Classi pollaio, il tortuoso percorso per arrivare all’abrogazione

di Gianfranco Scialpi

Classi pollaio, saranno confermate anche il prossimo anno. Nel Piano Nazionale della Ripresa e della Resilienza si parla di superamento. Cosa accadrà? Difficile ipotizzare qualunque scenario.

Classi pollaio, ulteriore conferma per il prossimo anno

Classi pollaio, saranno confermate anche il prossimo anno.
Il quotidiano ItaliaOggi (27 aprile) conferma lo scenario. “Anche nel prossimo anno scolastico le classi saranno formate secondo le vecchie regole. E cioè secondo i parametri dettati dal decreto del presidente della repubblica 81/2009: da un minimo di 18 alunni fino a un massimo di 26 alunni nella scuola dell’infanzia; da 15 a 26 alunni nella primaria; da 18 a 27 alle medie; da 25 a 30 alle superiori. Resta ferma anche la possibilità di derogare il numero massimo fino a un 10% in più. È quanto si evince dalla nuova circolare sugli organici predisposta dal ministero dell’istruzione, che dovrebbe essere emanata nei prossimi giorni”.

Nessuna sorpresa, attendiamo l’attuazione del PNRR

La notizia non sorprende. Il Mi non può decidere contra legem.
Le disposizioni ministeriali devono essere coerenti con il quadro normativo. Questo ha due riferimenti: la Legge 133/08 e il D.P.R.81/09 che stabilisce parametri molto precisi per la composizione delle classi nei diversi ordini di scuola.
In sintesi. il Decreto stabilisce un max di 26-27 alunni per la scuola primaria (art. 10), 27-28 max per la secondaria di primo grado (art.11) e 27-30 per il grado successivo.
Non resta che sperare nel PNRR (Piano Nazionale della Ripresa e della Resilienza).
Il documento recita a pag 239: “ripensare all’organizzazione del sistema scolastico con l’obiettivo di fornire soluzioni concrete a due tematiche in particolare: la riduzione del numero degli alunni per classe e il dimensionamento della rete scolastica. In tale ottica si pone il superamento dell’identità tra classe demografica e aula, anche al fine di rivedere il modello di scuola”.
La dichiarazione risulta un annuncio. Forse un impegno. Sicuramente molto vago e generico.
I costi di una radicale abrogazione furono fatti due anni fa e contenuti nel disegno di legge (5 luglio 2018) che intendeva superare la iattura delle classi pollaio. A regime il costo complessivo era di poco superiore ai cinque miliardi. (art. 1), equivalente a 1/6 circa lo stanziamento per il comparto Mi.
Troppi? Pochi? La valutazione è sempre soggettiva e dipende da quanto il Paese tiene alla qualità della formazione dei propri ragazzi.
Probabilmente si arriverà a una soluzione di compromesso, che richiederà solo parzialmente un investimento economico (nuova edilizia e riorganizzazione degli spazi). Per il resto ci si affiderà al decremento della popolazione scolastica, che mantenendo invariato il personale, consentirà la riduzione degli alunni per classe (ipotesi Azzolina-Bianchi).




Figure di sistema e questione organizzativa. Farci i conti

di Antonio Valentino

Perché parlare delle “figure di sistema” [1]

C’è un problema oggi – tra i tanti del nostro sistema scolastico – di cui spesso si parla, ma che si fa difficoltà ad aggredire: la demotivazione di larga parte dei docenti, che spesso non li fa sentire dentro il ‘progetto culturale ed ‘educativo’ delle proprie scuole; e li spinge verso una visione vicina a quella impiegatizia del proprio lavoro.

Sono considerati sostanzialmente come optional attività come: coltivare competenze e ed esercitare responsabilità (nel senso di aggiornare e sviluppare capacità professionali e di dar conto dei processi che si mettono in atto e dei risultati in rapporto a quello che si progetta); o vivere positivamente la dimensione collegiale del proprio lavoro.

Per capire meglio il problema dall’interno, è opportuno allargarne il quadro di riferimento alla più larga e impegnativa questione organizzativa delle nostre scuole che, su questo aspetto specifico, si lega al tema – anch’esso ancora problematico – dell’Autonomia scolastica.

Da richiamare per quest’ultima che la legge istitutiva (L. 59/1997, art 21), non a caso, in vista dei processi impegnativi da essa richiesti, ha previsto l’introduzione di ‘nuove figure” (comma 16).
Sarà il CCNL scuola di due anni dopo a introdurre in ordinamento e a regolare contrattualmente le figure dei collaboratori del DS e quelle per le ‘funzioni obiettivo’ , trasformate in funzioni strumentali con il CCNL del quadriennio 2002-2005. Ma – va sottolineato – questo passaggio, se ha apportato semplificazioni positive nelle procedure di adozione, ha indebolito queste figure sul terreno delle responsabilità e della formazione: requisiti previsti per esse nel precedente contratto[2].

Da allora, come è noto, la questione delle ‘nuove figure’ non è stata più ripresa nelle contrattazioni governi / sindacati, nonostante i livelli di complessità del sistema scuola continuassero a crescere, e il tema della responsabilizzazione dei docenti e della loro valorizzazione sul fronte didattico-organizzativo diventasse più stringente.
Tuttavia il dibattitto sulle tematiche connesse a tale questione ha continuato comunque ad attraversare, anche se   a intermittenza, il mondo della scuola e della ricerca universitaria, e soprattutto delle associazioni professionali dei DS.

  1. La questione organizzativa tra Figure Intermedie e valorizzazione delle risorse professionali

Il dibattito sulle figure intermedie (Middle Management).  

Ha insistito su di essa, così da farne un suo cavallo di battaglia, l’Associazione Nazionale Presidi (ANP), ma con motivazioni e proposte considerate sbagliate soprattutto dal sindacalismo confederale.
Recentemente (inizi gennaio 2021), come è noto, è intervenuta sul tema, nel suo ultimo atto di indirizzo, l’allora ministra Azzolina, con una proposta che trae spunti evidenti dall’elaborazione dell’ANP.

Di essa è utile richiamare (v. box 1) i tratti essenziali anche per cogliere le distanze rispetto a posizioni di tutt’altro segno che, sotto la stessa denominazione, si sono sviluppate sull’argomento in questi anni (v box 2). Posizioni che qui si si assumono e si sviluppano in ragione dell’idea di scuola e del tipo di relazioni tra docenti e DS, che si ritengono più promettenti per un buon funzionamento delle istituzioni scolastiche.

Box 1. Il Middle Management: la proposta dell’ex Ministra Azzolina

L’ex Ministra colloca il Middle Management dentro il discorso più generale della “valorizzazione del personale”, da prevedere – nelle sue aspettative – nel prossimo Contratto collettivo nazionale di Lavoro. Ipotizza allo scopo due percorsi di carriera per gli insegnanti:

  • Il primo rivolto alla funzione docente in senso stretto, per la quale prevedere “un vero e proprio percorso di carriera professionale che connoti il ruolo, (…), su base meritocratica”.
  • Un secondo – prefigurato dentro la proposta sul Middle Management – basato sul conferimento di incarichi fiduciari da parte del dirigente scolastico.

Su questo specifico aspetto – che è quello che qui più interessa – tre sono i punti che mi sembra caratterizzano la proposta dell’ex ministra:

  • la previsione di una apposita area da inserire tra gli insegnanti e il DS: quella dei ‘collaboratori’, per i quali soltanto si prefigura un ruolo a parte;
  • l’accesso a tale area è riservata ai docenti capaci, per esperienza, professionalità e vocazione;
  • il compito previsto è gestire attività complesse di competenza del DS, sulla base di una delega formale da parte dello stesso, che rinvia a una posizione organizzativa di dipendenza dal DS dei docenti collaboratori

Finalità dell’operazione proposta è anche quella di permettere a questi docenti di sviluppare “nuove e più compiute professionalità che possano successivamente concorrere al ruolo della dirigenza scolastica con un bagaglio di esperienza organizzativa e di sensibilità amministrativa maturato in tale nuova area professionale”.

