Una scuola per l’Europa, fra MES e Recovery Fund

di Stefano Stefanel

In questa strana estate mi sento estraneo e antico e non riesco a stare dietro alle cose della scuola così come fanno molti colleghi dirigenti, molti insegnanti, molti opinionisti, molti sindacalisti, ma anche molti venditori di banchi e di strumenti per sanificare e misurare, in linea di massima anche terrorizzare.
Constato poi, con un certo orrore, che sulla didattica a distanza si è ormai scesi a dibattiti di parte, con qualcuno che vuol proibire una modalità innovativa di didattica a favore di una didattica solo in presenza, che nega il tempo che avanza, ma anche il modo di innovare e migliorare. Possiamo anche ridurre a dodici centimetri la distanza di sicurezza tra un alunno e l’altro per fare stare tutti dove stavano prima, ma non possiamo certo ridurre lo spazio del sapere e nemmeno la naturale coerenza del virus, piuttosto disinteressato – temo – dalle metrature delle nostre aule e dei nostri corridoi.

Da dirigente antico, che ama fare le cose una volta sola e quando serve, non posso non osservare con stupore molti colleghi dirigenti misurare tutto ad ogni battito di Facebook, dentro una logica geometrica e non didattica. I problemi vanno risolti pensando alla didattica non alle lampade a raggi ultravioletti.  Settembre è vicino, ma non proprio alle porte e dunque ancora molto può accadere. Diciamo che non sono attratto dal dibattito in corso, sono piuttosto perplesso sulle molte linee guida, che guidano poco o nulla, sono piuttosto sconcertato da quello che viene detto sugli organici, il numero di alunni per classe e tutto quanto riporta il discorso al punto di partenza, quel 22 febbraio 2020 che mai più ritornerà.

Mi sarei aspettato, e ancora mi aspetto, che la scuola cominci ad appassionarsi al suo futuro europeo e che si scopra Scuola per l’Europa. Credo che tutto quello cui ho accennato sopra sia teoria di retroguardia e che lo sguardo debba sollevarsi sulla pratica e sulla concretezza. Che stanno lì belle in vista e belle forti, in attesa che qualcuno si occupi di loro. Ma poiché Ministro e Ministero, Sindacati e Insegnanti, Personale Amministrativo e Studenti, Famiglie e Opinione pubblica nulla hanno da dire in questo luglio sulla grande concretezza dell’Europa, provo a dire qualcosina io (anche se il tasso di ascolto sarà piuttosto modesto).

Le cose concrete a cui la scuola deve guardare sono due:
1) MES
2) RECOVERY FUND

Il MES 2020 dice che può essere speso per costi “diretti e indiretti legati alla sanità” e quindi in apparenza non può essere speso per la scuola. Le nostre scuole, però, hanno dimostrato limiti enormi laddove c’è stato un problema sanitario e pertanto ritengo che con progetti mirati e precisi, connessi alla pandemia e alla necessità di distanziamento a fini di diminuzione del contagio, potrebbero essere costruite strutture leggere e agili capaci di rispondere alle necessità collegate al distanziamento sociale, soprattutto degli studenti più piccoli. Evidentemente ai costi diretti (palazzine, spazi didattici, ecc.) vanno aggiunti quelli indiretti che renderebbero possibile dotare quegli spazi di personale (educatori, insegnanti, altro personale). La sanità si attua non slo in ospedale, ma anche con forti dosi di prevenzione.

Il RECOVERY FUND invece potrebbe usare 15 dei 209 miliardi per rifare tutte le scuole d’Italia, dotandole di spazi nuovi e modellabili, didatticamente all’avanguardia, grandi. Quei soldi potrebbero far nascere una scuola nuova collegata alle necessità del tempo e non stipata in edifici costruiti per altri scopi educativi e formativi. Per esempio le scuole del Friuli, ricostruite dopo il terremoto, sono state realizzate con aule piccole e corridoi enormi: il contrario di quello che serve oggi.

Chi ragionerà su tutto questo? Gli esperti di edifici o quelli di didattica? Gli ingegneri o gli insegnanti? Il personale del ministero o i dirigenti scolastici? Chi progetterà la scuola del futuro e chi si batterà perché una cospicua parte di quei soldi arrivi alle scuole? Quelli che capiscono cosa veramente serve alla scuola o quelli che sanno progettare edifici belli da vedere e difficili da usare per le pratiche didattiche dell’oggi?

Vedo in giro troppe dichiarazioni generiche e molte task force dove la scuola non esiste o dove la scuola è rappresentata soprattutto da chi a scuola non ci mette quasi mai piede. E soprattutto vedo la scuola del primo ciclo senza una vera rappresentanza nelle istituzioni, mentre è la scuola da cui parte tutto il resto. Esiste,poi, in Italia l’idea assurda che il mondo universitario capisca e conosca quello della scuola: non succede praticamente mai e se c’è una cosa che l’Università non conosce è proprio la scuola. Anche nelle Facoltà di Scienze della formazione, che dovrebbero essere quelle più vicine alla scuola di base, si fa troppa teoria e poca pedagogia reale, tanta didattica frontale e poca didattica per competenze.

Tutti questi soldi che la scuola deve pretendere devono passare da una progettazione scolastica e quindi mi piacerebbe che la scuola alzasse gli occhi dalle misurazioni degli spazi fatte ogni settimana con parametri diversi dalla settimana precedente e cominciasse a chiedere con forza che si esplorino le possibilità del MES e le potenzialità del RECOVERY FUND in funzione didattica. Non servono belle palazzine, belle scuole, begli edifici: servono edifici nuovi costruiti in maniera diversa da come sono stati fatti fino ad ora, funzionali alla scuola e al suo futuro. Abbiamo troppi edifici che si sono rivelati insicuri (il numero di edifici fuori norma è enorme) e inadatti per fronteggiare il nuovo e l’emergenza (e, infatti, usciti da quegli edifici il 24 febbraio rientreremo il 16 settembre, sperando di poter far finta che nulla sia accaduto).

A scuola ci vanno 8 milioni di studenti l’anno e ci lavorano oltre 1 milione di persone. Stiamo parlando di 9 milioni di utenti diretti e almeno altri 18 indiretti (le famiglie collegate a questo mondo). Ma perché 27 milioni di portatori di interesse non devono essere ascoltati? Perché non si comprende che la scuola è il problema centrale della società della conoscenza? Io spero che dalla scuola venga forte la richiesta di essere coinvolta nella progettazione e che questa progettazione non vada per la sua strada cantierando ancora una volta spazi sbagliati e obsoleti. Basta aulette rigide, basta palestrine monofunzionali, basta laboratori adattati a qualunque disciplina, basta computer comprati a caso, basta assenza di banda larga. I miliardi dell’Europa chiedono una Scuola per l’Europa. Che deve essere progettata dalla scuola, non da professionisti di altro.




Di cosa parliamo quando parliamo di ispettori scolastici

di Mario Maviglia

La vicenda del corpo ispettivo nel sistema scolastico italiano rappresenta l’apoteosi della finzione e dell’ipocrisia.
Nessun’altra categoria professionale nella Pubblica Amministrazione ha registrato nel tempo un  misconoscimento – nei fatti – così netto e radicale. Partiamo da alcuni dati di realtà che mutuiamo dall’intervento del collega Ettore Acerra (Sostenere le scuole autonome: la funzione ispettiva) contenuto nel testo Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome, a cura di Marco Campione ed Emanuele Contu, Il Mulino, 2020.

Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso gli ispettori scolastici (allora denominati Ispettori Tecnici Periferici) erano circa 700; già nel 2001 erano diventati 440; attualmente sono 191 in pianta organica, ma alla data del 20 marzo 2020 quelli in servizio effettivo con contratto a tempo indeterminato sono 41 (a questi vanno aggiunti 10 dirigenti tecnici con contratto a tempo determinato nominati in base ai commi 5bis e 6 dell’art. 19 del DLgs 165/2001. I 56 dirigenti tecnici nominati ai sensi del comma 94 della L. 107/2015 hanno concluso il loro incarico triennale nel 2019).

Va sottolineato che il taglio degli organici ha riguardato tutta la dirigenza della PA ma con significative differenze: nel periodo dal 2001 ad oggi, ad esempio, il taglio dei dirigenti amministrativi è stato del 27%, quello dei dirigenti tecnici del 56%. In sostanza, gli ispettori scolastici sono diminuiti percentualmente in misura doppia rispetto ai dirigenti amministrativi. Un altro dato è ancor più significativo per considerare” il “peso” dei dirigenti tecnici all’interno della dirigenza pubblica: se si va ad analizzare l’indennità di posizione percepita dai dirigenti del MIUR in relazione alla “pesatura” dei diversi uffici definita dal decreto dipartimentale n. 11 del 6/03/2015, si può notare un andamento molto interessante. Infatti, man mano che si va dalla fascia D (quella meno retribuita) alla fascia A (la più retribuita) il numero dei dirigenti tecnici decresce progressivamente, mentre quello dei dirigenti amministrativi cresce, come si può evincere dalla tabella:

Fascia A Fascia B Fascia C Fascia D Totali
Dirigenti amministrativi 61 92 37 32 222
Dirigenti tecnici 1 39 62 89 191

Questi dati, nella loro ruvida materialità, restituiscono un’immagine quanto mai veritiera e suggestiva del grado di considerazione che l’Amministrazione e il decisore politico hanno nei riguardi della dirigenza tecnica. (Considerazioni simili potrebbero essere fatte anche a proposito della dirigenza scolastica che, almeno sul piano retributivo, ad esempio per quanto riguarda la retribuzione di risultato, registra significative differenze, in negativo, rispetto alla dirigenza amministrativa. Eppure pochissimi dirigenti amministrativi hanno un numero di addetti alle loro dipendenze equiparabile a quello di una istituzione scolastica di medie dimensioni).

Peraltro, tutto ciò avviene a fronte di una prosopopea normativa che – nella descrizione della funzione tecnico-ispettiva e a fronte dei dati riportati sopra – rischia di suonare tronfia. Infatti, se negli ’70 e ’90 poteva avere ancora un senso e un legame con la realtà quanto veniva stabilito dal DPR 417/1974 (uno dei decreti delegati, poi confluito nel DLvo 297/1994) nel descrivere la funzione ispettiva, oggi la medesima descrizione, contenuta nell’ultimo DM emanato in proposito (il n. 1046/2017),  appare quanto mai inverosimile e sganciato dalla realtà in quanto non considera le effettive forze in campo che possono realizzare gli impegnativi obiettivi ivi riportati.

Più nello specifico, il DPR 417/1974 all’art. 4 (confluito senza modifiche nell’art. 397 del DLvo 297/1994) stabilisce che “La funzione ispettiva concorre, secondo le direttive del Ministro della pubblica istruzione e nel quadro delle norme generali sull’istruzione, alla realizzazione delle finalità di istruzione e di formazione, affidate alle istituzioni scolastiche ed educative. Essa è esercitata da ispettori tecnici che operano in campo nazionale, in campo regionale e provinciale. Gli ispettori tecnici contribuiscono a promuovere e coordinare le attività di aggiornamento del personale direttivo e docente delle scuole di ogni ordine e grado; formulano proposte e pareri in merito ai programmi di insegnamento e di esame e al loro adeguamento, all’impiego dei sussidi didattici e delle tecnologie di apprendimento, nonché alle iniziative di sperimentazione di cui curano il coordinamento; possono essere sentiti dai consigli scolastici provinciali in relazione alla loro funzione; svolgono attività di assistenza tecnico-didattica a favore delle istituzioni scolastiche ed attendono alle ispezioni disposte dal Ministero della pubblica istruzione, dal sovrintendente scolastico regionale o dal provveditore agli studi; prestano la propria assistenza e collaborazione nelle attività di aggiornamento del personale direttivo e docente nell’ambito del circolo didattico, dell’istituto, del distretto, regionale e nazionale. Gli ispettori tecnici svolgono altresì attività di studio, di ricerca e di consulenza tecnica per il Ministro, i direttori generali, i capi dei servizi centrali, i sovrintendenti scolastici e i provveditori agli studi. Al termine di ogni anno scolastico, il corpo ispettivo redige una relazione sull’andamento generale dell’attività scolastica e dei servizi.”

Il DM 1046/2017, contenente l’Atto di indirizzo per l’esercizio della funzione tecnica ispettiva, è un corposo documento di 8 pagine e rappresenta un interessante caso amministrativo di libro dei sogni, assolutamente incurante delle concrete condizioni in cui si esplica la funzione ispettiva oggi in Italia.
Vi si dice che il contributo del Servizio Ispettivo Tecnico “risulta di particolare rilevanza, anche in un’ottica di armonizzazione con le politiche dell’Unione Europea, al fine di realizzare una valutazione di sistema basata su un’analisi della situazione della scuola italiana e della sua evoluzione, sulla individuazione dei punti di forza e di debolezza e sulla rilevazione delle criticità e delle eccellenze.”
Inoltre, nel contesto dell’autonomia, l’attività ispettiva “si rivela fondamentale strumento conoscitivo, valutativo e di miglioramento delle diverse realtà scolastiche.” Il decreto insiste in modo particolare sull’apporto che il Servizio Ispettivo dovrebbe dare nella realizzazione e sviluppo dei Sistema Nazionale di Valutazione, anche attraverso il coordinamento dei nuclei di valutazione delle scuole e il coordinamento dei nuclei di valutazione dei dirigenti scolastici. Ovviamente non vengono trascurati, ed anzi ne sono esaltati, le tradizionali funzioni che già assolvevano gli ispettori: supporto, assistenza, consulenza e formazione alle scuole nel processo di attuazione dell’autonomia scolastica; proposte e pareri sui temi dello sviluppo dei curricoli, della progettazione didattica, delle metodologie, della valutazione; partecipazione a gruppi di lavoro e organismi tecnici; collaborazione per l’efficace attuazione delle misure previste nel PNSD e ne PON; predisposizione delle prove d’esame conclusive del secondo ciclo di istruzione; assistenza alle scuole e vigilanza in occasione degli esami di Stato; controllo e verifica dei requisiti delle scuole paritarie; collaborazione alla realizzazione della formazione in servizio del personale della scuola; accertamenti ispettivi che si riferiscono a situazioni che riguardano aspetti didattici e organizzativi, contabili e amministrativi. Insomma, la funzione ispettiva viene disegnata a tutto tondo.

