Orientamento. Percezioni e considerazioni

bimbo_leggedi Antonio Valentino

I dati delle ultime rilevazioni sulla nostra scuola [1] hanno suscitato – e non solo fra gli addetti ai lavori – grande preoccupazione (anche se l’interesse sembra già svanito);.

I dati che qui si intendono segnalare riguardano in modo particolare

a. le diseguaglianze nei risultati, soprattutto tra Nord e Sud, a partire dalle competenze linguistiche e scientifiche e dalla situazione degli Istituti Tecnici e soprattutto dei Professionali;

b. la dispersione scolastica, che continua a concentrarsi nel passaggio più critico e anche meno presidiato del percorso scolastico del sistema: quello dal primo al secondo ciclo;

c. il disagio scolastico.

I pochi commenti, soprattutto fra addetti ai lavori, citano tra le cause di questi fenomeni – e qui ci si limita a questioni che interrogano chi fa scuola in prima persona –, soprattutto la demotivazione diffusa tra gli insegnanti (legata spesso ad una scarsa considerazione sociale del proprio lavoro, che azzera ogni orgoglio professionale) e la mancanza di una visione condivisa del fare scuola; ma anche un’idea spesso opaca della didattica e della valutazione formativa e la tendenza – sempre fra i docenti – a chiudersi dentro una visione dell’insegnare che trascura di mettere in primo piano la qualità della relazione e l’organizzazione degli ambienti di lavoro.

E l’orientamento?
Quale la sua rilevanza dentro il più ampio tema della dispersione scolastica, a cui pure si collega direttamente?
Riguardo a questo tema, che negli anni passati è stato oggetto di studi, dibattiti, formazione, nella percezione più diffusa sembra consista nell’aiutare i soggetti in formazione a scegliere, con maggiore cognizione di causa, il tipo di scuola più adatta a conclusione del primo ciclo, e i percorsi di vita lavorativa o l’indirizzo di studi universitari dopo la ‘maturità’.
Ma che possa essere una variabile importante della didattica e una attività capace di orientare il fare scuola su una più attenta centralità dello studente, non sembra esserci ancora consapevolezza diffusa tra gli stessi insegnanti.

Eppure, di orientamento, si parla almeno dagli inizi degli anni ‘70.
Si ricorderà che, tra gli Organi Collegiali esterni della scuola del 1974, era previsto il Consiglio scolastico Distrettuale (la cui area geografica di riferimento era, in prima battuta, più o meno uguale a quella degli attuali ambiti), che raccoglieva rappresentanti delle diverse componenti del mondo della scuola – scelti attraverso elezioni – e del territorio. Fra le sue competenze, piuttosto general generiche, solo una attribuzione era chiara: promuovere cultura e attività orientative dentro le scuole, anche col contributo delle rappresentanze politiche territoriali e del mondo del lavoro. E per questa voce – e solo per essa – il CSD disponeva addirittura di risorse finanziarie.
Sulla fine del CSD, e degli Organi collegiali esterni – e le diverse ragioni -, non è il caso qui di addentrarsi.

Comunque la legislazione scolastica successiva, soprattutto dagli anni ’90 ai nostri giorni, se ne è sempre interessata. Anche e soprattutto sotto gli impulsi provenienti dall’Europa che non solo hanno tenuta viva l’attenzione sul tema, ma hanno anche contribuito ad allargarne l’orizzonte. Se ne parla in modo specifico, nel Libro Bianco di Delors (‘93) e in quello di Cresson (‘95); in quest’ultimo, l’accento è posto, come è noto, sul Life Long Learning (LLL).

Conseguenti a queste Raccomandazioni europee, si registrano in Italia direttive e norme che – a partire dalle disposizioni del Ministero Berlinguer e subito dopo da quelle della legge Moratti (L. 53/2003), fino alle disposizioni della L. 107/2015 e oltre – arricchiscono il quadro di riferimento per le scuole. Senza sviluppare però una adeguata cultura dell’orientamento in grado di produrre effetti positivi e duraturi sul sistema scuola.

In altri termini: si è scritto, si è pensato, si è normato, ma la tematica – almeno è questa la percezione più diffusa – è ancora un po’ avvolta in una certa nebulosità che difficilmente permette di produrre iniziative e proposte organiche e incisive per la formazione e l’aggiornamento dei docenti. Non rivolte solo ad aiutare / supportare gli studenti a scegliere percorsi di studio o professionalmente formativi.
E questo anche perché il tema si intreccia, come è noto, con un insieme di altre problematiche socio-culturali, strutturali – difficili da affrontare e risolvere – che finiscono spesso col vanificare sforzi e aspirazioni.

Non è sempre facile anche oggi cogliere in modo diffuso la presenza di pratiche orientative viste come funzioni avanzate di una didattica motivante ed efficace, in grado di aiutare i ragazzi sia a conoscere se stessi e il mondo sempre più complesso che li circonda, sia a sviluppare una mentalità critica, sia a fare scelte consapevoli per il proprio futuro. E una didattica motivante ed efficace dentro pratiche orientative non può non essere volta a liberare le materie scolastiche dalla patina accademica che, soprattutto in passato, ha molto pesato, quasi sempre in negativo; ma anche a riconsiderarle nel loro valore d’uso nella vita quotidiana; anche fuori quindi dalle aule scolastiche.

