IL TERRITORIO COME “AULA DIDATTICA DECENTRATA”: un’utile prospettiva

ripresa_scuoladi Simonetta Fasoli

Ho virgolettato una parte del mio titolo, perché non ho coniato io quella formula, ma il professor Franco Frabboni.
E ho la buona abitudine di non appropriarmi di ciò che non è mio, ma di citare la fonte, sempre.

Parto da qui, in questo fitto discutere su come potrebbe o dovrebbe essere la scuola prossima ventura, in questo ricorrente prefigurare “patti territoriali” con l’impegnativo intento di mettere in relazione scuola e risorse del territorio sotto il medesimo orizzonte educativo.

Perché mi sembra utile riprendere quella formulazione, che trovo più che mai attuale? Perché penso che possa definire il perimetro della funzione della scuola, non in termini difensivi ma progressivi; perché “integrazione” significa concettualmente ed operativamente incontro di diversi e non con-fusione.

“Aula didattica decentrata” ci suggerisce almeno due riflessioni:

1) L’aula come spazio fisico strutturato non coincide necessariamente con un ambiente dell’edificio scolastico, come invece un consolidato immaginario collettivo, ampiamente confermato dall’esperienza, ci induce a pensare. Teniamolo ben presente, in questo particolare frangente in cui i vincoli e le restrizioni del dopo-Covid chiamano in causa uno sforzo comune di ri-progettazione e innovazione sensata.

2) In qualunque contesto materiale collochiamo questo ambiente fisico, nella scuola o negli spazi più ampi del territorio, la sua connotazione essenziale risiede nell’attività di mediazione didattica di cui la scuola e gli insegnanti restano, e a mio avviso devono restare, ESCLUSIVI titolari e responsabili.
Se l’attività didattica propriamente detta viene “ceduta” a soggetti terzi, non siamo di fronte ad un processo di integrazione tra educazione formale e non formale (obiettivo irrinunciabile di qualsivoglia “patto educativo” territoriale) ma ad una interpretazione distorcente del compito di istruzione/educazione che la carta costituzionale assegna in via esclusiva alla scuola. Articolo 34 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti”.
LA SCUOLA, infatti.

Fatta chiarezza su questo punto dirimente, ben vengano le iniziative e le forme di collaborazione sistematica tra le scuole e le agenzie che nel territorio svolgono attività di tipo educativo e culturale. Agenzie, appunto, soggetti del terzo settore, non istituzioni. Leggo documenti articolati ed esaustivi che invito a considerare con grande attenzione. Vorrei trovare, in queste proposte animate da una “vis” pedagogica innegabile, punti chiari e inequivocabili attorno a queste questioni che sto richiamando. Assunti espliciti, per sgomberare il campo da una confusione che non giova certo ad affrontare il difficile passaggio che ci si impone, e a sostenere l’interlocuzione con i decisori politici. I quali, per inciso, sembrano ad oggi navigare a vista, indecisi a tutto.

La privatizzazione a me sembra il principale nodo politico di questa tematica: insidia da troppi anni il sistema pubblico di istruzione, veicolata da processi strutturali che hanno investito il nostro sistema produttivo e le forme di organizzazione sociale. Non vorrei (nel senso che temo fortemente) che lo spazio aperto dall’emergenza Covid-19 che ha colpito in pieno la scuola fosse un capitolo ulteriore, e definitivo, di questa “lunga marcia” cui assistiamo da tempo.

Per questo guardo con molta preoccupazione all’assenza di interventi governativi di tipo strutturale, quali quelli da più parti sollecitati, all’incertezza che continua a dominare le prospettive di riapertura dell’anno scolastico. Combinate con una ambigua o fin troppo allusiva progettazione di un malinteso rapporto tra la scuola e le altre risorse del territorio, preparano scenari di rilevante gravità per il presente e il futuro del sistema pubblico di istruzione.
Attenzione, il rischio è più che un’ipotesi: la “torta” delle risorse finanziarie destinate alla scuola è limitata, ma gli appetiti dell’universo che le gira intorno sono tanti.




Rientro a scuola, il declino del riformismo del M5S

arcobalenodi Gianfranco Scialpi

Rientro a scuola, il riformismo che aveva caratterizzato il M5s si è affievolito. Direi azzerato.
La conferma viene da una deputata del Movimento. Quanta distanza con la proposta di legge che intendeva abrogare le classi pollaio, il contratto di governo giallo-verde e i venti punti programmatici per la nascita del Conte-bis.

 

Rientro a scuola, si ripete il il copione: tra il dire e il fare…

Il rientro a scuola a settembre pare certo. La cautela è d’obbligo. Occorre aggiungere che la riapertura non garantirà lo svolgimento e la conclusione dell’anno scolastico 2020-21 nella modalità attuata a settembre.
Tutto dipenderà dalla curva epidemica. I mesi critici saranno quelli tra dicembre e febbraio. Fatta questa premessa, la mia riflessione si concentra sull’esaurirsi della “spinta propulsiva” che aveva caratterizzato il M5S.
L’emergenza sanitaria e soprattutto la disponibilità di ingenti risorse economiche hanno creato le condizioni per una riforma della scuola, iniziando dall’aula devastata dall’obbrobrio delle classi pollaio imposto dalla scuola dal duo Gelmini/Tremonti.

Nella proposta di legge abrogativa (Lucia Azzolina è la prima firma) sono certificati questi investimenti (il termine costi non si addice all’istruzione): “338.500.000 euro per l’anno 2019, a 1.180.000.000 di euro per l’anno 2020, a 1.715.100.000 euro per l’anno 2021 e a 2.130.000.000 di euro a decorrere dall’anno 2022” (art. 1 comma 2).
Il governo giallo-verde (2018-19) si basava su un contratto. Nella sezione scuola (pag.41) l’abolizione delle classi pollaio era posta come una priorità.
“In questi anni le riforme che hanno coinvolto il mondo della scuola si sono mostrate insufficienti e spesso inadeguate, come la c.d. Buona Scuola, ed è per questo che intendiamo superarle con urgenza per consentire un necessario cambio di rotta, intervenendo sul fenomeno delle cd. classi pollaio, dell’edilizia scolastica, delle graduatorie e titoli per l’insegnamento”.

Nella trattativa per la nascita del Conte-bis il M5s presentava la sua proposta. Al punto 10 si legge: “La scuola pubblica è un bene comune: serve prima di ogni altra cosa una legge contro le classi pollaio e valorizzare la funzione dei docenti”.