Ma facciamo due conti. Riferiamoci esclusivamente alla partecipazione degli ispettori al SNV. Abbiamo già visto che, ad oggi, i dirigenti tecnici sono complessivamente 51 (41 a tempo indeterminato, 10 a tempo determinato). Le istituzioni scolastiche funzionanti nell’a.s. 2019-2020 sono 8223 (comprese le sedi sottodimensionate, dati MIUR). Ad ogni ispettore afferiscono quindi 161 istituzioni scolastiche. È vero che la valutazione esterna delle scuole avviene su base campionaria, ma la valutazione annuale dei 7813 dirigenti scolastici (a.s. 2019-2020, dati MIUR) va fatta sull’intera popolazione e non su campione. Ipotizzando che ogni nucleo di valutazione debba valutare circa 20 DS, occorrono 153 nuclei; ogni ispettore dovrebbe coordinare circa 8 nuclei. Data l’impraticabilità di tale operazione, a fronte dell’organico degli ispettori, vengono utilizzati come coordinatori dei nuclei di valutazione dei DS anche dirigenti amministrativi, ispettori in quiescenza, e dirigenti scolastici in servizio e in pensione. Risulta evidente, da questi pochi dati, che l’attuale organico dei dirigenti tecnici non consente di assolvere ad una delle funzioni fondamentali previste dal DM 1046/2017.

È vero che si è in attesa dei bandi di concorso previsti dalla L. n. 159 del 20/12/2019, per il reclutamento di 59 dirigenti tecnici (a decorrere da gennaio 2021) e di ulteriori 87 a decorrere dal 2023. Con questi 146 dirigenti tecnici, uniti ai 41 già in servizio a tempo indeterminato, il numero complessivo degli ispettori in servizio sarà di 187, comunque inferiore ai 191 previsti dal DPCM n. 98 dell’11/02/2014 di riorganizzazione degli uffici del MIUR e della consistenza degli organici dirigenziali. Queste proiezioni sono peraltro oltremodo ottimistiche in quanto ad oggi non c’è ancora il bando per il reclutamento dei primi 59 dirigenti tecnici e se l’espletamento del prossimo concorso richiederà sei (6!) anni come l’ultimo avviato nel 2008 e concluso nel 2014, è facile prevedere che nel frattempo molti dei 41 dirigenti tecnici a tempo indeterminato oggi in servizio saranno già in pensione, considerata l’età media non certo bassa.

Insomma, da qualunque punto si esamini la questione, emerge un quadro a dir poco sconfortante riguardo l’effettiva considerazione di cui godono gli ispettori nel sistema scolastico italiano, al di là della retorica ministeriale. Molteplici sono le ragioni di questo misconoscimento, non ultimo il fatto che da sempre nel nostro sistema scolastico l’apparato burocratico-amministrativo ha da sempre esercitato un potere debordante, piegando alle sue logiche anche la dimensione tecnico-specialistica espressa dai dirigenti tecnici. Non è un caso che in Italia, in modo particolare, il servizio ispettivo è di fatto asservito a quello amministrativo e che non abbia mai preso corpo l’avvio di un servizio ispettivo autonomo, con una propria organizzazione, disciplina e budget. Vien da pensare che la cultura della valutazione e del controllo (di cui i dirigenti tecnici sono espressione, almeno per buona parte delle loro funzioni) non godano di grande stima in questo Paese, che non a caso è uno dei più corrotti al mondo.




E a settembre funzionerà la scuola?

di Raimondo Giunta

Settembre sarebbe stato difficile per la scuola anche senza le incertezze dei dati epidemiologici e delle misure necessarie per garantire la sicurezza al personale della scuola e agli alunni.

Per tanti motivi che solo in malafede si possono scoprire oggi e addebitare all’attuale amministrazione:
1) Tagli ricorrenti del personale docente e del personale ata;
2) Riduzione costante delle risorse assegnate all’istruzione;
3) Edifici inadeguati e spesso non in regola con le norme di sicurezza;
4) Povertà degli spazi e degli arredi;
5) Reclutamento casuale dei docenti;
6 ) Precarizzazione dei rapporti di lavoro;
7) Stipendi da sottoproletari della cultura;
8) Innovazioni curriculari continue e senza fondamento.

Una scuola che di fatto era allo sbando da anni e le cui difficoltà sono cresciute per la pandemia non puo’ d’incanto a settembre mettersi a funzionare a gonfie vele, per di più nel mezzo del più tradizionale gioco italico di non prendersi le proprie responsabilità e di aspettare le altrui decisioni.
A Settembre si potrà iniziare a fare scuola e con non poche difficoltà, se tutti quelli che hanno una qualche responsabilità nel merito faranno tutto quello che è necessario.
Potrà accadere se gli enti locali procureranno in tempo locali idonei e arredati,richiesti dalle scuole sulla base degli iscritti e delle norme anti-covid; se Ministero e CSA saranno in grado di consegnare alle scuole gli insegnanti di cui hanno bisogno,dopo un’attenta riconsiderazione dell’organico di fatto; se si incomincia fin da ora a predisporre le attività didattiche che dovranno essere svolte per consentire il recupero agli alunni promossi con carenze di preparazione ;se saranno formate le classi con i criteri richiesti dalle norme di contrasto alla pandemia; se i docenti sapranno subito a quali classi saranno assegnati; se famiglie,alunni,personale docente e personale  Ata sapranno in tempo a quali classi toccherà la sorte di lavorare nelle sedi decentrate.
E potrebbe non finire qui il catalogo degli impegni,essendo a tutti evidente anche che ognuna delle scelte per fare funzionare la scuola a Settembre potrà essere intralciata e ritardata dalla consueta sequenza di lagnanze,opposizioni e conflitti.
Diciamolo allora.
Senza spirito di sacrificio,senza generosità,senza impegno severo e costante,senza assunzione piena delle proprie responsabilità di tutti gli attori che giocano un ruolo nella scuola e per la scuola a Settembre non sarà per nulla facile iniziare regolarmente le attività didattiche.




Quali patti territoriali per ripartire

di Simonetta Fasoli

Il riferimento è alla Legge 285 del 28 agosto 1997 – Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza

Ho avuto modo di sperimentare sistematicamente forme di raccordo interistituzionale e di progettazione partecipata, attivate ai sensi della Legge 285/97, da preside di una Scuola media statale inserita nel territorio cittadino di Corviale-Casetta Mattei, a Roma. Territorio segnato da aree a forte rischio sociale, da povertà educativa e da fenomeni riconducibili alla dispersione scolastica.

È stato in quegli anni, tra i Novanta e l’avvio dei Duemila, che ho visto da vicino quanto sia decisiva la cosiddetta “qualità culturale del territorio” per affrontare efficacemente i molteplici fattori di disagio sociale. Ho toccato con mano che costruire un “patto territoriale” è processo complesso, che non ammette facili scorciatoie; ho imparato che per alimentare il dialogo istituzioni diverse per livelli e finalità devono riconoscersi non autosufficienti e trovare pazientemente modi per parlarsi oltre i rispettivi steccati e linguaggi.

