Patti territoriali per la formazione: dalle parole ai fatti

Stefaneldi Raffaele Iosa e  Massimo Nutini

Un commento pedagogico e alcune indicazioni operative sull’ampliamento dell’offerta formativa possibile, per la prossima estate, con i 150 milioni di euro previsti dal “Decreto legge Sostegni”

 

 

Dunque, dal Decreto Sostegni del governo Draghi arrivano 150 milioni direttamente alle scuole come primo segno di carattere squisitamente sociale ed educativo per i nostri bambini e ragazzi che da febbraio 2020 ad oggi hanno patito gli effetti sconvolgenti della pandemia da Covid nell’esperienza scolastica, nella vita sociale, nella dimensione esistenziale di crescita.
Tali risorse si aggiungono ad una cifra di circa 175 milioni destinabile alla stessa finalità nell’ambito del Programma operativo nazionale PON “Per la Scuola” 2014-2020.

Una novità assoluta che deve essere ben compresa e attuata

E’ una novità che rischia di non essere capita in tutta la sua potenzialità da molte scuole ed enti locali e forse anche fraintesa. Non siamo più infatti nel periodo delle passioni generose della primavera del 2020, ma in quello (con la seconda e terza pandemia) delle passioni tristi di questo anno scolastico, in cui il clima sociale ed educativo si è complicato e raffreddato anche con la nuova grande chiusura di tutte le scuole delle zone rosse, di cui oggi non è nota la fine, anche se il Governo garantisce che le scuole saranno (auguriamocelo) le prime ad essere riaperte.

Eppure questa novità arriva giusto al momento in cui emerge, giorno dopo giorno, la drammatica emergenza sociale ed educativa fatta pagare ai nostri bambini e ragazzi con ferite non solo curricolari ma anche e forse soprattutto sociali, emotive, esistenziali, proattive.
Tutti aspetti che hanno (eccome) a che fare con l’educazione e con la scuola nel suo offrire quotidianamente, e insieme, istruzione e formazione.

Lo scopo di questi 150 milioni, che si uniscono ai fondi del Programma operativo nazionale PON “Per la Scuola“, è infatti definito con precisione. Si propone alle scuole di attivarsi direttamente per “potenziare l’offerta formativa extracurricolare, il recupero delle competenze di base, il consolidamento delle discipline, la promozione di attività per il recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti” (inserendo a questo punto un “anche” un po’ pericoloso che potrebbe vanificare, almeno in parte, la finalità perseguita) “nel periodo che intercorre tra la fine delle lezioni dell’anno scolastico 2020/2021 e l’inizio di quelle dell’anno scolastico 2021/2022”.

Per tale periodo, si invitano le scuole ad ampliare l’offerta formativa ad ampio orizzonte, facendo riferimento (appunto) ad un celebre articolo del Regolamento autonomia (il 9) molto poco utilizzato (ahimè), in questi venti anni di scarsa autonomia reale, dalle scuole e spesso utilizzato per “progetti” di contorno accessorio e poco connessi alla parte hard del curricolo.

Le risorse in campo, i procedimenti e le tempistiche

Si apprende dalla Relazione tecnica che il finanziamento previsto sarà mediamente pari a circa 45.000 euro per ogni istituto scolastico, considerato che con le risorse PON 2014-2020 si darà copertura a circa il 60% degli istituti mentre il rimanente 40% sarà finanziato, appunto, con i 150 milioni del decreto sostegni.
Tali risorse saranno assegnate, sulla base di un avviso pubblico, prioritariamente alle istituzioni scolastiche statali che manifestano il proprio interesse e che non abbiano già ottenuto un finanziamento, per le medesime finalità, a valere sulle risorse del Programma operativo nazionale “Per la Scuola” 2014-2020.
Se il decreto attuativo del Ministro dell’Istruzione sarà adottato in tempi brevi, si può dire che il finanziamento, questa volta, non arriverà troppo tardi, ma tre mesi prima del suo utilizzo. C’è dunque tempo per riflettere, progettare, diffondere l’idea.

Il successo o meno di questa idea però dipenderà da molti soggetti. In primo luogo, naturalmente, si tratterà di vedere quale sarà la gestione del Ministero e quanta dose di centralismo e di burocratizzazione si vorrà continuare a seminare nel processi attuativi. Da questo punto di vista sarà un banco di prova per il nuovo Ministro e per il nuovo Capo Dipartimento per dimostrare un cambio di passo. Ma dipenderà anche dai sindacati, dagli enti locali, dalla società civile, dal terzo settore, se cioè tutti gli steackholders coinvolti a diverso titolo nell’educazione proveranno, o meno, a costruire e condividere (assieme alle scuole) sinergie significative e di qualità per tentare di restituire quanto perduto e per offrire ancora speranza e risanamento del dolore vissuto.

Risulta evidente infatti che le ferite delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi vissute in questo periodo non sono solo tema della scuola (come fosse l’unico ospedale rieducativo) ma di tutta la società adulta, a partire da quella orizzontale e del territorio composta dai tanti diversi soggetti che si occupano di educazione e giovani.

Vediamo, quindi e innanzitutto, alcuni temi squisitamente pedagogici e sociali, oltre alle prime indicazioni operative,  anche per offrire spunti e idee alle scuole che saranno interessate a candidarsi per questo finanziamento, che è di libera scelta di ogni singola scuola autonoma. Esempi riguardanti l’estate prossima, per quelli durante l’autunno ne parleremo più avanti.

L’estate, i bambini e i ragazzi

Superato il troppo demagogicamente discusso “proseguimento dell’anno scolastico a fine giugno”, il Decreto fa una svolta inedita, mai avvenuta prima e persino coraggiosa: propone alle scuole di essere aperte da metà giugno a fine agosto per realizzare (appunto) originali ampliamenti dell’offerta formativa. Lo richiede quest’epoca così dura ed emergenziale ma è una grande opportunità per praticare, dopo averne parlato tanto, una nuova progettazione e azione educativa sul territorio e con il territorio.

