IC Iqbal Masih di Pioltello: lode all’autonomia scolastica ed altre storie

di Aluisi Tosolini

In questi giorni divampa la polemica sull’Istituto Comprensivo di Pioltello che ha “adattato” il proprio calendario scolastico inserendo un giorno di chiusura in concomitanza la conclusione del Ramadan, anche in considerazione che circa il 40% degli studenti del comprensivo festeggia tale giornata.
Il ministro, come ha scritto Tecnica della scuola, ha accusato il comprensivo di aver stabilito una nuova festività, cosa non legittima.
Ma cerchiamo di capire come funziona il tutto partendo dalle norme e poi raccontando la prassi derivante da 20 anni di esperienza da dirigente scolastico.

La normativa: autonomia scolastica e calendario scolastico regionale

Il calendario scolastico viene annualmente deliberato dalle singole Regioni. Nel caso dell’anno 2023/24 la regione Lombardia ha pubblicato il 20 aprile 2023 la delibera Prot. N.R1.2023.5812 che così scrive: “come definito con la DGR 3318/2012, permangono stabilite le festività fissate dalla normativa nazionale ed i tradizionali periodi di chiusura natalizi, pasquali e di carnevale, come di seguito specificato (segue elenco)”.

In chiusura la delibera ricorda che “le Istituzioni scolastiche e formative, nel rispetto del monte ore annuale previsto per le singole discipline ed attività obbligatorie, possono disporre gli opportuni adattamenti del Calendario Scolastico d’Istituto – debitamente motivati e deliberati – comunicandoli tempestivamente alle famiglie entro l’avvio delle lezioni”.

Il DPR 275/99 ( Autonomia Scolastica) all’articolo 5 (autonomia organizzativa), comma 2 e 3 al riguardo scrive:

  1. Gli adattamenti del calendario scolastico sono stabiliti dalle istituzioni scolastiche in relazione alle esigenze derivanti dal Piano dell’offerta formativa nel rispetto delle funzioni in materia di determinazione del calendario scolastico esercitate dalle Regioni a norma dell’articolo 138, comma 1, lettera d) del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
  2. L’orario complessivo del curricolo e quello destinato alle singole discipline e attività sono organizzati in modo flessibile, anche sulla base di una programmazione plurisettimanale, fermi restando l’articolazione delle lezioni in non meno di cinque giorni settimanali e il rispetto del monte ore annuale, pluriennale o di ciclo previsto per le singole discipline e attività obbligatorie.

Come si può vedere è del tutto evidente che il Consiglio di Istituto si è mosso dentro i binari fissati dalla normativa.

Infatti

  1. La singola scuola, dice la norma, può, rispettando le prerogative della Regione, adattare il calendario scolastico in relazione alle esigenze del PTOF;
  2. Le prerogative regionali sono state rispettate perché viene rispettata sia la data di avvio che di chiusura dell’ano scolastico e di certo nella delibera dell’IC Pioltello sarà stato previsto sia il rispetto del monte ore annuale che la tempestiva comunicazione alle famiglie.

Per quanto riguarda le esigenze del PTOF di un comprensivo che è intitolato a Iqbal Masih (bambino operaio e attivista pakistano, simbolo della lotta contro il lavoro infantile) non vi è dubbio che esistano e che siano anche significative e pregnanti.

Per chi lo volesse verificare di persona consiglio la lettura del PTOF dell’Istituto. Se proprio non lo si vuole leggere tutto basta andare a pagina 19 dell’estratto grafico dove leggo: “L’ Istituto da sempre pone attenzione al contesto multiculturale in cui opera, promuovendo azioni intenzionali e sistematiche che riguardano la promozione della formazione di conoscenze e atteggiamenti che favoriscono rapporti dinamici tra le culture; predispone un clima relazionale positivo nella classe, nella scuola e in spazi extrascolastici, favorevole al dialogo, alla comprensione e alla convivenza civile. La Scuola si avvale del nuovo Protocollo di Accoglienza, documento che definisce le azioni con cui attuare e sostenere l’inserimento scolastico degli alunni stranieri, sia di quelli che si iscrivono prima dell’inizio delle lezioni sia di quelli che si iscrivono ad anno scolastico iniziato. Tiene conto del quadro legislativo di riferimento. Esso è il risultato del lavoro della Commissione Intercultura ed è parte integrante del PTOF dell’Istituto comprensivo

Insomma, nessuna festività religiosa o nazionale inventata dal nulla ma corretto esercizio dell’autonomia scolastica entro i parametri definiti dalla normativa in vigore.
Ed è per questo che l’attacco che il Ministro ha rivolto all’istituto è particolarmente preoccupante: perché è ideologico e ottusamente chiuso nei confronti delle nuove realtà sociali e culturali che caratterizzano l’Italia contemporanea e perché dimostra di non conoscere la normativa (cosa questa abbastanza preoccupante se si è ministri dell’istruzione !!).

Breve ed ironica narrazione di come si costruisce la delibera annuale sull’adattamento del calendario scolastico

Ma come viene fatta annualmente la delibera sul calendario scolastico da parte delle singole scuole?
Beh…. 20 anni di esperienza da dirigente scolastico mi permettono di fare qualche esempio ironico (ma mica tanto).
In primo luogo occorre capire in che regione si vive. Ad esempio la Regione Emilia Romagna ha pensato di fare, anni fa, una delibera permanente (neanche fosse il calendario gregoriano) che poi annualmente è costretta a integrare perché succede sempre qualcosa che fa saltare i piani scolpiti nella roccia dai legislatori di Bologna.
Comunque sia, a differenza della delibera della Lombardia, i singoli istituti non possono, in Emilia Romagna, cambiare la data di inizio delle lezioni. Così chi lo ha fatto (la scuola che ho diretto, ad esempio) ha sempre dovuto inventarsi delle ragioni più o meno plausibili per farlo (ad esempio per il PCTO, oppure solo per il quadriennale, oppure ecc) in una sorta di gara alla creatività ermeneutica.

In secondo luogo appena si sa com’è il calendario fissato dalla regione sia i docenti che i genitori si scatenano nell’analisi del calendario dell’anno successivo (ad esempio del 2025 oltre che dell’autunno 2024 per l’anno scolastico 24/25) alla ricerca di tutti i ponti possibili e immaginabili così da proporre chiusure della scuola in concomitanza dei ponti stessi.

In alcuni casi la cosa è proprio sensata, in altri molto tirata. Una volta identificati i possibili ponti da fare (quindi i corrispondenti giorni di sospensione delle lezioni) occorre capire come recuperare le ore di lezione di quei giorni. Non è infatti pensabile di saltarle a più pari: su questo la normativa  di cui sopra è chiarissima. Ovviamente anche qui si va di fantasia: chi già ha il calendario su 5 giorni alla settimana ha gioco facile inserendo ad esempio qualche rientro al sabato per attività di tipo campionati studenteschi, giochi di qualcosa, festa dell’istituto ecc.  Chi invece lavora su 6  gironi è costretti ad un di più di creatività: chi ragiona di viaggi di istruzione che durando giorni interi occupano comunque molte ore e quindi costituiscono un recupero dei giorni di ponte, chi giurando che ci saranno dei rientri pomeridiani in più (tanto poi magari nessuno controlla e amen…. ) e così via…

In altre situazioni sono gli stessi enti locali che supplicano perché siano attuate determinate chiusure. Ad esempio per evitare in pieno inverno l’accensione del riscaldamento in un giorno infrafestivi.