Box 2. L’ ipotesi alternativa in campo[3].

Questi gli aspetti caratterizzanti e le differenze rispetto alla proposta dell’ex ministra:

  • Le funzioni intermedie vanno ben oltre quella di ‘collaboratore’ del DS. I livelli di complessità crescente delle nostre scuole richiedono una pluralità di figure, oltre a quelle di collaboratore o per le funzioni strumentali già previste dal nostro ordinamento. Per tutte va prevista una chiara e solida configurazione giuridica e contrattuale – e riconoscimenti conseguenti -;
  • Funzioni specifiche da riconoscere giuridicamente e contrattualmente sono quelle che contribuiscono al funzionamento didattico e organizzativo delle scuole e al miglioramento della loro qualità. Sono quindi, in primo luogo, quelle di coordinamento (dei vari organismi in cui si articola il Collegio), di progettazione e sostegno all’autonomia e di presidio dei diversi luoghi e spazi dell’Istituto scolastico…;
  • Per il loro esercizio vanno richieste competenze organizzative e relazionali, ma anche professionali (progettuali, valutative, tecniche-tecnologiche …). Sono chiamate a coprirle i docenti che acquisiscono le diverse competenze, sia con la formazione tradizionale, sia soprattutto sul campo, con la pratica quotidiana di insegnamento;
  • Tali figure non operano sulla base di deleghe da parte del DS, ma esercitano funzioni per conto del Collegio Docente;
  • Gli incarichi sono a tempo determinato, ma rinnovabili. Si tratta comunque di incarichi duraturi, per i quali è orientamento diffuso è che la durata minima sia triennale (allineata con i tempi dei documenti strategici delle scuole, a partire dal POFT).

Le perplessità dei Sindacati. Le ragioni e le voci contrarie

Va richiamato a questo punto che le Organizzazioni sindacali, soprattutto confederali, non hanno mai visto di buon occhio il riconoscimento giuridico delle figure ‘intermedie’. Unica eccezione, come si è visto, la sottoscrizione del Contratto del ’99, in cui si definiscono, come si è visto, le nuove figure per le Funzioni obiettivo e per i Collaboratori del DS.
Dichiarazioni anche recenti – e comuni ai dirigenti sindacali più accreditati – mettono soprattutto l’accento sul fatto che le articolazioni della funzione docente previste per queste figure configurerebbero una scuola tipo verticistico e autoritario.
La motivazione di fondo è comunque che il riconoscimento di articolazioni del ruolo docente (con quello che può comportare sotto il profilo della differenziazione retributiva e degli sviluppi di carriera) risulterebbero divisive dentro la categoria e non farebbero certamente bene al clima interno delle scuole.
Voci critiche al riguardo sono però emerse anche dentro aree culturali che pure si riconoscono nei valori delle OOSS confederali. Annota ad esempio Franco De Anna, per citare una figura autorevole di quest’area, che l’unificazione della funzione docente, che pure “ha prodotto risultati contrattuali apprezzabili (…)”, ha mostrato nel corso dei suoi 50 anni “tanti difetti realizzativi e (…) scarsissime ricadute sui meccanismi di selezione e reclutamento ….”. E non ha permesso – aggiunge – di “promuovere e consolidare le articolazioni funzionali [del ruolo docente] in rapporto all’organizzazione”; articolazioni funzionali (cioè le figure soprattutto di coordinamento e di presidio) che “oggi hanno una definizione transitoria e contrattualmente non significativa” che intralcia “una possibile traccia di sviluppo professionale per il personale della scuola” [4].

Comunque le preoccupazioni delle OOSS – che riflettono quelle di molti insegnanti (ricordiamo il dibattito acceso – e talora anche i conflitti interni alle scuole sulla questione della premialità introdotta dalla L. 107 (che ha punti evidenti di intreccio con quello delle funzioni aggiuntive) – non possono essere sottovalutate o addirittura ignorate, come dà l’impressione di fare l’ANP.

Sono in ballo questioni importanti, legate a. al modello organizzativo e alla governance interna alle scuole e al ruolo (e quindi ai livelli ci responsabilità e di competenza) che è opportuno prevedere per i docenti); b. alla necessaria rimodulazione   del profilo del DS, oggi schiacciato su una agenda che ben evidenzia il suo progressivo allontanamento dalle funzioni prioritarie che gli sono proprie (v. art. 25 del D.Lvo 165/2001).
Su di esse è pertanto utile qualche approfondimento per mettere meglio a fuoco il tema centrale.

  1. Valorizzazione delle figure di sistema e rimodulazione del ruolo ds. Ragioni e condizioni

Su modello organizzativo e forma di Leadership.  

A proposito del modello organizzativo, non da oggi si conviene da più parti che quello reticolare è certamente il più promettente. E questo perchè più di altri facilita la comunicazione interna, e con essa la cooperazione e il confronto tra i soggetti coinvolti.
Il nostro sistema solo sporadicamente ha sperimentato tale modello – che implica coordinamento tra le sue articolazioni (consigli, dipartimenti, gruppi di progetto…) e relazioni professionali strutturali e coese; oltre che una organizzazione interna a sostegno. Però, a ben vedere, il nostro sistema prevede organismi collegiali che potrebbero ben diventare nuclei portanti di una rete interna, se funzionasse effettivamente come rete. Il riferimento è ai Consigli di classe e ai dipartimenti disciplinari, ma anche ad altri organi che, per quanto non previsti formalmente dal nostro ordinamento, sono di fatto operativi, come ognuno sa, nella maggior parte delle nostre scuole (gruppi di progetto, commissioni di lavoro…).

Occorre tuttavia mettere nel conto che trasformare le diverse articolazioni del nostro sistema in unità operative che si vivano come comunità di pratica, per usare la formula di Wenger [5] – come luogo cioè di riflessione sul proprio lavoro, di confronto, di proposte e di ricerca, partendo dalle difficoltà e dai problemi concreti del fare scuola – richiede figure preparate e motivate, che abbiano cultura organizzativa e si sentano dentro al progetto della loro scuola.

È In questa prospettiva che diventa condizione importante il riconoscimento giuridico e contrattuale delle diverse figure intermedie: dargli infatti valore e appeal porta a favorire – tra gli insegnanti con attitudini e preparazione riconosciute tra i pari – disponibilità a impegnarsi anche su compiti e funzioni qualificanti e necessarie per la scuola come organizzazione. Senza queste disponibilità – che per altro sono sempre più rare proprio per la mancanza delle condizioni di cui sopra – è difficile prevedere il rinnovamento auspicato. (Anche se rimane ancora aperto il problema il problema di conciliare il lavoro di insegnante con le funzioni di ‘figura’).

Ma parlare di un modello organizzativo per la didattica coerente con i ragionamenti precedenti significa anche misurarsi – e qui lo si fa prendendo a riferimento le elaborazioni di Angelo Paletta – con una idea di Leadership: a. “condivisa con gli insegnanti e distribuita nei punti nevralgici del fare scuola (…)[6]”, b.  che guardi alle figure intermedie come alle risorse su cui strutturarsi; c. la cui “fonte” – punto fondamentale – “non promana unilateralmente dal dirigente scolastico”[7].

Ovviamente, Leadership per (in funzione del) l’apprendimento.  Essendo l’apprendimento, nei suoi molteplici ‘oggetti’ e nei suoi diversi livelli, la ragione sociale del fare scuola.

