Classi numerose e risultati scolastici

di Stefano Stefanel

Con il concetto di “classi pollaio” si intendono contemporaneamente due concetti molto diversi tra loro:

  • classi con troppi alunni in spazi troppo ristretti e assegnati ad un docente per ora;
  • classi che a causa della numerosità penalizzano i risultati degli studenti.

Nessuno ritiene che le “classi pollaio” siano un fenomeno positivo, ma l’argomento viene affrontato in maniera non organica e quasi esclusivamente attraverso dichiarazioni, proclami o generici interventi dentro le molte e spesso illeggibili linee guida. Cerco, pertanto, di andare un po’ al fondo della questione, anche perché la pandemia e il distanziamento non hanno portato a nessuna modifica, nemmeno temporanea, del numero di alunni per classe.

TROPPI STUDENTI IN POCO SPAZIO

25 studenti in 50 metri quadrati stanno troppo stretti. In molti casi i metri quadrati sono 40 e gli studenti 27. Se, dunque, parliamo di vivibilità dentro gli spazi scolastici dovremmo intervenire immediatamente sull’edilizia scolastica, costruendo nuove sedi per trasformare le “classi Pollaio” in classi a misura di studente. Qual è la misura ideale per uno studente? Direi, senza molti dubbi, tre metri quadrati.


Quindi per mettere 25 studenti in una classe e farli vivere a loro agio l’attività didattica servirebbero 75 metri quadrati, per 20 studenti ne servirebbero 60. E non bisogna pensare che gli studenti delle scuole primarie abbiano bisogno di spazi più piccoli di quelli delle scuole secondarie, perché non è così: più piccoli sono, gli studenti, più hanno bisogno di spazio. Chi conosce un po’ le scuole sa che aule di 75 metri quadrati in giro ce n’è poche (e di solito, quelle poche, sono occupate da laboratori) e dunque se si vuole ridurre “il pollaio” bisogna demolire le scuole che ci sono e costruirne di nuove con spazi ampi. Sta succedendo questo? Non mi pare: più sono nuove le scuole e più sono piccole e le aule anguste (perché sono state progettate prima della pandemia per risparmiare su luce, riscaldamento, ecc.).

Dati precisi, comunque, io non ne ho, ma ho una visione empirica forse non completamente sbagliata. Dirigo un Liceo di 1515 studenti con 60 classi: due hanno a disposizione 70 metri quadrati, le altre 50, 40 o, purtroppo, anche meno. Se però noi diminuiamo gli studenti per classe e li portiamo a 20 arriviamo a contenere negli attuali edifici 1.200 studenti. E gli altri 300 dove dovrebbero andare? Bisognerebbe costruire per loro una scuola vicino alla vecchia o mandarli altrove.
Ma poiché già applico la lista d’attesa (cioè faccio tante prime quante quinte escono e quindi non accetto tutte le iscrizioni) quanta gente dovrei mandare via ogni anno? E tutti questi studenti dove andrebbero? Forse ai Licei di fuori città in cui però, pare, non vogliano andare? Ovviamente l’eliminazione delle “classi pollaio” in una situazione come la mia creerebbe solo questioni di ordine pubblico o un Liceo diviso in cinque-sei sedi sparse per la città. In ogni caso un disastro.

Ho scritto in passato, in vari interventi pubblici, che l’edilizia scolastica è un problema assoluto del sistema scolastico e che quindi bisognerebbe utilizzare i soldi del PNRR-Next Generation Eu per abbattere e rifare almeno il 70% del patrimonio scolastico nazionale, ma non ho avuto alcun riscontro in merito, né la livello locale, né a livello nazionale anche se i miei interventi sono stati comunque letti. Mi pare di poter dire che l’idea di intervenire massicciamente sul patrimonio edilizio scolastico nazionale sia un’idea (quasi) solo mia.

POCHI STUDENTI E RISULTATI MIGLIORI

L’altra questione è ancora più controversa: non so se esiste in giro uno studio accurato ed esaustivo che certifichi come nelle classi con pochi alunni si apprenda meglio che in quelle con tanti alunni. Anche in questo caso servirebbero dati e questi non ci sono, ci sono solo dichiarazioni che danno per scontata la cosa (che nelle classi con pochi alunni si apprenda meglio che in quelle con molti alunni). Anche in questo caso riporto qualche osservazione personale.

Ci sono molte scuole con “classi pollaio” che hanno ottimi risultati e scuole con classi piccole che hanno un’alta dispersione scolastica. Molte scuole con tante classi pollaio hanno ottimi risultati nell’Invalsi, nell’Ocse-Pisa (quando vengono testate), negli esami di stato e anche nel criticato Eduscopio (per le scuole secondarie di secondo grado). Poi ci sono scuole con piccole classi dove la dispersione e alta e i risultati negativi. Situazioni del genere le conosco io, ma sono facilmente conoscibili da chiunque.

Se fosse certo che classi con numeri bassi di studenti danno risultati molto positivi e “classi pollaio” creano invece problemi all’apprendimento allora bisognerebbe spingere, immediatamente, per una nuova edilizia scolastica. Però, scusate, faccio una domanda banale e retorica: se in una grossa scuola superiore con più di 1500 studenti ne viene bocciato lo 0,56%, i risultati del criticato Eduscopio la danno da anni il primo posto in provincia e le classi sono “pollaio”, perché dovrebbe esserci la corsa ad un iscriversi ad una piccola scuola di 500 studenti con un tasso di bocciature dell’8% che sta sempre all’ultimo o penultimo posto di Eduscopio, ma che ha 14-15 studenti per classe (ogni riferimento a fatti realmente esistente è puramente casuale o almeno così è meglio dire).

Io credo sia necessario avere dei dati per verificare dove sono le “classi pollaio”, per capire se chi frequenta le scuole di una zona (città o paese) è disponibile ad andare altrove per non stare in “classi pollaio” e , infine, se conviene frequentare la scuola in classi piccole, dove possono anche interrogarti tre volte in più che nelle “classi pollaio” e senza avere poi alcun reale vantaggio certificabile.

In conclusione ho molte perplessità sul concetto di eliminazione delle classi pollaio se non legato ad una revisione del patrimonio edilizio scolastico, ma, soprattutto, ad una revisione del patrimonio didattico-pedagogico della scuola italiana. Mi piacerebbe avere dati che confermano che  alla diminuzione degli studenti per classe corrisponde un sensibile e verificabile miglioramento degli apprendimenti, non del numero delle verifiche (visto che ci sono meno compiti da correggere e meno studenti da interrogare allora si verifica di più: in questo caso è uno strazio, “meglio il pollaio”).




Le “figure di sistema”: una questione rimossa?  

di Antonio Valentino

  1. Ha sorpreso non poco – nella Misura dedicata a Istruzione e Ricerca del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – la mancanza di riferimenti alle figure di insegnanti non solo insegnanti, indicate finora generalmente come ‘figure di sistema’ o ‘figure intermedie’ o Middle Management[1]. O anche – e forse più giustamente – ‘Figure di supporto all’Autonomia’.

Eppure sono chiari e interessanti i segnali che abbiamo letto su tale questione nel Rapporto finale di fine luglio 2020 della Commissione Ministeriale (nominata dell’allora Ministra Azzolina): Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro”[2], coordinata a suo tempo dall’attuale Ministro.

Ad essa infatti si riserva un intero capitolo (Formazione e valorizzazione delle figure a supporto dell’autonomia, pp. 44-49) e se ne evidenziano non solo il senso e l’importanza, ma anche le condizioni e i passaggi necessari (quadro di riferimento giuridico e contrattuale, meccanismi di valorizzazione delle professionalità, sviluppi di carriera e accordi contrattuali) [3]  e i problemi da prevedere e risolvere per affrontarla.

Ma segnali inequivoci al riguardo il prof. Bianchi li ha lanciati direttamente anche da ministro.
Da ciò la sorpresa, in quanti ci avevano contato, per la totale assenza nel PNRR di riferimenti all’argomento.
Ne ha dato voce recentemente, tra gli altri, e in modo preoccupato, la Rivista telematica DDi del giugno scorso,  dedicata all’analisi della Misura sopra citata del Piano.
Si tratta in effetti di ‘una assenza’ che non andrebbe sottovalutata.

  1. Ad oggi non è dato conoscere le ragioni di tale omissione: avranno probabilmente pesato timori e diffidenze nelle Organizzazione sindacali della scuola, ma anche tra gli insegnanti, per una operazione mai adeguatamente approfondita nelle sedi giuste; oppure la sottovalutazione, nello staff del ministro, della posta in gioco. Ma forse ha giocato anche la diffusa percezione che si tratti di questione a sé, scollegata, o marginale, rispetto ai grandi problemi del fare scuola.

Probabilmente però tutte e tre queste possibili ragioni hanno pesato nell’impedire una regolazione chiara e precisa – in termini di tipologia di incarichi e responsabilità, di requisiti per accedervi, di disciplina giuridica e contrattualizzazione sindacale – che ha fatto parlare giustamente, per quelle attuali, di figure aleatorie e instabili, mandate allo sbaraglio, anche perché generalmente prive della necessaria preparazione. Figure pertanto prive di appeal; e tali comunque da creare frequentemente situazioni di incertezza e instabilità nell’organizzazione e gestione della scuola e nel lavoro del DS; trattandosi, tra l’altro, di nomine annuali.

  1. Probabilmente però non si coglie ancora diffusamente l’importanza e l’urgenza della questione, sebbene il quadro generale nel quale ci si muove veda decisamente cresciuti negli ultimi decenni i livelli di complessità, anche per le nuove responsabilità e incombenze  cui fronte senza adeguati supporti. Si pensi alle trasformazioni introdotte dai processi di inclusione e dagli impegni per la sicurezza e, più in generale, ai cambiamenti che impegnano la scuola – almeno a partire dalla istituzione dell’Autonomia –  sul fronte della progettazione collegiale delle attività formative, e del loro monitoraggio, previsti per il POFT; dell’autovalutazione e rendicontazione di Istituto del SNV del 2013; della pianificazione della formazione di istituto del personale, prevista dalla L. 107/15 e dal CCNI del 2019…. .
    Tutte attività che vanno organizzate e gestite opportunamente perché non vengano considerate degli optional o comunque vissute dentro logiche da puri adempimenti formali.

È all’interno di tale quadro che si può cogliere più facilmente il senso di Figure professionali, opportunamente ‘regolate’ per sostenere i cambiamenti, e vederle come promettente risorsa per aiutare il sistema a superare le difficoltà da essi prodotti.