E’ persino accaduto che la provincia dove io vivo abbia insistito per diversi anni per convincere tutte le scuole superiori a chiudere il sabato adottando il calendario scolastico su 5 giorni così da risparmiare in riscaldamento e costi di trasporto. Che poi la cosa risulti complessa per ragazzi e ragazze che frequentano istituti con più di 30 ore settimanali obbligando a prevedere persino 3 rientri pomeridiani (in assenza spesso di mensa e spazi adeguati) non pareva essere di interesse di qualcuno. Come se l’apprendimento non fosse propriamente al centro degli interessi di chi ragiona di scuola….

C’è poi il caso del Carnevale. In alcune regioni si fa vacanza perché cos’ ha deciso la determina regionale (ad esempio Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia, Calabria, Basilicata), in altre proprio no. Ad esempio a Viareggio le scuole sono aperte durante il carnevale.

Poi ci sono i casi dei comuni che hanno il santo patrono (ps: santo patrono !! giusto per stare nella laicità !) che ricorre in piena estate e quindi la festa/chiusura della scuola salta. Oppure i comprensivi che si stendono su 4 o 5 comuni (ne ho diretto uno su 5 comuni di montagna, una intera valle, un feudo!) con 4 o 5 diverse festività del patrono e conseguenti complessità organizzative.

Insomma, come si può vedere, per fortuna che c’è l’autonomia scolastica che, ben regolata e mitigata entro gli argini della legge che assegna alle regioni la potestà sui calendari scolastici che tuttavia permettono adattamenti a cura delle singole scuole.
Nel caso dell’IC Iqbal Masih poi le ragioni sono davvero significative, apprezzabili e degne di lode!
Di certo più inclusive che una sospensione delle lezioni per permettere la settimana bianca o il week end lungo al mare a chi se lo può permettere !
Altro che invenzione di festività !

 




Valorizzazione dell’autonomia scolastica, ma anche del centralismo e altri esempi di strabismo politico

di Stefano Stefanel

Ci sono tre locuzioni che stanno quasi come “motto” sopra le scuole, perché costituiscono la cornice ovvia entro cui situare l’autonomia funzionale delle scuole italiane: sono le “finalità generali del sistema”, gli “obiettivi generali del sistema formativo”, i “livelli essenziali delle prestazioni”.  Le prime due locuzioni si trovano nel DPR 275/1999 e la terza alla lettera m) dell’art. 117 della Costituzione così come modificato dalla legge costituzionale n° 3 del 2001. Chi sta fuori dal sistema scolastico nazionale può immaginare di trovarsi di fronte ad un libro in cui finalità, obiettivi e livelli essenziali delle prestazioni siano definiti in modo chiaro ed enciclopedico. Tutto numerato e ordinato, con precisi riferimenti normativi, contratti del personale firmati regolarmente di conseguenza, nessuna sovrapposizione o contraddizione. E invece, il sistema si ordina per salti, senza nessun documento che definisca tutto quello che è in vigore e che deve essere applicato (o disapplicato), con anche le modalità di applicazione.

Forse in un momento così convulso, com’è quello attuale, può essere interessante comprendere perché il sistema si sia ordinato in questo modo e non come una semplice enciclopedia che tutti (giudici inclusi) possono, alla bisogna, consultare. Solo quest’anno il sistema scolastico italiano ha licenziato (finora) le Linee guida per l’orientamento,  la nomina dei tutor e del tutor orientatore, il Liceo Made in Italy che convive con Liceo Economico Sociale, dopo che era stato annunciato che l’avrebbe assorbito, il percorso di 4 e non 5 anni per gli Istituti Tecnici su base vocazionale (scelta delle scuole e scelta delle famiglie), lo sviluppo piuttosto senza regole degli ITS, l’attuazione del PNRR, il PNRR sui “divari territoriali”, i D.M. 65 e 66, il personale ata assunto fino a dicembre sul PNRR e poi prorogabile con le modalità decise dal ministero, ma pagato coi fondi delle scuole, il concorso straordinario per dirigenti scolastici aperto a chi ha perso l’ultimo concorso ma ha fatto ricorso e, poi, molto  altro di varia entità.

Oltre ai provvedimenti ci sono le quotidiane esternazioni sul ripristino dei voti e poi dei giudizi nella scuola primaria, del voto numerico per il comportamento nella scuola secondaria di primo grado, sulla tutela legale per i docenti aggrediti dagli studenti (non ricordo se c’è anche per chi è aggredito dai genitori e per i dirigenti aggrediti da chiunque), sulle norme sull’occupazione delle scuole da parte degli studenti, sulle classi differenziate per gli stranieri e, anche qui, via enumerando. Una volta questi argomenti venivano trattati uno a biennio e davano vita a manualistiche complesse, piuttosto enciclopediche poi confluite tutte nel testo unico del 1994, di cui sono rimaste ampie tracce, ma che è stato, anche lui, modificato attraverso tagli e incollature. Da ultimo, ma non ultimo, il nuovo contratto dei docenti con modifiche ad anno in corso, il tentativo del ritorno tout court in presenza anche laddove è più efficace ed efficiente lavorare a distanza e poi azioni che si sommano ad altre azioni senza sostituirle. Tutto questo con lo sfondo integratore dell’autonomia differenziata che “ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”.

Dentro un simile oceano si potrebbe ritenere che il “dividi et impera” sia la base strutturale del sistema scolastico italiano, ma io credo non sia così. Il sogno di ogni Ministro o di ogni Direttore di Dipartimento o di Ufficio Scolastico sarebbe quello di avere tutto sotto controllo, a cominciare dalla rubrica di ciò che va tenuto sotto controllo. E questo, dal punto di vista solo formale ma non sostanziale, è ciò che avviene. Rimane un vulnus costituzionale, laddove l’autonomia delle scuole prevista dalla Costituzione non è tutelata da alcuna possibilità che le singole scuole (in quanto autonomie funzionali dello Stato) possano impugnare un provvedimento ministeriale che sia ritenuto eccessivo rispetto ai poteri statali, che comunque non potrebbero ledere l’autonomia delle scuole costituzionalizzata. Così i limiti dell’autonomia sono definiti in forma unilaterale dallo Stato, attraverso provvedimenti che dichiarano sempre che questa autonomia è fatta salva, anche se spesso a chi lavora nella scuola non pare sia proprio così.
Quindi il sistema si muove in forma frammentata e plurale perché manca un’idea generale e condivisa che non sia generica o di parte: si sa, però, che le cose generali poi nei particolari fanno annidare i problemi e che in Italia nessuna parte è mai riuscita a prevalere in maniera definitiva.