Anche alla luce di questa idea di Leadership, non può essere considerata un optional  la costituzione di un’èquipe di direzione (avvicinabile allo staff del DS allargato ai collaboratori, ai coordinatori delle diverse Unità operative – i diversi nuclei della rete –, alle ‘funzioni strumentali’ ), che si viva anch’essa però come comunità di pratica, con un ruolo prevalente di osservatorio e cabina di regia.

Sul DS: compiti e funzioni di cui riappropriarsi.

Ma una partita come questa, che vuole sollecitare e mettere al centro il protagonismo degli insegnanti, richiede anche, se non soprattutto, una rimodulazione del ruolo DS, in grado di dare chance più elevate alla  prospettiva di una Leadership distribuita che sia anche stabile e coesa.
Rimodulazione che richiede una condizione preliminare: liberare il lavoro del DS dalle varie e pesanti distorsioni che su di esso gravano, sottraendogli tempo e energie, per permettergli di concentrarsi su funzioni e compiti coerenti con ciò che dovrebbe più contare nella sua ‘missione’.
E tra questi, sono particolarmente importanti quelli che poggiano sulla consapevolezza – che è anche convinzione diffusa – secondo la quale “la scuola la fanno essenzialmente gli insegnanti, nel bene e nel male”, e che quindi sono gli insegnanti la risorsa da sviluppare e valorizzare, ‘curare’.

Diventa allora fondamentale, alla luce di questa consapevolezza, tendere a costruire un modello di scuola in cui le prerogative del ruolo DS siano quelle di dirigente di una organizzazione di docenti professionisti, responsabili e competenti per le funzioni del loro profilo (Giuseppe Bagni)[8]. E che pertanto, rispetto a tale funzione, il principio che vale è quello di reciprocità e in nessun caso di subalternità o sottomissione.
Principio che comporta relazioni in cui le ragioni del verificare e del controllare (che sono dentro al ruolo DS di responsabile del servizio scuola) si bilancino con quelle dell’attenzione continua e fondamentale allo sviluppo professionale dei suoi insegnanti. 

Sulla scorta di queste argomentazioni, rimodulerei così, anche sulla base delle suggestioni presenti nell’articolo di Bagni, citato in nota, compiti e funzioni riguardanti la valorizzazione della risorsa insegnanti e il loro coordinamento:

Uno, sostenere come impegno prioritario la dimensione collegiale del lavoro scolastico (il funzionamento delle articolazioni funzionali del CD) e il collegamento di tale dimensione con le attività individuali dei docenti. Che significa, tra l’altro: preoccuparsi di organizzare ambienti funzionali, curati, ospitali; e farsi carico dei bisogni professionali che esprimono gli insegnanti come singoli e come gruppi; ma anche garantire condizioni volte a dare forza e tono alla terza gamba dell’autonomia scolastica: quella della “ricerca, sperimentazione e sviluppo”, generalmente trascurata.

Due, favorire l’interazione continua delle figure con i colleghi del gruppo e ‘l’adattamento reciproco sul campo’, che sono modalità specifiche della funzione di coordinamento; che esclude, per sua stessa natura, qualsivoglia gerarchizzazione dei ruoli.

Tre, “valorizzare le competenze degli insegnanti nel costruire e governare il progetto / processo di insegnamento /apprendimento”. Che concretamente significa: essere attenti a scoprire/far emergere e sviluppare – anche attraverso percorsi formativi – attitudini e competenze del personale, e valorizzarle in modo mirato.

[1] Si è utilizzata questa denominazione (anche se non del tutto appropriata) perché la più comune nel mondo della scuola. Si utilizza anche, e sempre più frequentemente, “Figure di sostegno all’autonomia”. Un’altra denominazione che si incontrerà nel testo è quella di ‘articolazioni funzionali’. Particolarmente diffusa è anche Middle Management.

[2] Sull’ esperienza delle figure per le ‘funzioni obiettivo, richiamo un saggio del 2002 del compianto Giancarlo Cerini, Funzioni obiettivo: una storia “dentro” l’autonomia, https://www.edscuola.it/archivio/riformeonline/fo2002.htmln, che si legge ancora con interesse per l’efficacia delle linee di ragionamento interessanti anche per le considerazioni che qui si svolgono.

[3] Qui si farà riferimento soprattutto agli studi e alle elaborazioni di Angelo Paletta (Dirigenza scolastica e middle management. Distribuire la leadership per migliorare l’efficacia della scuola, Bononia University Press, 2020). Cfr anche Ivana Summa, Middle Management e Comunità Professionale in Rivista dell’istruzione 1/20211, Maggioni editore.

[4] Franco De Anna, Visto da fuori. Note e pensieri sul contratto della scuola, febbraio 2018, in https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F%2Fwww.aspera-adastra.com.

[5] Sulle Comunità di pratica, si rinvia a E. Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, Raffaello Cortina 2006 e a T. Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, LAS 2000

[6] Punti nevralgici sono ovviamente le articolazioni del Collegio Docenti.

[7] V. Angelo Paletta, Dirigenza scolastica e middle management. Distribuire la leadership per migliorare l’efficacia della scuola, cit.

[8] V. Giuseppe Bagni, Professionalità docente e organizzazione del lavoro in “Idee per la formazione degli insegnanti”, a cura di Massimo Baldacci, Elisabetta Nigris, Maria Grazia Riva) – Franco Angeli Editore. In questo saggio Bagni richiama con accenti preoccupati il fenomeno della deresponsabilizzazione (che è cosa altra rispetto a ‘non responsabilità) della classe insegnanti), che ha offerto spunti per questo contributo.




Comunità educante o Sistema nazionale di istruzione?

di Giovanni Fioravanti

La consideravo archiviata, appartenere ad altri tempi, una sorta di attrezzo arrugginito del secolo scorso, riposto in soffitta tra la polvere delle cose da abbandonare all’usura del tempo. Poi l’espressione in questi lunghi mesi stravolti dalla pandemia ha iniziato a salire di tono, a ridondare nel lessico ministeriale e in quello scolastico: la “comunità educante”.

Incuriosito sono tornato a leggere la lettera che il 27 marzo 2020 la ministra Azzolina ha indirizzato alla comunità scolastica nella quale l’espressione “comunità educante” ricorre ben due volte. Non c‘è documento ministeriale dall’inizio della pandemia in cui compaiano espressioni come società della conoscenza, apprendimento permanente, come se le nostre istituzioni scolastiche fossero calate in un altro mondo, quello ancora del secolo scorso insieme alla loro scarsa familiarità con le nuove tecnologie.

Nel lessico che i nostri padri costituenti hanno utilizzato a proposito della scuola termini come educare, educazione, educante non compaiono mai. Agli articoli 33 e 34 della nostra Costituzione istruzione è l’unica parola usata: “istruzione” e non “educazione”, e se si riflette sulla composizione dell’assemblea costituente, sulle sue differenti fonti di ispirazione, non si può che convenire che si sia trattato di una scelta soppesata e voluta. Anzi, a proposito di Enti e privati si provvede a sottolineare la distinzione tra “scuole” ed “istituti di educazione “. Precipuo delle scuole statali è l’istruzione, mentre il compito di “educare” attiene ai genitori come recita l’articolo 30: “E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.”

Istruzione, dunque, e il Ministero è della Pubblica Istruzione, anche se ora gravemente privo di “pubblica”, non c’è un “Ministero dell’ educazione” e, quindi, neppure alcuna “comunità educante” di Stato. Per chi ha perduto la memoria e ancora rincorre le comunità educanti sarà utile ricordare che il Ministero dell’ Educazione Nazionale è opera del regime fascista ed è stato soppresso nel 1944.
L’ identificazione della scuola con l’educazione è una forzatura della tradizione personalistica che ha contrassegnato nel dopoguerra la cultura dei nostri governanti e che si è espressa nella “formazione della persona e del cittadino” come finalità di volta in volta prescritta dai programmi scolastici dei vari ordini e gradi. Ma si tratta di sovrapposizioni che risentono degli anni e dei vari governi che si sono succeduti nel tempo.