  1. Ma perché questo atteggiamento maturi, vanno sviluppate e chiarite alcune consapevolezze che danno fondamento al senso e alla necessità di queste figure e maggiore chiarezza ai termini di una loro regolazione. E prime tra queste:
    – che la didattica non può continuare ad essere vista come una faccenda individuale del singolo docente e la progettazione collettiva un optional[4];
    – che la qualità e l’efficacia della didattica non si possono concretizzare senza l’impegno differenziato e la preparazione di chi (insegnanti motivati e attrezzati, appunto) si faccia carico delle condizioni operative e degli strumenti e materiali che permettono l’effettivo funzionamento delle diverse articolazioni del Collegio.

Né, d’altra parte, si può continuare a pensare che gestire i gruppi in modo efficace e competente sia la stessa cosa che presiedere una riunione; e che, quindi, tempo a disposizione e preparazione e gestione degli incontri siano fattori ininfluenti sull’efficienza e sull’efficacia del lavoro dei gruppi o del presidio di aree specifiche della vita scolastica.

Oppure ritenere che tutti i docenti abbiano esperienze e competenze – o siano interessati  ad averle – per svolgere  le funzioni previste per il  coordinamento degli organismi collegiali o la cura specifica di iniziative e progetti.
Che sia giusto e doveroso che tutti i docenti abbiano le competenze per insegnare – e insegnare bene – e partecipare agli impegni collettivi, è scontato[5].

Qui però il discorso – come è subito evidente – non riguarda i compiti e le competenze dell’insegnante in quanto insegnante, ma competenze e compiti altri e diversi che devono essere svolti per garantire efficacia al lavoro nelle scuole[6].

A questo punto, il problema si sposta su come (cioè con quali dispositivi contrattuali e giuridici con quale nuova cultura professionale e quindi con quali percorsi formativi) far diventare consapevolezze e pratica professionale diffusa (e non mero adempimento formale) i ragionamenti di cui sopra; ma soprattutto su chi se ne debba far carico. Su quest’ultimo interrogativo, la risposta, in una situazione di normalità, dovrebbe essere ovvia. Ma purtroppo, nella nostra situazione non è sempre così.

Anche il mondo della scuola però – a partire dall’associazionismo professionale e dalle OOSS della scuola – non può tirarsi indietro e fare al riguardo la propria parte. La scuola è del Paese, ma chi la fa  sono quelli che ci lavorano, che devono quindi sentire il dovere di proteggerla e migliorarla.

  1. Ultimo punto. Il funzionamento dei gruppi nei quali si sviluppa la collegialità docente rinvia per forza di cose alla più generale questione organizzativa delle nostre scuole e alla necessità di un suo ripensamento per recuperarne senso e valore (la parola d’ordine della partecipazione dei DD del 1974 è ormai inadeguata a cogliere esigenze e attese della realtà di oggi). Al riguardo, l’idea di una strutturazione reticolare del Collegio[7] – non certo nuova, ma sempre lì appesa, come i caciocavalli di Benedetto Croce – può diventare una risposta promettente solo se le sue articolazioni (i vari gruppi di lavoro: consigli, dipartimenti, gruppi di progetto e di approfondimento …), diventano unità operative funzionali al POF di scuola (e – a voler volare – prime anticipazioni di comunità di pratica nelle nostre scuole).

E tutto questo ‘chiama’, verosimilmente, due essenziali condizioni: la prima che riguarda proprio le  Figure degli insegnanti non solo insegnanti e la necessità di un loro profilo professionale potenziato – dentro il ruolo docente[8]; la seconda che ci porta al profilo del DS e alla necessità di una sua opportuna rimodulazione che si faccia carico delle nuove ‘competenze’ della scuola e dei cambiamenti del lavoro docente e delle responsabilità che ne derivano (e delle quali abbiamo difficoltà a parlare).
Rimodulazione che tenda a spostare il focus dell’impegno professionale ds

  1. su una maggiore vicinanza al lavoro dei suoi insegnanti, anche per prevenire eventuali difficoltà professionali e facilitare il loro coinvolgimento nei lavori delle articolazioni collegiali;
  2. sul supporto alle figure professionali impegnate nella conduzione dei gruppi ecc..

Sulla base di queste considerazioni – fermo restando il necessario approfondimento degli aspetti ancora problematici[9] -, passaggi ulteriori dovrebbero riguardare la costruzione di una di una leadership distribuita, in grado di valorizzare competenze ed esperienze che maturano nelle figure professionali al centro di queste riflessioni.  E non solo di esse, ovviamente.

Ma con questi temi, siamo oltre gli intenti di queste note.

[1] V. A. Valentino, Insegnanti non solo insegnanti, in Gli insegnanti nell’organizzazione scolastica, Edizioni Conoscenza, 2015

[2] L’argomento è affrontato con chiarezza in un apposito capitolo dal titolo ‘Le figure di sostegno all’autonomia’ (pp.44 sgg)

[3]A tutte le figure a supporto dell’autonomia, sono richieste competenze e responsabilità diverse. Ma non ci sono standard di riferimento, mancano indicazioni per eventuali sviluppi di carriera, gli accordi contrattuali sono assai generici. A fronte di una certa vaghezza giuridica e contrattuale c’è una realtà molto ricca, articolata e complessa che avrebbe bisogno di un nuovo quadro di riferimento (giuridico e contrattuale). Per qualificare ulteriormente le diverse figure professionali sarebbe forse utile prevedere nuovi meccanismi di valorizzazione delle professionalità e processi di reclutamento più funzionali.” (dal Il Rapporto finale del 23 luglio 2020, del Comitato ministeriale coordinato dal prof. Patrizio Bianchi)

[4] Per questo paragrafo, ho seguito, considerandole stimolanti e condivisibili, alcune considerazioni di P. Calascibetta, Figure di sistema: questa volta partiamo dal problema, in “Nuovo Pavone Risorse (www.gessetticolorati.it/dibattito), maggio 2021, svolte su un mio articolo: Figure di sistema e questione organizzativa. Farci i conti, in “Nuovo Pavone Risorse”, www.https://www.gessetticolorati.it/.it – Maggio 2021, dove si cerca di presentare un quadro più compiuto sull’argomento.

[5] G. Cerini ha sempre sostenuto (e tanti con lui, anche chi scrive queste note) che forme di premialità andrebbero previste (accelerazione di carriera, altre forme di riconoscimento) per gli insegnanti che investono sulla loro professionalità (ricercando, sperimentando, formalizzando esperienze ecc.) e conseguono risultati significativi, misurabili attraverso evidenze riconosciute come tali da apposite Commissioni interne (esiti di apprendimento soddisfacenti anche di allievi in situazioni critiche; costruzione e realizzazione di progetti didattici proponibili anche in altri contesti similari…).

[6] Sul punto però non vanno minimizzati né il rischio cosiddetto di aziendalizzazione della scuola, nè le preoccupazioni di ricadute divisive per il personale scolastico. di cui parlano un po’ da sempre le organizzazioni sindacali della scuola, e non solo loro. La questione è certamente complessa, come è seria la problematica del recupero di efficacia e di efficienza dell’organizzazione scolastica per assolvere alle sue finalità. La letteratura è vasta al riguardo. Quelle che vanno contrastate sono le derive autoritarie che possono esserci dietro certe trasformazioni organizzative e va invece promossa e sostenuta, attraverso strategie ad hoc, una cultura che assume e ‘agisce’ le posizioni organizzative che si ricopre non come posizione di autorità, ma come insieme organico di funzioni e compiti che devono essere svolti per garantire efficacia al lavoro nelle scuole. V. L. Benadusi, R. Serpieri (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci 2000, pp. 93 sgg.)

[7] V. mio contributo citato nella nota 5.

[8] Qui comunque si pensa a figure scelte dal collegio (altro è il discorso per i collaboratori del DS) e nominate dal DS e a incarichi almeno triennali, in coerenza con la durata di vigenza del POFT, ma non a tempo indeterminato.

[9] V. in http://www.proteofaresapere.it/cms/resource/5271/documento-dirigenza-e-organizzazione-scolastica-2.pdf, un interessante contributo – di un Gruppo interregionale dell’Associazione Nazionale Proteo Fare Sapere – sulle questioni ancora aperte e alcune ipotesi di lavoro.




Autonomia e libertà. Un ricordo di Giulio Giorello

Stefaneldi Pietro Calascibetta

In questi giorni il mondo della scuola festeggia Edgar Morin ricordandone il pensiero cha ha avuto una grande influenza su tutta una generazione di insegnanti. Un altro filosofo che ha ispirato la formazione di molti docenti è stato Giulio Giorello, purtroppo morto prematuramente poco più di un anno fa.
Desidero ricordarlo approfittando della recente la pubblicazione a cura di Antonio Carioti del volume dal bel titolo “Le avventure della libertà” che raccoglie i suoi contributi per #laLettura , supplemento culturale del Corriere della Sera.
Carioti nella prefazione tiene a sottolineare come il rapporto con Giorello non fosse stato casuale , ma frutto di una scelta precisa perché Giorello era la firma più adatta per collaborare ad un progetto culturale come quello de “la Lettura” che voleva «combinare il sapere umanistico e quello scientifico […] contaminare espressioni culturali elitarie e produzione per il consumo di massa».
Un progetto, continua Carioti, che «sembrava cucito su misura per Giulio Giorello […] perfettamente in grado di sparigliare il gioco, trovando sempre lo spunto per incuriosire il lettore o per cogliere nessi tra argomenti apparentemente distanti, con una versatilità più unica che rara».
Da dove derivava tutta questa poliedricità nell’approccio alla conoscenza?


Nella seconda di copertina troviamo una presentazione che in modo sintetico ce ne dà una spiegazione molto efficace che per questo motivo riporto integralmente.
«Eclettismo, apertura al nuovo e ai fenomeni di massa, contaminazione tra scienza e umanesimo, rifiuto di ogni schematismo. In una parola, libertà. Questa è stata la cifra intellettuale di Giulio Giorello, che ha reso la sua attività culturale un’avventura continua, fatta di incontri, sorprese, slittamenti dei punti di vista, in una pratica della ragione estranea a ogni dogmatismo e rigida appartenenza».

Leggendo questa biografia-lampo e ricordando sullo sfondo il pensiero di Morin a cui accennavo, mi viene spontaneo dire che queste parole potrebbero ben descrivere in modo semplice e chiaro ciò che una scuola dovrebbe fare e che Giulio Giorello personificava nella sua attività accademica e di divulgazione.
Spiazzare gli studenti, trovare il modo di incuriosirli, avere una visione olistica dei saperi, affrontare i classici senza disdegnare gli autori contemporanei, essere aperti al nuovo cercandone le valenze culturali e i nessi con il passato e le opportunità per gli sviluppi futuri, avere un atteggiamento non dogmatico nei confronti delle varie teorie pedagogiche e didattiche cercando di usarne le valenze e le possibilità in base ai bisogni degli studenti che di volta in volta si hanno davanti.
Insomma una scuola come laboratorio della conoscenza e della ricerca didattica applicata in cui sia possibile ai docenti accompagnare gli studenti in un’esplorazione dei saperi fuori da schemi precostituiti crescendo insieme a loro e arricchendosi anche sul piano professionale.
Utopia? No. Una forma-scuola che ha trovato la sua incubatrice nelle scuole cosiddette sperimentali degli anni ’70 e che ha trovato poi nell’autonomia scolastica la sua dimensione ordinamentale e proprio nella sperimentazione la sua dimensione metodologica, almeno nelle intenzioni del legislatore.