Ma cosa c’è nelle nostre città per l’estate dei bambini e dei giovani? C’è spesso già molto. Non sono pochi i comuni grandi e piccoli che hanno una lunga tradizione estiva di opportunità, anche se, qualche volta, un po’ appannata come qualità. Pullulano le iniziative di carattere animativo-sociali, in primis quelle delle parrocchie e della cooperazione sociale che occupano volontari e educatori, a partire da quelli che seguono gli alunni con disabilità a scuola durante l’anno.

Sono iniziative molto spesso svolte in scuole pubbliche, possibilmente con ampi spazi e giardini, concesse dalle amministrazioni comunali che, tra l’atro, sono anche un modo per mantenere a tanti educatori un salario nei mesi estivi, altrimenti perduto perché il loro lavoro è a cottimo, centrato sull’anno scolastico e sulla presenza o meno dell’alunno con disabilità.

La maggioranza delle attività estive sono a pagamento (si paga per settimana o per mese) e le tariffe variano secondo la tipologia e in relazione all’orario che prevalentemente copre tutta la giornata pur essendo presenti centri che offrono opportunità solo mattutine o solo pomeridiane. In genere si offrono uno/due giorni settimanali in piscina o in montagna o al mare, con almeno uno o due gite interessanti a mese, e varie attività sportive. Se c’è nelle vicinanze un grande parco giochi, non ci si lascia perdete l’occasione…  Spesso, le attività si interrompono nelle settimane centrali di agosto, ma possono offrire servizi anche fino alla prima settimana di settembre. La frequenza è ovviamente calibrata sulle esigenze delle famiglie e sulle loro ferie familiari.

I Comuni garantiscono un finanziamento alle attività che rispondano a determinati requisiti e, anche avvalendosi di contributi statali e regionali, aiutano le famiglie a basso reddito pagando, di fatto, una parte della quota di compartecipazione, naturalmente in base all’ISEE. Tutte le opportunità del territorio sono utilizzate, dalla visita al museo alla giornata al centro equitazione, dalla pomeriggio alla fattoria all’incontro con l’artigiano che effettua lavorazioni in via di estinzione. La maggioranza delle iniziative accolgono bambini dai 3 ai 14 anni, con diverse articolazioni di attività secondo l’età. Si può perfino creare per ogni bambino una specie di estate à la carte. Sono comunque attività a valenza di socialità, proattività, amicizia, esperienze culturali, ma anche di apprendimenti curricolari informali (es. l’inglese, l’arte).

Ci sono poi i nostri giovani da 14 anni in su, e qui la forbice si apre: i figli del ceto medio-alto si fanno la stagione al mare o vanno (andavano prima del Covid) all’estero per corsi di inglese o in vacanze ancora più raffinate in giro per il mondo. Invece I giovani degli istituti professionali e dei ceti medio-bassi si trovano lavoretti estivi (nelle zone in cui questo è possibile) e diverse attività di passatempo. Se ci sono, utilizzano spazi di aggregazione giovanile, offerti spesso dalle parrocchie e da qualche circolo, dove non è richiesto il pagamento di una tariffa.

In conclusione: attività che nulla finora hanno avuto di relazione con le nostre scuole. Tutto questo per dire che dalla fine della scuola e fino all’anno scolastico successivo non c’è il deserto educativo nelle nostre città. Ci può essere un sud (e non tutto) con un’offerta più scarsa, e qui la presenza della scuola può essere davvero determinante, ma in altre parti del paese la situazione è del tutto diversa. Il problema, ed è questa una grande occasione da non perdere, è abbattere i costi, in particolare per i più bisognosi, e far fare un salto di qualità a quest’offerta che, con l’ingresso della professionalità e dell’esperienza delle scuole, è sicuramente realizzabile.

Il rapporto tra progetti delle scuole e progetti del territorio

Dunque   la scuola si troverà nuovamente, ma con risorse proprie e alla pari, a dialogare con altri soggetti pubblici e privati che già offrono opportunità educative, già utilizzate dalle famiglie, e non è escluso che si possano verificare episodi di competizione infelice e di conflitti, anche politici.

Le alternative sono quattro:

– la scuola tende a lasciar perdere perché ritiene il “mercato locale” di opportunità già saturo e non avanza alcun progetto per chiedere il finanziamento;
– la scuola procede separatamente e si affianca alle tante iniziative separate di altri soggetti, a canne d’organo ognuna per conto suo;
– la scuola semplicemente “appalta” qualche iniziativa già pronta dalle varie cooperative e associazioni, magari mettendoci come prezzemolo qualche insegnante volenteroso;
– la scuola si offre come partner (e anche investitore) in iniziative progettare e realizzate assieme ad altri soggetti del territorio, nella logica “paritaria” del “patto di comunità”.

È evidente che la quarta alternativa è l’unica che può realizzare un ruolo della scuola nel territorio che, se non è ancora quel “sistema formativo integrato” che abbiamo imparato da Bruno Ciari negli anni 70 dello scorso secolo, ci si avvicina molto, attivando una sinergia educativa che potrà aiutare tutti i soggetti a crescere e migliorare. E così l’educazione esce dalle sole aule di scuola e attraversa le strade delle nostre città. E, ovviamente, in questa filosofia pedagogica, l’ente locale può agire come coesore di comunità, dunque il primo partner che la scuola dovrebbe avere.

Tutto questo porta a pensare che, sia al nord sia al centro sia al sud, la scuola debba fare i conti, per eventuali attività estive, da un lato con i bisogni esistenziali e le ferite dei propri alunni e studenti, ma dall’altro anche con l’offerta qualitativa del territorio già presente. Ed è per questo che appare essenziale, per dare successo alle iniziative possibili con le significative risorse che stanno per essere erogate, che le gli istituti scolastici agiscano come soggetti attivi ma non unici o solitari nel programmare le attività estive proposte dal Decreto.