La ministra Lucia Azzolina sta sprecando un’occasione

Il suddetto elenco era necessario per comprendere lo sconcerto di fronte alla decisione della Ministra Azzolina di ripiegare su soluzioni tampone come l’uso del plexiglass (costo stimato 400 milioni di €).
La responsabile dell’MI lo sapeva (Proposta di legge) che l’abolizione delle classi pollaio ha un costo complessivo poco superiore ai 5 miliardi di €.
Pertanto non si comprende l’arretramento che, passata l’emergenza, vedrà la solita scuola devastata dalla presenza delle classi pollaio. Lo sconforto è ben sintetizzato dal lungo post di Rina Valeria De Lorenzo (Deputata del M5s) sulla sua pagina Fb.
L’Onorevole spiega i motivi che l’hanno portata a non votare il Decreto scuola (22/2020). Il suo dissenso si basa anche sull’assenza nel provvedimento di una finestra abrogativa le classi pollaio.
Si legge: “ll ritorno a scuola a settembre, pur tra mille incertezze legate all’andamento dell’epidemia, necessitava di scelte straordinarie per scrivere insieme ad un esercito di docenti una nuova pagina di cultura, tradizioni, valori, democrazia, socialità, integrazione che solo l’alleanza educativa tra il maestro e lo studente sa raccontare. Una scuola che ha bisogno di aule e mense, banchi e sedie, cattedre e gessetti e quel pacifico esercito di docenti che con gli studenti anima lo spazio fisico e lo dilata all’infinito nella relazione educativa… Gli illusi e i conservatori della scuola come me, per nulla affascinati dall’enfasi sulla Dad, auspicano un ritorno alle “classi pedagogiche” (cit. U. Galimberti) con un numero ridotto di alunni per classe nel rispetto delle prescrizioni sanitarie e un organico docenti adeguato a realizzare un progetto educativo stabile e continuativo, realizzato da professionisti dell’educazione gratificati anche dal punto di vista economico, non bistrattati socialmente né soggiogati dalla precarizzazione del lavoro che mortifica le professionalità e spegne ogni leva motivazionale.”

La Gelmini lo aveva dichiarato…

Molto probabilmente la Gelmini sarà soddisfatta della conferma della sua creatura!
L’esponente di FI aveva dichiarato (a ragione) a La7 che tutti sono contrari alle classi pollaio, ma nella pratica nessuno ha fatto qualcosa per abolirle.
Si riferiva ai governi Letta e Renzi. Ora, l’elenco deve essere aggiornato al Conte-bis che vede al MI una pentastellata. Che dire?




Classi pollaio, la Ministra Azzolina le ha dimenticate!

matitadi Gianfranco Scialpi

Classi pollaio, la Ministra Azzolina si è sempre opposta alle classi pollaio.
Ora però non ne parla più.
Il suo silenzio, ma sopratutto la sua inazione preoccupa, ipotizzando uno scenario molto preoccupante.

Classi pollaio, la Ministra Azzolina chiedeva l’abolizione

Classi pollaio, la Ministra Azzolina, prima di essere un politico è un insegnante (Dirigente Scolastico in pectore).
La sua esperienza personale ha favorito una netta opposizione alla iattura pedagogica voluta dal duo Gelmini-Tremonti (2008-2009).
In diverse interviste ha sempre manifestato un forte dissenso verso il sovraffollamento delle classi. Soluzione organizzativa che disattende l’articolo 3 comma 2 della nostra Costituzione che impegna la Repubblica a rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Le classi pollaio invece, costituiscono un palese ostacolo creato dalla Repubblica, confermato da diverse sentenze di tribunali amministrativi (Molise, Sicilia, Campania…) e del Consiglio di Stato (2011).
Purtroppo queste nel nostro ordinamento giuridico non hanno alcuna valenza legislativa. L’impegno della Ministra Azzolina ha avuto come suo culmine la Proposta di legge (5 luglio 2018) che presenta lei come prima firma.

Classi pollaio e le decisioni degli Usr

L’emergenza sanitaria rappresenta la migliore condizione per la loro abrogazione. Come ha dichiarato la Ministra Azzolina: “ora tutti si rendono contro che le classi pollaio sono un problema!”
Rappresentano un nodo anche in prospettiva di una eventuale suddivisione della classe. in piccoli gruppi, come ipotizzato dal Comitato tecnico scientifico (Cts)
Non deve gridare allo scandalo la decisione di alcuni Usr di formare classi pollaio. Il loro compito non è legiferare contra legem, bensì amministrare e applicare la normativa vigente.
Su Tecnicadellalscuola.it si legge: “A Roma, ad esempio, in una scuola secondaria superiore, l’Ufficio scolastico per il prossimo anno scolastico ha unito due classi intermedie dell’istituto, rispettivamente con 18 e 16 alunni ciascuna, creandone una unica da ben 34 studenti… Al Liceo Scientifico Statale Luciano Laurana di Urbino, scrive Bravi, vi sarebbe “l’intenzione di concedere soltanto 5 classi, anziché 6: scelta che comporterebbe una classe con ben 32 ragazzi, tra cui un portatore di handicap”.
Una situazione simile è al “Liceo classico, della stessa città, che rischia di avere una prima con 33 alunni e dunque studenti da reindirizzare”.

La Ministra Lucia Azzolina sembra aver dimenticato la sua battaglia

La Ministra qualcosa ha fatto. Ma i 55 milioni stanziati nel decreto Milleproroghe, distribuiti in tre anni,approvato a inizio anno non sono sufficienti ad abbattere il mostro pedagogico che in modo significativo contribuì al prelievo forzoso di 8 miliardi di € (2008).
Non si comprende, ora lo strano silenzio della Ministra Azzolina. Non ne parla più. Soprattutto non si comprende la scelta di non presentare una legge abrogativa ad hoc. L’unico motivo plausibile è che il ritorno a classi pedagogiche di 15 alunni per classe (U. Galimberti) ha un costo enorme.
La proposta di legge stimava una cifra superiore ai 5 miliardi (art. 1 comma 2) per tornare a sperimentare la pedagogia nelle aule.
Lo stesso Presidente Conte ha dichiarato “il rientro a scuola avrà costi ingenti”. Da qui l’ipotetica decisione di risparmiare dove è possibile. La conferma delle classi pollaio risponde a quest’obiettivo.
Stessa lettura deve essere data alla relazione del Comitato tecnico scientifico che demanda alle scuole l’impegno di trovare soluzioni anche nel territorio (biblioteche, teatri, musei…).
La decisione di lasciare alle scuole questo impegno rimanda a un arretramento dello Stato, il quale spera di non dover investire troppo per la riapertura.
Purtroppo la presenza di classi numerose comporterà due-tre turni giornalieri e questo sarà economicamente insostenibile. A questo punto si aprirà lo scenario della didattica mista (soluzione migliore). In alternativa il proseguimento della Dad come unica modalità di lavoro. In quest’ultimo caso si darebbe un colpo mortale alla scuola.




Modeste proposte per prevenire (e per riaprire)

ripresa_scuoladi Stefano Stefanel

L’emergenza coronavirus non permette di vedere con chiarezza come sarà il futuro, sia quello immediato pre-vaccino, sia quello lontano post-vaccino. Alcuni concetti però si sono chiariti, di là da qualsiasi previsione si potesse fare durante la fase pre-pandemica. Riguardano punti cardine della scuola italiana, ma anche della vita sociale e richiedono un’attenta ed equilibrata progettazione per entrare a pieno titolo nel mondo scolastico.

Credo possa essere utile guardare avanti e vedere, dentro tutte le possibili prospettive e soluzioni, quali innovazioni possiamo introdurre fin da subito nel sistema scolastico e quali elementi possono aiutare a curvare il sistema scolastico, anche per dare risposte sensate a un futuro vicino, ma ignoto e temibile.