La scuola in quanto comunità educante fa la sua apparizione come assoluta novità, tra la distrazione generale, con il primo CCNL del Comparto Istruzione e Ricerca relativo al triennio 2016-2018.
L’articolo 24, richiamando l’articolo 3 del Testo Unico in materia di istruzione (Decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297), detta: “[…] la scuola è una comunità educante […] volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni.”

La curiosità consiste nel fatto che nel citato articolo 3 del Testo Unico il legislatore usa l’espressione “comunità scolastica” “che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica”. Ora come sia possibile il passaggio da “comunità scolastica” a “comunità educante” è spiegabile solo attraverso un pregiudizio culturale di chi ha steso le norme del contratto in questione.

E poi chi sarebbe il depositario della funzione educativa nella comunità educante costituita dalla comunità scolastica?
Gli attori citati dall’articolo 24 del CCNL? È scritto: “Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs. n. 297/1994.”
Dei soggetti citati, la nostra Costituzione attribuisce alla sola famiglia il compito dell’educazione e, dunque, quali sarebbero i protagonisti della comunità educante legittimati ad educare?

Il contratto in questione all’articolo 25, relativo all’Area docenti, distingue il personale docente da quello educativo essendo, quest’ultimo, il personale dei convitti e degli educandati femminili. Tutti gli altri sono docenti dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di 2° grado.
Dal Testo Unico in materia di istruzione ai contratti collettivi nazionali del lavoro succedutisi dal 1994 al 2009 non c’è norma relativa alla funzione docente che contempli l’educazione tra le competenze degli insegnanti.

L’artico 396 del testo unico citato detta: “La funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”.
Successivamente il dettato del legislatore relativo alla funzione docente è stato aggiornato in rapporto alle conoscenze acquisite nell’ambito delle ricerche in campo psico-pedagogico, così già nel CCNL del quadriennio 1994 – 1997  “l’attività di trasmissione della cultura” come esplicazione essenziale della funzione docente viene sostituita dalla realizzazione del “…processo di insegnamento/apprendimento volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni, sulla base delle finalità e degli obiettivi previsti dagli ordinamenti scolastici definiti per i vari ordini e gradi dell’istruzione dalle leggi dello Stato e dagli altri atti di normazione primaria e secondaria”.

Dunque non “educazione” e neppure “trasmissione della cultura”, ma “processo di insegnamento/apprendimento”, qualcosa di dinamico e articolato, monitorato nei suoi input e nei suoi output. Processo che definisce “i vari ordini gradi e dell’istruzione”.
La funzione docente nella sua traduzione normativa resta sostanzialmente inalterata fino al contratto del quadriennio 2006 -2009, accanto ad essa si evolve il profilo professionale del docente nel quale mai compaiono riferimenti a compiti e finalità educative.

Il profilo professionale fa del docente un professionista della cultura in considerazione delle competenze che gli sono richieste da quelle disciplinari a quelle pedagogiche, metodologiche – didattiche, organizzative, relazionali e di ricerca “tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano ed approfondiscono attraverso il maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio, di ricerca e di sistematizzazione della pratica didattica”.

Con il contratto di Comparto del 2018 il profilo docente si arricchisce di due competenze, fino ad allora assenti: informatiche e linguistiche. Competenze informatiche che l’inaspettato ricorso alla didattica digitale a distanza ha messo a dura prova, rivelandone nella maggioranza dei casi la totale fragilità.
È sorprendente come con questo contratto del Comparto Istruzione e Ricerca scompaia la funzione docente intesa come processo di insegnamento/apprendimento per cedere il posto all’azione “della comunità educante al centro della quale si colloca la progettazione educativa e didattica definita dal piano triennale dell’offerta formativa”.
La funzione docente si realizza come “prestazione professionale […] nel quadro degli obiettivi generali perseguiti dal sistema nazionale di istruzione”.
Come si concilia, dunque con la “comunità educante”? Comunità educante o Sistema nazionale di istruzione?

Al momento nessuna legge nazionale ha sancito la mutazione del sistema scolastico in comunità educante, a meno che non si sia deciso di affidare la riforma mai riuscita della scuola alla contrattazione tra le parti del Comparto Istruzione e Ricerca.
L’ultimo tentativo di riforma omnibus è stato compiuto con la legge 107 del 2015 che prometteva la Buona Scuola. In quella legge di comunità educante neppure l’ ombra, anzi l’articolo 1 e unico, con i suoi 212 commi, esordisce con la volontà del legislatore di “affermare il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza”. La scuola è intesa come “comunità attiva, aperta al territorio”, come “comunità professionale scolastica”.

Ora sarebbe giunto il tempo di rivolgere seriamente, senza slogan e giochi di parole, l’attenzione al Sistema Nazionale dell’Istruzione, alla preparazione professionale dei suoi professionisti per portarli all’altezza della qualità dell’Istruzione che è dovuta ai nostri giovani per crescere e realizzarsi nella società della conoscenza, nella società del capitale umano, nella società dell’apprendimento permanente del nuovo millennio ormai avanzato.




Istruzioneducazione

di Simonetta Fasoli

No, non è un refuso quello che si legge nel mio titolo. È un modo per richiamare il nesso inscindibile che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, il nostro sistema scolastico. Dove comincia l’una e dove finisce l’altra? A mio avviso, si tratta di una questione mal posta e insomma indecidibile.
Un fatto è certo: se si perde di vista questo tratto, si va incontro a derive che hanno radici antiche e che purtroppo sembrano allungare le proprie ombre sul presente e sulle sue prospettive. Detto altrimenti: una visione unilaterale della scuola ridotta alla sua funzione di istruzione o, alternativamente, circoscritta al suo compito educativo produce effetti perversi.
La storia ce lo insegna, fino alla più stretta attualità.
Nel primo caso, ecco fiorire prese di posizione, documenti che solennemente sollecitano al ritorno alla scuola delle “conoscenze”, all’ora di “lezione” come stella polare di un sistema smarrito. Come non avvertire in questi richiami il sentore allettante quanto insidioso della nostalgia? Bisogna dire con disarmante linearità che il futuro ha radici antiche, certo!, ma non sta mai dietro alle spalle. E ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che quella scuola reca l’impronta elitaria (userei il termine “classista”, con buona pace di chi lo ritiene obsoleto) di un sistema pensato per la riproduzione sociale, non per l’emancipazione.