Eppure, nella difficoltà dell’impresa, ci ha appassionato la posta in gioco. La scuola ha messo a disposizione i suoi spazi per offrire l’opportunità di fare esperienze formative a chi, spesso, si era trovato fuori precocemente dai percorsi formali di istruzione. Dal canto suo, il territorio ha interagito con l’apporto di competenze e risorse che hanno reso praticabile l’integrazione tra il piano formale e quello non formale dei percorsi educativi.
Tutto questo si è retto su un assunto fondamentale: il progetto, qualunque fosse il suo contenuto, aveva tanto più possibilità di realizzarsi con frutti non estemporanei o effimeri, quanto più fosse ben radicato nell’istituzione scolastica il senso della sua funzione. In altri termini, quanto più si assumesse totalmente la responsabilità del suo compito e non la alienasse da sé, “delegandola” agli altri soggetti, cui pure veniva pienamente riconosciuta una finalità educativa coerente con la stessa progettualità posta in essere.
Furono anni impegnativi e appassionanti, anche nella durezza di alcune situazioni umane estreme con cui ci si misurava: l’espressione “seconda opportunità”, in molte storie, stava a significare un vissuto fatto di discontinuità drammatiche.

Credo che, nella evidente diversità dei tempi, molto di quelle esperienze possa ancora ispirare le azioni del presente. Soprattutto sotto un profilo che mi piace qui richiamare: costruire patti territoriali, con l’ambizione che siano “patti di comunità” (a nessuno dovrebbe sfuggire che un territorio non è perciò stesso una comunità…) postula un valore aggiunto di cultura istituzionale; di certo non richiede formule semplicistiche di elusione di quel piano che rende possibile ogni interazione tra soggetti diversi, istituzionali e non, per storia, per natura, per finalità.
Un piano in cui nessuno dei soggetti implicati pensi di poter svolgere una funzione vicaria o sussidiaria rispetto ad altri, perché ciascuno nei limiti della propria azione trova il senso del progetto comune.
Teniamo fermi questi punti, nei tempi immediati e più lunghi che verranno: credo siano bussole necessarie per governare processi che non si prestano a soluzioni forse suggestive ma di sicuro fragili, se non rischiose.




Chiamale se vuoi linee guida

di Raimondo Giunta

Il desiderio di tornare  alla normalità dopo la lunga quarantena con cui ci si è difesi dal coronavirus è giustificabile, ma non dovrebbe travolgere le norme di prudenza alle quali ci si dovrebbe attenere per salvaguardare alunni, docenti e personale della scuola, considerato che non si dispone di un vaccino per contrastare il virus e che nessuno può escludere una seconda ondata della pandemia.
Le linee guida per la riapertura delle scuole risentono di questa incertezza, della modestia delle risorse assegnate, dell’impossibilità di ottemperare alle indicazioni, proposte dal CTS, nel tempo irrisorio di due mesi, agosto compreso.
Solo chi non ha idea dei tempi che si prendono anche le più efficienti amministrazioni può sperare che in questo lasso di tempo  si trovino aule sufficienti e idonee e il personale che manca; che tutti gli enti locali e tutti i CSA facciano avere quello che manca ed è necessario.

Ciò nondimeno è evidente che alcune misure di contrasto al virus bisogna rispettarle. Compito che spetta alle regioni e ai comuni per la predisposizione degli edifici scolastici e per allestire e arredare le aule e gli spazi che necessariamente serviranno e alle singole scuole che dovranno riorganizzare le attività didattiche in funzione della sicurezza degli alunni.

Da quel che si capisce gli enti locali, non tutti, cercano di minimizzare i rischi, per minimizzare gli oneri di cui si devono fare carico e il ministero, col poco che è riuscito ad ottenere, non può forzare la mano e non può andare oltre alcune misure di buon senso.
Il minimalismo in termini di preoccupazione non può evitare, però, che si facciano i doppi turni e che se si fanno i doppi turni è evidente che ci vorrà più personale ATA.
E poi se le classi si dividono in piccoli gruppi, è evidente che ci vorranno più insegnanti, anche se si aumentasse l’orario di servizio come pare si voglia fare; se, infine, si divide la classe, è evidente che si ritorna alla didattica a distanza a turnazione tra i vari gruppi.
L’affidamento alle regioni, ai comuni  e alle singole scuole del compito di assicurare in sicurezza le attività didattiche del nuovo anno scolastico  ha come naturale conseguenza un’ulteriore disarticolazione del sistema di istruzione nazionale, che per necessità sarà declinato in tante versioni quante sono perlomeno le regioni.

I problemi da affrontare sono davvero grandi e richiede un grande spirito di servizio da parte di tutti quelli che sono coinvolti nella responsabilità di fare funzionare il sistema scolastico. Tutto questo non può esimerci, però, dal sottolineare che, considerate le  dimensioni sociali del sistema pubblico di Istruzione e Formazione, l’incidenza che ha nella vita quotidiana di milioni  di persone  e nel futuro della società, alla scuola sono state assegnate le briciole  delle  risorse di cui disporrà il governo ed è stato dato  il minimo di attenzione che meritava, se si voleva dare avvio ad un nuovo ciclo della storia della nostra scuola, come si recita ogni volta che se ne parla.
Per tutti questi motivi   pare  poco opportuna l’enfasi sui gruppi che si formano e si disfano per classi parallele e addirittura per anni diversi; che si possa dare solidità al quotidiano della scuola  con la solita fuga in avanti, nascondendo tra l’altro una perdita di  valore, com’è l’unitarietà  della classe ai fini della crescita dei alunni più giovani.
E  perché si dovrebbe procedere in questo senso?
Per recuperare spazi? Per evitare doppi turni? Accompagnare questa misura con la sollecitazione ad accorpare le discipline in ambiti pluridisciplinari, anche dove in genere non si usa, significa ricostruire da cima a fondo per un intero istituto il curriculum degli alunni, procedere ad un’attività richiede un lavoro immenso e certosino, profondo di lunga durata, se non si vuole buttare tutto in aria.
Un lavoro che va fatto nella collegialità e nella convinzione profonda dei docenti.
Quando? Un lavoro che deve convincere gli alunni e le famiglie.
Quando? E non bisogna dimenticare che in assenza di un organico completo molte delle buone intenzioni rischiano di non andare a buon fine. Se poi si pensa che ogni lezione dovrebbe durare poco più di 40 minuti, sarebbe quanto meno giusto spiegare come si possa andare oltre la lezione frontale con così poco tempo a disposizione, chiamato l’appello e preso atto delle giustificazioni delle assenze degli alunni.

Le scuole vivono dentro le città, ne fanno parte integrante e ne condizionano la vita.
Finora sono state le scuole ad adattarsi; ma con gli ingressi differenziati, la diffusione dei doppi turni e con l’alto tasso di pendolarismo alle superiori dovranno essere le città, i paesi e le regioni ad adattarsi alle scuole.
Non pare che si sia chiaramente consapevoli delle difficoltà che bisogna affrontare e che ci sia la volontà di prenderne atto.
Si cercheranno le scorciatoie, invece, di prendere di petto i problemi.
Una scorciatoia sicuramente è l’idea di affidarsi a patti educativi di comunità  con associazioni di volontariato, addirittura anche per l’assegnazione dei compiti di vigilanza.
Un passo gigantesco verso l’esternalizzazione dei compiti e delle funzioni della scuola, che dovrebbe essere contrastato con energia e furore.
Diciamolo allora. Si sta pensando ad una ripresa delle attività didattiche come se il virus fosse stato sconfitto o come se fosse facile poterci convivere.
Si mente sulla realtà, per non pagare i prezzi che ciò comporta.
Per questo è giusta la giornata di lotta per scuotere il governo e indurlo a migliori propositi.