Quindi sono molti gli elementi che non permettono l’enciclopedia di finalità, obiettivi e livelli essenziali di prestazione, perché il soggetto titolato ad amministrare decide in autonomia i perimetri senza un reale possibile contraddittorio con chi quell’autonomia ha il diritto di applicarla dentro un quadro normativo certo, non incerto e sempre in evoluzione. Per cui tutto è finalità, tutto è obiettivo, tutto è livello essenziale di prestazione e questo determina una sovrapposizione di note, circolari, decreti ministeriali, ordinanze, leggi, decreti-legge, decreti legislativi, regolamenti, dichiarazioni, proposte, interviste e quant’altro la burocrazia e la politica hanno inventato per complicare le cose semplici. Resta il fatto che nessuno tocca organici, orari, discipline, tempi neppure quando tutto questo diventa obsoleto, stantio e rallentante.

L’esperienza del Covid non ha insegnato niente, dato che tutti vogliono tornare al gennaio del 2020, anche a rifare cose che si facevano male a quel tempo e che poi si è dimostrato si possono fare bene in modo totalmente diverso. A tutto questo si somma il fatto che la piramide decisionale non funziona più né a livello di macrosistema, né a livello di micro organizzazione, laddove le risorse e le progettualità provengono da soggetti fuori dalle piramidi ordinarie. Sono nate così le Autorità di gestione e le Autorità di missione, nelle scuole ci sono Animatori digitali, Tutor, Team di progetto. Nascono nuovi nomi (Mentor, Tutor, Facilitatore, Coach) e gli insegnanti si percepiscono non più come centrali, ma tendono, ugualmente, a lavorare come se la centralità fosse rimasta intatta. Così si alimenta la confusione e il Ministro invia circolari prive di valore normativo, mentre l’Autorità di missione condiziona la vita delle scuole dentro finanziamenti epocali. A livello scolastico il collaboratore del dirigente gestisce i quattro soldi delle ore eccedenti, mentre l’animatore digitale può gestire PON e PNRR da centinaia di migliaia di euro. La piramide è crollata, ma tutti la venerano lo stesso.

Il PNRR viene attuato dallo Stato attraverso performance decise dall’Unione Europea ma operativamente attuate dalle scuole. La performance più complessa è quella che riguarda la formazione di almeno 680.000 docenti (sono quelli dell’organico di diritto) che sono conteggiati “per testa” e non “per attestato” (se qualche volonteroso docente frequenta dieci corsi di formazione vale sempre uno). Così una questione strategica, un LEP ovvio (docenti formati che forniscono istruzione di qualità), determina un’inondazione di soldi nelle scuole senza una logica di sistema, perché l’obiettivo è difficile da raggiungere dato che l’obbligo di formarsi non c’è (c’è invece un comico/drammatico diritto, che troppi docenti – soprattutto di materie STEM – declinano come diritto non fare formazione, tanto la materia la so già e se gli studenti non imparano è perché non studiano abbastanza).

Per cui spesso non si comprende se la finalità e l’obiettivo del sistema scolastico italiano siano quelli di diminuire la dispersione implicita ed esplicita oppure quella di bocciare di più, perché nel secondo caso il “gravemente insufficiente” alle primarie è un’ottima intuizione, nel primo caso l’anticamera della catastrofe. Però nella narrazione quotidiana ognuno narra quello che vuole e possono stare insieme un sistema scolastico di alto livello e gli ultimi posti nelle rilevazioni OCSE-Pisa, un sistema scolastico che valorizza la matematica e al tempo stesso la certificazione europea del peggior divario di genere in matematica di tutta l’area OCSE, con le ragazze italiane che tendono a non appassionarsi troppo alle STEM. Con la lettura dei fenomeni in atto si certifica, al tempo stesso, che gli insegnanti di matematica italiani sono ottimi e le studentesse di matematica svogliate ( e si vede ad occhio nudo che non è così). Se non vogliamo dire che il sistema scolastico italiano propugna il principio di non contraddizione per poi contraddirsi, diciamo almeno che il tentativo di attuate l’e pluriumus unum è almeno un po’ velleitario.

Forse però su una cosa possiamo metterci d’accordo: le “finalità generali del sistema”, gli “obiettivi generali del sistema formativo”, i “livelli essenziali delle prestazioni” dovrebbero essere frasi che, inserite in un motore di ricerca qualsiasi, forniscono un bel testo elencativo ed esplicativo alla portata di tutti e comprensibile da tutti. La somma delle pluralità anarchiche non fa unitarietà di sistema neppure nel mondo delle enneadi di Plotino.




Scuola come istituzione, non come servizio sociale

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raimondo Giunta

La scuola non è solo un servizio sociale; la scuola è anche una istituzione. Come servizio la sua qualità si misura dalla soddisfazione degli utenti; come istituzione la qualità si misura dalla capacità di conservare e sviluppare i valori di una comunità; come servizio si regge sull’attenzione agli interessi individuali; come istituzione si regge sul principio del bene comune. Il bene comune della scuola è costituito dai saperi e dalle conoscenze che è tenuta a tramandare, alcuni dei quali sono fondamentali per la coesione della comunità: lingua, storia, cultura nazionale, valori costituzionali. Saperi necessari.
Saperi che appartengono a tutti e non a pochi privilegiati.

Per definizione.
Principio questo che non ha bisogno di dimostrazione, perché altrimenti non ci sarebbe motivo per finanziare la scuola con risorse dello Stato.

Come istituzione la scuola non può darsi nessuna regola d’esclusione, anche perché il suo costo sociale grava di più su chi meno ne trae beneficio. Ne verrebbe meno il valore; se ne macchierebbe la dignità. Nell’apertura della scuola a tutti sta scritto il meglio della nostra civiltà. Possono essere posti limiti al possesso di beni materiali, non al bisogno e al desiderio di conoscenza e al diritto di formazione. I meccanismi di esclusione a scuola fanno impropriamente del sapere una delle più offensive giustificazioni delle posizioni sociali privilegiate.

La scuola come istituzione non può essere diversa da regione a regione, dal centro alle periferie delle città, dalle grandi città ai piccoli comuni.  La scuola come istituzione dovrebbe lavorare per unire e per proporre una valida e riconosciuta gerarchia dei saperi e delle attività, in grado di contrastare la deriva relativistica degli interessi individuali e dei curricoli à la carte.  Purtroppo dura da troppo tempo la lotta per ridimensionare l’aspetto istituzionale della scuola, con la complicità forse inconsapevole di parte del personale scolastico, per ridurla alla pura logica del servizio a clienti.

Lo scopo, nemmeno sottinteso, è quello di degradare la funzione del sapere da bene pubblico a mero privato possesso strumentale.

 




La scuola e il “regno della menzogna”

di Pietro Calascibetta

Sulla recensione di Galli della Loggia del volume di Giorgio Ragazzini, “Una scuola esigente”, pubblicata sul CdS del 13/1/23 si è abbattuta una valanga di commenti a volte sarcastici e ironici, a volte molto aspri per usare un eufemismo.
Nel trafiletto di cui parliamo Galli della Loggia si occupa dell’inclusione.
La scelleratezza perpetrata dalla normativa consisterebbe nella scelta di inserire nella stessa classe “unici al mondo” sia i ragazzi con delle difficoltà nella loro completa gamma di situazioni sia quelli che definisce “cosiddetti normali”, diciamo alla Vannucci, con un risultato a suo dire disastroso.
Un’affermazione senz’altro forte e provocatoria.
Non voglio aggiungere nulla, per chiarezza posso dire di condividere pienamente gran parte dei commenti critici che ho letto.
Detto questo vorrei tentare di affrontare invece la polemica che ne è nata toccando un altro aspetto della questione che mi sembra non meno importante dei valori su cui gran parte dei commentatori hanno puntato.