Il sistema scolastico italiano ha tenuto in modo inatteso durante l’emergenza e i docenti di tutti gli ordini scolastici si sono dimostrati categoria molto più forte, resistente, resiliente, flessibile e concreta di quanto ci si potesse aspettare dall’interno del sistema, ma anche certamente di come supponeva fosse chi la giudicava dall’esterno. C’è un’opinione pubblica oggettivamente colpita dal grande senso di responsabilità e dal grande senso dello Stato dimostrato dalla scuola italiana e questo è un elemento che va giocato bene in funzione della ripartenza. Da varie parti vengono prospettate possibili soluzioni soprattutto sul rientro a settembre a scuola e, giustamente, non ci si avventura in territori più lontani, viste le grandi difficoltà a definire scenari futuribili dentro una simile e inedita pandemia. Ci sono idee che riguardano gli spazi, i materiali, i distanziamenti, i turni, la didattica, i tempi, ecc.: dentro questa enorme variabilità possono trovare cittadinanza delle considerazioni che aprono al lungo periodo, pur avviandone l’attuazione nel breve periodo. Queste “proposte” possono aiutare a gestire le emergenze immediate e anche a modificare il futuro della scuola italiana. Alcuni di questi argomenti toccano alla base proprio l’organizzazione e la struttura della scuola pre-pandemia e dunque devono essere attentamente studiati per produrre soluzioni aperte verso un futuro che, comunque vada, è incerto.

Affronto qui quattro argomenti (presenza a scuola, edilizia scolastica, orario dei docenti e degli ata, catena decisionale), che dovrebbero essere inseriti dentro una nuova idea di sistema scolastico nazionale, in modo da guidare la ripartenza delle scuole a settembre, condizionando tutto il prossimo anno scolastico al fine di aprire verso scenari futuri e attuabili. Per tutti e quattro gli argomenti consiglio di lasciare un po’ da parte il passato e letto con un po’ di più di attenzione il futuro: volutamente mi mantengo dentro la sinteticità di un articolo perché intendo indicare solo l’avvio del percorso, lasciando ai decisori la possibilità di tenere conto o meno di quello che scrivo.

LA PRESENZA A SCUOLA

L’idea che si possa apprendere solo stando fisicamente sempre a scuola è andata in crisi con l’irrompere del lockdown, della didattica a distanza, del nuovo concetto di distanziamento fisico, che purtroppo è stato spesso anche distanziamento sociale. Le Linee guida del CTS, da poco emanate, indicano comunque l’importanza di rivedere alcuni aspetti sociali legati alle piccole patologie (tosse, raffreddore, influenza, ecc.), cioè a tutto quello che veicola contagi. L’emergenza Covid-19 ha fatto comprendere come esiste una vulnerabilità sociale che va di là dalle attese e un mondo che si credeva invincibile e inattaccabile si è trovato esposto alle goccioline, capaci di veicolare una pandemia. Anche in futuro sarà meglio stare in casa più spesso, non considerare la scuola come il luogo naturale del contagio (evidenziato dalla frase, sbagliata, propria del senso comune: “A scuola mio figlio si è preso di tutto”) e bisognerà fare in modo che a scuola meno bambini, meno ragazzi, meno docenti e meno personale sia contagiato anche da piccole patologie. Non è solo questione di distanze, ma anche di igiene, di assenza di sintomi negativi quando si viene a scuola, di attenzione alle temperature, di misure che attenuino la trasmissione di germi e microbi.

Cade così improvvisamente l’idea di eguaglianza, che ha condizionato molta parte della scuola italiana e si rende necessario posizionare il servizio scolastico dentro il concetto di equità ed inclusione, come fa l’ONU nell’Agenda 2030, che nel suo Obiettivo n° 4, dedicato alla Formazione, scrive: “Fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Il passaggio dall’eguaglianza (stessi orari, stessi programmi, stessi giorni di scuola, stessi compiti, stesse interrogazioni, ecc.) all’equità e all’inclusività è già iniziato con meccanismi piuttosto farraginosi (PEI per i diversamente abili, PDP per i DSA e i BES, PAI per coloro che hanno un’insufficienza pur essendo promossi,ecc.), ma quella dell’equità sarà l’elemento caratterizzante il prossimo anno scolastico, dove chi avrà di meno avrà diritto ad avere di più. Gli studenti non saranno tutti sempre presenti, forse non saranno neppure sempre tutti insieme, molti seguiranno percorsi individualizzati o personalizzati: cadendo un’idea generica di eguaglianza, che però ha prodotto enormi disparità, ci si dovrà attrezzare per valutare lo studente dentro il suo percorso “personale” o “individuale” di apprendimento, all’interno di una revisione temporale dei curricoli e delle presenze, con un’attenzione all’uso del BYOD, della didattica a distanza, dei sussidi, dei libri, dei device, dell’intelligenza.

GLI EDIFICI

L’emergenza coronavirus ci ha dato la fotografia di un patrimonio di edilizia scolastica fuori dal tempo, fuori dalle necessità delle scuole, fuori da qualsiasi protocollo di distanziamento fisico, difficile da igienizzare, pensato per una scuola vecchia. Per paradosso sono più attrezzati per il futuro i vecchi e giganteschi edifici dell’Ottocento o dei primi del Novecento con le grandi aule, i grandi corridoi, i grandi “spazi inutili”, piuttosto che gli edifici di ultima generazione con aule piccole per tanti studenti e tutto utilizzato oltre la capienza in classi sempre troppo numerose per spazi sempre troppo angusti.

Quello che più mi stupisce è che non vedo partire nessuna progettualità: i soldi del MES per l’emergenza sanitaria potrebbero permettere di costruire immediatamente tante nuove scuole capaci di garantire i distanziamenti (se serve) e l’adattabilità alla didattica in modo da poter sempre tutelare la salute degli studenti. Invece vedo venire avanti richieste solo minimali di “fare lavori quest’estate”, cioè di adeguare il vecchio al vecchio, dando alle scuole, in cui sono fatti questi lavori pensati prima dell’emergenza, una dote di altri cinquant’anni di spazi inadeguati.

Ritengo, invece, dovrebbero essere percorse due strade parallele:

a) Reperire da subito spazi pubblici e privati per dare alle scuole la possibilità di distanziare i propri studenti, rendendo meno angusta la convivenza in classe di 27,28 e più studenti dentro spazi pensati per 20 studenti, di attivare una grande alleanza sociale col territorio che metta la scuola al primo posto o e permetta di portare avanti il servizio scolastico dentro luoghi pubblici e privati capaci di contenere molte persone. Faccio due esempi “nazionali”: il Lingotto a Torino e i giganteschi Musei sempre deserti all’Eur a Roma. Ma potrei fare una miriade di esempi per tutte (dico proprio tutte) le località italiane.

b) Avviare un grande progetto di Scuole Green, ecocompatibili, con risparmio energetico, con molte possibilità di modifiche modulari interne da affiancare agli edifici tradizionali: tutto questo dovrebbe mettere fine allo scempio di scuole statali che vivono in locazioni private in edifici pensati per altro e alle scuole che continuano a stare dentro edifici non a norma. Faccio un solo un esempio: il Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Sora (Frosinone) è un Liceo di altissimo livello che sta in locazione in un edificio privato inadatto alla scuola e ci sta da moltissimi anni. Questa nuova progettazione di cui parlo non può essere realizzata dagli Enti Locali con progetti propri, ma deve avere nel team di progetto anche la rappresentanza della scuola interessata per pensare e realizzare scuole che rispondano realmente alle esigenze della didattica e della connettività legata alla didattica, argomenti che sono totalmente sconosciuti a progettisti e uffici tecnici.

Ritengo, quindi, sia necessaria una duplice alleanza: con gli enti locali e i soggetti pubblici e privati per aumentare gli spazi a disposizione delle scuole nel prossimo anno scolastico e con gli stessi soggetti per avviare una progettazione di sistema per le scuole, aperta al futuro che ci ha travolto.