Un po’ meno difficile, a seguito della obbligatorietà dell’Alternanza Scuola Lavoro (ASL), prevista dalla L. 107, è trovare scuole dove compiti orientativi si concretizzino in esperienze, non specificamente curricolari, dentro ambiti lavorativi disponibili e in iniziative utili, con la presenza di esperti e formatori.
Sappiamo però delle difficoltà e dei problemi di varia natura incontrati dalle scuole al riguardo e della trasformazione dell’ASL in Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO).
E ciò a ulteriore dimostrazione delle difficoltà che ancora incontrano le problematiche orientative a diventare, per le più diverse ragioni, una funzione promettente della didattica, o anche risorsa significativa di una scuola centrata sugli studenti, eccetera, eccetera.
Il livello di rilevanza – di certo non esaltante – attribuita all’orientamento nelle nostre scuole è esemplificato da un dato MIUR relativo allo scorso anno scolastico sul livello di credito del consiglio orientativo delle scuole sulle scelte delle famiglie dei ragazzi che concludono la secondaria di primo grado: oltre un quarto delle famiglie (25,3%) non opta per un indirizzo del secondo ciclo consigliato dalla scuola. A dimostrazione anche del livello – modesto, interpreto – di fiducia delle famiglie nella scuola.
A questo dato se ne affianca un altro: relativo allo scarto tra chi segue il consiglio orientativo e viene promosso e chi non lo segue ed è ugualmente promosso; uno scarto di soli 14,4 punti (94,7% contro 80,2%) [2].
Dato, anche questo, che qualche interrogativo – sul suo effettivo valore – certamente lo pone [3].

La segnalazione.

Riguarda un testo recentissimo: Il futuro oggi. Storie per orientarsi tra studi e lavori (FrancoAngeli 2019) (v. mia scheda allegata) di Ornella Scandella [4].

Il libro, che ha un approccio prettamente divulgativo, si compone di due parti. Nella prima, “Storie di orientamento”, il racconto delle esperienze di gruppi di persone di periodi diversi – dagli anni 50-60 ai nostri giorni – parte dalle narrazioni degli eventi, degli episodi e situazioni in cui sono maturate le scelte e si completa con riflessioni sulle scelte fatte e sull’orientamento in generale. Storie di successo, ma anche storie ambientate in contesti difficili.
Si tratta quindi di un repertorio di esperienze pensato come “strumento sia per far riflettere ciascun lettore sulle scelte fatte, sia da usare nell’ambito dell’attività di orientamento, in particolare secondo l’approccio dell’orientamento narrativo”.

La seconda parte, “Dalle storie alle pratiche di orientamento”, si compone di tre saggi [5].
Il primo offre una lettura interpretativa dell’orientamento che si focalizza sul ruolo dei genitori nel processo di orientamento dei figli; il secondo approfondisce il ruolo della scuola e le pratiche utili a supportare scelte di studio e di lavoro; mentre il terzo – particolarmente stimolante – si interroga sulle visioni dell’orientamento espresse nelle storie e “considera le risorse personali, evidenziate come utili nei percorsi di individuazione delle scelte: la passione, la curiosità, il coraggio, la perseveranza, la capacità di cogliere opportunità, il senso di autoefficienza”.
“Il senso di tali indagini è poterne trarre, come scuola, ispirazione circa decisioni da prendere in campo formativo e professionale e utilizzare le storie nella attività di accompagnamento dei processi di scelta, in contesti scolatici, università e strutture di orientamento. Aiutando così i giovani a capire le forze motrici delle scelte e cosa ne può derivare / cosa può accadere”.


Le ragioni

Una prima importante ragione è il tipo di approccio metodologico (orientamento narrativo [6]) utilizzato. Che avrebbe molto da offrire alle nostre scuole perché spinge sia a guardare – nelle storie specifiche di persone concrete – ai meccanismi intellettivi ed emotivi che si attivano di fronte alle scelte di vita e di studio e al peso delle circostanze esterne e dei condizionamenti socio-culturali; sia a considerare il peso – nelle scelte – delle caratteristiche personali ritenute strategiche[7].
Un approccio di tipo clinico quindi che potrebbe risultare di grande aiuto soprattutto nelle situazioni di disagio sociale e di disorientamento adolescenziale.

Una seconda ragione è rappresentata dai messaggi importanti – che sono anche linee operative sensate – che il libro trasmette attraverso le riflessioni a più voci sulle storie (dei protagonisti, persone in gran parte ‘arrivate’; dell’autrice; degli altri studiosi ed esperti).

Il primo
dei quali è senz’altro che il tema delle scelte a cui sono chiamati i soggetti in formazione richiede, per essere opportunamente affrontato, professionalità e competenze di buon livello da parte delle scuole. Per cui, se le pratiche orientative appaiono oggi scolorite (e la loro irrilevanza spesso marcata), le ragioni potrebbero essere che la formazione specifica delle figure chiamate a farsene carico avrebbe bisogno di essere rafforzata; o che le scuole tendono a non valorizzarle adeguatamente (in termini di spazi orari, di attenzione più mirata e continuativa, ma anche di integrazione delle competenze).

Il secondo messaggio – esplicito soprattutto nei tre saggi della seconda parte – è così traducibile: l’orientamento che può far bene alla nostra scuola, ridarle smalto, renderla attrattiva – e quindi avere un ruolo nella lotta alla dispersione – è di sentirlo per quello che è (dovrebbe essere): funzione avanzata di un’idea di scuola centrata sullo studente e la sua riuscita; e quindi di una didattica in cui le varie pratiche di istruzione e formazione si rafforzano vicendevolmente.