Quella scuola è sopravvissuta all’articolo 3 comma 2 della nostra Costituzione, ha ignorato nei fatti l’articolo 34 comma 1. L’istruzione enfatizzata e sconnessa dall’educazione ha permesso di usare gli oggetti del sapere come strumenti di selezione e di esclusione. A buon diritto, alla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso, si poteva parlare degli insegnanti che si ispiravano a quelle idee come delle “vestali della classe media” (M. Barbagli, M. Dei, Le vestali della classe media, ed. Il Mulino 1969)
Analoghe distorsioni comportano, a mio parere, le concezioni che risolvono nell’educazione separata dall’istruzione il mandato della scuola. In questo caso, con qualche insidia in più, visto che si presentano nella forma suadente di un’attenzione specifica ai temi della “socialità”. Tutto un fiorire di progetti che fanno leva sulle “educazioni a…” con quel che segue; che enfatizzano il potere salvifico di percorsi programmaticamente lontani da qualsivoglia dimensione cognitiva fondata su saperi sistematizzati, quasi fosse l’origine di ogni male. Con il risultato di far mancare questi riferimenti culturali proprio a quelle fasce di scolarità appartenenti a contesti sociali che solo nella scuola possono incontrarli, forse per la prima e ultima volta. Portando con ciò a compimento quello che da sempre ho ritenuto un “doppio inganno”.
Dunque: la scuola è scuola perché “tiene insieme” istruzione ed educazione. È questa la sua caratteristica fondante, e a mio avviso la sua stessa ragion d’essere. Lo fa misurandosi con una sfida, dall’esito tutt’altro che scontato. Istruisce educando ed educa istruendo, nella medesima circolarità dei suoi percorsi: vuol dire, in buona sostanza, considerare le discipline, e i saperi che esse veicolano, come depositi culturali a cui attingono le nuove generazioni, per interagire criticamente con quel patrimonio. E, in questa azione critica che contempla la messa in questione radicale di quell’eredità, farla rivivere: interpretarla, fino all’eresia (“airesis”, non dimentichiamolo, nel suo etimo vuol dire “scelta”).
La scuola educa perché non ci siano seguaci nostalgici e fedeli di principi indiscussi, ma attivatori di nuovi significati nati dal criterio della discussione. È debitrice a Socrate e alla sua maieutica.
Diffido, e invito a diffidare, di ogni progetto di rinnovamento del sistema scolastico in cui sia contemplata, in modo esplicito o surrettizio, la separazione delle due dimensioni. In cui, per dire, ci sia “un tempo per istruire” e “un tempo per educare”, o una ordinata “divisione del lavoro” tra soggetti deputati all’una e all’altra funzione. Sono, invece, favorevole a un progetto politico-culturale che accetti la scommessa di un sistema scolastico finalmente liberato da quella dicotomia su cui si sono infrante nel tempo le varie intenzioni riformatrici. Soprattutto, si sono perse le opportunità di emancipazione di intere nuove generazioni.




Il posto giusto per qualche esercizio di libertà

di Raimondo Giunta

Non credo che le classi dirigenti della nostra società siano molto preoccupate se la scuola non rende migliori le nuove generazioni rispetto a come erano quando hanno incominciato a frequentarla. A loro interessa solo che escano dalla scuola come quelle che le hanno preceduto e che fuori sgomitano, competono, confliggono, si adattano e si fanno i fatti propri.
Unica preoccupazione delle classi dirigenti è che le nuove generazioni, dopo il lungo tirocinio scolastico, siano in grado di adeguarsi alle condizioni di vita e di lavoro che sono state predisposte.
Significa che amerebbero avere gente che non crea problemi, che si rende utile dove e quando e ogni volta che dovranno svolgere una qualche mansione.
Che siano collaborativi e anche autonomi, ma fin dove è stato stabilito che lo possano essere.

Per un obiettivo di questa portata operano, si impegnano, intrigano, sollecitano con i tanti mezzi a disposizione e con le dovute alleanze per ridurre al minimo il margine di autonomia del sistema di istruzione e di ogni singolo istituto; solo a questa condizione potranno avere una società a propria immagine e somiglianza.
Per volere le nuove generazioni integrate e fidelizzate ci vuole, infatti, un’educazione apposita, una continua opera di convincimento e di persuasione.
A questo evidente e consapevole impoverimento pedagogico pensano che si possa ovviare magnificando le mille luci della modernizzazione, dei nuovi ambienti di apprendimento, della padronanza delle nuove tecnologie; inneggiando ai miracoli quotidiani del fare nei tanti laboratori, che manderanno in soffitta le aule e le classi.
Per fortuna quelli che comandano o che hanno voce grossa in capitolo anche nella nostra sgarrupata democrazia, non sono diventati i padroni della scuola o meglio non sono ancora riusciti a diventarlo.

Nonostante i loro mai smessi tentativi di condizionare vita e destino del sistema di istruzione, lo spazio della scuola per la combattività di parte del corpo docente, delle associazioni professionali e dei sindacati di categoria, è ancora il posto giusto per qualche esercizio di libertà di pensiero; è ancora il posto giusto dove è possibile col proprio lavoro e con le proprie idee mantenere viva la speranza o l’illusione di dare un contributo con la formazione dei giovani per una migliore qualità della convivenza.
E’ l’ultima trincea di quelli che non s’arrendono al mondo come è diventato e come lo si vuole fare diventare; l’unica occasione per confliggere con le pressioni a fare dei giovani, persone silenti, disponibili e adattabili a qualsiasi situazione e condizione venga loro imposta.
La scuola, se si vuole, può essere ancora il luogo dove si apprende che la verità di una parola ,non è relativa allo statuto di colui che la enuncia (B.Rey).
La libertà della scuola risiede nella capacità di essere fedele ai propri valori e alla propria missione, che è quella di fare amare il sapere e di preparare al mondo del lavoro, alla responsabilità di cittadino e all’autonomia personale le nuove generazioni, senza farsi molte illusioni su quello che poi succederà nella società.
Gli insegnanti e i dirigenti scolastici, se credono che alla scuola tocchi un margine di indipendenza rispetto al sistema socio- economico ,devono in ogni singolo istituto garantire che ci sia lo spazio per la riflessione ,per la comprensione e per gli interrogativi sul significato della propria esistenza.
Devono ritenere imprescindibile che si lavori per formare e per esercitare i giovani a ragionare correttamente e per fare capire che le pretese di dire la verità devono passare al vaglio della ragione.
Una scuola che si ponga questi obiettivi è una scuola che non ha fretta, che si dà del tempo per arrivarci.
Lo spazio conquistato a scuola per il pensiero, per il confronto e per il dialogo è uno spazio di libertà e per la libertà e bisogna difenderlo da qualsiasi forma di intromissione o di intimidazione.
Per un motivo molto semplice.
La scuola che vuole educare nel senso che si è tentato di definire è la scuola che ha come suo insostituibile punto di riferimento i valori della Costituzione. “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” (art.9,comma1);
”L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (art.33,comma1)




Piano Scuola Estate 2021. Una lettura di prospettiva

Stefaneldi Aluisi Tosolini

 Si sta molto discutendo in questo periodo del Piano Scuola Estate 2021.
Il punto di partenza è la nota 643 del 27 Aprile del capo dipartimento Stefano Versari. Si tratta di una nota scritta in un linguaggio decisamente non burocratico e che fa i conti con una situazione davvero molto difficile dopo due anni scolastici vissuti all’insegna della pandemia covid 2019.

In questo mio approfondimento non intendo commentare o analizzare compiutamente la nota Versari (per questo basti il rimando alla lettura integrale della nota 643 oltre che alla lettura delle molte prese di posizione sulla stessa). Intendo invece soffermarmi su una questione diversa, di fondo (di grund,  direbbero i filosofi), e che ha a che fare con la collocazione o meno del Piano Estate entro una diversa visione di scuola e quindi su un percorso possibile di trasformazione del sistema di istruzione e formazione della nostra società.

  1. Una premessa

In premessa credo rilevante sottolineare la personale adesione all’impianto complessivo segnalato dalla nota ministeriale. Da anni molti dirigenti scolastici, assieme a realtà associative presenti sui territori, enti locali, terzi settori stanno lavorando per far uscire la scuola da una concezione fordista e tayloristica operando in particolare su due assi: l’asse del tempo e l’asse dello spazio.
L’idea che sta sotto il Piano Scuola Estate 2021 scardina esattamente questi due assi: la scuola non è più legata ad un calendario e ad un orario rigido e può aprirsi alla società e all’ambiente letti come spazi di apprendimento (che è poi l’idea di fondo dei patti educativi di comunità). Ho più volte definito negli anni questa prospettiva con la frase: la scuola come intellettuale sociale[1].