D’altra parte lo dice e favorisce lo stesso articolo 9 del Regolamento Autonomia DPR 275/99 che esplicitamente afferma:

“Art. 9 (Ampliamento dell’offerta formativa)

  1. Le istituzioni scolastiche, singolarmente, collegate in rete o tra loro consorziate, realizzano ampliamenti dell’offerta formativa che tengano conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali. I predetti ampliamenti consistono in ogni iniziativa coerente con le proprie finalità, in favore dei propri alunni e, coordinandosi con eventuali iniziative promosse dagli enti locali, in favore della popolazione giovanile e degli adulti.
  2. I curricoli determinati a norma dell’articolo 8 possono essere arricchiti con discipline e attività facoltative, che per la realizzazione di percorsi formativi integrati le istituzioni scolastiche programmano sulla base di accordi con le Regioni e gli Enti locali.
  3. Le istituzioni scolastiche possono promuovere e aderire a convenzioni o accordi stipulati a livello nazionale, regionale o locale, anche per la realizzazione di specifici progetti.”

Come operare concretamente

Innanzitutto c’è da augurarsi che le circolari  ministeriali non mettano lacci e vincoli formali, che i sindacati condividano la presenza dei docenti, pur su base volontaria e contrattualmente regolata, in queste iniziative, che gli enti locali partecipino ad una progettazione condivisa portando il loro apporto di esperienza e conoscenza sull’attività educativa sul territorio ed una comune regolamentazione delle modalità di utilizzo degli edifici di cui sono proprietari e dei servizi di supporto che potrebbero essere utilizzati anche per le attività estive, che si definiscano accordi locali di integrazione e collaborazione tra i diversi soggetti istituzionali e con il coinvolgimento degli altri soggetti presenti sul territorio.

Si tratta, insomma, di una vera opportunità per iniziare a coniugare la risposta ai bisogni dei singoli (di crescita e sviluppo di ciascun individuo, di cui si occupa tradizionalmente la scuola) con i bisogni emergenti dal contesto socio economico locale (di sviluppo della comunità, appannaggio degli enti locali). Peraltro, la sottoscrizione di “Patti educativi di comunità” è oggi esplicitamente sollecitata dal Piano Scuola 2020/21, approvato con decreto ministeriale 26 giugno 2020, n. 39, contenente le indicazioni per la ripartenza delle attività didattiche in presenza dopo le chiusure obbligate dall’emergenza sanitaria.

Tali “Patti” possono rappresentare, anche in relazione a attività da svolgersi nei periodi di interruzione del calendario scolastico, un’importante occasione per potenziare e qualificare i rapporti tra le scuole e gli enti locali. Il decreto legge 14 agosto 2020, n. 104 (decreto Agosto), al comma 2, lett. a), dell’art. 32, ha già stanzia specifiche risorse per sostenere finanziariamente i “patti”. La norma prevede che “le istituzioni scolastiche stipulano accordi con gli enti locali contestualmente a specifici patti di comunità, a patti di collaborazione, anche con le istituzioni culturali, sportive e del terzo settore, o ai piani di zona, opportunamente integrati, di cui all’articolo 19 della legge 8 novembre 2000, n. 328, al fine di ampliare la permanenza a scuola degli allievi, alternando attività didattica ad attività ludico-ricreativa, di approfondimento culturale, artistico, coreutico, musicale e motorio-sportivo, in attuazione di quanto disposto dall’articolo 1, comma 7, della legge 13 luglio 2015, n. 107”.

Dal punto di vista procedurale c’è un po’ di lavoro per il dirigente scolastico e il direttore generale dei servizi amministrativi. Per prima cosa si deve fare una delibera del Consiglio di Istituto e approvare un progetto di massima che già preveda la necessità della sottoscrizione di un “patto” territoriale” e autorizzi il dirigente alla sottoscrizione, poi sarà necessario definire questo “patto territoriale” assieme all’ente locale e agli altri soggetti del territorio che potranno concorrere alla realizzazione del progetto, sarà quindi opportuno condividere con le rappresentanze sindacali nella scuola i criteri per raccogliere le adesioni del personale scolastico all’iniziativa e le modalità di incentivazione e definire, con il responsabile del servizio prevenzione e protezione, le indicazioni utili per contrastare la diffusione del contagio da Covid-19, tenendo conto dei protocollo nazionali e regionali che trattano tali questioni.

A monte, naturalmente, non appena sarà pubblicato l’avviso pubblico per richiedere il finanziamento, la scuola dovrà avanzare la sua candidatura. È un lavoro che non deve impensierire più di tanto. Si deve pensare a documenti semplici, essenziali, asciutti, e non a voluminosi e complicati elaborati che, ove necessari per la parte operativa, potranno essere rinviati ad un momento successivo e delegati a chi si occuperà dell’attuazione. Inoltre, per la stesura di alcune parti, ci si potrà avvalere di collaborazioni anche utilizzando le altre risorse messe a disposizione delle scuole con l’altro articolo dello stesso decreto sostegni che stanzia ulteriori 150 milioni per acquisti di forniture e servizi necessari ad affrontare l’emergenza sanitaria e le azioni da intraprendere da parte degli istituti.

Ma lo sguardo che dobbiamo avere per realizzare queste attività rimane quello che si muove a partire dalle bambine e dai bambini, dalle ragazze e dai ragazzi, con un’attenta riflessione sulla loro condizione esistenziale, ma anche familiare, sociale, scolastica, di reti amicali. Meglio ancora sarebbe se più attività possibili fossero condivise e progettate assieme loro, avendo però nel cuore l’onesta sensazione che siamo in un’emergenza educativa e sociale per la quale dobbiamo dare il meglio. Non una gabbia afosa a fare noiose ripetizioni, non una guardiania per farli correre nei giardini, né banalità amene per far passare il tempo. Ci vogliono idee creative, divertenti ed emozionanti anche per noi adulti, che le scuole assieme alle altre agenzie educative del territorio sapranno sicuramente trovare.

Le riflessioni contenute in questo testo sono dedicate a Francesca Sivieri, l’insegnante che nella prima ondata ha “riaperto la scuola” nei giardini pubblici della sua Città e a Iselda Barghini, promotrice della rete delle scuole senza zaino che si è detta convinta che i cambiamenti indotti dall’emergenza sanitaria genereranno una risorsa stabile e condivisa tra la scuola e il territorio.