 

L’ORARIO DI DOCENTI E ATA

Il dibattito che sta venendo avanti con ipotesi più o meno realizzabili (ore di 40 minuti, classi divise per due o per tre, azioni in presenza distanziati e a distanza con la multimedialità, ecc.) impongono un ripensamento dell’orario del personale, visto che quello del dirigente scolastico proprio non c’è. Credo sia il caso di dirlo che i dirigenti scolastici hanno lavorato senza pause e senza soste, anche nei giorni di festa, senza distinzione tra presenza e smart working, sempre connessi, sempre attivi.

L’attuale spacchettamento dell’orario dei docenti (ore di insegnamento; ore funzionali obbligatorie; ore per supplenze; ore non contabilizzate per preparare le lezioni, per correggere gli elaborati, per valutare; ore per gli esami, ore per l’accompagnamento alle uscite e ai viaggi, ecc.) mi pare sia poco funzionale sia rispetto a quanto accaduto (riunioni on line e didattica a distanza: tutto questo è stato un grande esempio di lavoro, di devozione, di impegno e di sperimentazione), sia rispetto a quello di cui ci sarà bisogno. Io penso sia arrivato il momento di riconoscere con un numero chiaro e semplice qual è l’impegno complessivo annuale dei docenti lasciando poi alla scuola la loro declinazione. Non spetta a me indicare il numero esatto delle ore annuali (a occhio e croce dico che potrebbero essere più o meno 1250), ma in questo orario senza distinzione farei ricadere tutte le ore che servono, appunto, per l’insegnamento, per la funzionalità, per gli esami, per la valutazione degli studenti, per l’accompagnamento nelle uscite e nei viaggi, per la correzione dei compiti e la preparazione degli elaborati, per le supplenze orarie, per il ricevimento genitori, ecc.).

L’articolo 21, comma 8 della legge n° 59 del 15 marzo 1997 (Bassanini uno) spiega chiaramente come si potrebbe fare: “L’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente, anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell’unitarietà del gruppo classe e delle modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali, fermi restando i giorni di attività didattica annuale previsti a livello nazionale, la distribuzione dell’attività didattica in non meno di cinque giorni settimanali, il rispetto dei complessivi obblighi annuali di servizio dei docenti previsti dai contratti collettivi che possono essere assolti invece che in cinque giorni settimanali anche sulla base di un’apposita programmazione plurisettimanale”.

Questo monte ore programmabile per i giorni di scuola o d’esame garantirebbe un utilizzo delle risorse dove è necessario, lasciando giustamente a casa (e in pace) i docenti quando non ci sono cogenti obblighi scolastici. Darebbe, inoltre, la possibilità alle scuole di modulare tempi e orari con progettazioni chiare che mettano il docente nella possibilità di realizzare sia attività seriali (cioè con lo stesso orario tutto l’anno), sia attività legate alle necessità della realizzazione del PTOF, sia attività progettuali. Credo che l’anno scolastico 2020/21 potrebbe essere quello sperimentale e potrebbe indicare un nuovo modo di intendere la funzione docente, legando questo nuovo modello anche ad un rinnovo contrattuale con i giusti aumenti, legati all’evidente risparmio di sistema.

Allo stesso modo ritengo che l’orario degli ata vada declinato su base plurisettimanale a fronte di un monte ore annuale in modo da rispondere alle reali esigenze del servizio e non alla necessità della presenza comunque. Tutto questo nel rispetto dei tempi di lavoro, di una programmazione condivisa, di carichi di lavoro equi, di analisi dei bisogni, degli spazi, delle esigenze più proprie della scuola (didattica, formazione, valutazione).

CATENA DECISIONALE

L’emergenza coronavirus ha evidenziato come la catena decisionale anche nelle scuole debba essere più snella, partecipata, effettiva, efficiente, efficace. I vecchi Organi collegiali devono andare in soffitta per fare posto a strumenti veloci che permettano di verificare le volontà collegiali e confluire in decisioni chiare e tempestive, per far fronte a tutti i problemi. E’ diventato evidente a tutti che l’assemblearismo declaratorio e la puntuale adesione a vecchie strutture decisionali poco aiuta in una situazione critica dove le responsabilità alla fine cadono su una persona sola (sicurezza, privacy, organizzazione del lavoro, attività negoziale, attività contrattuale, controllo degli orari, piani delle attività, gestione amministrativa, ecc.). Credo sia necessario che le scuole si diano una propria governance nel rispetto delle responsabilità monocratiche del dirigente e del coinvolgimento di tutta la comunità scolastica nelle decisioni comuni.

La trita polemica sui “più poteri ai presidi” che fa il paio con quella sui “troppi poteri ai presidi” nulla riesce più a dire sulla realtà della scuola dentro l’emergenza e dentro la società. Laddove ci sono responsabilità monocratiche i poteri devono essere monocratici, laddove è necessaria una progettualità d’insieme devono essere solo fissate linee generali di organizzazione lasciando che le scuole strutturino la propria catena decisione come è necessario nel contesto in cui operano. E’ noto a tutti che i rapporti con gli enti locali, i soggetti istituzionali, i soggetti privati non sono uguali e omogenei in tutta Italia e, dunque un unico sistema di governo della scuola, pensato per la scuola e la società di cinquanta anni fa, non regge più gli avvenimenti, il loro corso, la loro velocità.

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Le mie sono solo modeste proposte per prevenire, aperte al dibattito (se ci sarà) e modificabili (magari in meglio).

 




PRENDERSI LA SCUOLA IN DIFFICOLTA’

arcobalenodi Raimondo Giunta

Si pensava che fosse una dichiarazione dal senno uscita per caso quella dei dirigenti scolastici che alcune settimane fa gridavano “LASCIATECI LAVORARE” e invece era il preannuncio del documento uscito da poco a nome dell’Anp, uno dei sindacati dei dirigenti scolastici, che crede fin dalla sua nascita di essere l’unica voce autorizzata a parlare come si deve della scuola.
Un documento per nulla originale nelle tesi di fondo che inopportunamente e con clamore viene lanciato nei giorni in cui per inadeguatezza crollano i miti delle leadership solitarie, degli uomini solo al comando, perché, come sempre insegna la vita, nei momenti buoni e soprattutto in quelli cattivi il rapporto fiduciario, il dialogo, la collaborazione tra le persone sono gli unici mezzi per fare bene tutto quello che deve essere fatto.

Che cosa vuole l’ANP ?
Di cose ne vuole tante, ma quella che fra tutte le preme è l’eterna richiesta di pieni poteri a scuola, accampata con il pretesto che le difficoltà create dall’epidemia esigano risposte chiare, immediate e indiscutibili.
A questa se ne accompagnano alcune che si dispongono come semplici corollari.
In termini vagamente istituzionali chiede di ridefinire i ruoli del personale della scuola così come le relazioni della scuola con studenti, famiglie e territorio; in termini più comprensibili vuole ridimensionare l’autonomia professionale dei docenti e riformulare l’attuale struttura degli organi collegiali, che di fatto non prevedono un capo che comanda , ma un una persona capace di governare in situazioni di democrazia diffusa .
L’ANP vuole che i dirigenti scolastici siano liberati da ”vincoli e costrizioni che nulla hanno a che fare col principio costituzionale del buon andamento, ma che favoriscono al contrario conflittualità deleterie per il clima relazionale e in definitiva per la funzionalità del sistema”.