 




Per un ri-torno mite a scuola. Proposte pedagogiche di accomodamento ragionevole

di Raffaele Iosa

A poco più di due mesi dalla ripresa, nulla si sa di concreto sul ritorno a scuola a settembre. Il protocollo sanitario è uscito come cornice, ma potrebbe cambiare (spero in meglio) secondo l’evoluzione del virus. Intossicano il clima anticipazioni che durano lo spazio di un giorno, come la bizzarria del plexigas.
Il ritardo della politica può determinare confusione paranoica e fretta dannosa a prepararsi per settembre.
Potrebbe ridursi in calcoli ingegneristici tra numeri studenti / aule / orari senza uno sguardo e una progettazione pedagogica, che dovrebbe invece essere la pre-condizione di ogni soluzione organizzativa.

Questo ritardo è il sintomo di un paese che spesso nelle catastrofi ha una grande generosità iniziale, ma poi per la ricostruzione torna il paese peggiore, confuso e lento. Generosa è stata la “didattica della vicinanza” che gli insegnanti hanno donato ai ragazzi, perché consapevoli del dramma vissuto non solo per la scuola chiusa ma anche perchè chiusi in casa.
Ma adesso? L’anno scolastico si è concluso con stanchezza, sono accadute cose traumatiche, ma anche utili fratture tra gli insegnanti sulla didattica, per esempio sulla valutazione formativa. Ed ora il vuoto?

Intanto girano proposte varie, tra chi spera che rinasca d’amblè una “scuola inclusiva democratica”, chi dice che nulla sarà come prima e chi no. In un documento di presidi si descrive la scuola come “ “erogatore di servizi che produce apprendimento” e a me pare una pedagogia idraulica. Oppure ci sono associazioni professionali che propongono idee grondanti attivismo pedagogico. Se potessi ringiovanire e tornare maestro farei tutte le cose lì scritte, ma l’età senile mi porta anche a temere che ottime proposte restino solo in felici enclaves. Temo il gattopardismo italico, ma spero anche che ci saranno nuovi conflitti pedagogici. Girano intanto demonizzazioni della Dad, quando forse servirà una ragionevole mediazione tra il pensiero analogico e digitale. Sul desiderare il ritorno in presenza, ricordo che molte classi erano a già febbraio didatticamente “distanti”. Non tutto il prima era buono.

Però una cosa mi è evidente: il ri-torno migliore possibile si realizzerà solo con una forte partecipazione di comunità, non solo docenti e presidi, ma con gli alunni stessi, i genitori, i sindaci, la società civile.
Se ne esce bene partendo da una concreta pedagogia, non applicando solo ordini o algoritmi organizzativi. Sarà un bene se ogni scuola agirà in creativa autonomia, perché ogni scuola è diversa. Ma c’è chi invece si aspetta dal MIUR regole fino alle minuzie, per l’atavica tradizione pronta solo ad “applicare”.

Mi consolo leggendo lettere e racconti che scrivono insegnanti e presidi sui siti, soprattutto dedicate ai ragazzi, segnate dalla consapevolezza che si sono costruiti pensieri nuovi, in cui è forte l’empatia (diffusa perfino la parola “amore”) di un destino comune. Abbiamo scoperto valori, non solo problemi.
C’è sapore di pedagogia seria. Ri-partiamo allora da qui!
Il prossimo sarà un anno complicato in cui dovremo usare creatività e ragione, perchè il ritorno non si riduca ad una scuola-lager, né a un anno di gite, né all’arido triangolo ingegneristico di combinare aule, spazi, orari. Un anno che sarà nel paese molto difficile dal punto di vista economico e sociale.
Alla scuola tocca un angolo non piccolo di ricostruzione della speranza.

Propongo qui alcune idee operative per un ritorno mite a scuola, che metta finalmente al centro la pedagogia (cioè il nostro mestiere), per i bambini e i ragazzi, verso i quali siamo pieni di debiti morali.
Con la priorità pedagogica, ci sono cose utili che la scuola può fare subito, da adesso a settembre, per prepararsi bene a creare “accomodamenti ragionevoli” tra esigenze sanitarie e qualità didattica.
Sull’ accomodamento ragionevole ho già scritto (vedi nella mia pagina fb) cui rinvio se si vuol sapere di più.

Dunque, propongo qui tre prime idee fattibili in questi mesi, senza bisogno di attendere dall’alto, come azioni pedagogiche per me essenziali per il ri-torno a scuola. Ne sto preparando altre sei, che invierò via via, per facilitare la lettura nei social. Per un ri-torno mite perché rinvia al dialogo, all’ ascolto, alla reciprocità, ad uno sguardo condiviso. E ri-torno col trattino: non si parte o si arriva una sola volta, ma tante e diverse. Questa volta del tutto diverso.
Su queste proposte sono pronto a dare una mano se qualche scuola vuole lavorarci.

1. GRUPPI RIFLESSIVI PROFESSIONALI, PRIMA DI RI-PARTIRE

C’è il rischio che il periodo del confinamento diventi una parentesi da rimuovere. Penso invece che questi mesi senza scuola siano un patrimonio drammatico da metabolizzare e comprendere, per i vissuti intensi, le esperienze esistenziali, le didattiche inedite, tra scoperte e delusioni. Per esempio riconoscere la nostra resilienza come “formazione sul campo”. C’è un patrimonio professionale sparso che merita condividere senza disperderlo. E’ stato infatti anche un periodo di apprendimento collettivo dal basso, anche se in solitudine. Mi pare utile riflettere su tutto questo come sviluppo della professione e del sé pedagogico.

Il cd. “gruppo riflessivo” (poco praticato –ahimè- a scuola) descrive una pratica (meglio se in presenza) di riflessione professionale tra colleghi, senza un o.d.g. rigido e neppure un verbale, centrata sulla condivisione degli “oggetti-azione” di interesse comune sui quali si riflette dialogicamente cucendo una “memoria condivisa” e ricercando soluzioni nuove ai problemi. Quindi non lezioni dall’alto di un seduttore ma formazione tra pari. L’oggetto di ingresso è perfino banale (cosa ci è successo in questi cinque mesi?) ma lo scambio di narrazioni, di pensieri, e di emozioni porta a nuove domande: cosa ho imparato? Cosa ho scoperto di nuovo? Cosa non farò mai più? Cosa farò di nuovo? Cosa faremo tutti insieme?. Cioè riflessioni operative quanto mai utili per settembre. E un sedimento di memoria generativa da non disperdere.
Donald Schön nel suo ormai classico “Il professionista riflessivo” (1993) sostiene che nella riflessione sull’azione il professionista si fa ricercatore per comprendere le dinamiche inattese accadute nel suo lavoro (e il corona virus è proprio il nostro caso) ma fuori dai canoni della Ragione Tecnica (burocrazia, procedure, abitudini, ecc…). Ricerca per comprendere cosa è mutato nell’ approccio al lavoro, cosa si è scoperto, cosa sia utile salvare delle precedenti abitudini e quali nuove azioni stimola a creare.
La riflessività è una meta-competenza importante. Ce lo diceva già Dewey nel suo “Come pensiamo”.
Ecco: pensieri di ricerca in comune mi sembrano un’ottima formazione sul campo, senza dimenticare.