A questo punto ho ripensato al rapporto privilegiato che l’Istituto sperimentale Rinascita Amleto Livi di Milano ha avuto la fortuna di avere negli anni proprio con Giulio Giorello e mi sono reso conto di come questo incontro non sia stato casuale, come non lo era stato per “la Lettura”, perché il progetto di sperimentazione aveva diversi punti in comune con questo suo approccio alla conoscenza così ben descritto nelle righe precedenti.
Per cominciare la scelta culturale di dare pari dignità al curricolo scientifico e a quello umanistico a cui è corrisposta sul piano strutturale la scelta di assegnare lo stesso numero di ore curricolari ai rispettivi insegnamenti delle due aree e la creazione di un impianto orario, grazie al tempo pieno, in cui erano possibili occasioni di contaminazione interdisciplinare in copresenza tra i docenti in ambienti di apprendimento laboratoriali per consentire agli studenti di trovare o meglio scoprire in un lavoro individuale e di gruppo i nessi tra le diverse conoscenze, prendere consapevolezza di quelle mancanti da ricercare e, nel fare ciò, acquisire nuove competenze di studio per procedere poi con sempre maggior autonomia nell’esplorazione del sapere.
Ricordo che diverse sono state le occasioni di incontro con Giorello sia in occasione di workshop di formazione dei docenti, sia nella collaborazione con le iniziative promosse dalla scuola come quelle nate nell’ambito del progetto di rete di scuole “ Scienza under 18” promosso da Rinascita per aiutare le scuole a trovare nuove strade per valorizzare la cultura scientifica attraverso il protagonismo degli studenti.
Preso da queste suggestioni mi è venuto alla mente un intervento di Giulio Giorello sull’importanza della flessibilità e della sperimentazione nella scuola.
«L’adattamento presume la passività e il conformismo – diceva in quella occasione – mentre la flessibilità presuppone la voglia di cambiare, la libertà di cambiare, senza la quale le altre libertà vengono meno » Citando espressamente, come faceva spesso, il suo amico e maestro Ludovico Geymonat , anche lui come Morin filosofo e combattente partigiano che ben conosceva la libertà come valore e come condizione indispensabile alla formazione della persona.
Parole importanti e significative quelle di Giorello mi sono detto, in un momento in cui qualcuno si domanda se non sia il caso di tornare alla scuola di gentiliana memoria eliminando i progetti “distrattori”.

L’intervento a cui mi riferisco è quello svolto al Convegno nazionale del marzo 2017 tenutosi all’IRRE Lombardia dal titolo ”RICERCA DIDATTICA SPERIMENTAZIONE E PROFESSIONALITA’ DOCENTE.
Il protagonismo degli insegnanti per rispondere alle nuove esigenze della società” .
Un convegno organizzato dall’Istituto sperimentale “Rinascita A.Livi” di Milano con “Scuola città Pestalozzi” di Firenze e “Don Milani” di Genova per proporre all’attenzione del mondo della scuola l’opportunità di assegnare , nel nuovo quadro normativo dell’autonomia, un vero e proprio ruolo di sistema alle scuole sperimentali “storiche” esistenti già prima della riforma in collaborazione con quella che avrebbe dovuto essere l’ Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica poi ahimè abortita sul nascere con un’operazione di “palazzo” . Uno degli innumerevoli “inciampi” alla piena attuazione della riforma.

Consapevoli per esperienza diretta dell’assoluta necessità di avere almeno un’ipotesi progettuale degna di questo nome per guidare le scelte strutturali e organizzative da tradurre in un’offerta formativa , la rete delle tre scuole riteneva che l’esperienza organizzativa di gestione della flessibilità di queste “avanguardie” e di altri istituti con percorsi simili, sarebbe stata utile per sostenere nei vari territori tutte le scuole nell’attuazione proprio dell’autonomia di “ ricerca, sperimentazione e sviluppo”, come recita il dettato dell’art, 6 del Regolamento attuativo, che poi è il vero cuore della riforma in quanto la sola autonomia didattica e organizzativa si trasforma in un esercizio di ingegneria e il POF un menù di offerte nel mercato delle utenze in mancanza di un’ipotesi progettuale solida e specifica predisposta dai docenti di ciascun istituto con la propria comunità scolastica da sperimentare per il successo scolastico dei propri studenti.
Ho riascoltato allora per intero l’intervento di Giorello estrapolandone alcuni passi che mi sembrano particolarmente significativi alla luce del dibattito odierno per comprendere la valenza dell’autonomia come strumento di libertà progettuale non tanto per il singolo docente, ma, ed è questa la novità, per ciascuna comunità scolastica.
Un contributo prezioso per comprendere meglio che qui si tratta della libertà di trovare le modalità più adatte per raggiungere un obiettivo comune e non la libertà di fare ciò che si vuole.

« La libertà di sperimentare è una libertà molto preziosa per la scuola – sottolinea con passione Giorello – e credo che questa libertà debba essere con coraggio e con decisione rivendicata da queste tre componenti della scuola: gli studenti, gli insegnanti e le famiglie »
Una sperimentazione non fine a se stessa ma motivata dal fatto che la scuola non può essere solo custode del passato, ma deve essere in grado di rendere gli studenti consapevoli che la conoscenza è in continua evoluzione, da qui la necessità di un incessante rinnovamento dei contenuti, «basterebbe guardare appunto alla storia della fisica o alla storia della biologia – incalza Giorello – per renderci conto di come siano emersi nuovi problemi e come i contenuti stiano cambiando. Certo non puoi fare una riforma permanente dei contenuti cambiandoli ogni giorno, né tantomeno stabilire una serie di norme che regolino i comportamenti di docenti ed insegnanti che vengono cambiati col ritmo della rivoluzione permanente, per citare la battuta di Lev Trockij, però qualcosa si può fare, io – aggiungeva – me ne rendo conto di nuovo con la mia esperienza personale. […] un problema sarà quindi sicuramente quello dell’aggiornamento dei contenuti».

In questo compito Giorello sottolineava l’importanza di ripensare il rapporto tra università, luogo anche di ricerca disciplinare, e la scuola che ha bisogno di essere alimentata in progress dall’evoluzione della conoscenza anche in funzione orientativa e motivazionale per i propri studenti facendo nascere interessi e stimolando talenti. Un rapporto però da stabilirsi non sotto forma di adesione passiva ai rituali accademici, ma flessibile nelle modalità e nell’approccio in base ai bisogni delle singole scuole. Non a caso il Regolamento dell’autonomia prevede, accanto all’autonomia di sperimentazione, ricerca e sviluppo , l’autonomia nel creare reti e convenzioni con università, Enti e associazioni (art. 7).
Giorello vede la flessibilità per la scuola non solo come una condizione possiamo dire insita nello sviluppo del pensiero e nella metodologia di insegnamento, ma come un diritto vero e proprio.
Nell’intervento al Convegno per introdurre questo concetto prende spunto da cosa accadeva nelle università medievali. «Quando un gruppo con un maestro non si trovava a suo agio in un contesto prendeva e andava a sperimentare altrove, questo è un elemento molto bello ed è bello che sia nato nel mondo della scuola. Il “diritto di exit” è secondo me è una delle componenti fondamentali di una società aperta e democratica, certo è una componente di libertà che va gestita in modo responsabile […], il “diritto di exit” va pesato rispetto ad altri diritti come l’assenza di danno agli altri […] quindi ci sono problemi estremamente intriganti, ma il cercare una proliferazione di esperimenti in uno spirito di autonomia mi sembra un elemento che lega la nostra scuola o almeno dovrebbe legare la nostra scuola a una tradizione profonda libertaria che ha costituito il meglio dell’esperienza europea nel senso di Husserl».

Avviandosi alla conclusione del suo intervento, Giorello non poteva essere più chiaro rispetto all’importanza della libertà di sperimentare scegliendo non a caso una frase di Patrick Pearse, un leader nazionalista irlandese, poeta ed educatore che alla libertà aveva dedicato la sua vita in quanto fu fucilato dagli inglesi dopo il fallimento dell’insurrezione del 1916 di cui era stato uno dei promotori.
Pearse, spiga Giorello, « aveva definito una scuola in cui i programmi burocrati uccidono la spontaneità di insegnanti e di studenti una specie di” murder machine” cioè di macchina per uccidere. La sua risposta era stata quella di un continuo tentativo di aprire in più direzioni, di far vivere le alternative. Allora – continua Giorello portando un esempio – c’erano i sostenitori della Celtic revival che dicevano : “Insegniamo le grandi favole, le epiche dei Gaelici nella nostra scuola!” e quelli che invece dicevano “No, insegniamo geometria per esempio la dura geometria di Euclide!” e Patrick Pearse rispose loro “ Perché non tutte e due!”».
Il messaggio finale è un auspicio . « Questo tipo di exit – conclude – se diventa un abito intellettuale è qualcosa che impedisce alla nostra scuola di diventare solo una macchina per uccidere la creatività, la spontaneità degli studenti e la volontà di cambiare dei nostri migliori insegnanti.”




Una scuola a misura di studente

di Stefano Stefanel 

Una scuola a misura di studente è uno slogan un po’ vecchiotto e un po’ retorico, ma rende ugualmente bene l’idea della scuola dentro la società della conoscenza, che ha cura per tutti i suoi studenti. Gli studenti dovrebbero trovare nel sistema scolastico quello che risponde meglio alle loro singole esigenze, nell’interesse comune di aumentare le possibilità e le potenzialità di tutti e quindi anche il benessere (sociale, culturale, economico) di ogni nazione. Nei fatti, però, accade spesso che sia più corretto lo slogan opposto: Uno studente a misura di scuola. Il sistema scolastico non si struttura come un servizio verso le esigenze di ogni singolo studente, ma propone delle strade e cerca studenti che si adattino a queste. Tutta le questioni dell’orientamento, delle bocciature, dei percorsi opzionali, delle materie di indirizzo, delle valutazioni docimologiche trasformano l’idea di essere, come scuola, “a misura di studente” a quella più pragmatica di cercare studenti “a misura di scuola”. Ma fin qui siamo nella normalità del rapporto diretto tra dichiarato ed agito, una questione su cui la scuola sta dibattendo ormai da almeno vent’anni, quelli dell’autonomia, e che i vari tentativi di accountability non sono riusciti a modificare.