In altri termini, l’efficacia di pratiche orientative – anche nella lotta alla diseguaglianza delle opportunità e al disagio studentesco – è, in buona misura, il risultato di professionalità – coltivate e consapevoli del loro ruolo – che sappiano

  • guardare oltre il disciplinarismo (la chiusura dentro la ‘propria’ disciplina),
  • lavorare insieme ai loro colleghi e far lavorare insieme i ragazzi
  • valorizzare pratiche cooperative in grado di superare la separatezza, rispetto agli insegnanti di ‘materia’, delle figure con funzioni specifiche (counselor, tutor, ma anche genitori).

 NOTE

[1] Soprattutto: Le Rilevazione INVALSI sui livelli di apprendimento rilevati nelle ultime classi delle scuole superiori poche settimane prima dell’esame di stato 2019; L’indagine triennale Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment) sulle competenze dei quindicenni; Rapporto Nazionale curato dall’INVALSI sui livelli di competenza raggiunti dai nostri studenti nelle prove standardizzate nazionali.

[2] Dati non diversi sono riportati in “Repertorio 2018”, voce Orientamento, di Susanna Granello

[3] Un analogo discorso che permetta riscontri sul giudizio orientativo a conclusione degli Esami di Stato del secondo ciclo, rispetto alle scelte degli studenti presenta, oggettive difficoltà ad essere qui riproposto per mancanza di dati complessivi e specifici al riguardo.

[4] Ricercatrice e docente anche in ambito universitario, è autrice di testi importanti sull’argomento. Si segnalano soprattutto, Tutorship e apprendimento, La nuova Italia 1995 e Interpretare la tutorship. Nuovi significati e pratiche della scuola dell’autonomia, FrancoAngeli, 2007

[5] Ne sono autori: del primo, Laura Nota, prof di psicologia dello sviluppo e dell’educazione uniPA); del secondo, Ornella Scandella; del terzo: Salvatore Soresi: studioso dello Studium Patavinum, esperto in psicologia dell’inclusione, orientamento, counseling

[6] “L’orientamento narrativo ha la peculiarità di dare ‘sviluppare la capacità di dare un ordine, un rilievo e un senso ai fatti della vita, diventare capaci di le situazioni nuove e inaspettate, di immaginare il futuro e di progettare soluzioni per costruirlo attivamente’ (Batini, Giusti, 2008)” (p. 149)

[7] Nel testo si citano, tra le altre: 1. saper approfondire e avere curiosità, ma anche conoscersi nelle attitudini e nelle aspirazioni possibili e imparare a valorizzarle; 2. capire i propri bisogni prioritari e sapere dare loro risposte realistiche, sfidando i propri limiti e gareggiando con se stesso; 3. accogliere consapevolmente l’influenza dei contesti di vita (le opportunità che talvolta si aprono inaspettatamente) quando permettono di affrontare al meglio i momenti di transizione.




L’autonomia scolastica deve ripartire (una storia tormentata con segnali di speranza)

di Gabriella Mortarotto

Quando finalmente, dopo un lungo iter legislativo, venne approvato il Regolamento sull’Autonomia scolastica, il mitico DPR 275/1999, l’accoglienza nel mondo della scuola ebbe il tipico andamento delle innovazioni e dei cambiamenti.

Una parte minoritaria (progressista?) la considerò una grandissima conquista e l’inizio di una nuova ripresa dalla stagnazione in cui le scuole si adagiavano ormai da troppi anni; una parte maggioritaria (conservatrice?) iniziò a contrastarla , a profetizzare la rottura del sistema scolastico nazionale, la causa certa di ogni nefandezza per l’autoritarismo dei nuovi dirigenti scolastici ( nuovo nome dei direttori didattici e dei presidi) .

E quindi? Quindi non successe quasi niente.
Si moltiplicarono le importanti riflessioni degli studiosi   sull’enorme significato dell’autonomia giuridica delle singole istituzioni scolastiche (cioè il potere proprio di azione, non più soggetto ad approvazione da parte di organi di controllo superiore) diventate esattamente come gli Enti Locali , i Comuni.

Non a caso ,copiando le realtà associative dei Comuni, cioè l’ANCI, si inventarono le Associazioni di Scuole autonome ( in Piemonte l’ASAPI, in Lazio l’ASAL ecc.) per dare più forza e più coesione alle innovazioni organizzative, didattiche, di ricerca , ma anche per sostenere con maggior coesione le forti resistenze delle Amministrazioni periferiche, Provveditorati e USR.

Perché infatti non si opponevano alla realizzazione dell’autonomia solo alcune frange delle OOSS, per garantire l’immobilismo confortevole e consolidato dei contratti del personale, non si opponevano –ad eccezione delle scuole più innovative e operose- le note e tipiche resistenze dei docenti al cambiamento, ma anche gli uffici del Ministero che si sentivano esautorati.
(Chi non ricorda le tipiche risposte di alcuni mediocri funzionari se ti azzardavi a chiedere un parere: “Volevi la bicicletta? Adesso pedala…..”.  finale: “…e non rompermi…”)

Eravamo sempre vissuti di quesiti.
Scuole e presidi ponevano quesiti su tutte le materie, quasi sempre ricevendo risposte negative.
Il numero delle circolari esplicative e cogenti era sempre stato impressionante. All’improvviso tutto diventava possibile in autonomia. Tutto? Non proprio.

Gli organici saldamente in mano all’Amministrazione risultavano l’ostacolo–alibi più forte e decisivo. Decisivo per non sperimentare quasi niente delle nuove libertà: flessibilità di orario, di calendario, di innovazioni didattico-metodologiche, di reti di scuole, di convenzioni e relazioni con il territorio, di stipule   di contratti ecc.