OLTRE AI VALORI C’E’ DELL’ALTRO

Approfittando dell’assist fornito dalla recensione, a me pare che a Galli della Loggia non sia sembrato vero di poter aggiungere un nuovo tassello al suo teorema che la scuola è stata rovinata con le sciagurate riforme fatte per motivi politici e opportunistici dall’allora PCI e dai suoi complici, i fiancheggiatori del compromesso storico e del neoliberismo.
Non è una mia malevola interpretazione, ma è una tesi da lui compendiata addirittura in un saggio per dare supporto scientifico alle sue “opinioni” in merito, espresse a puntate in vari articoli sul Corriere.
Non a caso Galli della Loggia è molto vicino al “benemerito”, come lui lo definisce, “ Gruppo di Firenze” di cui Giorgio Ragazzini è un esponente di spicco da sempre in prima linea su questo fronte.
Sono convinto che Galli della Loggia non sia razzista e non sia Vannacci, ma utilizza l’argomentazione del mondo alla rovescia perché è abbastanza diffusa in quella parte di cittadini convinti come lui che ci sia stata una macchinazione della cosiddetta cultura di sinistra per realizzare una società al contrario, come dimostrano i numerosi lettori dell’ormai famoso generale.
Così facendo sdogana la vulgata popolare secondo la quale per cominciare a risolvere il problema del far funzionare la scuola bisogna liberare i “cosiddetti normali” dalla palla al piede degli altri studenti che, detto tra noi, potrebbero poi essere la maggioranza della classe.
E’ lo stesso ragionamento che lo porta a dire che bisogna liberarsi delle ore di programmazione, dei progetti, delle compresenze, di tutto ciò che non è “lezione” dove c’è un discente che ascolta e un docente che insegna, insomma dell’autonomia.
Parlare dei “cosiddetti normali” è un modo probabilmente strumentale per raggiungere una platea di persone che possano condividere con lui la battaglia contro l’autonomia scolastica, la pedagogia e i pedagogisti, le riforme ecc. il vero cancro a suo parere della scuola italiana che va, possiamo dire parafrasando, “normalizzata”, riportandola dove non si sa, ma è dato intuire, se tutto ciò che è stato fatto dagli anni sessanta in poi non va bene.

IL MORALISTA

Accesa così la fiamma dell’empatia, passa nella sua recensione a giocare la carta “Selvaggia Lucarelli” e afferma di voler smascherare il falso “mito” della scuola inclusiva denunciando che quella che viene esaltata come una scelta di civiltà è “una menzogna” perché non corrisponde alla realtà di una scuola allo sfascio qual è secondo lui la scuola italiana oggi.
Sono sicuro che Galli della Loggia se interrogato sulla questione dirà che lui ha il massimo rispetto per tutti gli studenti con BES, DSA , disabilità ecc. ed è proprio per questo che usa volutamente il termine “menzogna” facendosi così paladino non solo dei “cosiddetti normali”, ma anche di questi studenti fragili che sono stati ingannati e che non riescono ad avere i benefici promessi da questa scuola forgiata dalle riforme facendosi così portavoce di un disagio sicuramente presente e di alcuni problemi che effettivamente esistono nell’inclusione.
È per questo motivo che oltre ad una risposta sui valori è necessaria a mio avviso una risposta chiara e netta sule cause del problema del disagio che lui solleva.

CHI MENTE?

Galli della Loggia mente sapendo di mentire non solo sulla reale dimensioni del problema, ma sulle cause delle difficoltà che l’inclusione incontra effettivamente.
L’autonomia permettendo la flessibilità nella costruzione dei percorsi e nella gestione del gruppo classe è lo strumento più adatto in grado di permettere una didattica inclusiva in un scuola di massa aperta a tutti e non solo alle élite selezionate come era nella visione della scuola superiore di Gentile.
L’autonomia come risposta al problema dell’inclusione.
Perché tutto questo non si è avverato? Per Galli della Loggai perché le premesse erano sbagliate, i “normali” non devono convivere con chi non lo è! I soliti buonisti!

NEL “REGNO DELLA REALTA'”

Nel “Regno della realtà” c’è un’altra spiegazione. Va detto con determinazione che le difficoltà non derivano dalla convivenza di studenti “normali” e di studenti con bisogni speciali, ma dal fatto che l’autonomia scolastica che oggi vediamo, non è l’autonomia quale sarebbe dovuta essere se non fosse stata boicotta fin dal suo esordio e successivamente negli anni non dando le risorse necessarie al suo funzionamento sia finanziarie che normative.
Il fatto che Galli della Loggia dovrebbe conoscere è che l’autonomia la si è fatta con i fichi secchi (passata la festa, gabbato lo santo!) senza mettere a disposizione quanto indispensabile ad attuarla per come era stata concepita, a cominciare da quell’organico necessario a permettere quella flessibilità della lezione, del gruppo classe, delle attività che doveva servire proprio per dare tempi e modalità di apprendere in base ai bisogni differenti degli studenti. Il nocciolo dell’inclusione.
Qualcuno ricorderà sicuramente la sperimentazione dell’organico funzionale subito fatta abortire. Bisogna aspettare la Buona Scuola per trovare finalmente la possibilità di ampliare l’organico in base ai bisogni progettuali di ciascun istituto anche se in modo contraddittorio e molto parziale. Non a caso Berlinguer e Renzi sono considerati da questi signori la coppia che ha rovinato la scuola.
Ma le cause delle difficoltà non stanno solo nell’ organico.
Si è fatta l’autonomia senza modificare la struttura delle cattedre con insegnanti con 8-6 classi che si può immaginare come possano prendersi cura non solo dei ragazzi in difficoltà, ma anche dei “normali”.
Non si è definito il ruolo del coordinatore di classe ora ridotto ad assistente tuttofare, che sulla normativa neppure esiste, che invece dovrebbe essere il project leader dell’équipe di lavoro ; non si è adeguato lo stato giuridico dei docenti alla nuova organizzazione richiesta dalla flessibilità, lo stesso dicasi per il contratto.
Galli della Loggia dovrebbe chiedersi come opinionista il perché di tutta questa resistenza a considerare sullo stesso piano sia l’insegnamento in aula sia l’attività di coordinamento e di progettazione e monitoraggio necessarie a sostenere sul piano pedagogico e didattico la flessibilità del gruppo classe, le attività di scuola attiva e il lavoro di gruppo intorno ai quali ruota la scommessa dell’autonomia e dell’inclusione. Non fanno parte entrambe della professionalità docente? Quale cultura li tiene separate come se fossero due lavori diversi, un lavoro di serie A ed uno di serie B?
L’autonomia prevedeva di cambiare il modo di lavorare dei docenti. Dalla progettazione individuale del singolo docente a casa propria a quella collegiale inserita come parte integrante dell’orario di lavoro nel luogo di lavoro. Viene il dubbio di credere che se questo lavoro è svolto a casa individualmente è professionale, se svolto a scuola con i colleghi è un impaccio burocratico?
L’inclusione in una scuola di massa non è una questione che può affrontare individualmente il singolo docente, ma riguarda il consiglio di classe e l’intera comunità scolastica con tutte le sue componenti.

