai curricoli disciplinari e/o di educazione civica analizzati in classe durante l’anno.

Si tratta, dunque, di un modo innovativo di condurre l’esame di stato, in cui lo studente non deve solo assemblare contenuti e argomenti, ma scegliere quali contenuti e quali argomenti supportano la sua posizione (pro o contro) in rapporto alla Mozione. Si tratta della metodologia del Debate, adattata però ad una funzione non competitiva, ma solamente formativa. Ciascun allievo cercherà di convincere la commissione del livello di competenze acquisite lungo il triennio non attraverso la sola trasmissione di contenuti, ma utilizzando i contenuti come elemento cardine della loro rielaborazione cognitiva, che comunicherà tramite argomentazioni a sostegno o a confutazione di una tesi data.

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La seconda esperienza formativa coinvolge gran parte degli studenti di due Scuole secondarie di un Istituto comprensivo e si fonda su un processo formativo che tocca alcuni elementi del Debate e delle pratiche argomentative più collaudate come la Comunità di ricerca e il Public Speaking. Infatti, i moduli su cui si è sviluppato il percorso preparatorio hanno cercato di produrre un processo di apprendimento significativo, al fine di sviluppare un reale apprendimento cognitivo, con l’analisi e, quindi, lo sviluppo di diversi stili comunicativi dentro contesti plurali, con una base argomentativa preparata per cercare di coinvolgere chi ascolta. Il corso preparatorio è stato strutturato su tre cardini didattici:

 

  1. La Comunità di ricerca per un dialogo euristico tra pari (saper ascoltare, rielaborare un pensiero proprio su un testo dato, imparare a comunicarlo in modo corretto ed efficace).
  2. Saper comunicare in modo efficace: il Public Speaking.
  3. Saper tenere il focus in un colloquio rielaborando alcuni collegamenti interdisciplinari raccordandoli tra loro con i connettivi appropriati.

Gli esiti di queste nuove modalità di approccio al colloquio d’esame conclusivo del Primo ciclo dell’istruzione si potranno analizzare solo al termine dell’anno scolastico, ma fin d’ora si può indicare la metodologia formativa proposta, come esperienza vissuta con vero entusiasmo dai/dalle giovani studenti/studentesse che l’hanno scelta.
Le docenti formatrici esperte esterne sono state affiancate, in entrambe le azioni formative, da un docente tutor facente parte della commissione d’esame. Il tirocinio formativo ha visto alunni ed alunne sperimentare il passaggio dalla trasmissione di contenuti (propria delle interrogazioni, anche delle più problematizzanti) allo sviluppo argomentativo di una tesi, incentrata su un’area tematica di interesse. In questo modo alunni ed alunne si confronteranno con un compagno o una compagna che sta sostenendo le tesi opposte in una delle due scuole; mentre trasformeranno l’esposizione di contenuti in una tesi argomentativa nell’altra scuola. Non si tratta di un esercizio di retorica, ma dello sviluppo della competenza che permette di verificare un argomento da diversi punti di vista. In questo modo si forniscono agli studenti competenze che rendono attivo l’ascolto, che permettono anche nella fase adolescenziale di affrontare questioni complesse, che consentono di esporre le proprie ragioni e ascoltare quelle degli altri interlocutori, ma solo dopo aver analizzato attentamente la Mozione o l’argomento scelto non sull’onda di un’interlocuzione basata sull’improvvisazione emotiva, ma attraverso un approfondimento centrato sul lavoro preparatorio.

L’attività così progettata sposta le potenzialità argomentative da un indistinto luogo libero (in cui ognuno può dire quello che vuole) ad un esame di stato in cui la qualità della propria argomentazione viene valutata nella sua profondità, pertinenza, coerenza logica, anche nello scambio dialogico, dalla commissione d’esame. Si cerca di passare, in questo modo, dall’esposizione di una “tesina” o dall’illustrazione di un power point, ad una prova di dialettica argomentativa dentro una vera prova di realtà qual è l’esame di stato.

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Il colloquio d’esame si trasforma, dunque, in una vera prova esperta, dentro il campo reale dell’argomentazione, cogliendo in pieno il senso della nota ministeriale citata.
Il lavoro è ambizioso, ma collega formazione, innovazione e ricerca didattica al fine di sperimentare le potenzialità del Debate e del Dialogo euristico tra pari in Comunità di ricerca in una logica che sposta l’attenzione dello studente dalla comunicazione trasmissiva (propria della scuola) o istintiva (propria dei social) a quella del discorso connesso ad un’organizzazione preventiva del sapere argomentato da comunicare.

Collocare tutto questo in un esame di stato vuol dire cercare di costruire percorsi di senso dentro una preparazione scolastica che, comunque, attesta la fine di un importantissimo ciclo dell’istruzione.

  1. Docente e formatrice. Presidentessa dell’Accademia di Argomentazione e Debate del Friuli Venezia Giulia e della Sezione Friuli Venezia Giulia della Società Nazionale Debate Italia.