Richiamare la Costituzione per cancellare la democrazia nelle scuole e la libertà di insegnamento addebitando ad esse la causa di conflitti e di disfunzionalità è quanto di più grottesco si potesse escogitare .
Sono le parole di chi non conosce né il linguaggio della democrazia, né il linguaggio della pedagogia, né il linguaggio della buona gestione.

Essere liberati da ogni forma di confronto e di controllo non basta; chiedono che in loro soccorso venga creata una stabile struttura intermedia, che consenta di alleggerire di fatto il rapporto diretto del dirigente con gli insegnanti e di allontanarlo dall’immersione nella gestione di un’istituzione, che ogni giorno deve potere stabilire le sue regole e i suoi scopi su una varietà di accadimenti che rischiano di metterla in difficoltà.
Per riservarsi il tempo e lo spazio necessari per pensare orizzonti di più vasta portata…

Il dirigente, però, non potrebbe comandare a proprio piacimento nella scuola, se non potesse disporre secondo propri criteri, insindacabili nel vero senso della parola, di fondi adeguati con cui premiare e fidelizzare gli insegnanti che non fanno storie; anzi, gli insegnanti che fanno la corsa per accaparrarsi incarichi ed emolumenti.
L’ANP chiede “l’incremento dei fondi a disposizione dei dirigenti scolastici per compensare il lavoro straordinario, sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo, del personale docente e ata”
Si noti bene: si parla di fondi a disposizione dei dirigenti scolastici, non della scuola.
Le richieste attinenti all’esercizio libero dei poteri del dirigente scolastico, a mio parere, sono il pezzo forte del documento dell’ANP; le altre, però, non possono essere prese e accettate come ovvietà sulle quali sorvolare, perché di fatto tendono a disegnare una scuola diversa da quella che abbiamo.
Quando si parla di spazi di apprendimento “generalmente schiacciati sulla didattica di aula”, non ci vuole molto a capire che nei desideri di questa organizzazione la didattica a distanza non vuole essere una soluzione di emergenza,ma un’opportunità da sviluppare come struttura di sistema, per le diverse evenienze e comunque a danno della formazione in presenza e della coesione del gruppo classe, con tutto quello che puo’ significare in termini di educazione delle nuove generazioni.
Ne consegue che debbano essere potenziate le infrastrutture di rete e le strumentazioni digitali in tutte le scuole, “per garantire lo svolgimento di attività in modalità sincrona e asincrona”, cioè con attività in cui molti insegnanti diventano assistenti d’aula e che possono non essere pertinenti con quello di cui una classe ha davvero bisogno e con attività svolte da insegnanti per gruppi di alunni lasciati per necessità nei loro domicili .
La fattibilità di questa proposta dipende ovviamente dall’attuazione di un adeguato piano di formazione di tutti i docenti sia dal punto di vista tecnologico sia, soprattutto, da quello didattico.

Per l’Anp nel futuro della scuola non ci sono più le classi omogenee per età, che si succedono le une alle altre secondo un criterio di difficoltà e di complessità crescenti.
La scuola che pensa l’ANP è una scuola a domanda individuale, quella in cui le famiglie scelgono la dieta curriculare per i propri figli e gli alunni si costituiscono in gruppi in funzione delle opzioni fatte.
E’ la scuola a immagine e somiglianza dell’individualismo delle famiglie e che non si pone più lo scopo di essere luogo di educazione all’appartenenza e al senso della comunità.
Solo così si spiega la richiesta dell’incremento degli organici “per garantire insegnamenti differenziati e personalizzati” e quella dello snellimento dei curricoli ordinamentali, per offrire “maggiori opzionalità e facoltatività per le scelte delle famiglie”.

La scuola che si conosce e che dovrebbe restare è un’altra cosa.E’ il luogo in cui si riuniscono soggetti in età di formazione per dare loro la possibilità di pensare il loro avvenire in comune,perché la scuola è apprendere insieme e non ha alcun senso trasformarla in una congerie di vane e impossibili risposte a domande individuali.
Se la scuola non ha un progetto comune per tutti gli alunni, finisce di essere progetto educativo per tutti e se non la si fa funzionare in questo modo, vuol dire che si ha intenzione di cancellare fin dai primi anni di formazione scolastica ciò che può unire le nuove le nuove generazioni.
Ridotta alla misera funzione ancillare delle esigenze delle famiglie l’istruzione non avrebbe più una funzione pubblica, sociale ed educativa eun Governo che si rispetti non puo’ prendere sul serio queste specifiche richieste dell’ANP; significherebbe che non ha alcuna intenzione di proteggere la scuola dalla mercificazione del sapere e dall’individualismo dei suoi utenti.
La scuola pensata dall’Anp non potrà mai essere luogo di convivenza e di integrazione dei diversi. Come non bastasse l’impostazione dell’offerta formativa per insegnamenti differenziati e personalizzati accrescerebbe l’ineguaglianza a scuola, perchè non tutti sanno scegliere gli insegnamenti più convenienti e hanno gli strumenti per scegliere.
All’ANP piace una scuola
che non vuole colmare le fratture sociali; piace una scuola che promette di accentuarle e quindi di riprodurle.
Una scuola che non è quella della Costituzione.

Ai progetti dell’ANP,come a certe velleità autoritarie di certi dirigenti scolastici, è di ostacolo lo stato giuridico dell’insegnante, imperniato sulla libertà di insegnamento, sulla stabilità della sede, sull’orario di cattedra e sulla distinzione tra insegnamento e attività funzionali all’insegnamento, quest’ultime regolarmente quantificate.
Nei progetti dell’ANP invece sarebbe necessario finalmente “superare la rigida delimitazione a 18 ore della tradizionale cattedra” e stabilire l’apertura delle scuole su un arco di 8-10 ore .Ma per fare che cosa?

Se il problema è quello di garantire un sistema di istruzione efficace e rispondente alle necessità del momento e della società, questo problema non trova la soluzione nel dotare di maggiori poteri il dirigente scolastico, ma nel riaffidargli e ricordargli  le sue  responsabilità di leadership morale ed educativa nella propria scuola.
L’autorità di un dirigente scolastico non puo’ fondarsi sul potere di assegnare discrezionalmente premi di incentivazione,sul rafforzamento dei poteri disciplinari, sulla sua posizione gerarchica, sulla sua superiorità nei confronti degli organi collegiali, sentiti eventualmente e a malapena sulle materie più importanti della vita di un istituto.
In una comunità educativa che fa propri i valori della democrazia, del dialogo professionale l’autorità del dirigente scolastico si deve fondare  sulla capacità di fare della propria scuola un modello di convivenza collegiale e culturale.
L’autorità di un dirigente non puo’ derivare dalla somma di tutti i suoi poteri, ma dalla quotidiana testimonianza della propria coerenza tra principi e prassi, dalla capacità di spiegare e giustificare anche in termini morali le proprie decisioni.

Il problema che c’è a scuola è quello di trovare ogni giorno ragioni e significato dell’educare e dell’essere educati.
Chi conosce la fatica del fare scuola sa che non c’è alcun bisogno di padroni, ma di professionisti riflessivi, dotati di scienza, di esperienza e di intuizione creativa.
La scuola ha bisogno di collaborazione, non di intimidazione; di dirigenti che facciano degli insegnanti dei leaders educativi,capaci di iniziativa, e non dei docili  e impauriti subordinati.
La scuola ha bisogno di dirigenti che siano uomini di cultura capaci governare.