Si può sinceramente affermare che per molti anni ( facciamo 10) di autonomia si discusse e sull’autonomia negata si litigò, senza modificare sostanzialmente nulla.
Gli alibi c’erano per altro tutti: risorse ,organici, contratti nazionali e decentrati rigidi e sacri, .. Nel frattempo complicarono la vita anche le leggi regionali sul diritto allo studio e sulla formazione professionale
Nel 2014 arriva la Buona Scuola , importantissimo documento di indirizzo, diventata poi legge 107.
Accidenti! Finalmente si realizzavano tutte le condizioni per attuare l’autonomia: persino l’ORGANICO FUNZIONALE, persino l’AUMENTO delle risorse,persino l’ELIMINAZIONE di alcuni intralci organizzativi , persino la FACOLTÀ (MODERATA) DEI DIRIGENTI di cercare dei docenti coerenti con il progetto della scuola……

Dopo due anni di discussioni vivacissime nel paese (idem come sopra: entusiasti molti, contrarissimi ..molti), le Istituzioni autonome potevano modificarsi, rinnovarsi, migliorare, crescere, sperimentare e…magari con i nuovi contratti vergognosamente in ritardo di anni e anni, accompagnare con le indispensabili modifiche di diritti e di doveri e di retribuzioni incoraggiare anche i ‘nuovi’ docenti nel faticoso,ma esaltante cammino verso il sole dell’avvenire.

Come tutti sappiamo non è andata così.
Dal 1999 la nostra scuola è sempre la stessa, sono calati gravemente i frequentanti, sono calate le risorse, è perso l’interesse dell’opinione pubblica, e ancor di più delle forze politiche.
L’unica battaglia, ancora tutta da cominciare si chiama sempre ancora AUTONOMIA , ma è la richiesta di molte regioni di gestire le deleghe dello stato regionalmente, gestire direttamente le loro scuole, assumere i loro insegnanti, organizzare le loro programmazioni, tenere i loro soldi invece riversarli alle casse dello stato..

Gli ottimisti di buona volontà potrebbero sperare: sì, sarà possibile perché verranno certo definiti finalmente a livello nazionale i L.E.A (livelli essenziali di apprendimento), che come i L.E.P.( Livelli essenziali di prestazioni) nella sanità devono garantire le stesse prestazioni in tutta la nazione !
Non solo,ma sicuramente verrà garantito un Fondo specifico per interventi a favore delle Regioni con maggiori difficoltà (economiche, territoriali, organizzative ecc.) per permettere a tutti di godere di una scuola di un’ istruzione, di una formazione continua adeguata e omogenea.
Staremo a vedere.




Autonomia rafforzata o secessione strisciante?

di Maria Chiara Acciarini

Difficile dire, in questo momento, quale sarà la sorte dei disegni di legge governativi che dovrebbero dare il via all’autonomia differenziata in tre grandi Regioni del Nord: Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Come su altri importanti temi, la discussione all’interno della maggioranza che governa il paese è piuttosto accesa. Basta ricordare la presa di posizione di Zaia e di Fontana di fronte alle proposte di “mediazione” di Conte: «Non firmiamo una farsa. Vogliamo un’autonomia vera, non un pannicello caldo».
È ormai chiaro che la Lega, spinta dai presidenti delle Regioni del Nord, tra i quali spicca, appunto, Luca Zaia, vuole “portare a casa” il risultato. Il Movimento 5 Stelle, forse a causa della crisi interna accentuata dalla batosta subita alle elezioni europee, è più dubbioso, anche se ufficialmente è favorevole alla maggiore autonomia concessa alle Regioni e ne ha accettato l’inserimento nel contratto di governo.

In ogni caso, l’autonomia differenziata potrà anche essere declinata in modo trovare, magari ricorrendo ad artifici degni del manzoniano Azzeccagarbugli, una convergenza fra Lega e M5S, ma è ben difficile che ne vengano realmente corretti gli aspetti più negativi. Si rischia così una spiccata frammentazione di un paese, già drammaticamente diviso sotto molti punti di vista.
Si andrà Verso la secessione dei ricchi? Se lo è chiesto Gianfranco Viesti in un importante saggio in cui esamina le principali conseguenze delle scelte del governo giallo-verde.
Un primo elemento sembra condurre a una risposta affermativa. L’autonomia differenziata è in stadio di avanzata attuazione per le tre Regioni che per prime l’hanno chiesta. Ma anche il Piemonte e la Liguria hanno avanzato le loro domande e il giorno in cui anche queste fossero accolte non esisterebbe più una regione del Nord dotata delle sole competenze ordinarie. Sarebbero tutte o a statuto speciale o ad autonomia rafforzata.

E ci sono due ulteriori, forti elementi di preoccupazione. Il primo: all’interno delle competenze “trasferibili” dallo Stato alle Regioni previste dall’art.116 della Costituzione, si è scelto, in particolare da parte della Lombardia e del Veneto, il passaggio di un numero massiccio di materie (23 per il Veneto, cioè pressoché tutte quelle possibili!). È un approccio marcatamente “ideologico” al tema dell’autonomia differenziata. Si vuole tutto e subito.
Ma non basta. Sono due gli aspetti dell’autonomia su cui i presidenti Zaia e Fontana si rivelano maggiormente attenti: il trasferimento di cospicue risorse finanziarie dallo Stato alle loro Regioni e la regionalizzazione della scuola. Temi assai differenti, ma legati da un visibile “fil rouge”, perché rappresentano entrambi un vero attacco all’unità del paese.