Ma c’è di più. Il gruppo riflessivo può servire anche come percorso di auto-aiuto sui nostri tratti rimasti dal confinamento: paura e ansia diffuse forse più del virus stesso. Ci sono colleghi che hanno avuto lutti e ricoveri. Aver avuto paura è naturale. Non nascondiamolo, condividiamo invece come uscirne insieme.
Senza cadere nel terapeuticismo, un gruppo riflessivo può rendere possibile mettere insieme le sofferenze nella forma dell’auto-aiuto per alleviarle (Anche tu? Anch’io!). Una presa di coscienza comune delle nostre paure aiuta a cercare insieme vie di rasserenamento, valorizzando la nostra resilienza e quella di tutti.
Trovo utile questo aspetto della pratica riflessiva perché dobbiamo mettere in conto lo stato d’’animo con cui ogni insegnante tornerà a scuola a settembre. E un insegnante traumatizzato che non ha rielaborato il proprio dolore rischia, in buona fede, di travasare stati emotivi negativi negli alunni. Ci sarà bisogno per i nostri ragazzi di trovare invece insegnanti rassicuranti, solidi emotivamente, non superficiali nei rischi in corso ma neppure freneticamente ansiosi. Dunque un buon gruppo riflessivo può svolgere un ruolo di “auto-aiuto tra pari”. Per uscirne più rafforzati anche nei comportamenti a scuola.
Sento parlare troppo di “psicologi” assegnati a questo compito. Nulla contro di loro, ma vorrei fin che è possibile evitare il rischio di medicalizzazione che a volte queste esperienze comportano.

Questi gruppi riflessivi, da fare prima possibile (altrimenti sfuma la memoria) potrebbero essere l’occasione numero uno per la ri-partenza. Il gruppo riflessivo ha anche valore di ricostruirsi come comunità solidale che apprende dai fatti, insieme a capire come stiamo, come stiamo insieme, come potremo star meglio, se il recente passato difficile ci ha insegnato qualcosa. Ri-tornare così ad essere un gruppo professionale educativo che riflette su ciò che è accaduto e progetta insieme il vicino futuro.
Quando farli? Certamente prima del ri-torno a scuola. Nei tempi che servono. Anche adesso. Per chi ne sente l’esigenza. Senza tempi rigidi. Considerati a pieno titolo “formazione in servizio”. Non è necessario che sia tutto un collegio, ma meglio che siano colleghi che lavorano insieme. Sulla quantità e durata non esistono limiti se non l’utilità. Preferirei in presenza, se possibile anche con una pizza tutti insieme (se possibile) per festeggiare il ritorno.
Un suggerimento. Forse potrebbe servire un “esterno” come rispecchiamento e rilancio della riflessione. Basta che sappia di scuola e che abbia la vostra fiducia. Ovviamente non può essere uno psicologo, non siete ammalati. E neppure il preside, che non è un esterno, ma è in gioco anche lui come gli insegnanti.
Non vedo perché non sia allargabile anche a tutto il personale della scuola, tecnico e amministrativo.

2. AZIONI DI ASCOLTO DEI BAMBINI, RAGAZZI E LORO GENITORI

Un giorno o l’altro i nostri bambini e ragazzi torneranno a scuola. Può importarci davvero solo quali “ritardi scolastici” hanno accumulato? Preoccuparci solamente del recupero? C’è invece altro da fare? Si, c’è altro. Più importante. Nei mesi passati senza scuola, in una bufera emotiva senza precedenti, chiusi in casa per forza, obbligati a vederci al video se andava bene, i nostri alunni hanno vissuto, imparato. Hanno imparato a resistere, a far passare il tempo, a tirar fuori resilienza. Ma hanno anche letto, sognato, litigato in casa, si sono fatte domande (tante), hanno vissuto scene dolorose. Hanno appreso la vita quando si fa dura.
Per questo non è possibile che al rientro si riprenda dalla pagina del libro dove erano arrivati con la Dad. Sembra ovvio: i bambini oggi sono “altri” da come li abbiamo lasciati, e la Dad non ci ha detto tutto di loro. Questi sei mesi sono una formidabile esperienza da cui ripartire, dai loro sentimenti e saperi coltivati nella loro naivetè. Hanno soprattutto bisogno di parlare con noi e i loro compagni, non solo di ascoltarci.
Quindi per me base essenziale di un buon ritorno è una robusta, seria azione di ascolto. Potremmo scoprire cose molto interessanti, basi utili per ripartire bene perfino sul piano organizzativo.
Propongo di realizzare una serie di azioni d’ascolto da iniziare subito e da sviluppare al rientro a settembre.

a. UN CONTATTO INDIVIDUALIZZATO DI ASCOLTO alunno/insegnante, meglio in video, con la
solennità emotiva che ci vuole, per ascoltarlo con tre semplici (in apparenza) domande essenziali:
1. Come ti autovaluti oggi? L’autovalutazione è strumento di ascolto potente. In questo caso l’ascolto è necessario per comprendere il sé bambino/ragazzo nella sua auto percezione. Interessante compararlo con la nostra valutazione. Le assonanze e le differenze sono decisive. Potrebbero esserci sorprese.
2. Come hai passato questi mesi? Come stai? La narrazione del periodo trascorso dal punto di vista esistenziale ed emotivo è importante. Aiuta molto a tarare i nostri comportamenti al ritorno a scuola.
3. Come vorresti fosse la scuola quando tornerai? Ci puoi dare dei consigli? Questa è una domanda chiave per raccogliere suggerimenti e attese cui rispondere. E anche qui potremmo avere sorprese.
Come esempio di ascolto, suggerisco la magnifica esperienza di Enrica Ena, maestra di Iglesias e della sua classe di 2.a primaria. Bambini di 7 anni che si auto-valutano e raccontano. Una miniera che renderebbe quasi inutile qualsiasi task force per sapere come ripartire a settembre! Maestra Enrica tra l’altro scrive:
“Ciò che ho visto sono bambini di sette anni – non posso prescindere un attimo dalla loro età – completamente consapevoli di ogni cosa: di ciò che è accaduto, del perché sono state chiuse le scuole, di come ci siamo organizzati e di che effetti hanno avuto le nostre scelte, del ruolo della classe virtuale e degli appuntamenti sincroni, delle differenze tra tutto questo e la scuola vera.
Nessuna parola entrata per caso, ogni cosa un nome, il suo, che, probabilmente, tre mesi fa non era mai entrato nel loro vocabolario. Li ho visti cresciuti, maturati. Ho visto che questo tempo gli ha regalato quella capacità grande di dare voce alle cose che vivi, che senti. Forse perché era davvero l’unico modo di condividerle con tutti noi.

b. ASCOLTO PARTECIPATO A SCUOLA TRA RAGAZZI E INSEGNANTI
A questo punto, non è difficile progettare almeno la prima settimana di scuola: basata sull’ ascolto collettivo dei ragazzi tra loro e con noi. Occasione sana di farsi comunità simile ai gruppi riflessivi proposti prima. Ma anche occasione interdisciplinare per discutere di coronavirus, con ricerche attive. E per condividere le regole sanitarie e organizzative, che possono anche diventare “gioco“ (per i più piccoli) e coscienza civica.
L’ascolto partecipato va preparato, gestito bene nel tempo e nel modo. Non è atto spontaneistico. E’ la base pedagogica di una buona ripartenza sapendo cosa serve ascoltando i nostri studenti.