L’autonomia ha un senso se viene pensata e gestita per dare diritto di parola, per consentire la partecipazione a tutte le scelte; per valorizzare tutte le professionalità esistenti in ogni singolo istituto.
L’autonomia scolastica funziona efficacemente e dà buoni frutti solo se c’è cooperazione, dialogo tra le componenti professionali .
Senza un reale potere sul proprio lavoro,senza autonomia intellettuale non c’è professionalità e senza professionalità dei docenti non c’è autonomia.
I dirigenti che vogliono comandare e solo comandare devono ricordare che scuole senza gli insegnanti che vi lavorano con il loro sapere, con la loro cultura, con la loro professionalità, con il loro spirito di sacrificio e con la loro dedizione non ne esistono.
Proprio per questa loro ineludibile centralità, laddove c’è ancora qualche traccia di intelligenza pedagogica, ci si preoccupa di assicurare ai docenti le migliori condizioni di lavoro.

L’insegnamento appartiene alla categoria delle attività intellettuali, alle quali togliere libertà e autonomia è togliere l’aria che serve per vivere.
Ai dirigenti che non vogliono intralci si deve ricordare che la libertà di insegnamento ha rilevanza costituzionale e non si piega alle loro interessate e comode interpretazioni e non puo’ essere subordinata alla capziosa interpretazione del buon andamento affidato nelle mani esclusive del dirigente, se non altro perché la responsabiltà educativa a scuola è ancora collegiale e appartiene al Dirigente come ai consigli di classe, come al Collegio dei docenti e al Consiglio di istituto.




Le competenze per ripartire

Per un piano nazionale contro l’analfabetismo funzionale
e per l’apprendimento permanente

spirale

di Fabrizio Dacrema

Dopo la pandemia non c’è futuro per una paese con 11 milioni di analfabeti funzionali, a meno che non ci si rassegni a una società più povera, disuguale e autoritaria.
Le stesse nuove politiche sanitarie post covid centrate sulle capacità di prevenzione (telemedicina, informazioni su contagi, tracciamento, responsabilizzazione dei cittadini) incontreranno gravi difficoltà a causa dell’ampia fascia di popolazione penalizzata dal digital divide e in condizioni di analfabetismo funzionale.

 L’analfabetismo funzionale è incompatibile con le politiche per la ripartenza

Ciò vale in particolare per la popolazione più a rischio, la fascia di età over 65, dove gli analfabeti funzionali e digitali sono più della metà. La maggioranza delle persone anziane dovrà rassegnarsi a una vita inattiva e dipendente? Quale sistema di welfare potrà reggere i costi assistenziali derivanti dal crescente invecchiamento della popolazione destinato a generare una massa enorme di persone marginali, passive e sempre più bisognose di assistenza domiciliare ?

Anche dal punto di vista economico la ripartenza italiana dovrà fare i conti con un sistema produttivo a crescita zero da oltre un ventennio, perché povero di innovazione e conoscenza, e ora messo in ginocchio dalla crisi da covid. Senza una strategia di innalzamento delle competenze della popolazione attiva non sarà possibile puntare su digital e green economy che produrranno nuovi e buoni lavori se le persone saranno in grado di sviluppare le proprie potenzialità cognitive.

La pandemia, inoltre, ha posto ancora più al centro dell’attenzione il tema della sorte della democrazia nella globalizzazione. Yuval Noah Harari nel saggio “Il mondo dopo il coronavirus” ricorda come le emergenze facciano avanzare rapidamente i processi storici e come le alternative tra grande “Grande Fratello” e “più potere ai cittadini”, tra autoritarismo e civismo, tra isolamento nazionalista e solidarietà globale, siano sempre più attuali. La vicenda politica italiana ha già evidenziato il ruolo determinante dei bassi livelli di competenze (in Italia il doppio della media Ocse) nella popolazione adulta nella diffusione di populismi e sovranismi. Cosa che non può non allarmare di fronte al prossimo prevedibile ulteriore aumento di impoverimento, rabbia e ansia per il domani su cui faranno leva le campagne populiste tese ad alimentare paure e odio verso i diversi e a esaltare l’autoritarismo nazionalistico.

La politica è di fronte, sempre citando Harari,  “a scelte oggi che potranno cambiare le nostre vite negli anni a venire”: le politiche per l’apprendimento permanente e per il miglioramento delle competenze dei cittadini sono fra queste.

 Le scelte per la ricostruzione: l’apprendimento permanente tra le priorità

L’indifferenza politica nei confronti del deficit cognitivo italiano non è più possibile. Se non lo affronteremo non riusciremo a realizzare le politiche socio-sanitarie necessarie alla vivibilità della società post covid e alla sostenibilità del welfare. Perderemo larga parte del nostro sistema produttivo obsoleto senza riposizionarci nelle filiere più innovative dell’economia, ci impoveriremo e aumenteranno le disuguaglianze tra la minoranza di high-skilled con professionalità competitive a livello internazionale e low-skilled destinati alla gig-economy e al precariato, diventeremo un paese sempre meno europeo e sempre più chiuso, autoritario e nazionalista.
Cambiare rotta è indispensabile: riforme strutturali, cittadinanza attiva, apprendimento permanente sono le direttrici da seguire per salvarci da questo incubo.
Dall’Europa, con il Recovery Fund, arriverà una quantità davvero consistente di risorse (173 miliardi di cui 81 a fondo perduto) che si aggiungerà a quelle nazionali e a quelle della nuova programmazione 2021-27 dei Fondi Europei: un’opportunità epocale da non sprecare distribuendo denaro a pioggia o, peggio ancora, non riuscendo a spendere.

È urgente un grande dibattito pubblico e un patto tra istituzioni, parti sociali, enti locali  per riuscire a spendere tutte le risorse disponibili, selezionare gli investimenti e realizzare le riforme strutturali necessarie allo sviluppo del paese: digitalizzazione, ambiente, educazione, infrastrutture.

Le politiche per l’apprendimento permanente giocano un ruolo cruciale: un piano contrastare l’analfabetismo funzionale e digitale e la costruzione di un sistema integrato per garantire il diritto al lifelong learning sono indispensabili per la ricostruzione del paese.

Segnali positivi vengono dal mondo del lavoro dove gli interventi di cassa integrazione verranno associati ad azioni di formative e i sindacati rivendicano un piano nazionale di formazione permanente per la  transizione digitale e ecologica. La formazione alle nuove professionalità non può però prescindere da percorsi di miglioramento delle competenze di base per tutti quei soggetti in stato di analfabetismo funzionale. Il paese non può più permettersi di perdere altre occasioni come è accaduto con il reddito di cittadinanza che, privo di condizionalità formative, non ha investito la consistente dotazione finanziaria disponibile per contrastare la principale povertà, quella educativa.

 Una strategia per le competenze

Secondo l’ultima indagine Ocse-Piaac il 28% della popolazione italiana tra 16 e 65 anni è analfabeta funzionale contro una media Ocse del 15,5%. Essere analfabeti funzionali significa essere privi delle competenze indispensabili per vivere e lavorare oggi, significa incontrare grandi difficoltà a leggere, scrivere, fare semplici calcoli, usare un computer o uno smartphone, risolvere problemi della vita quotidiana. L’analfabetismo funzionale è oggi il principale degli ostacoli che, secondo la Costituzione, la Repubblica deve rimuovere perché “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

L’Unione Europea, già dal 2016 con la  Raccomandazione “Upskilling Pathways” ha indicato l’obiettivo di garantire agli adulti “low-skilled” l’accesso a percorsi di miglioramenti per acquisire un livello minimo di competenze alfabetiche, matematiche e digitali, puntando a raggiungere una qualifica o un diploma.