Se, però, prima di occuparci delle esigenze degli studenti dobbiamo occuparci di adeguare alla capienza dei mezzi di trasporto il numero di studenti da far salire sugli autobus (ma non su quelli cittadini che possono continuare a girare pieni), di far entrare nelle classi più studenti possibile pur non rispettando le distanze di sicurezza, di garantire che gli insegnanti che vogliono si vaccinano e quelli che non vogliono non lo fanno, di continuare a valutare attraverso numeri assegnati a seguito di compiti in classe scritti e di interrogazioni gestite su base mnemonica e ripetitiva, se dobbiamo occuparci di quanti alunni possono entrare nelle palestre o nei laboratori, se dobbiamo ascoltare i prefetti su quando si deve fare scuola, se dobbiamo decidere d’estate che banchi ci servono d’inverno, se dobbiamo continuare a credere e a far credere che il “vecchio” esame di stato con le prove scritte e l’orale sia una cosa seria da ripristinare, se dobbiamo parlare di povertà educative e di dispersione come se fossero fenomeni indipendenti rispetto alle condizioni in cui vivono le persone, difficilmente avremmo tempo, voglia e possibilità di occuparci di quello di cui hanno bisogno gli studenti per apprendere, migliorare, crescere.

Tutto questo, comunque, potrebbe anche essere fatto rientrare nella solita e solida battaglia tra chi vuole cambiare il sistema scolastico e chi lo vuole mantenere inalterato, senza mai commuoversi per quello che hanno dimostrato gli studenti italiani in questi due ultimi anni scolastici. La questione diventa più seria, però, se tutti coloro che, in qualche modo, devono prendere decisioni in una situazione particolarmente drammatica come la pandemia, non si accontentano di una considerazione umanamente ovvia come la comprensione per aver dovuto fare scelte difficili in un periodo difficile, ma pretendono di dimostrare di non aver sbagliato nulla neppure davanti agli errori più ignobili. E così si assiste alla sequela delle questioni su cui di deve tacere, perché altrimenti si viene assaliti dall’aggressività dei decisori, che vogliono prendere decisioni sbagliate ricevendo solo applausi, traendo conclusioni scorrette perché nascono da premesse poco scientifiche, facendo sempre ricadere le colpe sugli altri. Sui trasporti non si può dire nulla, sui tracciamenti neppure, sulle decisioni dei prefetti nemmeno, sulla solitudine in cui gli Uffici scolastici regionali hanno lasciato le scuole si rischia il procedimento disciplinare, sull’incompetenza dei docenti a valutare (sia in presenza sia a distanza) tutto tace, sulle stupidaggini di chi vuole una scuola che boccia di più nessuno da voce a chi ritiene che il sistema scolastico si valuti in base a quanto insegna, non a quanto boccia (lo ha detto anche il Ministro Bianchi, guardando “stupito” l’aumento delle bocciature). E via di seguito, fino ad arrivare ai dirigenti scolastici che tutti hanno sempre operato bene e guai a chi dice il contrario. Insomma una situazione in cui tutti sono bravi e competenti e solo (alcuni) studenti non lo sono.

DAD, DDI E DINTORNI

La Didattica a Distanza è negativa”: questa banale osservazione viene enunciata come una perla di saggezza infinita, come se nella scuola ci fosse qualcuno che dice che, invece, la DAD è positiva. La scuola da marzo a giugno del 2020 ha dovuto ricorrere alla Didattica a Distanza perché l’alternativa era nessuna didattica. E quindi ha usato in emergenza un metodo didattico (l’e-learning) che non può, nell’ordinario, sostituire la scuola in presenza. Quando una colossale banalità diventa elemento di ragionamento pubblico vuol dire che siamo proprio messi male. Anche se nell’estate del 2020 il Ministero ha introdotto il concetto di Didattica Digitale Integrata, che non vuol dire DAD, perché “integrare” non significa “sostituire”, mi pare che pochi abbiano colto il senso della questione, che, molto semplicemente, è trarre il meglio da tutte le possibili opportunità. Ragionandoci su non è poi così difficile capire che integrando la didattica ordinaria con quella digitale possiamo raggiungere meglio tutti gli studenti, dare ascolto e corso ai loro bisogni, riorganizzare tempi e modi dell’apprendimento, imparare metodi di verifica e valutazione meno “pre-industriali”. Tutta la filiera della formazione ha lavorato in questo senso e nel complesso ha lavorato molto bene.

Almeno dentro il mondo della scuola dovrebbe esserci la consapevolezza delle grandi potenzialità del digitale e dell’importanza di creare una didattica integrata. Il digitale può sviluppare le condizione per grandi risparmi di tempo, ma dentro un paradigma mutato. Il digitale è molto utile per il colloquio colto e il focus group, molto poco utile, invece, lo è per l’interrogazione mnemonica e per il compito scritto. Si tratta di verificare qual è la condizione migliore, imparare a lavorare in piattaforma e lasciare alle attività in presenza il loro imprescindibile ruolo nel contatto, nel confronto, nella socializzazione, nel lavoro in team. Invece per una parte consistente del mondo della scuola le attività migliori da realizzare in presenza sono e rimangono i compiti scritti e le interrogazioni. E allora è chiaro che torna prepotente il concetto di Didattica a Distanza, proprio per cercare ancora una volta di chiudere la porta a quel digitale a scuola, nel momento in cui tutta la vita reale è dentro il digitale.

MULTIDISCIPLINARIETA’ e INTERDISCIPLINARIETA’

L’esame di stato degli ultimi due anni in entrambi i cicli ha dimostrato che “un altro mondo è possibile”. La massa inutile di compiti scritti nel primo ciclo e quella nociva nel secondo ciclo ha ceduto il posto ad un colloquio che ha evidenziato il lato migliore della scuola. Permane ancora in troppi docenti l’idea che senza una domanda contenutistica non siamo di fronte ad un vero esame, ma questo perché si sta scontando nella scuola italiana una lunga e potente tradizione di disciplinarismo monadico, dove ogni disciplina si chiude dentro il suo recinto orario e non dialoga con nessuno.

Sia il multidisciplinarismo (molte materie che concorrono in forma autonoma ad affrontare un unico argomento da più punti di vista), sia il transdisciplinarismo (le materie che vengono utilizzare per ragionare attorno ad un argomento, ma non in forma ordinata o completa perché l’interesse è sull’argomento non sulla materia) vanno studiati, prima dai docenti e poi dagli studenti. L’importante passaggio valutativo che ha toccato la scuola primaria, con l’introduzione della valutazione per obiettivi, tende proprio a combattere la secondarizzazione di quel segmento di scuola, mentre la nuova forma dell’esame di stato tende a “prima rizzare” la scuola secondaria dentro l’esigenza di saperi non più divisi. Le discipline devono essere usate per capire, non per presidiare centri di potere (la famigerata “pari dignità” delle discipline definita per via normativa e non culturale).

Ecco che allora diventa importante comprendere in che modo il digitale può aiutare lo studente ad integrare il suo sapere e a dotarlo delle competenze necessarie per padroneggiare questo digitale, senza farsi ingoiare da lui. Impresa complicata, ma che gli attuali contorcimenti linguistici non fanno che rendere ancora più complicata.

BOCCIARE E DISPERDERE COME SORVEGLIARE E PUNIRE

Tutta la questione della distanza e della presenza rientra nell’unica categoria, purtroppo immortale, del “sorvegliare e punire”, dove la fanno da padroni l’appello, la presenza obbligatoria, l’idea che devi esserci anche se questa tua presenza non ti produce alcun vantaggio. Se quello che conta è il contenuto della risposta dentro una sorta di eterno quiz mnemonico, poi quando lo studente si troverà a dover elaborare un pensiero dovrà saperlo fare con i mezzi suoi, non con quelli che gli ha trasmesso la scuola. Nel mondo ormai non si tratta di “saper dare la risposta esatta”, ma di “saperla cercare”, che è un po’ diverso.

Tutto questo si connette con la necessità di rendere la presenza a scuola un elemento di virtù non di obbligo, mentre siamo dentro il dibattito su come far tornare tutti sempre in presenza, senza contagiarsi, senza riempire i pullman, mantenendo le distanze di sicurezza dentro aule troppo piccole. Il PNRR – Next Generation Eu si occupa d’altro, non  di come risolvere i problemi delle scuole in modo che queste diventino il luogo a misura di studente. Si sta spingendo perché le domande sull’efficacia e l’efficienza siano cancellate, cercando di spingere gli studenti ad essere felici di essere a misura di scuola. L’idea di ammettere a scuola tutti gli studenti con la Green Card e sugli altri attenersi alle possibilità del momento non pare venir presa in considerazione, forse perché è più democratico che chi non vuole vaccinarsi non lo faccia, anche se questo è pericoloso per gli altri.

L’idea, poi, di aumentare le bocciature viene sempre più spesso sbandierata come la grande innovazione per il ritorno ad una scuola più severa e selettiva, quasi che l’Italia non sia già il Paese dell’Unione Europea che boccia di più e che non sa cosa fare dei propri bocciati, costretti a rifare l’anno dopo sia le cose che sanno, sia quelle che non sanno. Viene il dubbio che anche le bocciature siano diventate un problema occupazionale, perché se si eliminassero avremmo bisogno di meno organico e i numeri sarebbero così chiari che si potrebbe finalmente programmare flussi certi di presenza degli studenti a scuola. Invece la percentuali dei bocciati chiede più organico, perché per loro non c’è un progetto, ma solo un grande e spesso inutile ripasso.

Ogni sistema viene analizzato e studiato per i suoi punti di forza e dunque se l’attuale esame di stato del secondo ciclo dice che il 20% degli studenti esce col voto massimo vuol dire che è un buon esame. Io credo che più del 30% dei nostri studenti dovrebbe uscire col voto massimo e se un esame certifica qualcosa di diverso è sbagliato l’esame e sbaglia chi quell’esame lo conduce. L’esame di fine ciclo dovrebbe essere simile alla la discussione della tesi di laurea, non un luogo dove non si boccia ma si ripetono gli stanchi riti delle verifiche tradizionali, bensì il luogo del confronto sul livello alto dell’apprendimento. Poi magari sarebbe il caso di introdurre le certificazione per i livelli reali di competenza disciplinari, da definire a fine aprile della quinta, che certificano cosa lo studente sa realmente fare (così se sa fare poco in matematica non devi essere bocciato, ma semplicemente interdetto dall’iscriversi all’Università di Matematica, Fisica o Ingegneria. E così pere l’inglese, il latino, ecc.).