Innanzitutto, Lombardia e Veneto chiedono una compartecipazione fissa alle tasse nazionali (IRPEF e IVA) con cui finanziare le funzioni trasferite. Puntano a tenere sul territorio il 90% del gettito di questi due tributi. È la fine di qualunque principio di redistribuzione delle risorse basate sul principio dell’equità e della perequazione fra i vari gruppi sociali e le differenti parti del paese. Il tutto, tra l’altro, avverrebbe senza che siano stati preventivamente fissati – come, invece, la Costituzione prevede all’art. 117 – i livelli essenziali delle prestazioni, che devono essere validi su tutto il territorio nazionale, e senza quantificare i fabbisogni standard, che devono essere sganciati da qualunque riferimento al gettito fiscale territoriale.

Accanto al trasferimento delle risorse economiche, l’altro grande obiettivo è la regionalizzazione della scuola, sulle cui conseguenze è sufficiente richiamare l’incisivo giudizio espresso da Viesti: «la regionalizzazione della scuola fa storia a sé: è una scelta politica radicale che può indebolire gravemente una delle istituzioni fondamentali per la vita del paese e andrebbe senz’altro evitata». Come non essere d’accordo? Pur con alterne e discusse vicende la scuola è sempre stato uno strumento insostituibile per aiutare a superare le diseguaglianze sociali; ha consentito l’integrazione degli alunni stranieri; ha cercato di garantire a tutte le ragazze a tutti ragazzi le basi culturali per costruire la propria personalità e il proprio progetto di vita.

L’obiettivo dell’autonomia rafforzata sulla scuola richiesta da Veneto e Lombardia – più sfumata la posizione dell’Emilia Romagna, che richiede solo maggiori certezze organizzative – è quello di creare un sistema di istruzione caratterizzato dall’esasperazione dei caratteri provinciali del nostro tessuto culturale e dalla visione miope di una formazione appiattita sulle locali, contingenti esigenze del mercato del lavoro. A cui si potrebbe anche aggiungere un maggior controllo sugli insegnanti, i cui organici diventerebbero regionali. Che ci sia una volontà tutt’altro che latente di limitare la libertà di insegnamento lo dimostra il recente caso della professoressa di Palermo, punita per avere rispettato le opinioni dei suoi alunni e alunne.
A questo punto, più che di autonomia differenziata, si tratterebbe forse dell’inizio di una secessione attraverso con un atto di forte portata simbolica: spezzare quello che Asor Rosa ha giustamente definito «uno dei capisaldi di maggiore unità culturale, ideale, professionale del Paese»: la scuola.




Storia di un infanticidio: a proposito di autonomia scolastica

di Italo Bassotto

“ Io so. Io so i nomi dei responsabili …[ … ] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi responsabili. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.”

Mi perdoni il grande Pier Paolo Pasolini se uso quella sua meravigliosa testimonianza sul Corriere della sera del novembre 1974 al riguardo dei protagonisti della stagione delle stragi nel nostro Paese; ma anche la storia dell’autonomia scolastica è, per me, la storia di una strage. Solo che, anziché una partita crudele fra adulti accecati da opposte ideologie, si tratta di una strage degli innocenti, di una silenziosa uccisione nella culla di una vita nascente, che si affacciava per la prima volta alla speranza di prendere in mano il destino della educazione formale in una struttura che, fin dalla sua origine nello stato unitario dell’Italia di fine ‘800, aveva avuto sulle sue spalle il carico assurdo di “fare gli italiani”…. Già, perché la scuola italiana nacque con questo fardello sulle spalle: non di formare degli uomini che esercitassero le loro qualità intellettuali e morali nel contesto delle regole che governano la nazione, ma di formare degli “italiani”, come se la cultura avesse dei confini e crescesse solo all’ombra di una bandiera.
E che l’assassinio sia avvenuto nel silenzio più totale, se non nel compiacimento dei suoi protagonisti, ne è conferma la natura del dibattito attuale sulla “cosiddetta autonomia differenziata” delle regioni che l’hanno richiesta al governo centrale sulla base di un preciso dispositivo costituzionale. La scuola non può fare parte del “pacchetto” delle autonomie da concedere alle regioni richiedenti, perché essa è “garante della unita della Nazione”: espressione che è la celebrazione linguistica della ipocrisia di massa con cui si nascondono le infinite differenze che caratterizzano le migliaia di istituzioni scolastiche operanti in Italia e che tutte le ricerche intorno alla “qualità” delle scuole hanno confermato negli ultimi quindici anni almeno (dall’ INVALSI al PIRL; dall’ IEA al TIMM ).
La logica vincente (ancora!) è che le differenze non sono nulla rispetto alla funzione unificante che ha il sistema della scuola pubblica italiana. Dove gli unici due legami che fanno pensare ad un possibile “sistema” sono: il controllo ferreo sull’ingresso, la carriera e l’uscita del personale e il valore legale dei titoli di studio; tutto il resto che accade nelle aule, nei corridoi, e nei cortili degli edifici scolastici ha una inevitabile impronta soggettiva, dettata dalle sottoculture professionali ed organizzative, di cui inevitabilmente si riveste ogni istituzione, quando opera dentro contesti socioeconomici e strutturali molto diversi fra di loro.
L’idea di dare spazio vitale, libertà decisionale e carico di responsabilità a questa capacità “adattiva” delle unità scolastiche, mantenendo una dimensione di guida e propulsione al centro del sistema della formazione scolastica, nasceva dalla consapevolezza della impossibilità di un governo monolitico e accentrato di un servizio, che, con la rivoluzione delle tecnologie e la globalizzazione dei mercati e delle conoscenze, non poteva certo essere tenuto insieme da un sistema amministrativo, costituito da una piramide di regole (dalle leggi alle circolari) la cui messa in opera veniva garantita da una struttura gerarchica nella quale gli ultimi della fila erano meri esecutori di volontà altrui, pur essendo i più vicini a coloro che chiedevano qualità, efficacia ed efficienza al servizio educativo scolastico da essi prestato.