La scuola non è solo un servizio ma soprattutto una istituzione

di Raimondo Giunta

Si aspettano con ansia i giorni in cui si potrà tornare serenamente a scuola e mettersi dietro le spalle due anni tra i più infelici degli ultimi tempi. Tornare come prima? Come se niente fosse? Spero che non accada, perché vorrebbe dire che non si è imparato nulla, nemmeno dai giorni più difficili. Al primo posto delle preoccupazioni dovrebbe esserci quella di rendere le scuole sicure, sotto ogni profilo e non soltanto dal punto di vista sanitario. Sicure non basta; devono essere accoglienti per la convivialità dei giovani e multifunzionali per attività che non possono ridursi a lezioni e ad esercitazioni.
Luoghi non solo di istruzione, ma della più ampia formazione umana, per generazioni che fuori dal recinto scolastico un po’ dappertutto trovano solo occasioni per dissipare i loro anni migliori. Mai come in questi ultimi tempi si è potuto constatare la centralità della scuola e degli insegnanti; mai come in questi ultimi tempi si è sentito il bisogno di una scuola che funzioni bene in qualsiasi circostanza, senza abbassare il livello delle sue prestazioni. Una scuola a pieno regime per ogni evenienza è la grande sfida da affrontare.
Ma la scuola nella società che cosa è?
E’ questa una questione preliminare ad ogni sua possibile organizzazione e manifestazione e ad essa si cercherà di dare qualche cenno di risposta.

La scuola non è solo un servizio sociale; la scuola è anche una istituzione. Come servizio la sua qualità si misura dalla soddisfazione degli utenti; come istituzione la qualità si misura dalla capacità di conservare e sviluppare i valori di una comunità; come servizio si regge sull’attenzione agli interessi individuali; come istituzione si regge sul principio del bene comune. Il bene comune della scuola è costituito dai saperi e dalle conoscenze che è tenuta a tramandare. Beni quest’ultimi primari e necessari. Beni che appartengono a tutti e non a pochi privilegiati. Per definizione. Principio questo che non ha bisogno di dimostrazione, perché altrimenti non ci sarebbe motivo per finanziare la scuola con risorse dello Stato.
Come istituzione la scuola non può darsi nessuna regola d’esclusione, anche perché il suo costo sociale grava di più su chi meno ne trae beneficio. Ne verrebbe meno il valore; se ne macchierebbe la dignità. Nell’apertura della scuola a tutti sta scritto il meglio della nostra civiltà. Possono essere posti limiti al possesso di beni materiali, non al bisogno e al desiderio di conoscenza e al diritto di formazione. I meccanismi di esclusione a scuola fanno impropriamente del sapere una delle più offensive giustificazioni delle posizioni sociali privilegiate.
La scuola, pertanto, deve garantire a tutti il diritto alla formazione e trasmettere i valori e i saperi, che sono considerati fondamentali per la coesione della comunità: lingua, storia, cultura nazionale, valori costituzionali. I saperi e le conoscenze, beni necessari nella nostra società, fanno della scuola un’istituzione necessariamente pubblica e nessuna comunità può abdicare alla tutela e allo sviluppo di questi beni, se vuole essere una comunità.
Se si vuole che la scuola abbia il rango di un’istituzione, non la si può ridurre ad essere il luogo di un proprio, modesto mercato: quello dei libri di testo, delle tecnologie, dei progetti PON, POR, FESR e delle iscrizioni. Purtroppo dura da troppo tempo la lotta per ridimensionare l’aspetto istituzionale della scuola, per ridurla alla pura logica del servizio, privata del senso statuale. Lo scopo, nemmeno sottinteso, è quello di degradare la funzione del sapere da bene pubblico a mero privato possesso strumentale.
La scuola per svolgere le sue funzioni deve sottrarre bambini, adolescenti e giovani alle loro famiglie, che col tempo incidono sempre di meno nell’educazione dei propri figli. La scuola non può pensare di non avere alcuna responsabilità in questo campo; deve nella specificità del proprio ruolo fare la propria parte, ma ricordando sempre che l’ordine scolastico non è l’ordine familiare (Alain). Non può pensare nemmeno di costringere una famiglia a trovare la soluzione dei problemi di apprendimento che devono affrontare i propri figli fuori dalla scuola, proprio perché è una istituzione.
La scuola come istituzione non può essere diversa da regione a regione, dal centro alle periferie delle città, dalle grandi città ai piccoli comuni. La scuola come istituzione lavora per unire e per proporre una valida e riconosciuta gerarchia dei saperi e delle attività, in grado di contrastare la deriva relativistica degli interessi individuali e dei curricoli à la carte.




Lettera ad una professoressa 2.0

di Marco Guastavigna e Dario Zucchini

Cara somministratrice di prove oggettive, fila A e fila B,
Lei di me non ricorderà nemmeno il nickname.
Che fossero conoscenze o competenze poco importa: ne ha certificati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi a cui fate lezioni frontali con strumenti pensati per interazioni aziendali.
Qualche provvedimento di qualche autorità del territorio ci costringe nelle nostre abitazioni e voi all’istante vi dimenticate che siamo adolescenti.
Per voi siamo solo studenti. Per alcun* – è vero – anche studentesse.

Il fatto che non possiamo incontrarci, non possiamo fare sport, non possiamo innamorarci, non possiamo svagarci – secondo voi – inutilmente, non possiamo vivere la gran parte di quelle esperienze che perfino alcuni dei più retrivi e moralisti di voi hanno compiuto, nemmeno vi sfiora.
Noi perdiamo i 14, i 15, i 16, i 17, i 18 anni nella loro pienezza. Periodi della nostra esistenza che non sono recuperabili, nemmeno con gli esami di riparazione e neppure con corsi fino a luglio, rituali da qualcuno dei vostri tanto rimpianti e proposti.
Voi per contro vi preoccupate di non riuscire a finire il programma (che non esiste più), dell’esame di maturità (idem), delle valutazioni e di rincorrere a tutti i costi non si sa bene cosa.
Sono pochi quelli che quando ci reincontriamo in aula dopo un periodo di distanziamento della didattica ci chiedono come stiamo e ci aprono il cuore.

