Una scuola a misura di studente

di Stefano Stefanel 

Una scuola a misura di studente è uno slogan un po’ vecchiotto e un po’ retorico, ma rende ugualmente bene l’idea della scuola dentro la società della conoscenza, che ha cura per tutti i suoi studenti. Gli studenti dovrebbero trovare nel sistema scolastico quello che risponde meglio alle loro singole esigenze, nell’interesse comune di aumentare le possibilità e le potenzialità di tutti e quindi anche il benessere (sociale, culturale, economico) di ogni nazione. Nei fatti, però, accade spesso che sia più corretto lo slogan opposto: Uno studente a misura di scuola. Il sistema scolastico non si struttura come un servizio verso le esigenze di ogni singolo studente, ma propone delle strade e cerca studenti che si adattino a queste. Tutta le questioni dell’orientamento, delle bocciature, dei percorsi opzionali, delle materie di indirizzo, delle valutazioni docimologiche trasformano l’idea di essere, come scuola, “a misura di studente” a quella più pragmatica di cercare studenti “a misura di scuola”. Ma fin qui siamo nella normalità del rapporto diretto tra dichiarato ed agito, una questione su cui la scuola sta dibattendo ormai da almeno vent’anni, quelli dell’autonomia, e che i vari tentativi di accountability non sono riusciti a modificare.

Se, però, prima di occuparci delle esigenze degli studenti dobbiamo occuparci di adeguare alla capienza dei mezzi di trasporto il numero di studenti da far salire sugli autobus (ma non su quelli cittadini che possono continuare a girare pieni), di far entrare nelle classi più studenti possibile pur non rispettando le distanze di sicurezza, di garantire che gli insegnanti che vogliono si vaccinano e quelli che non vogliono non lo fanno, di continuare a valutare attraverso numeri assegnati a seguito di compiti in classe scritti e di interrogazioni gestite su base mnemonica e ripetitiva, se dobbiamo occuparci di quanti alunni possono entrare nelle palestre o nei laboratori, se dobbiamo ascoltare i prefetti su quando si deve fare scuola, se dobbiamo decidere d’estate che banchi ci servono d’inverno, se dobbiamo continuare a credere e a far credere che il “vecchio” esame di stato con le prove scritte e l’orale sia una cosa seria da ripristinare, se dobbiamo parlare di povertà educative e di dispersione come se fossero fenomeni indipendenti rispetto alle condizioni in cui vivono le persone, difficilmente avremmo tempo, voglia e possibilità di occuparci di quello di cui hanno bisogno gli studenti per apprendere, migliorare, crescere.

Tutto questo, comunque, potrebbe anche essere fatto rientrare nella solita e solida battaglia tra chi vuole cambiare il sistema scolastico e chi lo vuole mantenere inalterato, senza mai commuoversi per quello che hanno dimostrato gli studenti italiani in questi due ultimi anni scolastici. La questione diventa più seria, però, se tutti coloro che, in qualche modo, devono prendere decisioni in una situazione particolarmente drammatica come la pandemia, non si accontentano di una considerazione umanamente ovvia come la comprensione per aver dovuto fare scelte difficili in un periodo difficile, ma pretendono di dimostrare di non aver sbagliato nulla neppure davanti agli errori più ignobili. E così si assiste alla sequela delle questioni su cui di deve tacere, perché altrimenti si viene assaliti dall’aggressività dei decisori, che vogliono prendere decisioni sbagliate ricevendo solo applausi, traendo conclusioni scorrette perché nascono da premesse poco scientifiche, facendo sempre ricadere le colpe sugli altri. Sui trasporti non si può dire nulla, sui tracciamenti neppure, sulle decisioni dei prefetti nemmeno, sulla solitudine in cui gli Uffici scolastici regionali hanno lasciato le scuole si rischia il procedimento disciplinare, sull’incompetenza dei docenti a valutare (sia in presenza sia a distanza) tutto tace, sulle stupidaggini di chi vuole una scuola che boccia di più nessuno da voce a chi ritiene che il sistema scolastico si valuti in base a quanto insegna, non a quanto boccia (lo ha detto anche il Ministro Bianchi, guardando “stupito” l’aumento delle bocciature). E via di seguito, fino ad arrivare ai dirigenti scolastici che tutti hanno sempre operato bene e guai a chi dice il contrario. Insomma una situazione in cui tutti sono bravi e competenti e solo (alcuni) studenti non lo sono.