IL “REGNO DELL’AMNESIA”

Più che il “regno della menzogna” la scuola sembra essere il “regno dell’amnesia” .
Ci si è dimenticati che la stessa piattaforma unitaria dei sindacati confederali della scuola del 2002-2005 sottolineava la necessità nella nuova scuola dell’autonomia di “un’attività organizzata su modelli di lavoro differenziati, professionalità articolate, itinerari di ricerca continui in un contesto relazionale che, oltre a valorizzare l’impegno individuale dell’insegnante, si connoti con una dimensione cooperativa.”
Quali sono stati gli interventi contrattuali e normativi per dare all’autonomia quello che era necessario per poter funzionare?
E’ ovvio che se l’autonomia fonda le sue basi nell’art. 6 del Regolamento e nel lavoro cooperativo dei docenti e poi non c’è uno spazio e dei tempi adeguati per lavorare con questa modalità, i numerosissimi compiti collegiali che le riforme e l’autonomia stessa richiedono ai consigli di classe e ai docenti con un lavoro collegiale finiscono per essere ridotti ad adempimenti burocratici per necessità pratica e per sopravvivenza.
Tolta l’elaborazione creativa, rimane il verbale taglia e incolla.
E’ facile poi mettere in evidenza la burocratizzazione della scuola e lo svilimento professionale.
Insomma con un’espressione non elegante la scuola dell’autonomia è “cornuta e mazziata”.
Se tutte le attività non di insegnamento sono considerate attività aggiuntive, alcune di queste svolte su base volontaria, pagate con un compenso chiamato accessorio prelevato da un fondo da contendersi gli uni con gli altri, come si può chiamare ancora autonomia questa umiliante condizione di lavoro? E’ comprensibile il disagio dei docenti.
Galli della Loggia dovrebbe scrivere che se la scuola è in difficoltà non è per le riforme e per l’autonomia, ma perché in Italia si fanno le riforme, ma poi non ci si preoccupa di renderle realmente operative. Nella scuola e altrove.
Pensiamo al ruolo previsto dalle riforme per i GLI, Gruppo di Lavoro per l’Inclusione, in cui dovrebbero essere presenti anche i referenti delle strutture sanitarie che per i tagli alla sanità sono invece assenti; pensiamo alla mancanza di finanziamenti per la psicologia scolastica in una società dove la scuola dovrebbe rappresentare un presidio per affrontare i disagi sempre più diffusi negli adolescenti come i disturbi alimentari , l’ansia, gli attacchi di panico, ecc, pensiamo alla scomparsa del medico scolastico dalle scuole facendo mancare anche un suo ruolo nell’educazione alla salute tanto che durante il Covid si è dovuti ricorrere ad un docente come referente con mansioni, queste si, che non avevano nessun rapporto con la funzione docente; , pensiamo ai docenti e ai supplenti nominati in ritardo , al cambio dei docenti ogni anno, tutto imputabile ad una cattiva gestione dell’amministrazione e non alle riforme.
Mi sembra che ci siano sufficienti argomenti per dire che la convivenza di studenti “normali” e di studenti non “normali” è un’opportunità e una ricchezza non utilizzata come si dovrebbe e non valorizzata per l’indifferenza che ormai da tempo connota l’azione politica e il regno dei “cosiddetti normali” verso i ragazzi e i giovani..
Sarebbe il caso che gli opinionisti si assumessero la responsabilità di cominciare a dire il vero separando, quando scrivono sui media, i fatti nella loro complessità dalle opinioni strettamente personali soprattutto se ideologiche.




Dimensionamento scolastico: non esiste un numero “giusto” di alunni, ma bisogna decidere quale scuola vogliamo

di Mario Maviglia

Quando si parla di dimensionamento e razionalizzazione della rete scolastica si usano di solito parametri meramente ragionieristici finalizzati al risparmio della spesa pubblica.
Naturalmente, di per sé questo non è un male, anche se sarebbe opportuno che i medesimi parametri venissero applicati anche per altri capitoli di spesa del bilancio dello Stato (ad esempio quelle relative alle spese militari o alle spese per il funzionamento degli apparati politici del Parlamento o ancora alle spese per i contributi pubblici ai giornali, per citarne solo alcuni a titolo esemplificativo).
Raramente si fanno ragionamenti riguardanti la funzionalità dell’adozione di questi parametri e gli effetti che producono sul piano organizzativo e sul funzionamento del servizio scolastico. Com’è noto la legge finanziaria 2023 (L. 197 del 29 dicembre 2022) al comma 557 ha innalzato a 900 il numero minimo di studenti per riconoscere l’autonomia alle istituzioni scolastiche (in precedenza il numero minino era di 600), fatta eccezione per le scuole situate nelle zone di montagna o nelle piccole isole o caratterizzate da specificità linguistiche.
Questo significa che alle istituzioni scolastiche che si trovano al di sotto di questi parametri (scuole cosiddette sottodimensionate) non potranno essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato, ma solo dirigenti con incarico di reggenza. E lo stesso vale per i DSGA. Ovviamente questo meccanismo non riguarda i plessi scolastici in sé, la cui apertura o chiusura o dislocazione è di pertinenza degli enti locali, ma il numero di “presidenze” di titolarità che vengono attivate.

È plausibile immaginare che le istituzioni scolastiche sottodimensionate, e dunque senza un DS e un DSGA titolare, ma affidate in reggenza, siano condannate a una progettualità più precaria e a una continuità più frammentata nella gestione della scuola.
Ma, più in generale, il problema di fondo è quello di definire quale è il numero ottimale di studenti di una istituzione scolastica che consenta di garantirne una gestione efficace ed efficiente del servizio scolastico, tenendo conto che all’aumento del numero degli studenti corrisponde un correlativo aumento delle unità di personale scolastico occorrente per far funzionare la scuola.
Probabilmente non esiste una risposta univoca a tale quesito, ma è significativo che esso non venga mai posto nel dibattito riguardante questo problema e nelle decisioni che vengono assunte. D’altro canto finché la politica scolastica in Italia verrà definita dal MEF è difficile aspettarsi ragionamenti orientati in questa direzione.