  1. Solo un piano emergenziale o l’avvio di un diverso modo di concepire la scuola?

Ma il problema nasce proprio qui: il piano estate è solo un piano emergenziale o è l’avvio di un nuovo modo di concepire la scuola e il suo servizio alla società? E’ ponte verso un anno uguale agli altri o è una testa di ponte verso territori inesplorati?

Se è solo un piano emergenziale, e che quindi finirà il giorno in cui si tornerà a far scuola come prima della pandemia, allora tutte le critiche che si sono lette in questi giorni hanno una loro significatività plausibilità e portano con decisione verso una sostanziale non adesione al piano (o ad una adesione molto limitata, insomma una sorta di facite ammuina).

Se invece si tratta dell’avvio di un diverso modo di concepire la scuola, le stesse critiche non sono altro che utili riflessioni per mettere al centro i cambiamenti necessari per dare davvero fiato e spazio ad un diverso modo di essere (e non solo di far) scuola. Per un nuovo inizio che sia anche un diverso inizio.

Qui di seguito provo a sviluppare alcune (solo alcune) riflessioni lungo questo filone di pensiero.

2a. L’asse del tempo

Covid 19 ha radicalmente mutato la concezione del tempo nelle attività umane, nella vita sociale, e anche nella scuola. La Didattica digitale integrata ha messo in crisi l’idea stessa di orario scolastico, ha obbligato a fare i conti con concetti quali lezioni sincrone e attività asincrone, palinsesto, attività a progetto, …

L’idea di Piano Estate mette in crisi e reinterroga il concetto di calendario scolastico.
La domanda cruciale è la seguente: le possibili attività “estive” sono scuola oppure no?
La mia risposta è si: sono scuola. E lo sono nella loro triplice declinazione indicata dalla stessa nota ministeriale

  • Rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e relazionali
  • Rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e della socialità
  • Rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e relazionali con intro al nuovo anno scolastico

Se infatti non fossero “scuola” sarebbero un campo estivo, un centro ricreativo dove certo si fanno esperienze interessanti, con altri tempi ed orari, ma il cui focus non è l’apprendimento, non è il rinforzo e il potenziamento di competenze disciplinari e relazioni.
Ma, se il piano Scuola Estate 2021 non è un mega centro estivo e queste attività sono scuola – ecco la seconda domanda –  in che senso esse sono differenti dal resto delle attività scolastiche realizzate sino ad adesso?

La prima differenza sta nel fatto che si tratta di attività cui gli studenti aderiscono volontariamente[2].
La seconda è che queste attività avranno tempi decisamente diversi dai tipici orari scolastici. Tempi che obbediranno alle logiche delle esperienze proposte e che certo non ipotizzeranno (spero!) attività dalle 8 alle 16 per 5 giorni alla settimana (come un centro estivo o un centro vacanza dove “consegnare” il proprio figlio perché non si sa come altro “custodirlo”).

La domanda radicale, sottesa a queste sintetiche riflessioni, è la seguente: è impensabile una scuola sempre aperta? Che non chiude mai? Che è sempre attiva nel suo proporre attività e percorsi di insegnamento/apprendimento? E se la risposta fosse sì, che cosa implica ciò dal punto di vista della sua ri-organizzazione?

2b. L’asse spazio

Le attività del Piano estate dovrebbero privilegiare, e non solo per motivi pandemici e climatici, ambienti di apprendimento decisamente diversi rispetto alle aule (climaticamente bollenti) delle scuole: spazi aperti, luoghi naturali, luoghi d’arte, lo spazio urbano, lo spazio digitale. Il verde e il blu, direbbe Luciano Floridi[3].
E poi certo anche laboratori, atelier, spazi interni delle scuole. Spazi che non dovrebbero però obbedire alla logica delle aule disposte per le tipiche lezioni frontali.
E anche in questo caso vale la domanda di fondo: non è che la scuola dovrebbe essere sempre o prevalentemente così? E se la risposta è si: che conseguenze ha questa riflessione sul modo con cui si costruiscono le scuole? Sugli spazi deputati all’apprendimento?

Ma se così fosse come dovrebbero cambiare, ad esempio (ed è uno fra i tanti), le reti dei trasporti? Il piano Estate 2021 – almeno per le scuole superiori – rischia di essere appiedato dal fatto che i trasporti capillari che raccolgono gli studenti da tutti i territori chiudono con la chiusura delle lezioni alla fine dell’anno scolastico (anche le aziende dei trasporti loro adoperano infatti il classico orario scolastico applicandolo, appunto, ai trasporti). Così chi vive in zone periferiche e isolate non avrà spesso nessuna possibilità di frequentare le attività del Piano Estate 2021 con il conseguente rischio di aumento della povertà educativa a motivo della realizzazione dello stesso piano che vorrebbe combatterla !
Classico caso di effetto contro-intuitivo di una azione razionale che produce il proprio opposto.

2c. La didattica

Mutando gli assi spazio/tempo muta anche la didattica. E’, questa, l’idea di fondo del movimento Avanguardie educative[4] e le indicazioni / suggestioni presenti nella nota del Capo Dipartimento vanno esattamente in questa direzione: modalità didattiche laboratoriali, peer to peer, blendend, one to one, cooperative. Ma, ed ecco che torna la domanda: perché queste modalità dovrebbero essere catalogate come estive e non invece come la normalità quotidiana del fare scuola?

Se così non fosse significa ammettere che la scuola vera, quella si fa dalle 8.00 alle 13.00 durante l’anno scolastico (quello vero, da metà settembre a inizio giugno) è fatta di lezioni frontali.
Tutto il resto è per le altre occasioni: per i pomeriggi di ampliamento dell’offerta formativa e quindi anche il mega ampliamente estivo.  Scuola di serie B contrapposta alla scuola di serie A.
Eppure, proprio questi due anni scolastici ci hanno mostrato che la scuola può – nel senso: è capace di – ripensarsi, rinnovarsi, cambiare, mettere in campo modalità inedite di creare e realizzare percorsi di insegnamento/apprendimento.
Perché dovremmo smettere adesso che abbiamo iniziato?

2d. I soggetti

Chi realizzerà il Piano Estate? Non credo lo faranno i docenti, stremati da due anni scolastici devastanti. Ma se è comprensibilissimo che per questa estate siano altri i soggetti che realizzano le attività che le scuole proporranno ed organizzeranno, non possiamo certo tacere sul fatto che la scuola, come luogo di costruzione della cultura, non può pensare di continuare a svolgere il proprio compito senza l’apporto delle competenze, esperienze, conoscenze delle miriadi di persone che con la scuola interagiscono e che portano nella scuola saperi e vissuti che devono essere valorizzati e messi in circolo.

In secondo luogo – andando ancora più a fondo – queste riflessioni toccano il nervo scopertissimo dell’organizzazione del lavoro nella scuola italiana. Organizzazione che andrebbe rivista a partire da un nuovo patto fondativo.
Se – e penso alle superiori – i tempi di presenza a scuola degli studenti fossero diversificati, se il gruppo classe costituisse solo uno dei molti tipi di aggregato con cui lavorare, se la scuola fosse lo spazio che organizza percorsi ed occasioni di apprendimento lungo tutto l’anno (solare, non scolastico !) perché un insegnante non potrebbe distribuire  in modo diverso il proprio lavoro ? Le 594 ore di attività didattica con alunni (18 ore alla settimana x 33 settimane) che ogni docente deve realizzare secondo il contratto attuale? Perché non potrebbe lavorare in modo più flessibile? Saltando maggio e venendo a luglio, giusto per fare un esempio?