DAD, DDI E DINTORNI

La Didattica a Distanza è negativa”: questa banale osservazione viene enunciata come una perla di saggezza infinita, come se nella scuola ci fosse qualcuno che dice che, invece, la DAD è positiva. La scuola da marzo a giugno del 2020 ha dovuto ricorrere alla Didattica a Distanza perché l’alternativa era nessuna didattica. E quindi ha usato in emergenza un metodo didattico (l’e-learning) che non può, nell’ordinario, sostituire la scuola in presenza. Quando una colossale banalità diventa elemento di ragionamento pubblico vuol dire che siamo proprio messi male. Anche se nell’estate del 2020 il Ministero ha introdotto il concetto di Didattica Digitale Integrata, che non vuol dire DAD, perché “integrare” non significa “sostituire”, mi pare che pochi abbiano colto il senso della questione, che, molto semplicemente, è trarre il meglio da tutte le possibili opportunità. Ragionandoci su non è poi così difficile capire che integrando la didattica ordinaria con quella digitale possiamo raggiungere meglio tutti gli studenti, dare ascolto e corso ai loro bisogni, riorganizzare tempi e modi dell’apprendimento, imparare metodi di verifica e valutazione meno “pre-industriali”. Tutta la filiera della formazione ha lavorato in questo senso e nel complesso ha lavorato molto bene.

Almeno dentro il mondo della scuola dovrebbe esserci la consapevolezza delle grandi potenzialità del digitale e dell’importanza di creare una didattica integrata. Il digitale può sviluppare le condizione per grandi risparmi di tempo, ma dentro un paradigma mutato. Il digitale è molto utile per il colloquio colto e il focus group, molto poco utile, invece, lo è per l’interrogazione mnemonica e per il compito scritto. Si tratta di verificare qual è la condizione migliore, imparare a lavorare in piattaforma e lasciare alle attività in presenza il loro imprescindibile ruolo nel contatto, nel confronto, nella socializzazione, nel lavoro in team. Invece per una parte consistente del mondo della scuola le attività migliori da realizzare in presenza sono e rimangono i compiti scritti e le interrogazioni. E allora è chiaro che torna prepotente il concetto di Didattica a Distanza, proprio per cercare ancora una volta di chiudere la porta a quel digitale a scuola, nel momento in cui tutta la vita reale è dentro il digitale.

MULTIDISCIPLINARIETA’ e INTERDISCIPLINARIETA’

L’esame di stato degli ultimi due anni in entrambi i cicli ha dimostrato che “un altro mondo è possibile”. La massa inutile di compiti scritti nel primo ciclo e quella nociva nel secondo ciclo ha ceduto il posto ad un colloquio che ha evidenziato il lato migliore della scuola. Permane ancora in troppi docenti l’idea che senza una domanda contenutistica non siamo di fronte ad un vero esame, ma questo perché si sta scontando nella scuola italiana una lunga e potente tradizione di disciplinarismo monadico, dove ogni disciplina si chiude dentro il suo recinto orario e non dialoga con nessuno.

Sia il multidisciplinarismo (molte materie che concorrono in forma autonoma ad affrontare un unico argomento da più punti di vista), sia il transdisciplinarismo (le materie che vengono utilizzare per ragionare attorno ad un argomento, ma non in forma ordinata o completa perché l’interesse è sull’argomento non sulla materia) vanno studiati, prima dai docenti e poi dagli studenti. L’importante passaggio valutativo che ha toccato la scuola primaria, con l’introduzione della valutazione per obiettivi, tende proprio a combattere la secondarizzazione di quel segmento di scuola, mentre la nuova forma dell’esame di stato tende a “prima rizzare” la scuola secondaria dentro l’esigenza di saperi non più divisi. Le discipline devono essere usate per capire, non per presidiare centri di potere (la famigerata “pari dignità” delle discipline definita per via normativa e non culturale).