Sappiamo d’altronde che mentre si è particolarmente attenti ad evitare che le istituzioni scolastiche funzionino con un numero di studenti inferiore alla soglia minima stabilita (salvo le eccezioni riportate sopra), non altrettanta solerzia viene dimostrata nei confronti di quegli istituti che nel tempo hanno assunto dimensioni così ampie per numero di studenti iscritti da diventare dei veri e propri monstre.
Ma anche in questo caso occorre chiarire il senso di questa affermazione. In teoria un istituto con 3500 studenti potrebbe non essere in sé un’aberrazione (ne ho visitato personalmente uno in pieno centro a Pechino che contava questa popolazione studentesca), ma si tratta di chiarire che tipo di scuola si vuole perseguire e il ruolo che è chiamato a svolge il dirigente scolastico all’interno di istituti così concepiti.
Infatti, se si opta per un ruolo essenzialmente gestionale e manageriale del DS, probabilmente il numero di studenti può essere molto elevato in quanto il dirigente si occupa essenzialmente di problemi macro; se invece si punta ad un ruolo più caratterizzato nel senso della leadership educativa, allora una dimensione più ridotta dell’istituto può favorire meglio lo svolgimento dei compiti connessi.
La tendenza che si è diffusa nel tempo in Italia è stata quella di puntare su un identikit di figura dirigenziale di tipo manageriale (almeno sulla carta e per i compiti che vengono richiesti) e dunque in grado di dirigere istituti anche di grandi dimensioni, tendenza che, guarda caso, meglio si sposa con le politiche di contenimento della spesa pubblica.

Tutto il ragionamento fatto fin qui può essere confutato con l’osservazione che la buona scuola in fondo la fanno i buoni insegnanti e questo a prescindere dalle dimensioni dell’istituzione scolastica. Infatti, si può obiettare che è all’interno del rapporto d’aula che si esprime una buona didattica con il correlativo conseguimento di risultati scolastici significativi e positivi.
Questa osservazione, non banale, trascura però che le “prestazioni” dei docenti risentono anche del clima complessivo che si crea all’interno della scuola e dei rapporti che si stabiliscono con la dirigenza.
Non a caso A. Paletta rimarca che “la leadership è una qualità distintiva tanto più di valore quanto più è strettamente connessa alla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ovvero quanto più valorizza studenti e docenti nella cui interazione si sostanzia lo sviluppo della persona umana.”[1]
Ma c’è da chiedersi in quali tempi e con quali energie un dirigente di un istituto di grandi dimensioni può garantire la tenuta complessiva del sistema e una interazione non episodica con i docenti (quando questi superano abbondantemente il numero di cento), atteso che proprio gli insegnanti costituiscono la principale risorsa professionale su cui si gioca la qualità della didattica e della relazione educativa.

L’aspetto interessante da sottolineare, a riprova del paradigma esclusivamente ragionieristico che ha caratterizzato le scelte di politica scolastica, è che all’aumento del numero degli studenti per istituto, che comporta una maggiore complessificazione nella gestione della scuola, non corrisponde, sul piano formale, una ridefinizione di alcuni istituti contrattuali come ad esempio il riconoscimento giuridico ed economico delle figure intermedie incaricate di garantire, insieme al DS, la tenuta del sistema.
Una maggiore complessità del sistema (e il numero degli addetti di un’organizzazione è un fattore che crea di per sé maggiore complessità) richiede forme più complesse e articolate di gestione. E invece, almeno formalmente, un istituto con 2000 studenti (situazione non così infrequente) si trova equiparato ad un istituto con 900 studenti. D’altro canto questo è quanto succede anche nell’attività d’aula in riferimento ai docenti: non vi è alcuna differenza, sul piano formale, tra il lavorare in classi con 18 alunni o con 30, anche se i carichi di lavoro e i potenziali fattori stressogeni sono di peso diverso.

Per tornare al quesito posto prima (quale sia il numero ideale di studenti per ogni istituto), la questione in realtà è mal posta in quanto probabilmente non esiste un numero ideale; semmai il problema è un altro: che idea di scuola traspare dalle scelte di politica scolastica che vengono portate avanti rispetto al dimensionamento? E correlativamente: che idea di dirigente scolastico viene veicolata? La mia ipotesi è che la tendenza ad ampliare i parametri quantitativi delle istituzioni scolastiche, a parte l’onnipresente mantra della razionalizzazione (leggasi: risparmi di spesa, ma con le contraddizioni segnalate in apertura), nasconda un’idea essenzialmente burocratico-gestionale della scuola, con una certa indifferenza verso i processi che sottostanno all’impresa educativa. È la scuola del merito (il merito dei migliori, quelli provenienti dai ceti sociali più abbienti), più che della cooperazione, della competitività più che della solidarietà. In sostanza, è la scuola del profitto, fatta a immagine e somiglianza del neocapitalismo. A questa scuola non serve un dirigente che curi le relazioni umane, o che garantisca che lo sviluppo dei processi di apprendimento costituisca un diritto per tutti gli studenti; a questa scuola serve un manager che si occupi essenzialmente degli aspetti burocratico-gestionali. Il libero mercato completerà l’opera intrapresa da questa scuola, selezionando diligentemente i Gianni dai Pierini.

[1] A. Paletta, Dirigenza scolastica e middle management, Bononia University Press, Bologna, 2020, vol I, p. 9.




Gli apprendisti stregoni dell’autonomia differenziata applicata alla scuola

di Stefano Stefanel

Nel generalizzato disinteresse generale si sta sviluppando sotterraneamente e mediaticamente l’applicazione dell’autonomia differenziata, inserita in Costituzione nel 2001 con la legge costituzionale n° 3 del 12 marzo 2001 emanata il 18 ottobre 2001 a seguito del referendum popolare confermativo del 7 ottobre 2001 (10.433.574 voti favorevoli, 5.816.527 voti contrari, 229.376 schede bianche e 363.943 schede nulle).
L’autonomia differenziata riguarda molti settori e quello scolastico non si sottrae a questo esperimento di ingegneria costituzionale che non pare riuscito finora benissimo, almeno a livello teorico.
L’autonomia differenziata è una novità per quindici regioni italiane, mentre di fatto già c’era negli statuti speciali per le cinque Regioni individuate dalla Costituzione del 1948 (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta), anche se tre delle cinque regioni hanno applicato le norme anche sulla scuola soprattutto per l’applicazione di trattati internazionali (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Bolzano, il Friuli Venezia Giulia per la minoranza di lingua slovena, la valle d’Aosta per le norme di collegamento con la Francia) e una sola (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Trento) ha realmente regionalizzato la scuola per decisione non derivata da norme internazionali con la legge n° 5 del 7 agosto del 2006.

In questo momento l’autonomia differenziata applicata alla scuola viene rivendicata da poche Regioni e – tra tutte – solo il Veneto pare avere le idee chiare su cosa fare e pretende una totale regionalizzazione del sistema scolastico, uscendo di fatto dal sistema scolastico nazionale. Ci sono delle parti politiche interessate all’autonomia differenziata e parti che sono ostili anche alla sola idea inserita in Costituzione (queste ultime sono soprattutto forze di centro sinistra e sindacali, che paiono essere diventate nemiche dell’autonomia differenziata pur avendola inventata). Ma nel complesso l’opinione pubblica non è interessata alla cosa, la sente distante e non guarda con interesse oltre la scuola frequentata dai propri figli.


E allora, verrebbe da chiedersi, dove sta il problema? Anche perché tutto va a rilento e i Livelli Essenziali delle Prestazioni, che dovrebbero definire il quadro economico di partenza e la solidarietà nazionale alle parti del territorio nazionale che quei livelli non li raggiungono nemmeno lontanamente, sono più uno schema di lavoro che una solida base di partenza.