Oggi sarebbe impossibile: il contratto pone, ad esempio, il vincolo delle 18 ore in non meno di 5 giorni alla settimana (del calendario scolastico che prevede le lezioni). In sostanza quasi nessuna flessibilità. Come nessun incentivo

2e. la valutazione

La nota 643 ha generato uno (strano) dibattito sulla valutazione.
Qualcuno si è infatti chiesto se anche le attività del piano estate debbano essere valutate. La risposta logica dovrebbe essere: SI. Ma anche NO se per valutazione intendiamo dare voti a queste attività secondo la logica della valutazione sommativa.
Nel campo della valutazione il periodo pandemico ci ha costretti a ragionare su diversi paradigmi spingendo molte scuole a fare i conti con la logica della valutazione per competenze[5] applicata anche a quelle discipline  in cui sino ad oggi tale logica non è in realtà mai stata davvero applicata. Dibattito attualissimo anche in vista di questa fine anno scolastico.

Il tema della valutazione è stato poi in questi giorni al centro di uno scontro durissimo sulle pagine del Corriere della Sera tra Enrico Galli della Loggia[6]  e Giorgio Vittadini[7].
Ha iniziato Galli della Loggia accusando con forza il curriculum dello studente di promuovere una una doppia pratica odiosa. Odiosa perché certificherebbe una divisione di classe (marxianamente intesa: a volte ritornano?) tra chi può (fare corsi all’estero, studiare uno strumento, pagarsi certificazioni di lingue, ecc) e chi non può. Odiosa poi perché fa riferimento alla teoria  dei character skills del premio Nobel James Heckman[8].
Vittadini ha risposto con convincente chiarezza rimandando anche al recentissimo volume curato da lui e da Chiosso e Poggi e pubblicato dalla Collana Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo[9].
Una prospettiva estremamente utile a rivedere la logica della valutazione aggiornandola ad una diversa concezione (e ad un diverso ruolo) della scuola nella società contemporanea.

  1. Criticità del Piano Scuola Estate 2021 come spie di criticità del sistema

In questa ultima sezione del mio intervento esaminerò due sole criticità del Piano Scuola Estate 2021 che a mio parere possono gettare luce su alcune criticità di sistema. Ovviamente ve ne sono molte altre ma qui mi interessa il ragionamento complessivo.

3a. la gabbia burocratica

La maggior parte dei finanziamenti del piano (320 milioni di euro) sono risorse PON.
Appartengo alla schiera (amplissima, devo dire) di dirigenti scolastici che appena sentono parlare di PON alzano gli occhi al cielo e, fossimo nell’antico west, metterebbero mano ad un’arma.
Gestire un Pon, per una scuola,  è una impresa burocraticamente molto ardua e complessa. E fin qui amen. Ma occorre poi aggiungere che la rendicontazione ed il controllo rasentano lo stalking burocratico e fanno sentire spesso il dirigente come un truffatore che sicuramente ha distolto soldi pubblici e che quindi deve provare la sua innocenza producendo miriadi di documenti assurdi riferiti anche a cifre irrisorie,  pubblicando e ripubblicando le stesse determine e delibere firmate in modi sempre diversi (con firma digitale, prima in formato CAdES e  poi in formato PAdES, poi con firma autografa poi ancora con firma autografa più firma digitale…. ).
Insomma una follia che ha fatto giurare a molti dirigenti: “PON MAI PIU”. E ha costretto gli altri a chiedersi “ma chi me lo fa fare?”.

A tutto ciò si aggiunga che spessissimo gli uffici amministrativi delle scuole sono sguarniti di personale davvero esperto e anche quando questo esiste lo stesso deve dedicarsi anche ad altre decine di diverse incombenze senza mai potersi specializzare in un campo così da poter operare con sicurezza e padronanza.  Cosa che accade in moltissime altre amministrazioni dove sono previsti uffici specializzati per settori ma che è ovviamente impossibile realizzare a scuola, soprattutto nelle piccole scuole dove gli uffici amministrativi possono sostanza essere costituiti da 3 persone più DSGA. Persone che devono seguire tutte le pratiche degli alunni, del personale (assunzioni, supplenze, pensioni stipendi…), della contabilità, degli acquisti, del bilancio…. e magari solo uno fra di loro è di ruolo e gli altri sono collaboratori scolastici trasformati ex lege in amministrativi. Per non dire che il Piano estate rischia di restare a piedi perché mancano i collaboratori scolastici: molti di essi hanno nomine al 30 giugno, i pochi altri devono pur far le ferie entro il 31 agosto ma, ad oggi, non è chiaro se sia possibile o meno contrattualizzare nuovi collaboratori per tenere aperte le scuole d’estate.
Insomma, una follia.

Nel caso tecnico dei PON va poi detto che pensare riuscire a rendere operativo al primo di luglio un PON che prevede la scadenza delle domande al 21 maggio significa non aver mai visto davvero una scuola e non conoscere le procedure.
E gli aiuti previsti dalla norma (quali ad esempio i due mitici quaderni sulle procedure per gestire contratti pubblici ed incarichi individuali) fanno venire alla mente più che altro la logica della “burocrazia difensiva” che, al pari della medicina difensiva, comporta la scelta da parte del dirigente di produrre in primo luogo carte su carte, pareri su pareri, sino a giungere alla scelta di non agire pur di non rischiare di avere problemi.
E’ assurdo ma oggi si rischia molto meno a far nulla (anzi, non si rischia nulla !) che ad impegnarsi a far funzionare la scuola che si dirige partecipando a bandi, acquisendo finanziamenti e gestendoli.

3b. il sogno mai realizzato del middle management

Organizzare la vita di una scuola e la sua operatività è azione molto complessa e dipende dalla capacità della organizzazione stessa di apprendere[10] , di definire con chiarezza la propria vision e la propria identità anche valoriale.
Un qualche supporto organizzativo tuttavia occorre: non può essere che una scuola con 1000 studenti, 150 insegnanti, 40 ATA non abbia uno stabile e riconosciuto staff che coordina e organizza. Eppure è questo che ancora oggi succede e sono moltissimi coloro che sono contrari alla creazione, anche flessibile e modificabile nel tempo, di un middle management nelle scuole.

  1. Un ponte

Il piano per l’estate è definito un ponte e la metafora serve a chiarire che si tratta di mettere in connessione la fine di questo anno scolastico e l’inizio del prossimo.
Lungo tutto questo intervento ho cercato di mostrare che forse (dico forse) potrebbe essere il caso di dare un senso più ampio alla metafora del ponte visto non solo come funzionale collegamento a settembre 2021 ma anche come ponte che permette l’avvio dello sbarco su un terreno in pare ignoto in cui confrontarci e confrontarsi con le sfide più profonde della scuola e della formazione nella società del XXI secolo.
Ecco, questo è un percorso sul quale vale la pena di provare ad incamminarsi.

7 maggio 2021

[1] Si veda ad esempio A. Tosolini, Service Learning e territorio: la scuola come intellettuale sociale, in L. Orlandini, S. Chipa, C. Giunti (a cura di) Il service learning per l’innovazione scolastica, Roma, Carocci, 2020 e, molto prima ancora,  A. Tosolini, Autonomia scolastica e territorio, in M. Morettuzzo, A. Tosolini, D. Zoletto (a cura di), Acqua come cittadinanza attiva. Democrazia e educazione tra i nord e i sud del mondo, Bologna, Emi, 2003

[2] Non abbiamo qui tempo e spazio per riflettere sulla conseguenza di questa affermazione. Infatti, mi si passi il paradosso, perché anche le attività scolastiche classiche, quelle, per capirci, che si fanno dal 15 settembre al 5 giugno, non potrebbero avere la stessa logica? Ovvero essere occasioni di apprendimento cui gli studenti – almeno quelli delle superiori – partecipano in modo molto più libero, con tempi personalizzati ed in spazi personalizzati – in presenza/distanza – mettendo così in crisi l’irreggimentazione di intere classi d’età e generazioni secondo le logiche ben descritte dal sorvegliare e punire di Michel Focault? Certo, capisco lo sconcerto: una scuola a cui “si va” quando lo si ritiene utile o necessario può risultare decisamente eccessivo. Eppure, forse, non lo è se, a partire da un patto educativo personalizzato con task precisi per ogni studente, fossimo capaci di costruire una precisa profilatura del percorso di apprendimento per ogni studente.