Ecco che allora diventa importante comprendere in che modo il digitale può aiutare lo studente ad integrare il suo sapere e a dotarlo delle competenze necessarie per padroneggiare questo digitale, senza farsi ingoiare da lui. Impresa complicata, ma che gli attuali contorcimenti linguistici non fanno che rendere ancora più complicata.

BOCCIARE E DISPERDERE COME SORVEGLIARE E PUNIRE

Tutta la questione della distanza e della presenza rientra nell’unica categoria, purtroppo immortale, del “sorvegliare e punire”, dove la fanno da padroni l’appello, la presenza obbligatoria, l’idea che devi esserci anche se questa tua presenza non ti produce alcun vantaggio. Se quello che conta è il contenuto della risposta dentro una sorta di eterno quiz mnemonico, poi quando lo studente si troverà a dover elaborare un pensiero dovrà saperlo fare con i mezzi suoi, non con quelli che gli ha trasmesso la scuola. Nel mondo ormai non si tratta di “saper dare la risposta esatta”, ma di “saperla cercare”, che è un po’ diverso.

Tutto questo si connette con la necessità di rendere la presenza a scuola un elemento di virtù non di obbligo, mentre siamo dentro il dibattito su come far tornare tutti sempre in presenza, senza contagiarsi, senza riempire i pullman, mantenendo le distanze di sicurezza dentro aule troppo piccole. Il PNRR – Next Generation Eu si occupa d’altro, non  di come risolvere i problemi delle scuole in modo che queste diventino il luogo a misura di studente. Si sta spingendo perché le domande sull’efficacia e l’efficienza siano cancellate, cercando di spingere gli studenti ad essere felici di essere a misura di scuola. L’idea di ammettere a scuola tutti gli studenti con la Green Card e sugli altri attenersi alle possibilità del momento non pare venir presa in considerazione, forse perché è più democratico che chi non vuole vaccinarsi non lo faccia, anche se questo è pericoloso per gli altri.

L’idea, poi, di aumentare le bocciature viene sempre più spesso sbandierata come la grande innovazione per il ritorno ad una scuola più severa e selettiva, quasi che l’Italia non sia già il Paese dell’Unione Europea che boccia di più e che non sa cosa fare dei propri bocciati, costretti a rifare l’anno dopo sia le cose che sanno, sia quelle che non sanno. Viene il dubbio che anche le bocciature siano diventate un problema occupazionale, perché se si eliminassero avremmo bisogno di meno organico e i numeri sarebbero così chiari che si potrebbe finalmente programmare flussi certi di presenza degli studenti a scuola. Invece la percentuali dei bocciati chiede più organico, perché per loro non c’è un progetto, ma solo un grande e spesso inutile ripasso.

Ogni sistema viene analizzato e studiato per i suoi punti di forza e dunque se l’attuale esame di stato del secondo ciclo dice che il 20% degli studenti esce col voto massimo vuol dire che è un buon esame. Io credo che più del 30% dei nostri studenti dovrebbe uscire col voto massimo e se un esame certifica qualcosa di diverso è sbagliato l’esame e sbaglia chi quell’esame lo conduce. L’esame di fine ciclo dovrebbe essere simile alla la discussione della tesi di laurea, non un luogo dove non si boccia ma si ripetono gli stanchi riti delle verifiche tradizionali, bensì il luogo del confronto sul livello alto dell’apprendimento. Poi magari sarebbe il caso di introdurre le certificazione per i livelli reali di competenza disciplinari, da definire a fine aprile della quinta, che certificano cosa lo studente sa realmente fare (così se sa fare poco in matematica non devi essere bocciato, ma semplicemente interdetto dall’iscriversi all’Università di Matematica, Fisica o Ingegneria. E così pere l’inglese, il latino, ecc.).