Servirebbe un bel piano di supporto agli studenti e alle loro necessità che punti al futuro, non questa corsa a giustificarsi con l’idea che lo studente si deve adattare alle mancanze del sistema. E’ necessario agire su alcuni punti essenziali: piano personalizzato di apprendimento per tutti gli studenti, certificazione dei livelli reali di competenza nelle discipline, sviluppo dell’interdisciplinarietà, esami di fine ciclo come discussione di fine percorso. Si potrebbe partire estendendo la valutazione per obiettivi anche alle scuole secondarie e utilizzando i soldi del PNRR per rifare gli edifici scolastici che non sono più in grado di stare al passo con la società della conoscenza.




Ripensare lo Stato sociale dalle fondamenta: dalle leggi di fine anni ’70 al Terzo settore.

di Paola Di Michele

 

C’è un quadro bellissimo, arcinoto, di Pellizza Da Volpedo che rappresenta il Terzo Stato in marcia. Fatto di gente povera, vestita male ma con lo sguardo dignitoso e deciso proteso al futuro di chi cerca di conquistare il proprio pezzetto di dignità. E c’è un movimento nascente di lavoratori, operatori del sociale, che comincia adesso a prendere coscienza di condizioni lavorative diventate ormai al limite della sopportazione.
Per capirci, mi riferisco alle Cooperative Sociali di tipo A, cui l’ISTAT assegna un totale di lavoratori di circa 380.000 unità, per un indotto di più di 8 miliardi di euro, e che si suddivide in servizi scolastici educativi, servizi domiciliari socioassistenziali, socioeducativi, sociosanitari, centri diurni, centri di accoglienza, case-famiglia, nidi, e altro. Fondi che lo Stato stanzia alle Cooperative Sociali e che per meno della metà giungono nelle mani dei lavoratori.

Facciamo un piccolo passo indietro. Quando nasce questa situazione? Alla fine degli Anni Settanta, in un lasso di tempo brevissimo, appena un biennio, si può collocare la nascita del moderno Stato Sociale in Italia.
A fare da spartiacque sono una serie di leggi: la Legge 517/77, che abolisce le classi differenziali nelle scuole italiane e introduce le figure dell’insegnante di sostegno e dell’assistente all’autonomia e la comunicazione; la Legge 833/78, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, introducendo un modello universale di tutela della salute, intesa come stato di «completo benessere psico-fisico», perseguendo gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le Istituzioni, attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria (oggi ASL); la Legge 180/78, cosiddetta “Legge Basaglia”, che abolisce le strutture manicomiali, e rimane riforma a metà anche a causa della morte dello stesso Basaglia che la voleva più compiuta, con le strutture territoriali di accoglienza che avrebbero sostituito l’istituzione totale manicomiale.

Si tratta di norme giuste, necessarie, avanzatissime sotto un profilo giuridico, etico e morale. Tuttavia, a “pentole bellissime”, lo Stato Italiano dimenticò i “coperchi”. Tutto questo splendore, infatti, richiedeva strutture, personale, fondi. Che lo Stato Italiano non aveva, o non aveva predisposto. O forse si era solo distratto, chissà. Forse pensava bastasse annunciare la “Rivoluzione dei Diritti”, per vederla realizzata come d’incanto.
Quello che successe fu che lo “spontaneismo” dettato dalla voglia di impegno, politico, sociale e culturale dei tempi, portò alla nascita del Terzo Settore. Persone, amici che si associarono per creare dal nulla quei servizi, condividendo un’idea di impegno civile e solidaristico che avrebbe portato alla nascita delle prime Cooperative Sociali, Associazioni Non Profit in cui i lavoratori erano anche soci e condividevano tutto, oneri e onori, decidendo insieme. Lo Stato fu ben lieto di delegare e ringraziò. Tutti facevano una magnifica figura.

Ma cosa ne è stato di quel movimento, a più di quarant’anni di distanza? Tanto per cominciare, la Legge che regola le caratteristiche delle Cooperative Sociali è stata promulgata solo nel 1991 (Legge 381/91), introducendo il concetto di volontariato (discorso su cui, volontariamente, preferisco non soffermarmi); è stata poi integrata dalla Legge 142/01 che definisce le Cooperative Sociali come Enti senza scopo di lucro e rispondenti ai dettami del diritto privato, sottolineandone la natura determinata dal «rapporto mutualistico [che] abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio». Inoltre, «i soci lavoratori di cooperativa: a) concorrono alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa; b) partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell’azienda».
Democrazia interna e partecipazione dei soci-lavoratori, dunque. Ebbene, una magnifica utopia! Una tale visione rimanda all’idea di un circolo di amici che discute del benessere proprio e altrui.  Ma è proprio così?
C’è ad esempio una Cooperativa lombarda che ha decine di migliaia di lavoratori e opera, oltre che in Lombardia, in Liguria, Toscana, Abruzzo, Lazio, Puglia e Sardegna.
Senza fini di lucro e con la partecipazione mutualistica di quasi 20.000 soci (non è dato sapere quanti non siano soci, per altro…)? Almeno bisognerebbe porsi il dubbio se si tratta di non profit o di un’azienda vera e propria.

Ma chi sono i lavoratori del Terzo Settore? È necessario precisare che, sin dagli albori, queste professioni erano prive di normativa, percorsi di formazione nazionale e di riconoscimento, e tali restano in moltissimi casi, come accade per gli assistenti specialistici per l’autonomia e la comunicazione che operano nelle scuole e che attendono, invano, un Profilo Nazionale dal 2017.
Si tratta di una variegata umanità composta da laureati delle discipline di aiuto (psicologi, pedagogisti, educatori, assistenti sociali) o studenti delle stesse che fanno, spesso, questo lavoro “per farsi le ossa” in attesa ( o meglio, nella speranza) di fare di meglio, nonché di operatori di “vecchia data” che hanno iniziato con titoli svariati e, nel tempo, hanno seguito una quantità assolutamente stupefacente di corsi, come ad esempio i corsi OSS [Operatori Socio Sanitari, N.d.R.], che, inizialmente erogati da Enti Pubblici, hanno finito per essere “privatizzati”, arrivando a costi proibitivi. C’è poi una parte di lavoratori, per lo più stranieri, cui spesso vengono delegati (e questo non dovrebbe stupire…) i servizi più faticosi o poco specializzati, come, ad esempio, il Servizio SAISH a Roma (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione della Persona Disabile).
Ciò che accomuna la maggior parte di questi lavoratori è un’attitudine agli altri, una volontà precisa di occuparsi di chi è più in difficoltà, di portare aiuto dove serve. Con tutto il carico di responsabilità, impegno morale, ma anche senso di colpa e impotenza, di fronte a situazioni dinnanzi alle quali si comprende di poter portare solo piccolo sollievo. Ciò determina quello che notoriamente viene definito come burnout, ossia una condizione di “esaurimento affettivo”, demotivazione e afflizione da cui raramente si torna indietro, con stati di prostrazione anche importanti.
Si aggiunga a questo stipendi che sono la metà esatta di quelli di un dipendente pubblico (800/900 euro retribuite “a ore”), con tutele bassissime, periodi di interruzione lavorativa “involontaria” (part-time ciclici verticali utilizzati diffusamente per i lavoratori delle scuole), che non prevedono alcun tipo di ammortizzatore sociale, una disciplina contributiva che determina pensioni ridicole, corsi di formazione e riqualificazione onerosi e frequenti e, infine, una condizione di precarietà lavorativa strutturale, determinata dai bandi pubblici a ripetizione, spesso con il solo criterio dell’offerta economica più vantaggiosa, con operatori sociali che fanno il giro delle Cooperative come turisti sperduti senza mappa né itinerario.

In un Libro Bianco sulla condizione degli assistenti educativi scolastici, ricerca che condussi a Roma nel 2019, il 64% dei colleghi dichiarava di avere cambiato Cooperativa negli ultimi tre anni (“turisti senza mappa”, appunto). Dato ancora più impressionante, solo il 29% dichiarava di essere socio-lavoratore (dunque, dipendente privato a tutti gli effetti e non mutualisticamente coinvolto nella Cooperativa). A livello nazionale, la situazione è di poco migliore, come emerge dalla ricerca nazionale effettuata dalla sottoscritta durante la pandemia, con un dato del 40% di soci-lavoratori. Dunque, che ne è del lavoratore che concorre democraticamente alla gestione della Cooperativa?

Farò un esempio che spero dirimente. Annualmente, l’Assemblea dei Soci (quei pochi che ci sono) si riunisce per approvare il bilancio, dividere eventuali utili (sic), decidere i piani programmatici e rivedere il regolamento interno, che deve rispettare alcune normative fisse dalle quali non si può derogare.
Negli ultimi anni ho lavorato in una Cooperativa di cui ero socia (nell’ultimo cambio appalto, cambiando Cooperativa, non lo sono più, in attesa che la Presidenza decida «se ne sono degna», parole testuali). Le Assemblee si facevano in estate inoltrata, mai visto un bilancio, e si svolgevano in orario lavorativo, che non consentiva ai più di partecipare. Morale della favola: vi si presentavano venti/trenta persone di cui una metà con decine e decine di deleghe di altri lavoratori. Qualunque cosa la Presidenza proponesse veniva così approvata, anche in spregio ai diritti minimi (ad esempio: abolizione degli scatti di anzianità o malattia pagata solo al 50%).
Sia chiaro, è la mia esperienza, ma da ciò che mi è dato sapere parlando con moltissimi colleghi del Bel Paese, si tratta di esperienza piuttosto comune.

È cosa nota come, specie nel settore dei servizi sociali, che le Pubbliche Amministrazioni e gli Enti Locali abbiano perseguito, negli ultimi vent’anni, una politica indiscriminata di esternalizzazione dei servizi essenziali affidati, a seconda dei casi, ad aziende private o a enti del Terzo Settore. Quali controlli le stazioni appaltanti abbiano messo in atto è sotto gli occhi di tutti, con evidenti ripercussioni specialmente nel settore sanitario, socioassistenziale ed educativo, come la pandemia in corso ha messo impietosamente a nudo in questo ultimo anno. In sintesi:
° ospedali privi di personale (molte Cooperative appaltano anche servizi infermieristici);
° utenti del domiciliare sia sanitario che sociale abbandonati a se stessi (e operatori privi di sistemi di protezione individuale e degli aggiornamenti del documento di valutazione del rischio lavorativo);
° centri diurni chiusi;
° alunni e alunne con disabilità privati dell’assistenza educativa scolastica cui avevano diritto.