[3] Mi permetto di inviare alla lectio magistralis tenuta a Parma da Luciano Floridi il 22 04 2021 (Lions Club Parma Host – Università degli Studi di Parma) dal titolo:  Il Verde e il Blue – Il progetto dell’umanità per un futuro sostenibile e preferibile. La lectio è reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=jbO_Upz7ZPs

[4] http://innovazione.indire.it/avanguardieeducative/

[5] Mi permetto di rimandare al lavoro realizzato dalla collega Daniela Venturi (anche con la mia partecipazione) in ordine alla valutazione in tempo di DAD,  https://www.isipertinilucca.edu.it/portal/valutazionedad

[6] E. Galli della Loggia, Maturità. Con il curriculum sarà un esame un po’ classista, Corriere della sera, 05.05.2021 pag. 26. Interessante (e curioso !) notare che la posizione di Galli della Loggia sul Curriculum dello studente in buona parte coincide con quella di Tomaso Montanari pubblicata sul Il Fatto Quotidiano il 16 aprile: “Con Bianchi alla scuola si premia chi è più ricco”. (https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/04/16/con-bianchi-alla-scuola-si-premia-chi-e-piu-ricco/6167654/ ).

[7] G. Vittadini, Le nuove vie dell’apprendimento, Corriere della sera, 7.05.2021 pag. 30

[8] Si veda J.j. Heckman – T. Kautz, Formazione e valutazione del capitale umano. L’importanza dei «character skills» nell’apprendimento scolastico,  Bologna Il Mulino, 2017

[9] Vittadini, Chiosso, Poggi, Viaggio nelle character skils, Il Mulino 2021 (scaricabile gratis al sito:
https://www.researchgate.net/publication/350726347_Viaggio_nelle_character_skills_Persone_relazioni_valori/link/6077f4c42fb9097c0ce56e81/download

[10] faccio qui riferimento alle riflessioni e alle teorizzazioni sulla complessità di Alberto Felice De Toni. Si veda ad esempio A.F. De Toni – S. De Marchi, Scuole auto organizzate. Verso ambienti di apprendimento innovativi, Milano, Fabbri, 2018

 




Gruppo classe vs gruppo di apprendimento. La tentazione della “grande riforma”

di Simonetta Fasoli

Leggo e cito testualmente dal Pnrr, missione 4, Riforma 1.3: Riforma dell’organizzazione del sistema scolastico
“La riforma consente di ripensare all’organizzazione del sistema scolastico con l’obiettivo di fornire soluzioni concrete a due tematiche in particolare: la riduzione del numero degli alunni per classe e il dimensionamento della rete scolastica. IN TALE OTTICA SI PONE IL SUPERAMENTO DELL’IDENTITÀ TRA CLASSE DEMOGRAFICA E AULA, ANCHE AL FINE DI RIVEDERE IL MODELLO DI SCUOLA […]”
I caratteri cubitali sono miei.

Mi sembra che sia il caso di fare qualche osservazione su questo passo, per le implicazioni che comporta, riguardo all’esplicitato e al non detto. Cercherò di andare per punti: la sintesi aiuta, se non è reticenza.

1) La possibilità di articolare la classe in gruppi individuati in base ai percorsi e agli specifici obiettivi, secondo scelte di natura didattica, è chiaramente prevista dal Regolamento dell’autonomia (D.P.R. 275/99)
2) Questa modalità organizzativa trova riscontro anche nella L. 107/2015, laddove ripercorre e riformula i dispositivi previsti nello stesso Regolamento. Uno degli aspetti che si salvano, per così dire, dentro un impianto normativo largamente discutibile e discusso dal mondo della scuola.
3) Il tutto, tra l’altro, ha un nobile antecedente nella L. 517/1977, che arriva a prevedere e quantificare periodi di riorganizzazione dell’attività didattica, all’interno dell’anno scolastico ordinario, finalizzati a obiettivi di recupero, rafforzamento e ampliamento (le cosiddette “160 ore”, nella scuola media, di cui ho avuto diretta e feconda esperienza da docente, in una scuola della periferia romana, intorno alla prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso).
4) Le ipotesi organizzative prospettate e messe in campo, dando ampia libertà di scelta ai docenti nella programmazione collegiale, contemplano, ovviamente, la possibilità di scomporre e ricomporre le classi, articolandole in gruppi di apprendimento. Tale articolazione può effettuarsi sia per classi parallele, della stessa leva anagrafica, sia per classi in verticale, di diverse età.
5) È del tutto evidente che questa progettazione non solo è legata all’autonomia scolastica come autonomia didattica, di ricerca e sviluppo, ma è pienamente realizzabile solo in presenza di risorse di organico idonee, di adeguati spazi e tempi.
6) Il punto di cui sopra spiega in gran parte, anche se non in tutto, le ragioni per cui i dispositivi previsti dalle norme sono per lo più rimasti “lettera morta”. Ciò mentre si continuava a stracciarsi le vesti sulla “piaga” della dispersione scolastica e sulla difficoltà della scuola-istituzione a farsi carico efficacemente della popolazione scolastica più fragile e dei territori culturalmente disagiati.

Alla luce dei punti precedenti, vorrei perciò sottolineare che per rimuovere le forme di rigidità del sistema, che sono tra le cause strutturali più rilevanti della sua inefficacia e di una crisi che nasce da lontano, non è necessario prospettare l’ennesima Grande Riforma. Basta dare alle scuole le risorse necessarie per far valere gli strumenti normativi che esistono da venti (o quaranta) anni.
Non basta. Ritengo rischioso abbandonare in via ordinaria l’articolazione tradizionale del gruppo classe, basata sul criterio dell’età anagrafica, a favore di un suo “superamento” deciso per via amministrativa e non affidato agli strumenti di progettazione delle scuole, che evidentemente saprebbero calibrare i criteri e le modalità di organizzazione in base alle specifiche condizioni di contesto.

Il gruppo classe ha, infatti, due distinte dimensioni: una burocratico-amministrativa e una pedagogico-didattica. La prima serve anche a determinare su parametri chiari e definiti la consistenza della scuola e il fabbisogno delle risorse.
La seconda identifica un gruppo di apprendimento che è anche il contesto dei pari, quell’ambiente in cui si condividono caratteristiche evolutive, istanze e bisogni: come ci insegnano accreditate psicologie dello sviluppo e teorie dell’apprendimento socio-costruttivo. Se questo è il punto di partenza, a mio avviso da tenere fermo, mi piacerebbe sapere verso quale “modello di scuola” (per ripetere l’impegnativa formula usata nel documento governativo) si intende invece andare. O si pensa di liquidare anche la classe come un residuo novecentesco, come si è tentato di fare (in parte, purtroppo, riuscendoci) con il concetto di “obbligo di istruzione”, sostituito con il più ambiguo e addomesticabile “diritto-dovere”?

In conclusione: vorrei che l’attuale ministro, di cui non metto in dubbio la capacità, la solerzia e le buone intenzioni, resistesse alla tentazione di lasciare un segno del suo operato “aere perennius”, attraverso un intervento strutturale di cui non si avverte la necessità.
Sarà piuttosto ricordato con gratitudine dalla scuola e da coloro che hanno a cuore le sue sorti se assicurerà finalmente quegli interventi davvero indispensabili per dare corpo e gambe ai cambiamenti che da tempo aspettano. Stanno scritti in quello che può essere ma ancora non è o non è pienamente.
Un compito meno altisonante, ma grande per generosità di intenti ed efficacia di azioni.