In Italia nel gennaio 2018 si è tenuta una Conferenza nazionale organizzata dal Ministero dell’istruzione su proposta del Gruppo Nazionale per l’Apprendimento Permanente di cui fanno parte i sindacati confederali, il Forum del Terzo Settore, le Reti dell’istruzione scolastica e universitaria per gli adulti (Ridap, Ruiap, Edaforum). La Conferenza si è conclusa con la proposta rivolta all’intero Governo, ai Ministeri competenti e alla Conferenza delle Regioni di un Piano Nazionale di Garanzia delle Competenze. Purtroppo i Governi della nuova legislatura, iniziata pochi mesi dopo, hanno ignorato questa proposta che, dopo due anni, è ancora affidata a tavoli di elaborazione tecnica.

Di qui l’Appello lanciato dal Gruppo Nazionale per l’Apprendimento Permanente per un piano strategico di innalzamento delle competenze: le risorse ora ci sono, manca la decisione politica.

Il successo del Piano dipende dall’efficacia di alcune azioni. Occorre, innanzi tutto, promuovere la partecipazione con campagne di sensibilizzazione, introducendo condizionalità e conti individuali di formazione, rimuovendo gli ostacoli di tempo e di spazio attraverso congedi/permessi formativi e la formazione a distanza. È importante anche la definizione chiara dell’esito di apprendimento dei percorsi: un pacchetto essenziale di competenze di base e trasversali, una sorta di passaporto per la cittadinanza attiva, utile anche come riferimento per la personalizzazione dei percorsi sulla base della valutazione delle competenze possedute in ingresso. Infine, il sistema della certificazione delle competenze, finalmente avviato anche in Italia, deve essere implementato sviluppando i servizi territoriali: il riconoscimento e la spendibilità degli apprendimenti realizzati nella vita attiva e nei percorsi non formali di apprendimento rappresenta, infatti, una delle più forti motivazione per continuare a imparare.

Un piano di questa portata può riuscire se riconosce il ruolo essenziale dei soggetti del Terzo Settore, le organizzazioni di cittadinanza attiva che, come ha messo in luce l’emergenza sanitaria, sono decisive nello stare accanto ai più vulnerabili e nel coinvolgere le fasce più deboli della popolazione.

Alle istituzioni locali il compito di organizzare reti per l’apprendimento permanente finalizzate al contrasto dell’analfabetismo funzionale e digitale, fondate sull’alleanza tra i contesti di apprendimento formali dell’istruzione degli adulti e quelli non formali del terzo settore.

Queste esperienze di partnership progettuale potranno rappresentare anche un primo nucleo stabile per la costruzione delle Reti territoriali, previste dalla Legge 92/2012 per garantire a ogni persona il diritto all’apprendimento permanente.

Un diritto al centro del “sogno europeo” che, ancor più oggi nel mondo post pandemia, continua a rappresentare l’unica utopia concreta alternativa agli incubi populisti e sovranisti.




Accomodamento ragionevole e determinazione. Proposte per il rientro a scuola

ripresa_scuoladi Raffaele Iosa

 Abstract
Il saggio precisa le ragioni per cui la riapertura urgente delle scuole e dei servizi educativi fin dai centri estivi sono un’emergenza educativa di carattere prioritario, non accessorio, per il futuro del paese.
Le cinque emergenze educative descritte sono presupposti politici, culturali e istituzionali per realizzare con determinazione scelte intelligenti e chiare di ripresa della scuola.
Il saggio propone di adottare il metodo dell’ “accomodamento ragionevole” (ONU 2006), una mediazione scientifica attiva tra ragioni pedagogiche e ragioni epidemiologiche in rapporto all’evoluzione nel tempo della pandemia nei diversi territori del paese e alle esigenze sociali e pedagogiche sempre più urgenti.
Questo approccio interdisciplinare (e ragionevole) suggerisce di non adottare un unico modello rigido di riapertura delle scuole per i tempi, per i modi didattici e organizzativi, per l’utilizzo delle risorse, per le regole di sicurezza, tenuto conto della pluralità e autonomia delle diverse scuole nel paese, e in relazione all’evoluzione della pandemia nel tempo e nei territori. Naturalmente la riapertura deve essere realizzata solo dopo la predisposizione di tutti gli strumenti di prevenzione e tracciamento territoriale. Si propongono qui le alternative possibili al modello rigido unico, suggerendo un meta-metodo di lavoro interdisciplinare che parta dal livello nazionale fino a quello locale, con pratiche di governance continue di corresponsabilità.
Soggetti centrali sono le scuole e gli enti locali, cui è affidata la gestione e responsabilità diretta.
Si suggeriscono anche utili soluzioni originali e innovative sull’utilizzo del personale, degli ambienti del territorio e delle risorse sociali e culturali. Opportuna è la massima chiarezza sugli aspetti contrattuali.
La politica deve con determinazione e coraggio saper scegliere, sulla base integrata delle indicazioni dei diversi approcci tecnico-scientifici e le diverse condizioni territoriali, individuando più scenari da adottare.

 Il rientro a scuola è prima di tutto questione di emergenza pedagogica

Questo studio intende offrire proposte e suggestioni circa l’auspicato rientro a scuola di tutti i bambini e i ragazzi italiani che da fine febbraio 2020 hanno perso l’esperienza comunitaria della vita scolastica a causa della pandemia da Covid-19. Bambini e ragazzi che assieme alla chiusura della scuola hanno vissuto contemporaneamente per mesi la dura esperienza della loro chiusura in casa. Questo doppio confinamento esistenziale, sociale, cognitivo, relazionale è lo sfondo cui il rientro deve essere pensato in chiave formativa e di ripristino delle giuste condizioni di crescita dei nostri figli nella comunità sociale.
Vi è dunque, fin dall’inizio della progettazione di questo ritorno, la necessità di un incontro non facile ma da sviluppare in contemporanea tra due approcci, entrambi necessari: il pedagogico e il sanitario.

  1. L’approccio pedagogico

 Le scienze della formazione, con le loro articolazioni interdisciplinari di carattere pedagogico, psicologico evolutivo, sociologico, antropologico, epistemologico, sono una cosa seria. Sono la pre-condizione del senso della scuola nel suo sviluppo concreto di apprendimenti, di pratiche didattiche, di socializzazione, di educazione alla vita all’autonomia della persona.
La scuola è un sistema pubblico che ha al centro del suo agire la pedagogia, in tutti i suoi aspetti.
Non è dunque possibile che le regole sanitarie non si incontrino dialogicamente con le esigenze educative, è necessario invece un incontro parallelo di mutualità che abbia chiaro gli obiettivi del rientro a scuola come premessa necessaria di qualsiasi regolazione. Ad esempio, se la riapertura fosse centrata solo sul bisogno di guardianìa per i genitori tornati al lavoro basterebbero forme di babysitteraggio educativo, senza ulteriori preoccupazioni. Ma lo sguardo pedagogico ci segnala ben altro di necessità per i nostri figli e nipoti.