Il sistema, così com’è concepito, determina:
° bandi pubblici legati al criterio del massimo ribasso, con conseguente decadimento del servizio e nocumento della continuità assistenziale ed educativa per la continua mobilità degli operatori;
° contratti Collettivi Nazionali di Lavoro discriminanti rispetto a quelli del settore pubblico per diritti e retribuzioni;
° spesa pubblica lievitata fra costi per le procedure di indizione, verifica e aggiudicazione dei bandi, con un’ampia parte dei finanziamenti utilizzata per la gestione delle strutture amministrative degli enti aggiudicatari, tale per cui la spesa reale destinata all’utente finale del servizio (e a chi di fatto lo attua, ossia l’operatore sociale) si assottiglia fino all’estremo;
° mancata applicazione della Legge 328/00 (i Progetti Individuali, questi sconosciuti…) e scarsità cronica di personale pubblico, ciò che determina un collegamento assai difficoltoso fra le strutture territoriali di coordinamento (ASL e Comuni) e gli operatori che, di fatto, “sono sul campo” spesso senza strumenti reali per incidere significativamente sulle situazioni di disagio;
° meccanismi di controllo degli enti appaltanti assolutamente deficitari e inconsistenti, spesso chiamati in causa solo dalle parti danneggiate da gestioni perlomeno dubbie (la punta dell’iceberg emersa  con il caso “Mafia Capitale”).

Caso mai tutto questo non fosse sufficiente a mostrare un sistema che, così concepito, non tutela né gli utenti, né gli operatori, la questione andrebbe posta su un piano anche normativo.
Lo Stato, esternalizzando i servizi sociali ed educativi essenziali, ha sostanzialmente delegato al Terzo Settore la gestione, progettazione, messa in atto e verifica del cosiddetto Stato Sociale.
Soffermiamoci sull’etimologia della parola delega, ossia “mandare con un incarico”. Potrebbe leggersi anche come il leggendario “armiamoci e partite”. Sinonimo di “delegare”, poi, è affidare o anche demandare. Cosa significa, dunque, demandare? Che lo Stato, e per mano sua gli Enti Locali, da oltre vent’anni ha assegnato compiti e funzioni che gli erano propri per mandato costituzionale, ad altri soggetti privati, delegando la propria oggettiva responsabilità riguardo al benessere dei propri cittadini, e in particolar modo di quei cittadini che necessitano di particolare cura e protezione.
Se lo Stato delega e demanda, determinando spreco di risorse, situazioni professionali nebulose, carenza in qualità e quantità dei servizi, e producendo un vero e proprio “esercito” di lavoratori, operatori sociali di tutti i tipi (psicologi, educatori, assistenti specialistici scolastici, assistenti domiciliari, educatori domiciliari e così via) che di fatto portano sulle proprie fragili spalle la realizzazione del welfare in Italia, forse un sistema siffatto non risponde più a criteri non solo di efficacia e di efficienza dei servizi (oltre che di costituzionalità, mi verrebbe da dire), ma anche semplicemente di giustizia sociale.  Un sistema che così com’è, significa, sinteticamente, “mettere i Penultimi ad occuparsi degli Ultimi”. Bisognerebbe, forse, ripensare lo Stato Sociale. Pubblico, come lo voleva Basaglia.

(*) Paola Di Michele è psicologa clinica, formatrice, assistente specialistica all’autonomia e alla comunicazione




Un tagliando per l’autonomia scolastica

Stefaneldi Pietro Calascibetta

E’ recente la pubblicazione di un «Manifesto per la nuova Scuola» firmato da noti intellettuali italiani e da alcuni docenti.
Si tratta dell’ennesima chiamata a raccolta di quella fetta di opinione pubblica da sempre contraria per scelta ideologica all’autonomia e alle riforme che hanno ridisegnato negli ultimi venti anni l’assetto dell’istruzione pubblica in Italia.
La novità è che questo documento, approfittando dell’attuale contesto, cerca di intercettare il disorientamento del momento di alcuni settori della popolazione e di parte dello stesso corpo docente per trovare nuovi follower per sostenere il superamento dell’autonomia e delle «disastrose riforme».

UN NUOVO CONTESTO PER UNA VECCHIA QUERELLE

Ci sono tre nuove opportunità da non sottovalutare che si sono aperte per i firmatari del «Manifesto».
La prima sul piano psicologico. Dopo la pandemia siamo in presenza di un’opinione pubblica desiderosa di voltare pagina su tutto con lo slogan “Tutto non sarà come prima”, che altro non è che una formula magica per far apparire come “nuova” qualsiasi cosa, basta che possa sostituire l’esistente, nel nostro caso anche la scuola gentiliana pare essere una novità al posto dell’autonomia.


La seconda opportunità è sul piano ideologico. La crisi economica e le contraddizioni nella globalizzazione che si sono aperte con la pandemia alimentano la discussione sul fallimento del modello neoliberista. Un’occasione troppo ghiotta per non considerare fallita anche un’autonomia scolastica bollata fin da subito come adesione proprio al modello neoliberista.
La terza opportunità è data dall’inquietudine già da tempo presente nella società e ingigantita dalle polemiche di due anni di DaD per una scuola che non riesce, nonostante le riforme, a raggiungere in tutto il Paese gli obiettivi che si era proposti riguardo al successo scolastico soprattutto delle fasce deboli (vedi la dispersione,  gli scarsi risultati a livello di apprendimenti di base, il divario tra Nord e Sud).

RICORDARE FA BENE ALLA VERITA’

Non è il caso di fare qui una difesa d’ufficio dell’autonomia, ma alcune cose vanno dette, forse per rispetto di quelle migliaia di docenti, dirigenti e genitori che hanno creduto e credono ancora nell’autonomia, hanno  sperimentato le sue potenzialità e ora di fatto vengono accusati di essere complici  della “Spectre dei poteri forti”.
L’autonomia scolastica è nata con il dichiarato intento di conciliare il dettato costituzionale alle esigenze didattiche ed organizzative poste da una scuola ormai diventata di massa.
L’istituzione della scuola media unica nel 1962 non è stata una riforma qualsiasi, è stata di fatto un cambiamento di sistema. Questo è un passaggio fondamentale per capire l’autonomia e la pretestuosità delle obiezioni che le vengono mosse.  La secondaria di primo grado non poteva essere né un ginnasio come vorrebbero gli adoratori della conoscenza pura, né un avviamento sia sul piano didattico che organizzativo, di conseguenza anche la secondaria di secondo grado non poteva essere la stessa di prima, ma anche la scuola elementare doveva tener conto che i propri alunni non avrebbero più dovuto scegliere tra avviamento e ginnasio.
Dal 1962 si è avviata una fase di ricerca di una nuova forma scuola per il sistema scolastico che alla fine ha preso la forma dell’autonomia. Il superamento della scuola gentiliana non è stata una scelta ideologica calata dall’alto e pensata a tavolino, scritta da infiltrati della Confindustria al ministero, ma una scelta pedagogica che  tra l’altro raccoglieva pratiche diffuse.

Non a caso l’autonomia con le riforme successive ha le sue radici profonde nell’esperienza della scuola attiva e nella sperimentazione diffusa degli anni ’70 e ’80 che ha addirittura cercato di far diventare ordinamento, come ben testimonia l’art. 6 del Regolamento che ne mutua il metodo per tutti.
Si trattava di una scuola militante che aveva come punti di forza: la progettualità; la flessibilità didattico-strutturale; la cooperazione tra i docenti; il lavoro collegiale come contesto di crescita professionale; i convegni, i workshop e le letture per rispondere ai problemi incontrati nel lavoro quotidiano con gli studenti e non come adempimento e infine un rapporto di collaborazione autentica con le famiglie e i territori intesi come risorse culturali da cui attingere conoscenze ed esperienze reali e non come vincolo per piegare il curricolo ad intrusioni  estranee alla formazione.

Una scuola di prossimità per permettere a ciascun istituto di sintonizzarsi con I propri allievi e con quel «ecosistema formativo» descritto chiaramente ora grazie alle  “Linee guida 0-6” che caratterizza una scuola di massa dove per la formazione di un cittadino colto diventa fondamentale l’educazione accanto all’istruzione.
Un impianto pedagogico che ha come riferimento teorico ben altre figure rispetto agli economisti neoliberisti e ben altre motivazioni rispetto a quella di attivare uno pseudo mercato degli iscritti (a che pro?). Difficile spiegare ai guardiani dell’ortodossia la differenza  tra libertà come profitto  capitalistico  e libertà  come empowerment.

Chiunque abbia esperienza di quegli anni può testimoniarlo. Tutto questo per dire che non mi sono mai sentito nei miei anni di lavoro nella scuola della sperimentazione prima e poi dell’autonomia, un avanguardista del neoliberalismo per aver applicato la normativa dell’autonomia! Mi dispiace per i guardiani dell’ortodossia, ma non abiuro un modello formativo che ha molto in comune con quello dei Convitti della Rinascita fondati dai partigiani alla fine della guerra per contribuire alla ricostruzione del Paese.

DALLE QUESTIONI DI PRINCIPIO ALLA RACCOLTA DEL DISAGIO DEI DOCENTI

Non ci sono dubbi che quella del «Manifesto» sia l’espressione di una posizione politica vera e propria di chi si sente garante (un ruolo  tanto di moda oggi!) di una presunta ortodossia e non invece di una critica costruttiva per migliorare una legge esistente che va pur applicata, basta vedere il linguaggio utilizzato e la forma di proclama che assume il testo nel suo insieme.
Il «Manifesto» ha dunque il solito obiettivo di rilanciare  la proposta di fare tabula rasa dall’autonomia e delle «disastrose riforme» che ovviamente per i firmatari non sono “politicamente corrette”, fin qui nulla di nuovo, questa volta però strizzando l’occhio ai docenti.

Questo è l’aspetto che a mio avviso è più rilevante perché cerca di attribuire all’autonomia e alle riforme la causa del malessere presente oggi in diversi docenti per sostenere la tesi che vanno eliminati.
E’ una questione delicata  che va affrontata con trasparenza perché non sia strumentalizzata.
In questi venti anni   si è diffuso in ampi settori del corpo docente un profondo scontento per tutti gli impegni collegiali richiesti via via dalle riforme che, nell’attuale struttura organizzativa, si riducono ad una serie di adempimenti burocratici che finiscono per saturare il già esiguo tempo a disposizione per il lavoro collettivo che avrebbe dovuto costituire un’occasione di valorizzazione delle competenze di ciascuno e di sviluppo professionale.

Un esempio tra tanti la sproporzione tra il tempo necessario per tutte le incombenze burocratiche e financo amministrative che ricadono sulla testa del tutor dell’alternanza scuola lavoro rispetto al tempo a disposizione per un lavoro individuale e collegiale con i colleghi e con il tutor aziendale di progettazione e di monitoraggio che possa permettere a tale attività di non appiattirsi sulle esigenze del partner aziendale, di essere effettivamente un’esperienza formativa che arricchisce la preparazione culturale dello studente e di non essere una forma di apprendistato mascherato.
In altre parole, serpeggia tra molti docenti, soprattutto della secondaria e dei licei, un malessere profondo che nasce dalla sensazione di un tempo sprecato e inutile in attività impiegatizie e in obblighi formali che sottraggono energia che altrimenti potrebbe essere indirizzata alla funzione docente e alla propria disciplina.
E’ vero che vi sono molti casi in cui il lavoro collegiale funziona, ma grazie al volontariato dei docenti coinvolti che trovano troppo spesso il tempo al di là dell’orario di lavoro e il misero riconoscimento economico.