La gran parte pensa soltanto a misurare, registrare, affibbiare voti e giudizi. Ci avevate detto che la scuola riapriva per noi, per recuperare socialità e benessere e invece… in questi due mesi in presenza – anche se al 50% – ci avete massacrati con continue verifiche e interrogazioni. Sembrate vendicarvi di colpe non ben precisate, ma che certamente non abbiamo noi.

Ormai siamo rassegnati a perdere una parte della nostra gioventù, ma sappiate che ci fate amaramente ridere quando vi sentiamo dire che la vera scuola è quella in prossimità, perché è fondata sulle relazioni umane.

(testimonianze anonime raccolte da Marco Guastavigna e Dario Zucchini)




La scuola è una pubblica amministrazione da riformare?

di Stefano Stefanel

La scuola è una pubblica amministrazione da riformare?  Da un punto di vista teorico la risposta dovrebbe essere positiva, visto che nel complesso, tra dipendenti di ruolo e dipendenti precari, la scuola ha una pianta organica di circa 1.200.000 dipendenti. La sua composizione mista la porta ad erogare servizi di tipo non commisurabile, come sono quelli dell’educazione, della formazione e dell’apprendimento, collegati a quelli di carattere economico e fiscale, più simili alle altre pubbliche amministrazioni dello stato. Permangono però nel mondo della scuola alcune evidenti anomalie come quella di 8.000 dirigenti scolastici inseriti in una fantasmagorica Area V della dirigenza pubblica, ben lontana da quelle Aree I e II che contengono i dirigenti di altri segmenti della pubblica amministrazione. Ci sono, poi, molte alte incongruenze, che spesso fanno ritenere che la scuola non sia una vera e propria pubblica amministrazione. E infatti i dirigenti scolastici posti in capo alla scuola subiscono i carichi negativi delle pubbliche amministrazioni (responsabilità patrimoniali, qualifica di datore di lavoro al fine della sicurezza, responsabilità nella privacy, nella ricostruzione delle carriere a fini pensionistici, ecc.), senza beneficiare di quelli positivi (stipendi, mobilità tra pubbliche amministrazioni, middle management a loro disposizione con chiari compiti e responsabilità, ecc.).

La domanda la si può proporre anche rileggendo il Decreto Brunetta di 11 anni fa (d.lgs 150/2009). Quel Decreto fece tanto discutere e tanto litigare sindacati e Ministero della funzione pubblica, con un esito, che sarebbe divertente se non fosse allo stesso tempo avvilente, di sentenze quasi tutte a favore del Decreto Brunetta e allo stesso tempo il suo lento sgretolamento, prima attraverso la legge Madia (legge n° 124/2011) e poi attraverso una serie di accordi sindacali che di fatto hanno derogato  a varie leggi (soprattutto alla “famigerata” ma pur sempre viva legge 107/2015), nonostante proprio il Decreto Brunetta dicesse che non si può fare. La questione non è, però,  solo “storica” perché Renato Brunetta è tornato allo stesso ministero ed ha subito siglato un accordo quadro con i sindacati  per una riforma della pubblica amministrazione.

Il banco di prova relativo a tutto il ragionamento sarà ancora una volta la scuola, che il Decreto Brunetta escluse da alcune sue parti fondamentali, con l’idea che dentro la scuola è meglio mettere il naso il meno possibile. Dodici anni dopo, però, saltano agli occhi alcune storture, come quella che vede le segreterie scolastiche obbligate a gestire le posizioni pensionistiche dei dipendenti, quasi che al contempo l’INPS non fosse già pagato per farlo, ma anche come quella che vede il dirigente scolastico come un datore di lavoro responsabile della sicurezza che però non ha alcun potere sulle inadempienze dell’altro datore di lavoro, cioè il proprietario dell’immobile (che di solito è un ente locale, anche se in Italia vi sono tanti privati che sono proprietari di scuole date in affitto agli enti locali), che, invece, può accampare problemi di tipo economico anche in relazione alla sicurezza (mentre il dirigente scolastico questo non può farlo). Ci sono cioè dei veri e propri ossimori sulla pubblica amministrazione scolastica che una vera legge di riforma dovrebbe tenere nella parte alta della sua attenzione e non liquidare con commi che rimandano a tempi o procedure che non arrivano mai.

Il Decreto Brunetta del 2009 è stato reso sterile da alcune gravi sottovalutazioni dell’esistente:

  • l’eccessiva indeterminatezza del ciclo della performance all’interno di una pubblica amministrazione che premia il lavoro svolto e non il risultato ottenuto da quel lavoro: tutto questo stava dentro una definizione molto “culturale” del ciclo della performance, che ha continuato a premiare dirigenti pubblici che hanno ottenuto i risultati individuali prefissati pur dentro risultati generali catastrofici del proprio ufficio;
  • l’eliminazione della scuola dal ciclo della performance ha scritto, nero su bianco, che la scuola non è valutabile e quindi i successivi tentativi di farlo (Sistema Nazionale di Valutazione, “bonus” premiante il merito nella legge 107/2015, valutazione dei dirigenti scolastici in rapporto all’indennità di risultato) sono apparsi tentativi “disperati” di invertire una rotta che il Decreto Brunetta aveva già delineato (nella scuola non si entra perché è una pubblica amministrazione atipica);
  • qualunque legge o norma può essere modificata per via sindacale anche con accordi o intese, visto che il Decreto Brunetta nel richiamare la priorità della legge sui contratti non ha al contempo abrogato tutte le norme vigenti che dicono il contrario.