Sapevamo tutti, all’alba di questo terzo millennio, cosa significasse introdurre il principio di autonomia in un sistema rigidamente gerarchico e piramidale:
 liberare risorse di creatività e di ricerca professionale degli operatori scolastici;
 togliere i vincoli di dipendenza gerarchica fra le strutture del governo amministrativo, rovesciandone la funzione: da “comando” a “servizio”
 introdurre strumenti e pratiche di “pianificazione strategica” dei servizi educativi scolastici, coinvolgendo le autonomie locali;
 generare nuove infrastrutture di servizio tecnico-professionale a supporto dei servizi predisposti dalle istituzioni scolastiche autonome
 dar vita a sistemi non più piramidali, ma orizzontali di legami interistituzionali per progetti e per scopi condivisi (reti, intese, accordi di programma….)
 promuovere processi di “ricerca e sviluppo” da parte delle scuole in collaborazione con enti di ricerca accademici e non del nostro paese, ma anche a livello internazionale (o per lo meno europeo).

L’ equipe dell’allora ministro Luigi Berlinguer era talmente consapevole della complessità del processo che si andava ad innescare, che venne varata la immagine della “autonomia come cantiere aperto”, ovvero come luogo definito, ma ad un tempo in continua ristrutturazione, grazie ai contributi che ci si aspettava di ricevere dalla cosiddetta “società civile”… Insomma, per tornare alla metafora iniziale del neonato, il DPR 275 era una creatura neotenica, che aveva bisogno di tutto e di tutti per crescere e diventare quel sistema responsabile ed efficace che si auspicava per la scuola del terzo millennio.
Ed invece il piccolo nato venne subito abbandonato a se stesso. La politica che lo aveva generato lo sottrasse immediatamente ai suoi genitori: dimissioni del ministro su un tema che era strettamente legato all’autonomia, come la responsabilità degli insegnanti e la loro valutazione (anche allora si sottraevano i bambini alle famiglie legittime, con scuse banali!); fine della legislatura e nascita di un governo che prometteva la “restaurazione” del sistema scolastico.
L’amministrazione, che aveva capito tutto, (come sempre!) fu ben lieta di continuare come prima: i Direttori Generali a scrivere circolari che interpretavano le norme (in nome e per conto delle scuole, che non lo sapevano fare!), così come i Provveditori che continuarono imperterriti a gestire gli organici, ovvero il budget professionale delle scuole: come volete che fossero autonome ne4lle loro scelte le scuole, se il numero e la specializzazione dei maestri e dei professori erano decisi nelle stanze dell’Ufficio Provinciale… di concerto con le Organizzazioni Sindacali, naturalmente! Non solo, ma ho sentito con le mie orecchie qualche Provveditore interpellato da un Preside o Direttore Didattico (allora si chiamavano così) su questioni un po’ spinose, gridare irritato.
“Avete voluto l’autonomia, e allora tenetevela!”, e così impiegati e persino uscieri….
Non parliamo poi degli Ispettori, già allora in via di estinzione (per un organico sempre sotto dimensionato): alla sparuta ciurma degli “entusiasti” che, consapevoli della forza che l’autonomia dava al ruolo di chi faceva della consulenza e dell’orientamento il motivo del proprio impegno professionale, si aggiungeva il grosso di coloro che, alla constatazione di perdere tre dimensioni della propria identità (il territorio, il segmento scolastico e la disciplina di studio per la quale erano “Ispettori”), precipitarono in una sorta di anomia professionale; ed, infine, coloro che, per ragioni ideologiche, contestavano l’intero impianto delle politiche scolastiche del Ministro I tentativi di creare dei Centri servizi intermedi che facessero da supporto tecnico- professionale al personale direttivo e docente e creassero le condizioni di sinergia tra i piani dell’Offerta Formativa delle Scuole e i piani per il Diritto allo Studio degli Enti Locali, finirono nel dimenticatoio con le dimissioni di L. Berlinguer.
Le OO.SS ebbero buon gioco ad associare l’autonomia alla legge di riforma dei cicli e con la caduta di questa a far diventare il 275 un Decreto di mera importanza metodologica e didattica, caricando sugli insegnanti e sui capi di istituto tutto il peso della “autonomia”… La reazione del personale, ovviamente in queste condizioni, non poteva che essere quella che considerava l’autonomia un semplice aggravio dei carichi di lavoro.
Se a ciò si aggiungono le tortuose strade burocratiche inventate per aggirare i temi caldi della valutazione (delle scuole, degli insegnanti, dei dirigenti e… degli studenti), la proliferazione dei tipi di disabilità, deficit e disagio che andavano accumulandosi nelle rendicontazioni cliniche e cartacee degli alunni da “includere”, le pretestuose elucubrazioni intorno al new deal dei curricoli: la didattica per competenze di cui si impossessò quasi subito l’amministrazione (che non c’entrava niente, ma che era l’unico modo con cui i poteri sulle scuole (politica, sindacato, burocrazia e giustizia amministrativa) sanno imporre le loro volontà … riportarono ben presto le “professioni” educative scolastiche al loro “alveo naturale”, vale a dire la funzione esecutiva e, con essa, la riconduzione al ruolo impiegatizio…
E, dopo vent’anni, il cerchio si chiude; ovvero: “D.C.”, che non è la Democrazia Cristiana, ma una sigla che significa Da Capo, un invito a ripetere una frase o un brano e che si legge in calce ad uno spartito musicale!