DOVE STA IL PROBLEMA

Il problema sta in alcuni punti del (mancato) dibattito che si possono così riassumere:
a) l’applicazione dell’autonomia differenziata richiederebbe una unanimità di intenti di tipo federalistico in tutta Italia, in modo che si vada verso uno stato con elementi di federalismo dentro l’unitarietà nazionale confermata, mentre invece stanno venendo avanti proposte autonomistiche legate a forze politiche partitiche con progetti di parte, indifferenti a qualunque richiamo ad un disegno unitario (ad esempio quella del Friuli-Venezia Giulia che propone di regionalizzare il solo Ufficio scolastico regionale);
b) l’autonomia differenziata nella scuola non deve riguardare l’intero sistema di istruzione, ma può riguardare anche singole e marginali parti di quel sistema, il che vuol dire che non è necessario per regionalizzare avere un progetto generale e organico, ma è possibile anche intervenire su piccoli punti, molto adatti alla propaganda politica e poco alla gestione quotidiana delle scuole;
c) non tutto ciò che riguarda l’autonomia differenziata abbisogna di LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) e dunque è possibile anche regionalizzare parti del sistema scolastico partendo dal proprio punto di vista e non da quello generale: l’esempio più eclatante è quello del segmento 0 – 6 (da zero a sei anni, scuola non dell’obbligo, asili nido, sezioni primavere, scuole dell’infanzia in parte consistente non di proprietà statale) attualmente per lo più in mano a soggetti non statali e quindi non “tabellabile” dentro livelli di prestazione nazionali;
d) una volta approvati i LEP è possibile che le regioni più ricche (Veneto e Lombardia in testa) li accettino a scatola chiusa, perequazione a favore del meridione italiano inclusa, e dunque a quel punto il sistema scolastico nazionale si sfaldi, anche perché i LEP possono prevedere livelli alti di prestazioni (che solo le Regioni più ricche possono fornire), ma anche LEP più realistici che – paradossalmente – possono produrre un vantaggio economico per le regioni più ricche e che quindi diventerebbero elemento politico vincente (il presidente della regione Veneto Zaia e l’assessore all’istruzione Donazzan qualche tempo fa hanno dichiarato che vogliono regionalizzare la scuola veneta per stabilizzare i docenti attraverso aumenti stipendiali che possono tranquillamente erogare).

LA CONFUSIONE DELLA POLITICA

Una materia così tecnica e sistemica dovrebbe essere maneggiata solo dagli esperti del settore e dovrebbe avere dei passaggi esplicativi chiari nei confronti dell’opinione pubblica, destinata a portare bambini e ragazzi a scuola almeno finché non nasce una modalità alternativa all’istruzione, cioè, dico io, per almeno altri duecento anni. Invece tutto è lasciato in mano a politici e giuristi che col mondo della scuola non hanno alcuna familiarità. Lo si vede chiaramente da quanto viene portato all’attenzione pubblica sui documenti (per lo più segreti) di cui si sta discutendo in parlamento e nei consigli regionali.
Perché avviene questo? Io ritengo per un motivo molto semplice: un qualunque professionista della scuola può smontare il tutto in un batter d’occhio, perché quello che viene proposto mediaticamente ha come primo obiettivo quello di smantellare il sistema scolastico nazionale, che sta alla base della nostra costituzione e della nostra convivenza civile e che in Italia pochissimi vogliono, invece, smantellare a favore di regionalismi collegati alla propaganda politica.
Ci son però dei fatti molto gravi, alcuni dei quali talmente di dettaglio da essere praticamente invisibili (ma si sa che il diavolo sta nel dettaglio). Recentemente il Governo ha razionalizzato (tagliato) la rete scolastica eliminando alcuni posti in organico di diritto di dirigenti scolastici e direttori dei servizi generali e amministrativi.
Il provvedimento ministeriale è stato di tipo contabile e naturalmente poteva essere osteggiato da chi lo riteneva sbagliato. Ma alcune regioni, governate dal centrosinistra, hanno impugnato il provvedimento chiedendone il suo ritiro perché avrebbe violato la potenziale autonomia regionale e forze di opposizione al centrodestra hanno accusato i “governatori” regionali di non aver difeso l’autonomia regionale. Se lo si analizza dal punto di vista di un sistema scolastico regionale è molto grave chiedere l’applicazione dell’autonomia differenziata su un singolo provvedimento, perché chi governa attualmente le Regioni ha allora diritto ad applicare quell’autonomia come ritiene meglio di fare.

O l’autonomia differenziata è una riforma in applicazione della costituzione che non deve toccare l’idea di sistema scolastico nazionale, ma solo definire in forma autonoma le specificità regionale, oppure se la si può richiamare ogni qual volta qualcuno a livello centrale decide in maniera diversa da come la si pensa allora tutto diventa lecito: sia quello che si decide a destra, sia quello che si decide a sinistra, senza tenere in alcun conto l’interesse generale, ma occupandosi solo dell’interesse di parte. Anche perché – io penso – se si regionalizzassero i dirigenti scolastici e i direttori dei servizi generali e amministrativi (cosa possibilissima) lo Stato perderebbe su di loro immediatamente il potere di “razionalizzazione”, ma si assisterebbe a quella che – per me -sarebbe un’involuzione inqualificabile di un sistema scolastico nazionale, che vuole la sua dirigenza scelta attraverso concorsi pubblici e nazionali, anche se su base numerica regionale.

E DUNQUE COSA VUOL DIRE REGIONALIZZARE

Per capire cosa vuol dire regionalizzare un sistema scolastico o una sua parte porto solo alcuni sintetici esempi. In sé ognuno di questi esempi porta dei vantaggi per chi regionalizza e immediatamente svantaggi per gli altri, ma sono tutte questioni molto tecniche che chi sta dentro la scuola vede bene e chi sta fuori dalla scuola difficilmente comprende:

a) Sistema 0-6: in questo momento è già “selvaggiamente regionalizzato”, nel senso che i servizi che ci sono al nord non ci sono al sud e che il livello delle prestazioni non è definibile a livello nazionale, anche per una carenza strutturale di edifici adatti all’infanzia. Il sistema attualmente è diviso in due segmenti (0-3: asili nido e 3-6: scuole dell’infanzia) con un segmento di unione (sezioni primavera) e solo il secondo segmento vede la presenza diretta dello stato con le scuole dell’infanzia statali. Su questo segmento insistono 7-8 contratti diversi per personale di diversa derivazione, con una babele normativa che non ha niente di nazionale o sistematico. Ora se una regione regionalizzasse questo segmento facendolo diventare tutto regionale si accollerebbe una spesa notevole, ma al tempo stesso interverrebbe massicciamente sul welfare delle famiglie a cominciare da quelle più giovani, che hanno figli piccoli. Ma in questo modo l’omogeneità del sistema nazionale “scapperebbe” per sempre.

b) Organico del personale della scuola: è regionalizzato solo in Trentino e costa un mucchio di soldi, perché la regionalizzazione ha aumentato gli stipendi del personale. Diciamo che questa tipologia di regionalizzazione è la più costosa e per ora la rivendica solo il Veneto: è una gabbia salariale di nome diverso, che parte da un reclutamento e una formazione regionale e non nazionale.

c) Istruzione tecnica e professionale e formazione professionale: questa regionalizzazione toglierebbe quel tipo di segmento di istruzione dal sistema scolastico nazionale potendo prevedere anche qualifiche di tipo diverso decise dalle regioni per tutta la filiera e – soprattutto – toglierebbe il dualismo tra formazione e istruzione professionale, gestendo qualifiche e percorsi in forma diretta.

d) Ufficio socialistico regionale: regionalizzare solo l’ufficio scolastico (che si chiama regionale, ma è di fatto un ufficio statale che agisce nelle singole regioni, ma risponde al Ministero) significherebbe far dirigere il personale dello stato selezionato con concorsi statali (dirigenti, direttori, docenti, ata) da personale di nomina regionale, mettendo la politica regionale in posizione di vantaggio rispetto alla gestione del sistema.