In tutto questo ci può essere un punto di equilibrio? Io penso di sì solamente se la così detta “riforma della pubblica amministrazione” prenderà una direzione chiara che preveda alcuni assi portanti:

  1. la semplificazione necessaria e doverosa deve diminuire il carico di lavoro e di carta (oggi PDF) e rendere oggettivamente più snello il lavoro, mentre finora tutte le semplificazioni proposte ed attuate hanno portato a più lavoro e più carta;
  2. la dematerializzazione deve eliminare tutta la carta (anche dagli archivi fisici) con la sola eccezione di quella con valenza storica e culturale e deve portare ad un rapporto con piattaforme di semplice gestione e non con il caricamento di PDF;
  3. i dirigenti devono essere valutati in rapporto ad obiettivi misurabili e chiari, senza alcuna deroga temporale e il primo obiettivo da valutare sono le modalità e la trasparenza con cui il dirigente valuta il personale affidatogli;
  4. dirigenti valutati possono contribuire a valutare il personale in base all’oggettiva prestazione fornita, nel campo scolastico:
    • per i docenti: apprendimenti degli studenti, precisione nello svolgimento del lavoro, gestione dei rapporti con le famiglie, trasparenza nella valutazione, attività di formazione svolta;
    • per gli ata puntualità e precisione nello svolgimento degli incarichi assegnati, competenza reale sulle attività da svolgere, rapporto con l’utenza;
  5. il ciclo della performance può essere una buona cosa da riprendere solo se è strutturato in maniera semplice e sintetica, dentro macro obiettivi;
  6. l’organizzazione del lavoro deve stare in capo al dirigente scolastico senza alcuna ambiguità, nell’ambito dei diritti dei lavoratori e di procedure trasparenti sancite da una valutazione periodica e puntuale.

A questo punto una volta definito il percorso di riforma il punto focale è quello di definire il piano di formazione dei dipendenti, che non può avere solo carattere “uditivo” (il dipendente ascolta quello che gli viene trasmesso), ma deve prevedere un feedback sulle competenze acquisite. Se poi la scuola è pubblica amministrazione allora bisognerà cominciare a comprendere che benefici, come quelli previsti dall’art. 59 del Contratto collettivo nazionale di lavoro del 29 novembre 2007 che prevede che i collaboratori scolastici, anche senza alcuna competenza, possano transitare nei ruoli di assistenti amministrativi paralizzando una buona parte delle segreterie scolastiche italiane, non possono più essere accettati. Qualunque attribuzione di posto e ruolo pubblico deve essere preceduto dall’accertamento delle competenze per poterlo occupare (docenti e ata) perché altrimenti si tratterà ancora una volta la scuola come una “bizzarra riserva”  e non come una pubblica amministrazione.




Eduscopio, ovvero scuole in competizione

di Raimondo Giunta

Anche quest’anno EDUSCOPIO ha pubblicato l’atlante delle scuole superiori, di cui ci si può fidare, perchè vanno bene e fanno tutto quello che bisogna fare per primeggiare sulle altre. Sono informazioni, ammesso che abbiano solide fondamenta, utili solo a quelli e a quanti hanno il tempo per leggerle, ma che contribuiscono a iniettare il veleno della concorrenza tra le scuole, non certamente per avere migliori servizi.

Questa specie di mercato scolastico è uno dei frutti avariati dell’autonomia scolastica. La formazione delle nuove generazioni non è un compito che si può far meglio mettendo le scuole una contro l’altra; è un compito difficile, complicato che può dare risultati soddisfacenti solo se le scuole collaborano, se scambiano tra di loro esperienze e competenze, aperte l’una all’altra e non in guerra per l’accaparramento di risorse e per vanitose ricerche di visibilità, di cui fa le spese la coerenza del processo educativo e del curriculum.

Il principio che ogni scuola debba essere una comunità educativa viene messo in discussione da queste pratiche concorrenziali. D’altra parte vorrei chiedere a quanti producono graduatorie tra le scuole e se ne godono se al punteggio contribuisca la capacità di dare risposte efficaci agli alunni portatori di disabilità o quella di riuscire a migliorare il rendimento degli alunni difficili o quella di accogliere nel proprio seno e integrare alunni figli di immigrati. Vorrei chiedere se sono buone le scuole che lavorano con alunni che non avrebbero bisogno di insegnanti o quelle in cui ai ragazzi bisogna dare tutto, a cominciare dai libri di testo.

Non è per nulla assodato che la pubblicazione di dati come quelli di EDUSCOPIO aiuti a migliorare i rapporti di una scuola con la comunità di appartenenza; anzi per la sua costitutiva logica competitiva rischia di recidere i legami tra una scuola e l’ambiente circostante e favorire in certi strati sociali delle medie e grandi città la corsa verso le scuole  che marciano bene,  collocate nei solidi quartieri dei benestanti . La concorrenza tra le scuole, che di fatto viene sostenuta e incitata con questo genere di azioni, non salva, nè migliora quelle che hanno problemi, perchè continuerebbero ad esistere e sarebbero le uniche disponibili per quelli che non sanno leggere i rapporti di rendicontazione sociale del ministero o quelli di EDUSCOPIO.

Queste graduatorie sono un capolavoro di mistificazione e di ipocrisia. Sono gli indicatori evidenti dello stravolgimento della funzione della scuola, come si evince dal dettato costituzionale; una evidente derivazione degli orientamenti mercatistici di tutte le leggi sulla scuola, che ne hanno sfregiato l’identità.

RAIMONDO GIUNTA

 

 




Le contraddizioni del dibattito sulla scuola

di Stefano Stefanel

L’emergenza nata a causa della pandemia da Covid 19 non accenna a diminuire, anche se fortunatamente si vede la fine dell’incubo per l’arrivo dei vaccini. In questi dieci mesi la scuola è diventata un argomento mediatico di notevole impatto, mostrando la debolezza di un grande paese come l’Italia  che ha difficoltà a supportare questo fondamentale ganglio della vita sociale. I servizi di supporto alla scuola e necessari alla sua vita stanno mostrando molte ed evidenti crepe, dentro richieste di certezze che fino a dieci mesi fa non erano necessarie. Per qualche mese mi sono illuso che, davanti a questa emergenza epocale, la scuola italiana sarebbe riuscita a modificare alcuni elementi essenziali del suo sistema, certificato come carente da tutte le rilevazioni internazionali degli ultimi quindici anni. L’euforia è man mano scemata fino a diventare realismo critico nell’ultimo periodo, dove quotidianamente si sono sovrapposte soluzioni che spesso non hanno risolto nulla. L’impressione che mi sono fatto è quella contenuta in un vecchio detto cinese: noi mostriamo all’opinione pubblica la luna, ma l’opinione pubblica guarda solo il dito e su quel dito poi costruisce il suo pensiero. E’ un vero peccato perché così si rischia di non comprendere i pericoli e di non affrontare i problemi per quello che sono.