L’aziendalismo non è una “invenzione” dell’autonomia, ma arriva da lontano

di Marco Guastavigna

Sono davvero in troppi coloro che cadono nella a sua volta illusoria credenza secondo cui la storia politico-culturale della scuola avrebbe solo 20 anni, con inizio nel 1997. È perfettamente giusto sottolineare la continuità neoliberista di questo periodo, ma dobbiamo evitare di cadere in qualsiasi forma di nostalgia della scuola precedente, che nel suo insieme non adempiva affatto ai propri compiti repubblicani ed era anzi in larga misura luogo di selezione.
Detto in altri termini: non condivido la tesi che l’autonomia scolastica abbia segnato una soluzione di continuità. L’aziendalismo e l’idea dell’istruzione come servizio individuale arrivano da prima. Arrivano da una media concepita prima come unica (1962) e poi come orientativa (1979) e che diventa invece luogo di conferma dei destini socio-culturali.
Gli ultimi due decenni, insomma, sono l’accentuazione spietata della struttura classista della scuola italiana, culminata nella “buona scuola”, ma ereditata dal fascismo e fondata sulla supremazia dei licei e sulla retorica dei saperi “alti” ed esclusivi. Scuola che – dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo – non è mai stata compiutamente democratica e aperta a tutti. Ed è riuscita a rendere asfittica anche la partecipazione attraverso gli organi collegiali.

Quello che abbiamo riportato è un passaggio di un articolo di Marco Guastavigna pubblicato nella rivista Insegnare. Clicca qui per leggere l’intero intervento




Il fallimento dell’autonomia: la sudditanza dei dirigenti scolastici

di Cinzia Mion

Ai motivi analizzati da Mario Maviglia, ne aggiungerei un altro: la SUDDITANZA, invece dell’autonomia, che paradossalmente si è implementata un po’ alla volta nei dirigenti scolastici appena diventati incardinati presso gli Uffici Scolastici regionali e hanno cominciato a sentirsi “dipendenti” dal Direttori regionali. A tale proposito ricordo un episodio emblematico: durante una riunione provinciale dell’Andis, nei primi anni subito dopo l’approvazione del regolamento dell’Autonomia, erano appena uscite le Indicazioni della Moratti, ed io mi sono ritrovata a fare una proposta di analisi critica delle stesse (visto che insieme ad un piccolo gruppo l’avevamo già fatta). Si trattava di spedire il documento al Direttore regionale, visto che nel Codice Etico dei Dirigenti avevamo rivendicato con orgoglio il fatto di non tacere se avessimo individuato degli aspetti di criticità nello svolgimento del nostro lavoro. Stranamente la proposta non è passata. E’ stata anzi accolta con una certa freddezza, aspetto nuovo ed inaspettato. Quando la riunione è terminata sono stata avvicinata da due colleghe fra le più attive della provincia che mi hanno tirato per la giacca e mi hanno detto: “Non possiamo più fare queste cose, guarda che se dimostriamo di non essere d’accordo su qualcosa corriamo il rischio di essere trasferite d’ufficio”
Questo episodio mi ha fatto capire che l’aria era cambiata… Dentro di me ho pensato all’uso efficacissimo che avrei potuto fare sotto l’aspetto politico se fosse successa una cosa del genere, visto che l’analisi critica che era stata prodotta era benissimo argomentata dal punto di vista psicopedagogico.
Alla fine ho espresso nei miei scritti successivi che l’autonomia e il vero senso di cittadinanza si esprime quando ci sentiamo orgogliosi di affrontare disagi e sappiamo rinunciare ad eventuali privilegi (anche soltanto consistenti nell’evitare “sanzioni”), pur di poter esprimere il pensiero critico e l’autonomia di giudizio.




Perché l’autonomia scolastica è fallita?

Un convegno promosso da Gessetti Colorati

Un convegno promosso da Gessetti Colorati

di Mario Maviglia

Sono vari i motivi che hanno portato se non al fallimento sicuramente al depotenziamento dell’autonomia scolastica in Italia.

 

1. Vi è stato in primo luogo un atteggiamento gattopardesco da parte dell’Amministrazione Centrale, impegnata (a parole) a favorire l’autonomia delle scuole, ma in realtà sempre più ossessivamente presente nella vita delle istituzioni scolastiche e non sempre per ragioni di supporto e di assistenza. In fondo, la vocazione centralista del nostro sistema scolastico non è stata mai definitivamente abbandonata. Negli ultimi anni in particolare le scuole sono state letteralmente sottoposte a vere e proprie forme di stalkeraggio burocratico con continue richieste di monitoraggi, relazioni, fornitura di dati, report et similia. In compenso l’Amministrazione ha riversato sulle scuole tutto ciò che poteva essere riversato in termini amministrativi e organizzativi.
La stessa istituzione delle reti di ambito (di cui alla L. 107/2015) può essere letta sotto questa luce, ossia come una ulteriore periferizzazione di una serie di incombenze amministrativo-contabili a carico delle scuole (vedasi l’organizzazione dei corsi di formazione a cura delle reti di ambito).
Va peraltro sottolineato che invece proprio sul piano del supporto su altri aspetti cruciali della vita delle istituzioni scolastiche l’Amministrazione scolastica (in tutte le sue varie declinazioni territoriali) ha dimostrato una grande fragilità mettendo in seria difficoltà la gestione del servizio scolastico da parte delle scuole (si pensi alla gestione delle graduatorie con aggiustamenti e ribaltamenti nel corso dell’anno scolastico, o alla gestione dei concorsi, o ancora all’assegnazione delle risorse finanziarie ecc.).
Difficile realizzare una matura autonomia in una situazione così caotica e problematica.