c. ASCOLTO E PARTECIPAZIONE DEI GENITORI
Le stesse tre domande vanno poste ai genitori. Se si vuole con questionari aperti o al telefono, figlio per figlio. Raccoglieremo così molte informazioni ma soprattutto si darà loro la percezione di una attenta cura al rientro a scuola che sarà senza dubbio apprezzato per il loro coinvolgimento.
Poi con i genitori una curata riunione prima dell’inizio della scuola, per tirare le somme di attese e timori, assieme alle prime ipotesi di attività che la scuola ha in mente, approfondendo anche le regole sanitarie e organizzative da rispettare. Su questi aspetti la loro partecipazione e collaborazione è essenziale.
Ciò vale anche per le forme di rappresentanza e gestione della scuola nel suo insieme. Questa è una fase storica in cui più che le forme conterà la sostanza, educativa in primis, delle nostre decisioni. Dunque, che il ri-torno a scuola sia un processo partecipato da tutti è questione di assoluto buon senso. Iniziare senza informazioni e coinvolgimenti sarebbe un delitto. E farebbe male a tutti.

3. UNA SCUOLA SPARSA PER LE STRADE
Il rapporto tra ritorno a scuola e gli “spazi” in cui collocare gli alunni (se continuerà il distanziamento) non può essere risolto con lavoretti edili in due mesi, magari con gazebo nel cortile, se c’è. E non si avrà il tempo di fare nuove aule, se non recuperando spazi abbandonati, con rischi di precarietà e bruttezza.
Da molte parti si propongono invece l’utilizzo di spazi della città “strutturati” e ricchi di opportunità come occasioni non solo logistiche ma anche (per me soprattutto) pedagogiche di una scuola diversa.
Questa è una strada interessante: sviluppare l’ idea educativa degli anni 70 del cd. “sistema formativo integrato” (De Bartolomeis, Ciari, Rodari, Frabboni) in cui il fare scuola non avviene solo nella classica aula, (banchi in colonna e insegnante frontale) ma con esperienze didattiche attive sul campo, in cui si fa cultura come ricerca dai ragazzi, con la capacità perfino di offrire proposte per il territorio. Quindi non didattica fatta in una altra aula qualsiasi, ma invece in una aula “altra”, spazio di ricerca, relazione, creatività.
Questa suggestione voglio qui proporre. Ha bisogno di creatività, soprattutto di un rapporto intelligente con gli enti locali attraverso quei “patti di comunità” di cui si sente positivamente parlare oggi.
Ricordo, per la verità, che queste esperienze si possono già fare da anni, e forse questa è l’occasione per cominciare. Non servono nuove norme ministeriali. E’ già scritto tutto nell’art. 4 (autonomia didattica) del DPR 275/99 Regolamento Autonomia, con tutte le forme creative previste anche per i curricoli.
Questo vorrebbe dire però alcune scelte qualitative di fondo:
a. Non stiamo parlando di “gite scolastiche” o di visite “guidate. Dobbiamo pensare ad altro di più lungo, didatticamente pregnante. Dunque un progetto curricolare concreto, non un parcheggio.
b. Per quanto si dovrà dividere le classi in gruppi, sarebbe opportuno che la “classe” in quanto tale, quella fermata a febbraio 2020 per il confinamento, abbia a volte occasione di ricostituirsi, perché c’è un legame tra ragazzi che va mantenuto. Fuori scuola, in spazi più ampi, potrebbe anche farsi.
c. Le attività “per le strade” devono avere un tempo lungo, non quello di una gita. Propongo qui
attività che durino almeno una settimana, tali da rendere possibili laboratori, ricerca attiva sul campo, interdisciplinarietà. Liberando intanto aule della scuola, che a rotazione ridurrebbero la sola fame di spazi.

Ma come utilizzare in chiave pedagogica gli spazi del territorio? Qui, piuttosto che proporre teorie, presento alcuni casi-tipo, in qualche caso volutamente bizzarri. Che servano come stimolo per chi sia interessato a darsi una propria autonoma soluzione secondo il suo territorio.
1. Siamo a Udine. Terra di vini prestigiosi e del tajut de vin come cultura. Una settimana intera in unagrande azienda vitivinicola con spazi coperti e punto ristoro. Ed una classe anche intera. Una settimana interdisciplinare dedicata alla cultura del vino, alla tecnologia, al lavoro, alla natura, alle stagioni…
Ci sono tutte le discipline compresenti. Basta utilizzare metodi di ricerca attiva.
2. Siamo sempre a Udine. Stadio Friuli, sede dell’Udinese. Spazi coperti e attrezzati sotto le tribune.
Una classe intera per una settimana ad allenarsi e parlare con i giocatori, a studiare lo sport come fenomeno sociale e storico, e tante altre cose educative a pensarci. Ovviamente con ricerca attiva.
E magari biglietto gratis ai ragazzi per la prossima partita in casa, se saranno possibili gli spettatori.
3. Siamo a Ravenna. Museo storico di Classe. Un grande zuccherificio riadattato, grandi spazi coperti, percorsi museali interattivi. Soprattutto uno scantinato con centinaia di cassette di reperti archeologici alla rinfusa dove mettere le mani. Guide e operatori per aiutare gli insegnanti. Serve indicare le diverse discipline coinvolte? Non è evidente una vasta possibilità didattica di ricerca attiva?
Il museo è così grande che potrebbero starci anche più gruppi, mantenendo le giuste distanze.
4. Siamo a Strà (Venezia) riviera del Brenta, Villa Pisani, dove dormì Napoleone quando soppresse la Repubblica di Venezia. Grandi spazi coperti e strutture di servizio. Una classe a lavorare tra sale piene d’arte, tra storia e curiosità. Un famoso parco con la ghiacciaia ed un labirinto in cui perdersi. Attività di ricerca didattica interdisciplinare: infinite. Dal barocco ai viali di rose, alle cineserie conservate.
5. Siamo a Padula (Salerno). Una classe (anche di più) una settimana presso la prestigiosa certosa di San Lorenzo. Tre chiostri, un giardino, un grande e sontuoso complesso barocco. Ospita un museo archeologico, dal 1998 patrimonio dell’umanità UNESCO. Ricerche storiche, artistiche, dei costumi: infinite.

Questi casi, apposta provocatori, desiderano alimentare un occhio curioso a cercare nel proprio territorio le risorse non come spazi qualsiasi ma come opportunità educative, utili anche oltre l’epoca del virus.
Per fare esperienze di questo tipo serve prima di tutto pedagogia, poi una capacità intelligente di utilizzare a fondo l’autonomia didattica, e lavorare con un buon senso di squadra tra gli insegnanti. Non per fare gite o parcheggi, ma per una democrazia educativa partecipata con patti di comunità seri con il territorio.

Nei prossimi giorni pubblicherò altre sei proposte miti per il rientro

– L’accoglienza dei novelli
– Il curricolo autonomo flessibile tra classi e gruppi
– Non serve recupero, serve sviluppo educativo
– Idee re-inclusive per gli alunni con disabilità
– Educatori e altri operatori sociali per un anno migliore
– Come si fa un patto di comunità scuola e territorio




Gli spazi cittadini per la scuola

di Stefano Stefanel

I dirigenti scolastici dei diciannove istituti scolastici del primo e del secondo ciclo del Comune di Udine (tra cui io), tutti inseriti nell’Ambito 8 del Friuli Venezia Giulia, hanno inviato la lettera che riporto nel riquadro.