Mi fermo qui perché questo è solo un articolo. Tutto quello che ho scritto meriterebbe approfondimenti passo per passo, mentre vedo in giro poco interesse e soltanto posizioni di parte, prive di qualunque logica di sistema. Cioè, vedo molti apprendisti stregoni su una questione come la scuola dove si ha a che fare con le menti e le intelligenze di tutta la gioventù italiana.




Quando l’educazione all’affettività si faceva anche senza Valditara e senza gli influencer

di Nicola Puttilli       

Alcuni giorni fa un’insegnante della scuola che dirigevo a Nichelino, realtà allora particolarmente problematica dell’hinterland torinese, mi ricordava con un messaggio che più di una ventina di anni fa istituimmo nella scuola elementare un laboratorio di educazione all’affettività e alla sessualità, osservando, con una punta di ironia, come già allora fossimo all’avanguardia, anche senza il supporto degli influencer.

Influencer o meno l’avvio del laboratorio fu reso possibile grazie a quel poco di organico funzionale e di risorse aggiuntive (L 440/97) che accompagnò la prima attuazione dell’autonomia scolastica, voluta dall’allora ministro dell’istruzione, recentemente scomparso, Luigi Berlinguer.
Il laboratorio, così come lo stesso tentativo di dare vita a una vera, per quanto iniziale, autonomia, ebbe breve vita. Il ministro che, come non bastasse l’autonomia, si era messo in testa di riformare anche gli ordinamenti scolastici, sostanzialmente risalenti alla riforma Gentile, fu presto trafitto dal fuoco amico e costretto alle dimissioni.

Dal 2001, ministro Letizia Moratti, cominciarono gli anni delle vacche magre: tagli indiscriminati, di finanziaria in finanziaria, fino a praticamente dimezzare in poco più di un ventennio la quota di PIL destinata all’istruzione. Operazione, quest’ultima, in cui si distinse per accanimento e perseveranza la ministra Gelmini.

L’autonomia scolastica si tradusse presto nello scarico verso le scuole di tutte le procedure burocratiche e amministrative che prima facevano capo ai provveditorati agli studi. Gli organici funzionali furono rapidamente dimenticati e nella scuola primaria tagliate drasticamente  le compresenze sul tempo pieno, rendendo sempre più difficili quelle preziose esperienze laboratoriali che ne avevano caratterizzato la nascita negli anni’70.
Negli altri ordini di scuola è costantemente lievitato il numero di alunni per classe e per converso drasticamente diminuito il numero di autonomie scolastiche (istituzioni oggi per lo più sovradimensionate, cariche di compiti amministrativi, con il dirigente scolastico sempre più lontano dai temi educativi e didattici che dovrebbero invece maggiormente caratterizzarne la dimensione professionale).

Gli esiti di questa fallimentare politica scolastica purtroppo li conosciamo bene: risultati di apprendimento insoddisfacenti, deficit relazionali e comportamentali, dilagante analfabetismo di ritorno, tassi di abbandono e dispersione tra i più alti d’Europa e con fortissimi squilibri regionali e territoriali.

Con l’eccezione della legge 107/15, anch’essa peraltro declinata burocraticamente, dopo Berlinguer i governi e i ministri che si sono succeduti hanno praticamente rinunciato a occuparsi di scuola, considerandola una riserva di caccia per le leggi finanziarie e limitandosi a interventi di piccolo cabotaggio (chi ricorda il “cacciavite” di Fioroni?) o, peggio, tesi a lasciare una qualche traccia purchessia della propria presenza (per onor del vero c’è stato anche il caso del ministro Fioramonti che si è dimesso perché gli investimenti promessi non erano stati confermati, o almeno così ha dichiarato, caso unico per quel che riguarda le dimissioni, regola confermata per i mancati investimenti).

Si sono così ripetute, a seconda degli echi di cronaca del momento, le misure, più o meno andate a segno, tese ad imporre dall’alto ore aggiuntive praticamente su tutto. Dall’educazione stradale in caso di incidenti gravi, all’educazione motoria cara al ministro già insegnante di educazione fisica, nella primaria. Dall’orientamento quando la pubblica opinione discute del disallineamento tra offerta formativa delle scuole ed esigenze del mondo imprenditoriale, all’educazione civica se il tema del giorno è quello del bullismo, fino all’ educazione alle relazioni e ai sentimenti (per la sessualità si può sempre aspettare) in caso di femminicidio, senza dimenticare le ore di religione cattolica già presenti dal 1984.

Nella mente dei nostri ministri continua a prevalere l’idea dei vasi da riempire, come se i comportamenti derivassero più dalla quantità dei contenuti appresi che dalla qualità degli stessi e, soprattutto, dalla qualità degli approcci metodologici e delle relazioni che gli insegnanti sono in grado di impostare fin dalla scuola dell’infanzia e a prescindere dalla specifica disciplina di insegnamento, in ogni istante del loro rapporto con gli studenti.

I problemi della scuola italiana sono enormi e strutturali, a poco servono interventi- immagine e ore aggiuntive distribuite qua e là. Anche se le riforme di sistema, nella scuola in particolare, non hanno mai pagato politicamente, sarebbe forse ora di assumersi la responsabilità di ritornare a una visione generale, a un progetto di grande respiro in grado di dare speranza alla nostra scuola.
Le vie individuate da Luigi Berlinguer più di venti anni fa possono ancora  essere un importante punto di riferimento: sia la riforma dei cicli utile a contrastare la selezione precoce e la successiva dispersione scolastica sia, e soprattutto, una vera autonomia scolastica.

Più di vent’anni fa a Nichelino IV circolo eravamo stati in grado di intercettare le esigenze del territorio e di fornire risposte significative, senza imbeccate ministeriali e tanto meno interventi di influencer o simili dell’epoca. La scuola italiana ha bisogno di investimenti importanti, dalla sicurezza delle scuole alla  qualità degli ambienti di apprendimento, fino alla formazione del personale- Non sarebbe male cominciare con il rispedire agli uffici ministeriali territoriali scartoffie e pratiche burocratiche varie e dare fiducia e mezzi, in termini di organici funzionali e di risorse, ai nostri insegnanti e ai nostri dirigenti scolastici, riprendendo, là dove l’avevamo lasciata, la strada di una vera autonomia scolastica.