Il lavoro collegiale da punto di forza dell’autonomia e delle riforme è diventato oggi il suo “ventre molle” e non a caso è proprio il lavoro collegiale che è sotto attacco in questa “nuova” versione del “Manifesto» anti-autonomia, con tutto ciò che resta della scuola attiva   che implica un’attività di progettazione comune fuori dall’aula con il territorio e le famiglie.  Una mossa astuta.
Ancora una volta non è una forzatura interpretativa di quanto scritto nel «Manifesto».
A che scopo questa enfasi per un ritorno alla centralità dell’ora di lezione «senza distrazioni» di progetti e attività trasversali. Una scuola di 60 minuti come dovrebbe essere questa cosiddetta “nuova scuola” al di là  delle motivazioni  filosofiche,  è una scuola che non ha bisogno di progettazione e di monitoraggio collettivo in itinere e quindi di tempo dedicato al lavoro tra docenti fuori dalla classe, bastano gli scrutini. E’ una scuola che riducendo all’osso l’organizzazione e il ruolo del dirigente scolastico nella regia delle attività, toglie finalmente di mezzo “l’uomo solo al comando” con “ li beli braghi bianchi”.

Un bel risparmio anche di risorse non dovendo pagare figure di sistema e altri docenti in ruoli organizzativi non più necessari. Più piccioni con una fava!
Il richiamo poi alla libertà di insegnamento è un altro tassello a favore del vecchio e tranquillizzate modo di lavorare del fu ginnasio: preparare la propria lezione a casa senza «perdite di tempo collegiali» come è espressamente scritto nero su bianco, fare lezione in aula in santa pace senza dover concordare nulla con i colleghi e non avere alcun obbligo di doversi uniformare a qualsiasi «didattichese» non solo ministeriale, ma neanche a quello elaborato e  approvato dal collegio in forza del POF,  che ovviamente si deve abolire facendo quadrare il cerchio  di quelle che sono diventate  quasi delle rivendicazioni  para-sindacali.

Messa in questo modo non è più solo una critica ideologica all’autonomia con le solite parole d’ordine che mobilitano sempre i guardiani dell’ortodossia, ma una chiamata alle armi rivolta ai docenti per “rimettere i remi in barca” approfittando del fatto che la scuola come comunità di pratiche è in difficoltà.

L’AUTONOMIA E’ UN CANTIERE ANCORA APERTO ?

Come scrive Berlinguer nella prefazione al volume «Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome» (a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020), l’autonomia è nata per realizzare nella scuola un contesto di lavoro capace di «produrre ricchezza intellettuale, sperimentare metodologie, di fare della partecipazione una condizione essenziale», in altre parole valorizzare chi vi lavora e gli stessi utenti, studenti e genitori  come membri della società civile e portatori anch’essi di cultura.
Altro che robotizzazione della scuola e alienazione, piuttosto una scelta strategica di empowerment delle risorse umane presenti invece di far calare dall’alto   programmi  e didattiche  queste  sì preconfezionate.

Se le premesse sono queste, bisogna però a questo punto chiedersi sinceramente perché una scuola immaginata e voluta come un laboratorio artigianale a disposizione dei docenti sia percepita a torto o a ragione proprio da molti insegnanti come una struttura tecnocratica o tendente ad esserlo che non offre motivi di gratificazione.
Sempre Berlinguer scrive «Bisogna essere chiari: è inequivocabile che questa sia ancora la fase di attuazione dell’autonomia; non si può infatti affermare che i vent’anni trascorsi […] abbiano già introdotto sufficiente autonomia nelle scuole».
Questa è un’affermazione politicamente rilevante.

Sono sotto gli occhi di tutti i non pochi ostacoli che ha subito la l’attuazione dell’autonomia soprattutto sul piano della struttura organizzativa e contrattuale chiave di volta per la sua possibile e reale attuazione, tra tagli delle risorse, fuoco amico, personalismi e cambi di governo..
Forse allora una spiegazione al malessere c’è. Se le cose stanno come scrive Berlinguer, la forma che ha assunto oggi l’autonomia non è quella che avrebbe dovuto essere. Il malessere dei docenti è reale perché lavorano in un contesto che non permette di fare quanto richiesto dalle stesse norme, è come avere il piede in una scarpa fuori misura, troppo stretta per camminare.
Questo va detto con forza e chiarezza per essere credibili nella risposta a quei docenti che credono di risolvere i problemi della scuola abolendo l’autonomia e le riforme.
L’attuazione piena dell’autonomia può diventare un obiettivo politico proprio in questo momento in cui è così forte il desiderio di cambiamento e trovano terreno fertile le vecchie polemiche ideologiche corroborate dall’uso strumentale del disagio dei docenti.

LA CRITICA COME OPPORTUNITA’ PER FINIRE L’OPERA

L’intervento dei firmatari del «Manifesto» può essere sicuramente l’occasione per coinvolgere i docenti e i cittadini dopo vent’anni in una riflessione su cosa sia realmente l’autonomia scolastica e quale sia la sua valenza nell’applicazione del dettato costituzionale (vedi il dibattito aperto da Gessetti Colorati) e  quali siano gli ostacoli che si contrappongono ad una sua  piena realizzazione,  senza nascondere le difficoltà.
Questo però non basta. E’  urgente fare il punto su dove siamo arrivati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme e valutare bene   ciò che manca ed è indispensabile che ci sia per il suo regolare funzionamento.
Se il cantiere dell’autonomia è ancora aperto, allora è necessario mettersi al lavoro con proposte politiche precise facendone  una questione “identitaria” come si usa dire oggi rispetto alla scelta fatta vent’anni fa.

E’ giunto il momento che chi ha a cuore le sorti dell’autonomia e crede della sua importanza per una pedagogia attivistica si faccia carico anche di ciò che non funziona e del malessere dei docenti e ne prenda atto come problema da risolvere esplicitandone in modo puntuale e trasparente i motivi e prospettando soluzioni concrete sul piano normativo e contrattuale che possano evitare, come si dice, di “dover buttare il bambino con l’acqua sporca” perché è nello status quo attuale il rischio di una deriva tecnocratica da una parte o di un reset di sistema come estrema ratio dall’altra, come vorrebbe il «Manifesto».
Per questi motivi penso che non si possa discutere di quanto afferma il «Manifesto» aprendo solo una disputa intellettuale sul piano pedagogico tra addetti ai lavori.

LIBERARE L’AUTONOMIA

Gli aspetti strutturali e organizzativi rappresentano i nodi più delicati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme perché la posta in gioco tocca i docenti anche come lavoratori .
L’autonomia non può attuarsi in modo efficiente ed efficace dentro una struttura organizzativa che fa riferimento al modello gentiliano di cui è prigioniera.
Questo vuol dire che per poter parlare di un’autonomia compiuta bisogna avere il personale, uno stato giuridico, un contratto, dei profili professionali per le figure di sistema che comunque l’autonomia prevede come figure chiave,  nonché una configurazione dell’orario di cattedra dei docenti  tutti funzionali alla realizzazione del progetto didattico-strutturale di ciascuna scuola.
Dall’organizzazione del lavoro dei docenti dipende la capacità della scuola autonoma di individualizzare e personalizzare i percorsi da cui dipende a sua volta il potersi fare realmente carico delle differenze sociali, culturali, cognitive degli studenti. Insomma di essere efficaci.
Si tratta di un aspetto che attiene alla professionalità e al benessere di docenti, ma anche ai risultati e al successo formativo degli studenti.
E’ inutile investire nei corsi di recupero extrascolastici creando una scuola parallela  invece di investire    nel far funzionare  la flessibilità    per permettere alle scuole   di  riorganizzare  i curricoli  disciplinari su una  metodologia attivistica  che possa  unire  progetti e curricolo in un unico percorso integrato di istruzione ed educazione  .

Anche l’appello lanciato per la scuola del futuro dall’Associazione Gessetti Colorati individua un aspetto critico nell’organizzazione del lavoro “Una buona azione d’insegnamento/ apprendimento è possibile solo in presenza di un’adeguata organizzazione del lavoro che dovrebbe essere responsabilità dei gruppi di insegnanti. Solo una nuova e miglior organizzazione può contrastare il modello tecnocratico che il documento [il Manifesto] denuncia.”

UN CONTRIBUTO CHE VIENE DALLE SPERIMENTAZIONI DIDATTICO-STRUTTURALI

Purtroppo l’organizzazione del lavoro non dipende  solo dalla buona volontà dei docenti, ma dai vincoli normativi e contrattuali.
Sulla base dell’esperienza di sperimentazione didattico-strutturale avuta nella mia carriera scolastica, gli ambiti su cui porre l’attenzione che hanno un’influenza sull’efficienza e l’efficacia della scuola dell’autonomia possono essere i seguenti.

  • Un organico funzionale al progetto come era espressamente previsto in origine dalla stessa normativa applicativa. In altre parole un organico con più docenti di quelli necessari alla lezione frontale individuati come numero e classi di concorso in base al progetto di ciascuna scuola ovviamente entro un range    L’organico funzionale doveva accompagnare l’attuazione della riforma, ma dopo un anno di sperimentazione è rimasto lettera morta fino alla “Buona Scuola” che lo ha introdotto timidamente in modo residuale rispetto alla disponibilità di docenti nelle graduatorie e per attività di potenziamento e non per il curricolo disciplinare vero e proprio a cui doveva essere destinato. Sull’importanza e le vicende dell’organico funzionale rimando ad un mio contributo in RIVISTA DELL’ISTRUZIONE n.4 del 2020 dal titolo “Autonomia scolastica e organico funzionale. Un matrimonio che s’ha da fare!”
  • Un tempo scuola per poter avere a disposizione un monte ore adeguato come risorsa disponibile per una scuola attiva, in altre parole un tempo pieno non solo nella primaria, ma anche nella secondaria di primo grado e nel biennio della secondaria di secondo grado. Un tempo pieno non solo e non tanto come misura di welfare, ma come tempo scuola necessario e riconosciuto per una didattica attiva.
  • Un’articolazione del monte ore di cattedra e un’organizzazione del lavoro che permetta ai docenti di operare realmente come comunità professionali. In altre parole:
  • non avere in ordinamento docenti con 6 o 9 classi che di fatto sono docenti “di serie B” non potendo materialmente fare parte realmente di nessuna équipe inficiando lo stesso concetto di comunità professionale e creando di per sé malumore e frustrazione. Le ore di cattedra in più potrebbero costituire un monte ore per la flessibilità dei curricoli attraverso  il lavoro   con gli studenti.
  • Poter utilizzare parte dell’orario di cattedra  per le  attività collegiali  soprattutto quelle di équipe previste dalle stesse riforme come la progettazione di classe  e avere così    un numero certo di ore a disposizione settimanali o quindicinali per progettare, individualizzare, personalizzare, monitorare in itinere e valutare i curricoli.