In attesa della normalità

In attesa della normalità l’opinione pubblica si è divisa e si sta dividendo tra chi vuole e spera che tutti gli studenti possano tornare quanto prima tutti in presenza anche in piena emergenza e chi invece teme che questo avvenga. Chi fa il mio mestiere sa che si viene quotidianamente pressati da genitori che vogliono il ritorno di tutti contemporaneamente a scuola e genitori che manifestano paure e perplessità per un rientro contemporaneo di tutti. Anche nell’opinione pubblica ci son i fautori del rallentamento delle misure anti pandemia e i fautori di ulteriori inasprimenti finché il vaccino non abbia fatto il suo corso, qualunque siano questi tempi. Tutto questo tocca argomenti importanti, come i trasporti, gli assembramenti davanti alle scuole, la didattica digitale integrata, le mense, i tamponi, le quarantene, i distanziamenti e tutto quello che abbiamo dovuto imparare a conoscere in questi dieci mesi. Purtroppo con tutto questo rimaniamo ad osservare il dito.

Speravo che, invece, il dibattito si sarebbe spostato su che cosa si può e si deve fare a scuola per apprendere anche in condizioni così gravi e difficili, sia nell’ambito della didattica digitale integrata, sia nell’ambito delle azioni in presenza distanziati, con le mascherine, con pause frequenti, con possibili quarantene. Invece mi pare si supponga che, una volta entrati dentro le scuole, tutto possa, per magia, ritornare come prima. Un sistema variegato e complesso viene descritto come unitario e semplice. E questo ingenera l’idea, errata e pericolosa, che le condizioni possano tornare facilmente ad essere normali e tocchi solo agli studenti e alle studentesse fare il “loro dovere”. Abbiamo modificato tutte le condizioni della vita scolastica e  quindi dobbiamo fare molta attenzione a non fingere che queste modifiche non abbiano inciso nel recente passato e non incidano nel lungo futuro. C’erano alcune evidenze da affrontare: personalizzazione di tutti i percorsi degli studenti colpiti in modo diverso dalle misure per il contenimento della pandemia, modifica dell’organizzazione del lavoro dei docenti e del personale ausiliario, diversa strutturazione delle attività laboratoriali, completa ridefinizione del sistema di valutazione degli apprendimenti, analisi dei punti di crisi ed attivazione di interventi strutturali. Invece l’unica ingegneria che si è messa in atto è quella che contabilizza le possibilità, le potenzialità, le opportunità e gli obblighi del rientro. Precisa e puntuale nella discussione su come rientrare tutti a scuola, l’opinione pubblica pare molto poco interessata a come si debba fare scuola nelle condizioni che la pandemia ci impone. Credo che inseguendo il passato stiamo perdendo grandi possibilità per il futuro e che nel tentare di “far finta di essere sani” (come cantava Giorgio Gaber) non ci attrezziamo per comprendere dove e come abbiamo potrebbe  crearsi un buco formativo nelle generazioni future.

In attesa del futuro

Il futuro delle scuole passerà anche da uno strumento molto nominato, ma poco analizzato come il “Next Generation Eu” meglio noto come Recovery Fund. Questa, che a me sembra una logica osservazione nei confronti di un piano che prevede 90 miliardi per la riqualificazione ambientale dell’Italia, cade nell’indifferenza generale perché non pare interessare qualcosa di specifico e vicino. E così si continua ad andare avanti come se nulla fosse accaduto. Una parte delle scuole italiane presto saranno interessate dai naturali lavori di ristrutturazione per la messa a norma in base a progetti redatti e finanziati prima dell’emergenza.  Così accadrà che le scuole “nuove” saranno identiche a quelle “vecchie”. E questo le condizionerà nei prossimi 50 anni, facendole perdere tutte le possibilità del “Next Generation Eu”. E’ logico tutto questo? A me pare di no e lo sto dicendo da molto, con poca o nessuna attenzione. Mettere mano oggi alle scuole così come sono significa non comprendere il futuro e le necessità che l’apprendimento nella società della conoscenza richiede. Bisogna farlo dentro un processo di rifacimento completo e non solo di adeguamento.

Da poco più di un anno è nata una Rete nazionale che si chiama “Rete di scuole Green”, che ha tre scuola romane come capofila e che unisce circa 800 scuole italiane. Qualche giorno fa la rete ha inviato ai componenti del Governo e del Parlamento la seguente missiva: “la Rete di scuole Green è un organismo nazionale nato il 5 dicembre 2019 e presentato ufficialmente a MIUR il 12 dicembre 2019. Raccoglie Istituzioni circa 800 Istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado di tutte le Regioni italiane e di 70 Province. Lo scopo della Rete di scuole Green è quello di sensibilizzare, informare, coordinare, progettare azioni di tipo ambientale, di risparmio energetico, di transizione al verde, di ecosostenibilità nelle scuole italiane, partendo dall’educazione degli studenti fino alla trasformazione degli edifici. Le scuole italiane devono essere tutte riconvertite dal punto di vista ambientale e necessitano di investimenti massicci che coniughino la sostenibilità ambientale con la sicurezza. Per questo la Rete di scuole Green si rende disponibile a collaborare con il Governo e il Ministero dell’Istruzione e le sue varie diramazioni organizzative nella progettazione del Next Generation Eu riferito al sistema scolastico nazionale. Noi riteniamo che sia necessario il protagonismo delle scuole nella progettazione di un futuro veramente ecosostenibile, affinché non si sacrifichino le motivazioni della didattica a un concetto di ecosostenibilità che miri a progettare edifici belli, ecologicamente perfetti, ma privi di ciò che necessita per la scuola del futuro. Pertanto riteniamo che tutta la progettazione del Next Generation Eu, che ha come oggetto la scuola, debba confrontarsi con chi la scuola la vive quotidianamente, per raggiungere un grande risultato che cambi insieme al Paese anche la sua scuola. La ramificazione della Rete di scuole Green, il raccordo stretto della Rete con l’ASVIS e con tutti i territori italiani permettono di raggiungere anche la più sperduta scuola dentro un progetto che sia al tempo stesso avveniristico, anche didatticamente oltre che dal punto di vista ambientale, e al servizio del Paese. Siamo dunque a vostra disposizione e speriamo che questa disponibilità venga raccolta.” La Ministra Lucia Azzolina ha subito risposto all’appello manifestando interesse per la proposta.