La lettera ha avuto una vasta eco a livello locale (ne hanno parlato tutti gli organi di stampa, i social, le televisioni e le radio locali, TG3 regionale incluso). Stanno arrivando le prime risposte e le prime disponibilità e pertanto l’Ambito ha deciso di delegare a quattro dei diciannove dirigenti il compito di trattare con le istituzioni e i privati a nome di tutti. Reginaldo Palermo mi ha scritto: “Mi faresti una nota di taglio pedagogico?” E quindi aderisco volentieri alla sollecitazione di un caro amico e di un uomo di scuola. Il nostro pensiero pedagogico è molto semplice: non sappiamo come rientreremo a settembre, ma faremo di tutto per rientrare tutti insieme. Per fare questo è necessario fin da ora avere a disposizione grandi spazi in modo da poterci dividere, se necessario. Ma ci vuole tempo e quindi vogliamo delle risposte per attrezzarci.

Dal punto di vista giornalistico diciamo che coniughiamo un certo spirito di intraprendenza propria del Friuli (che possiamo riportare alla ricostruzione del terremoto del 1976, dove con la parola d’ordine “fasin bessoi” – facciamo da soli, ci siamo dati da fare fin da subito per ragionare su come ricostruire il Friuli senza aspettare che ce lo ricostruisse qualcun altro), con un’idea di società aperta dove chiunque ci da una mano è nostro amico (come dicono i Beatles: “With a Little Help from my Friends”). Per cui cerchiamo un dialogo con le istituzioni per tentare la strada della scuola diffusa per trasformare la città in una grande aula. Considerando che comunque le istituzioni sono soggetti vicini e con cui dialogare sempre.

Non so se ce la faremo, ma il fallimento non ci spaventa, perché non siamo disponibili ad aspettare immobili che arrivino decisioni risolutive, che poi magari invece non arrivano. Se la città si apre alle scuole in ogni caso le scuole continueranno ad aprirsi alla città. A causa della pandemia dobbiamo creare nuove alleanze, che ci portino ad una pedagogia di territorio, dove anche fisicamente i nostri studenti capiscano che la scuola è considerata centrale da Udine. Se avremo gli spazi adatteremo la didattica e i tempi a quegli spazi: non pensiamo di riuscire in questo modo a dare una risposta a tutte le esigenze, ma vogliamo provarci.

Come informazione dico che anche le scuole della collina friulana sotto l’egida della rete di scuole Collinrete, con capofila il dirigente Maurizio Driol, ha intrapreso una strada simile a questa.

Preg.mo Presidente della Giunta Regionale del FVG
Preg.mo Sindaco Comune di Udine
S.E. Arcivescovo di Udine
Preg.mo Commissario UTI
Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Udine
Preg.mo Presidente della Camera di Commercio di Udine
Sigg. rappresentanti territoriali delle OO.SS. del comparto Scuola
Organi di informazione  

Mentre le lezioni volgono al termine noi Dirigenti scolastici delle scuole site nel Comune di Udine siamo alle prese con l’organizzazione delle attività del prossimo anno scolastico. In un contesto di grande incertezza, legato all’evoluzione della diffusione del virus, e consapevoli che non esistono soluzioni standard applicabili a tutti i contesti scolastici, insieme con gli organi collegiali siamo chiamati in ottica futura a riorganizzare i tempi di apprendimento, definire adeguati metodi di insegnamento, di apprendimento e di valutazione, coniugare la promozione della vita relazionale con il rispetto del distanziamento fisico”, tutelare le situazioni di particolare fragilità, definire protocolli di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid 19. Per offrire adeguati standard di sicurezza, di efficienza e di efficacia e per mantenere fede a quanto previsto nei piani dell’offerta formativa dobbiamo poter contare su organici adeguati e su spazi aggiuntivi da destinare ad un uso scolastico.
Siamo consapevoli che la scuola dovrà aprirsi al territorio e andare oltre il perimetro dei tradizionali edifici, che risultano già angusti in una situazione di normalità e che in una situazione di emergenza risulterebbero totalmente inadeguati. Chiediamo perciò agli Enti locali e ai Soggetti Istituzionali detentori di spazi, di concentrarsi non solo sulla riorganizzazione degli spazi esistenti, ma anche e soprattutto di svolgere fin da subito un censimento di locali adattabili a un utilizzo scolastico, e perciò dotati di servizi, accessori e privi di barriere architettoniche.
Occorre pertanto avviare al più presto un confronto territoriale tra i Dirigenti scolastici, gli enti locali, le associazioni civili, sportive e religiose per individuare spazi sicuri e idonei allo svolgimento delle attività didattiche, definendo i tempi degli eventuali interventi edilizi e della imprescindibile sanificazione: circoli, oratori, capannoni, teatri, cinema, aule universitarie inutilizzate, spazi di associazioni, edifici di proprietà della Regione o gestiti dalla UTI, locali anche privati o di realtà che collaborano già con le scuole, ma anche, ad esempio, gli ampi spazi dislocati sotto la Tribuna Centrale dello Stadio Friuli potrebbero essere resi sicuri e idonei ad accogliere gli studenti alla ripresa delle attività nel prossimo settembre. Spetterà poi alle istituzioni scolastiche trovare il modo di utilizzo migliore per garantire insieme alla qualità del servizio di istruzione anche la tutela della sicurezza dei nostri studenti.
Da ultimo sollecitiamo le forze politiche a esercitare tutte le forme possibili di persuasione affinché l’Amministrazione centrale dell’Istruzione receda dalla grave decisione di operare pesanti tagli agli organici e metta a disposizione delle scuole un numero di docenti e di collaboratori scolastici adeguato ad affrontare la grande sfida che ci attende.    

I DIRIGENTI SCOLASTICI DELL’AMBITO N° 8 DEL FRIULI VENEZIA GIULIA
Marina Bosari (Liceo scientifico Copernico), Maria Cacciola (Istituto comprensivo Udine IV), Andrea Carletti (ITI Malignani), Maria Rosa Castellano (Istituto Tecnico Economico Deganutti), Mauro Cecotti (Istituto comprensivo Udine I), Laura Decio (Istituto Tecnico Statale Marinoni), Andrea Degiglio (IPSIA Ceconi), Paolo De Nardo (Istituto comprensivo Udine III), Beatrice Facchini (Istituto comprensivo Udine VI), Luca Gervasutti (Liceo classico Stellini), Maria Elisabetta Giannuzzi (Istituto comprensivo Udine II), Anna Pertoldi (Istituto Tecnico Zanon), Rossella Rizzatto (Liceo Artistico Sello), Stefano Stefanel (Liceo scientifico Marinelli), Tullia Trimarchi (Istituto comprensivo Udine V), Maddalena Venzo (Istituto statale di istruzione superiore Stringher), Flavia Virgilio (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti), Gabriella Zanocco (Liceo Percoto – Scienze Umane, Musicale, Economico sociale e Linguistico) e Annamaria Zilli (Liceo educandato Uccellis).-

Udine, 30 maggio 2020