E’ questo ben altro pedagogico che il rientro a scuola considera prioritario, in particolare su questi punti:

  • Tornare alla vita. La doppia chiusura delle scuole e dei ragazzi in casa per tre mesi è un evento straordinariamente complesso e difficile, che va compreso e non sottovalutato. Non si tratta solamente degli eventuali segni dolorosi psicologici emersi, ma anche del senso esistenziale ed emotivo che i bambini e i ragazzi danno a questi eventi, sia nei segni negativi emersi sia nelle doti di resilienza che siano stati in grado di realizzare. Si tratta di eventi straordinari di grande portata sociale. SI tratta di bambini e ragazzi tornati prevalentemente figli, con rischi di regressione e di incertezza che vanno risolti il più presto possibile. E’ quindi un’emergenza educativa di fondo la nostra priorità.
  • Garantire eguaglianza delle opportunità. Il confinamento è stato ammorbidito (ma non risolto del tutto) dallo straordinario impegno di migliaia di insegnanti che si sono mossi in tutti i modi per ristabilire la relazione educativa. Perché questo ha voluto dire la Didattica a distanza: non tanto “tradurre la scuola ordinaria con altri metodi a distanza”, ma creare attraverso le macchine virtuali la vicinanza umana e deontologica ai nostri ragazzi. Lo si è fatto in mille modi, ha funzionato meglio quando si è cercato di fare cose diverse dal scimmiottare la lezione tradizionale, ed ha aperto radicali riflessioni negli insegnanti su aspetti fondativi dell’educazione (il valutare, la didattica in sé, il valore dell’ascolto dell’altro, il senso di comunità, ecc..). Insomma una didattica della vicinanza con la nostalgia dell’altro. Non è un caso che le migliori esperienze sono rappresentate dalle soluzioni in cui adulti e bambini si “vedevano e parlavano” attraverso il video. Un’esperienza di massa, nata dal basso, di grande valore civico in cui gli insegnanti hanno espresso un moto professionale che Spinoza avrebbe chiamato di “passioni generose”. Un ricco patrimonio di apprendimento professionale nato dalla necessità, che sarà utile in futuro quanto meno a ri-scoprire la relazione educativa come fondamentale. E anche una mediazione tra analogico e virtuale nell’insegnare e apprendere che non potrà mai essere la Dad sostitutiva della scuola fisica e umana, ma l’e-learnig e le ICT come strumenti di arricchimento degli apprendimenti, non e mai di sostituzione della vita comunitaria in un luogo chiamato scuola (e dintorni).

Detto ogni bene possibile dell’impegno determinato degli insegnanti, è onesto ammettere che l’esperienza ha invece rilevato gravi limiti sui principi fondativi della scuola democratica. L’esperienza ha accentuato il gap tra i ragazzi mainstream e quella fascia di nostri alunni che per varie condizioni (economiche, familiari, di lontananza culturale, per povertà di stimoli, per condizioni di disabilità, disagio sociale e così via) hanno pagato lo scarto in diversi modi e intensità, fino all’abbandono, pur con tutto l’impegno profuso dai docenti. C’è dunque ragione per riaprire quanto prima e meglio possibile le nostre scuole per un’emergenza democratica, pena il dimenticarci dell’art. 3 Costituzione (comma 2…Compito della Repubblica è rimuovere gli ostacoli…che impediscono la realizzazione della persona umana, ecc..). La scuola garante delle opportunità per tutti , capace di non perdere nessuno è una priorità nazionale. Tornare a scuola si deve, quanto prima per loro. Forse anche una scuola diversa da quella di prima della chiusura, scuola in cui non sempre l’eguaglianza delle opportunità veniva effettivamente garantita.

  • Ripristinare la cittadinanza sociale. I bambini e i ragazzi non sono solo studenti o scolari. Sono cittadini a loro modo attivi nella comunità sociale. Dunque è opportuno che non solo la scuola, ma tutto il territorio (famiglie, ente locale, società civile, soggetti sociali, sportivi, culturali del territorio) apra una progettazione del ritorno alla vita. Non può che essere fatto insieme e contemporaneamente alla scuola, pena il rischio che la scuola diventi un’isola in un deserto di incertezze bassa vita comunitaria.

Ci vuole dunque uno spirito attivo di governance locale tra i diversi soggetti, piani integrati territoriali di ricostruzione della vita sociale dei nostri bambini e giovani. Possono esserci molte soluzioni che rispettino le regole sanitarie, ma liberino i ragazzi dalla chiusura. Questa è una vera emergenza di cittadinanza sociale di altrettanta priorità. Scuole, ente locale, società civile insieme.

  • Tornare ad apprendere insieme. Il rientro a scuola non può essere solo un ripasso e un rabbocco dei curricoli non del tutto realizzati quest’anno. Certo si dovrà pensare anche a questo, con modalità flessibili secondo i ragazzi e le scuole, ma è un errore ripartire “da dove eravamo rimasti…”.

E’ successo qualcosa di significativo in questi mesi, si è imparato anche a vivere. Si riportano in classe i vissuti, non solo le tabelline imparate a memoria. C’è dunque da prevedere una fase transitoria (almeno fino a novembre?) di “accomodamento ragionevole” della condizione di ogni alunno ma soprattutto di ritorno all’apprendimento comunitario, cioè “in presenza attiva”, anche con l’utilizzo di tecnologie, questa volta non sostitutive ma complementari. Ciò che conta davvero è la natura dell’apprendere insieme, che prima della chiusura delle scuole non era sempre dignitoso e attivo, ma a volte direttivo e separativo. Questa volta l’insieme che apprende ha anche cose da dire, da raccontare. Sa di più e di diverso. C’è quindi una necessità data dall’emergenza di vita comunitaria di apprendimento tra pari che va compresa e risolta anche con modalità didattiche nuove.

  • Dietro ogni alunno, una famiglia. Anche i genitori hanno vissuto con difficoltà questa difficile fase, sia per la crisi del lavoro, sia per il confinamento, sia per un rapporto con i figli per i quali spesso sono stati tramite attivi con la scuola. Una ri-scoperta di dialogo ma anche un impegno, inutile negarlo, faticoso. E che ha diversi esiti secondo le condizioni delle diverse famiglie. Oggi che i genitori tornano al lavoro, li si carica di un problema complesso e duro circa chi seguirà i figli a casa. Le soluzioni di aiuto modello baby sitter sembrano non risolvere il problema non solo per i costi (e le differenze tra famiglie) ma anzi accentuano l’isolamento dei figli e rappresentano una soluzione posticcia. Dunque anche alle famiglie serve il ritorno a scuola, non come guardianìa, ma come ripristino della massima normalità della vita possibile. I genitori tornano a lavorare, e i loro figli tornano ad essere anche bambini e ragazzi, non solo figli.

Dunque, in sintesi, cinque emergenze pedagogiche (e politiche) impongono la predisposizione del piano di rientro a scuola a settembre 2020, con la presenza attiva di uno sguardo e una priorità pedagogici che accompagnino un positivo rientro dei nostri bambini e ragazzi alla vita da bambini e ragazzi:

  • emergenza educativa di ritorno alla vita da bambino e ragazzo
  • emergenza democratica delle opportunità educative
  •  emergenza di cittadinanza sociale
  • emergenza di vita comunitaria di apprendimento tra pari
  • emergenza delle condizioni familiari

Insomma, un vasto programma, di alta valenza politica istituzionale. Per sanare quella “ferita nel paese” espressa dal presidente Mattarella a fronte della chiusura delle scuole e delle sue conseguenze.

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