Credo che serva in questo senso uno sforzo molto locale per comprendere l’importanza del momento e guardare la luna e non il dito. Non si possono ristrutturare le scuole nella loro attuale inadeguatezza, con aule piccole e corridoi grandi, laboratori da rivedere e risparmio energetico da progettare seriamente; bisogna avere coraggio di inserire le scuole del territorio dentro un reale progetto di riqualificazione ambientale, che comprenda anche gli ambienti di apprendimenti, che stanno dentro gli edifici scolastici e che attualmente sono obsoleti. Su questo argomento mi sto spendendo da molto tempo, ma a livello locale non ricevo neanche una telefonata. Speriamo che attraverso la Rete di scuole Green si riesca a sensibilizzare un’opinione pubblica distratta su un problema essenziale.

Innovazione o conservazione?

L’ultimo punto che intendo qui affrontare è il rapporto tra innovazione e conservazione. Anche in questo caso chi fa vedere la luna deve poi difendersi dalle osservazioni sul dito. Ci sono delle grosse novità per la scuola che vanno adeguatamente presidiate e messe in atto: si va dalla valutazione della scuola primaria alle nuove possibilità digitali dei Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (ex Alternanza scuola lavoro), dall’introduzione dell’Educazione civica come materia trasversale all’integrazione tra didattica ordinaria e didattica digitale, dalla nuova forma degli esami di stato conclusivi alla richiesta di potenziare la trasversalità degli apprendimenti. Tutto questo, però, viene compresso dal dibattito sugli orari degli autobus, sulla turnazione degli studenti, sugli ovvi problemi di igienizzazione e contagi, sull’uso dei device di proprietà degli studenti sperando che siano utilizzati in modo corretto, sulla richiesta di interventi minimi e particolari difficili da attivare in regime pandemico.

Un altro elemento di grande innovazione riguarda la comunicazione. Le scuole sono diventate soggetti comunicatori e il rapporto diretto con i propri studenti, i genitori, la comunità educante e la comunità sociale è diventata una necessità ineludibile. Proprio per questo non è così semplice il silenzio, rotto solo da comunicazioni ufficiali. Le fonti di emanazione dei provvedimenti sono diverse, ognuna con un suo governo e ognuna con un suo obiettivo.  Per questo è impossibile estraniarsi da un mondo della comunicazione che riceve messaggi anche dai silenzi. Per farlo bisogna sapere innovare le proprie modalità comunicative e saper utilizzare tutti i canali possibili. Qualche volte questa necessità è vista come protagonismo, ma in realtà è la fondamentale  mediazione nei confronti di tutti quelli che hanno bisogno di spiegazioni e di motivazioni oltre che di semplici informazioni.

Credo sarebbe necessario mettersi un po’ d’accordo su come ragionare attorno alla scuola, perché la cosa peggiore da fare in questo momento è non rendersi conto che la scuola ha subito due riforme di fatto in dieci mesi e che questo periodo non è solo una lunga attesa al ritorno della normalità. E’ questo il momento di scegliere cosa innovare e cosa conservare. Così come per gli edifici non bisogna cercare di ristrutturare quello che è obsoleto, ma bisogna saper innovare quello che non funziona più, così anche per la didattica è necessario capire cosa mantenere e cosa modificare. Quando si parla di sistema scolastico nazionale non si deve pensare a qualcosa di lontano e irraggiungibile. Ma alla propria scuola, quella che sta vicino a casa.

 




Tempo perso? Ma quando mai!

di Raimondo Giunta

Un bel post di Simonetta Fasoli mi spinge a tornare sull’infelice, sgradevole e immotivato proposito di recuperare il tempo che si sarebbe perso nelle tante settimane di didattica a distanza.
Non credo che ci sia stato un periodo così difficile nella vita della scuola come quello che si è trascorso e si trascorre per mantenere in vita e sviluppare nei limiti del possibile il rapporto educativo tra docenti e alunni. Il tempo della scuola è stato ed è quello determinato dalle istituzioni che la governano; lo sarà ancora, per gli evidenti vincoli che tutti conosciamo. Non può essere dilatato a piacimento; forse a piacimento lo si è ridotto e ancora lo si può ridurre con le più complicate motivazioni.
Nel tempo della scuola scorre con un proprio e diverso ritmo quello della crescita, dell’educazione, della maturazione degli alunni. Non sono rari i casi in cui il tempo della formazione non collima con quello istituzionale e dentro questa cornice può soffocare.

Il conflitto tra il tempo istituzionale e quello educativo ha certamente avuto modo di verificarsi nei tanti mesi della didattica a distanza; può, però, darsi che abbia avuto più successo quello educativo proprio per le particolari condizioni in cui si è sviluppato il processo formativo.
In parole povere può darsi che si sia imparato meno di quanto si doveva, ma che si sia cresciuti più di quanto si fosse sperato.
Da questo dato, che può non essere una semplice ipotesi, ma la realtà delle cose, ripartirei quando sarà il momento.
Visto che si è fatto e si sta facendo tutto il possibile per non perdere tempo, con buona pace di tutti quelli che piangono sui disastri educativi degli attuali studenti a partire dalla povera ministra, al ritorno della normalità ci si dovrebbe soffermare per vedere come sviluppare, mettere a tema quanto di vissuto e di appreso c’è stato in questo difficile momento per gli alunni e per i docenti. L’unica preoccupazione dovrebbe essere quella di tesaurizzare le molteplici esperienze provate in un periodo che resterà nella memoria della scuola, degli insegnanti, degli alunni e dell’intera società.
Un periodo che non dovrebbe passare come una parentesi da chiudere, ma che dovrebbe e potrebbe essere il fondamento di un nuovo inizio per alunni e docenti, avendo sperimentato la complessità del fare scuola e avendo finalmente appreso e compreso la sua imprescindibile necessità nella vita di tutta la comunità.