Sull’importanza e la funzione del consiglio di classe come motore dell’autonomia e centro della comunità professionale rimando ad un mio contributo in RIVISTA DELL’ISTRUZIONE n.1 del 2021 dal titolo “Il coordinatore di classe: una figura chiave”

  • Avere un vero e proprio organico in ogni istituto di figure di sistema individuate nella tipologia a livello nazionale come fondamentali e riconosciute come tali nel loro ruolo.  Fare in modo che i  possano scegliere di mettersi a disposizione per questi incarichi  arricchendo  la propria formazione specificatamente per svolgere compiti di project leader dei consigli di classe e dei dipartimenti o di referenti organizzativi   con adeguati distacchi dall’insegnamento e un riconoscimento contrattuale specifico, una modalità già praticata per i docenti distaccati all’università.

Questo può permettere finalmente agli altri colleghi di poter svolgere in modo efficace il proprio lavoro di docenti in aula, E’ una scelta  organizzativa  per lasciare a chi vuole solo insegnare la possibilità di farlo senza dover essere obbligato dalle circostanze in ruoli di sistema mal sopportati e per i quali non si ha il minimo interesse e attitudine. Questa specializzazione nell’ambito del ruolo docente non necessariamente deve essere collegato alla progressione di carriera che potrebbe trovare anche  altri canali e  modalità per attuarsi.
Sull’importanza e la funzione delle figure di sistema per il funzionamento di una vera comunità professionale, oltre all’intervento di cui sopra sul coordinatore di classe, rimando ad un mio contributo in NUOVO PAVONERISORSE 26 maggio 2021 dal titolo “Figure di sistema: questa volta partiamo dal problema

La verità è che la qualità della scuola dipende non solo dalla innovazione didattica messa in atto dal singolo docente, ma anche dalla forma  che  assume    la struttura e l’organizzazione  in base ai vincoli  in cui è costretta. L’innovazione organizzativa  proposta dall’autonomia e dalle riforme  ha bisogno di risorse, non si può fare  “con i fichi secchi”.

Un’autonomia senza oneri per lo Stato rimarrà purtroppo incompiuta.




Sulle povertà educative

di Stefano Stefanel

La pandemia e l’avvento totalizzante delle tecnologie digitali hanno reso agevole per tutti la comprensione di un concetto che prima dell’emergenza era appena entrato nel lessico scolastico e sociale e cioè quello di povertà educativa. Fino a qualche tempo fa si parlava di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale e dentro queste distinzioni sociologiche era nata tutta la problematica relativa ai Bes (Bisogni Educativi Speciali), vissuti da una parte del sistema scolastico nazionale come l’ennesimo tentativo di sdoganare i fannulloni, da un’altra parte come una vera emergenza con potenzialità distruttive, da un’altra parte ancora come un elemento da catalogare senza avere bene chiaro in mente poi di cosa farsene di questa catalogazione.

Dietro il concetto di povertà educativa ci sono due macro categorie: quella di isolamento e quella di deprivazione. I vari loockdown e un anno e mezzo di grandi incertezze delle classi politiche e di quelle educanti hanno reso macroscopico il problema. La novità è che la povertà educativa è diventata una categoria non difficile da individuare e che va al di là della volontà del singolo. E’ indifferente, dentro questa categoria, se un ragazzo si chiude in camera e dialoga solo con lo smartphone perché sta male, perché è depresso o perché è un fannullone o perché sta deviando: comunque siamo dentro ad un problema e ad una vera povertà educativa e solo questo è il dato da cui partire. Le famiglie non sono tutte attrezzate allo stesso modo e una stessa povertà educativa può dare esiti diversi: un figlio ci sta dentro fino al collo, un altro figlio invece riesce, pur vivendo nello stesso ambiente, ad affrancarsi dalla povertà educativa familiare e a salire sul famoso, anche se acciaccato, ascensore sociale.

Succede – e dico “per fortuna” – che figli di genitori alcolizzati o drogati trovino nella scuola o nel lavoro le possibilità per uscire dal degrado familiare, ma succede anche che ragazzini fragili vengano travolti dai problemi delle proprie famiglie. E tutto questo, pur avvenendo in tutti i ceti sociali, ha una ricaduta molto più forte tra gli stranieri immigrati e tra le fasce deboli della popolazione, non sorrette da supporti economici, che di per sé non danno garanzia di nulla, ma che comunque permettono anche agevoli vie d’uscite, che la povertà economica unità alla povertà educativa spesso non permettono.

Gli insegnanti dentro questo girone infernale del nostro tempo hanno maturato ottime capacità nell’individuare e diagnosticare la povertà educativa, molto al di sopra dei servizi sociali, ancora prede della ossessione per le lunghe diagnosi alla fine di lunghe riunioni, laddove il tempo dedicato a diagnosticare supera di gran lunga quello dedicato a supportare. Inoltre il rapporto tra servizi sociali e scuola è spezzato, a cominciare dalla mancata integrazione progettuale e formativa tra educatori di derivazione sociale e insegnanti di derivazione scolastica.

La pandemia ha prodotto dunque un aumento della sensibilità scolastica, anche in chi è totalmente contrario a corsie di attenzione per coloro che hanno problemi. Per cui si è assistito e si assisterà in futuro a povertà educative trattate allo stesso modo sia dai falchi (insensibili al problema che pare non  riguardarli) sia alle colombe (che per il problema soffrono) e cioè attraverso la valutazione disciplinare, che coincide per i falchi e per le colombe, perché ovviamente è negativa. La domanda che a me sorge spontanea (ma comincio a temere che sorga solo a me, anche se spero di no) è questa : come fa uno studente diagnosticato dentro una povertà educativa a rispondere correttamente alle sollecitazioni valutative effettuate attraverso prodotti di verifica stantii (i compiti in classe), sbagliati perché inseriti dentro uno schema “a domanda risponde” di tipo non colloquiale (le interrogazioni)? Davanti a grandi povertà educative la risposta più semplice è programmare più compiti e più interrogazioni e poi mettere due o tre in pagella perché lo studente non è mai venuto a farsi interrogare, anzi spesso non è proprio mai venuto e quindi la distanza tra falchi e colombe si è – per il suo comportamento – azzerata.

Stupisce in tutto questo come non si comprenda che la povertà educativa va affrontata con un progetto che tocchi la vita dello studente, non con una misurazione di apprendimenti effettuata su base docimologica, con le scuole primarie che vorrebbero cominciare a maneggiare una merce avariata come la bocciatura anche dei bambini di quel segmento di scuola. Davanti a diagnosi chiare diventa incomprensibile perché non si agisca sul concetto stesso, eliminando prima la povertà educativa e poi mettendo il soggetto dentro la normalità valutativa. Poiché gran parte degli insegnanti italiani non ha studiato come si valutano gli apprendimenti, il comportamento e come si valuta collegialmente spesso i termini “valutazione”, “misurazione”, “certificazione” sono considerati sinonimi dentro una confusione che produce dispersione scolastica ed esiti bizzarri (valutazioni di fine anno che contraddicono Invalsi e Ocse-Pisa, valutazioni in alcune zone d’Itaia che paiono irrealistiche rispetto ad altre, ecc.) in situazioni pressoché normali, mentre producono una totale catastrofe dentro le povertà educative.

Un’analisi del problema però non è stata fatta dal Ministero e non sembra sia dentro gli interessi attuali dell’Italia. Il Ministero ha solo inviato una estemporanea frase sibillina dentro una comunicazione non essenziale: “Pertanto il processo valutativo sul raggiungimento degli obiettivi di apprendimento avverrà in considerazione delle peculiarità delle attività didattiche realizzate, anche in modalità a distanza, e tenendo in debito conto delle difficoltà incontrate dagli alunni e dagli studenti in relazione alle situazioni determinate dalla già menzionata situazione emergenziale, con riferimento all’intero anno scolastico”. Cosa voglia dire proprio non lo si sa: ognuno tiene conto di quello che vuole e i criteri approvati dai collegi docenti hanno la specificità di essere così vaghi da produrre risultati opposti in base non alla situazione oggettiva dello studente, ma alla sensibilità valutativa del docente. Se poi si pensa di agire sulle povertà educative attraverso il “Piano Estate” (che poi finisce in inverno) mi pare che proprio non ci siamo.

Dentro l’ignobile frase: “Io lo faccio per il bene dello studente” (che vuol dire che qualcuno dei presenti facendo o pensando diverso fa il male dello studente) si nasconde tutta l’idea salvifica per cui l’insegnante sa cos’è il bene dello studente al di là e oltre quello che lo studente sa di se stesso. Tutto questo acuisce il problema, perché questa produzione di diagnosi senza esito sembra una storia che non potrà avere fine. Se due milioni di ragazzi dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano (i così detti NEET) e nessuno li mette in relazione con le scuole che hanno appena concluso o abbandonato o con le università che hanno iniziato e non concluso, forse qualche problema di rapporto tra diagnostica e soluzione c’è. Che però la soluzione sia quella di affrontare le povertà educative con dosi massicce di disciplinarismo e verifiche scritte o orali mi pare possa essere almeno messo in discussione. Se c’è stata una diagnosi corretta in base a quale illuminazione divina un soggetto dentro una povertà educativa potrà rispondere correttamente ad una domanda che attiene a contenuti disciplinari o ad un compito contenente la richiesta di risolvere quesiti numerici? Il disinteresse e l’assenza di impegno tracciano un confine molto labile tra voglia di far nulla e povertà educativa (anche se non è difficile da comprendere che al giorno d’oggi la voglia di fare nulla è un sintomo della povertà educativa). Avere in mano uno smartphone e usarlo solo per messaggiare o guardare gli stessi siti con stupidaggini o porcherie, disinteressandosi completamente di tutte le possibilità o le culture che sono accessibili attraverso quello smartphone, dovrebbe far dubitare sulla risoluzione di problemi epocali con metodi per lo più parternalistici e selettivi del secolo scorso (e di quello prima).

Concludo abbinando lo sconcerto ad un’ipotesi: e se invece di produrre diagnosi e piani personalizzati (che tali non sono) cominciassimo a ragionare su progetti scolastici personalizzati di recupero delle povertà educative, verificando solo la diminuzione della povertà educativa, non la risposta esatta ad un quiz di storia?