2. Probabilmente anche da parte delle singole scuole non vi è stata una adeguata percezione delle potenzialità sottese all’autonomia scolastica. C’è da chiedersi infatti quanto siano stati indagati e realizzati da parte delle istituzioni scolastiche i vari ambiti dell’autonomia richamati dal DPR 275/1999 (Autonomia didattica / Autonomia organizzativa / Autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo / Reti di scuole / Iniziative finalizzate all’innovazione).
L’impressione generale che se ne trae (in mancanza di dati empirici ufficiali sulla realizzazione dell’autonomia, e anche questo è significativo) è che alle stesse scuole sia sfuggito il senso e la portata di queste innovazioni e che esse abbiano preferito percorrere i più rassicuranti sentieri dell’ordinarietà e della tradizione. D’altro canto, a discolpa delle scuole e dei suoi operatori, va detto che l’autonomia è prima di tutto una prospettiva culturale e su questo versante poco è stato fatto per formare il personale.
Operare in autonomia vuol dire condividere una certa idea di scuola e di apprendimento, fare gruppo, agire tenendo conto delle caratteristiche e peculiarità del territorio. In quali momenti del loro iter formativo gli operatori scolastici abbiano potuto formarsi su questi cruciali aspetti della professionalità è difficile capire. Uno dei tanti paradossi della scuola italiana è proprio questo: a docenti, dirigenti e personale tutto viene richiesto di operare in una dimensione collegiale e di sistema, ma nessuno si preoccupa di formare le persone a questa dimensione. La formazione universitaria dei futuri docenti è fortemente contrassegnata da un training formativo caratterizzato da azioni a forte impronta individualistica, e la formazione in servizio per i docenti di ruolo spesso trascura la dimensione collegiale.
Come può un processo di autonomia essere implementato e dispiegare le sue potenzialità se questi sono i presupposti?

3.  Anche la figura del dirigente scolastico merita di essere considerata all’interno della riflessione che stiamo facendo. Il DPR 275/1999 delinea, per la verità in modo implicito, una figura di dirigente in grado di dare sostengo e sviluppo ai vari ambiti dell’autonomia elencati sopra. Se però si analizzano i vari bandi di concorso per dirigenti scolastici e i corsi di formazione allestiti dall’Amministrazione scolastica nei confronti dei dirigenti nel periodo dal 1999 ai giorni nostri non sarà difficile scoprire che questi aspetti sono stati alquanto trascurati o trattati in una declinazione essenzialmente amministrativo-burocratica. Oggi il dirigente scolastico si trova soverchiato da incombenze le più disparate (sicurezza, privacy, trasparenza ecc.) che sottraggono tempo ed energie alle dimensioni più vicine ai temi dell’autonomia.
Nella migliore delle ipotesi abbiamo davanti dei tecnocrati che con grande fatica portano avanti l’impresa educativa, intrappolati in una rete di adempimenti ed emergenze che lasciano poco spazio all’eleborazione culturale e (non sia mai!) pedagogica, in questo perfettamente allineati con un management amministrativo ministeriale che sembra sempre più lontano dalla capacità di comprendere e interpretare i concreti problemi del sistema scolastico.
Ma può una scuola intraprendere convintamente e consapevolmente un itinerario di autonomia se la sua figura apicale appare così frastornata nella delineazione di un ruolo che necessariamente deve fare i conti con la promozionalità, la relazione, la comunicazione e la condivisione?

4. Infine non può essere sottaciuto il fatto che anche dopo l’avvio dell’autonomia scolastica non è stata contesualmente avviata la riforma degli organi collegiali, sintomo della difficoltà di dare un contorno più preciso alle istanze di partecipazione attraverso la ridefinizione del ruolo delle diverse componenti all’interno del processo di autonomia. Si è persa l’occasione – almeno fino al momento attuale – di dotare la scuola di organismi partecipativi a supporto dell’autonomia anche in relazione alla complessa gestione del sistema delle azioni previste dal DPR 275/1999, più volte richiamate. Si tratta di immaginare degli organismi che, pur favorendo la partecipazione, possano operare in un’ottica di semplificazione e di snellezza, senza le pastoie burocratiche che sono sotto gli occhi di tutti. Per concludere, non sembra esservi allo stato attuale una reale volontà di sostenere il processo di autonomia delle scuole. E d’altro canto le stesse proposte di regionalizzazione del sistema di istruzione rischiano di istituire tanti “ministeri regionali” ancor più oppressivi e soffocanti rispetto a quello nazionale. Il problema, come si vede, non è solo di ingegneria istituzionale, ma di natura culturale e civile e attiene al significato che si attribuisce al ruolo che la scuola dovrebbe esercitare all’interno della società attuale