Servirebbe un bel piano di supporto agli studenti e alle loro necessità che punti al futuro, non questa corsa a giustificarsi con l’idea che lo studente si deve adattare alle mancanze del sistema. E’ necessario agire su alcuni punti essenziali: piano personalizzato di apprendimento per tutti gli studenti, certificazione dei livelli reali di competenza nelle discipline, sviluppo dell’interdisciplinarietà, esami di fine ciclo come discussione di fine percorso. Si potrebbe partire estendendo la valutazione per obiettivi anche alle scuole secondarie e utilizzando i soldi del PNRR per rifare gli edifici scolastici che non sono più in grado di stare al passo con la società della conoscenza.




Ripensare lo Stato sociale dalle fondamenta: dalle leggi di fine anni ’70 al Terzo settore.

di Paola Di Michele

 

C’è un quadro bellissimo, arcinoto, di Pellizza Da Volpedo che rappresenta il Terzo Stato in marcia. Fatto di gente povera, vestita male ma con lo sguardo dignitoso e deciso proteso al futuro di chi cerca di conquistare il proprio pezzetto di dignità. E c’è un movimento nascente di lavoratori, operatori del sociale, che comincia adesso a prendere coscienza di condizioni lavorative diventate ormai al limite della sopportazione.
Per capirci, mi riferisco alle Cooperative Sociali di tipo A, cui l’ISTAT assegna un totale di lavoratori di circa 380.000 unità, per un indotto di più di 8 miliardi di euro, e che si suddivide in servizi scolastici educativi, servizi domiciliari socioassistenziali, socioeducativi, sociosanitari, centri diurni, centri di accoglienza, case-famiglia, nidi, e altro. Fondi che lo Stato stanzia alle Cooperative Sociali e che per meno della metà giungono nelle mani dei lavoratori.

Facciamo un piccolo passo indietro. Quando nasce questa situazione? Alla fine degli Anni Settanta, in un lasso di tempo brevissimo, appena un biennio, si può collocare la nascita del moderno Stato Sociale in Italia.
A fare da spartiacque sono una serie di leggi: la Legge 517/77, che abolisce le classi differenziali nelle scuole italiane e introduce le figure dell’insegnante di sostegno e dell’assistente all’autonomia e la comunicazione; la Legge 833/78, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, introducendo un modello universale di tutela della salute, intesa come stato di «completo benessere psico-fisico», perseguendo gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le Istituzioni, attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria (oggi ASL); la Legge 180/78, cosiddetta “Legge Basaglia”, che abolisce le strutture manicomiali, e rimane riforma a metà anche a causa della morte dello stesso Basaglia che la voleva più compiuta, con le strutture territoriali di accoglienza che avrebbero sostituito l’istituzione totale manicomiale.

Si tratta di norme giuste, necessarie, avanzatissime sotto un profilo giuridico, etico e morale. Tuttavia, a “pentole bellissime”, lo Stato Italiano dimenticò i “coperchi”. Tutto questo splendore, infatti, richiedeva strutture, personale, fondi. Che lo Stato Italiano non aveva, o non aveva predisposto. O forse si era solo distratto, chissà. Forse pensava bastasse annunciare la “Rivoluzione dei Diritti”, per vederla realizzata come d’incanto.
Quello che successe fu che lo “spontaneismo” dettato dalla voglia di impegno, politico, sociale e culturale dei tempi, portò alla nascita del Terzo Settore. Persone, amici che si associarono per creare dal nulla quei servizi, condividendo un’idea di impegno civile e solidaristico che avrebbe portato alla nascita delle prime Cooperative Sociali, Associazioni Non Profit in cui i lavoratori erano anche soci e condividevano tutto, oneri e onori, decidendo insieme. Lo Stato fu ben lieto di delegare e ringraziò. Tutti facevano una magnifica figura.

Ma cosa ne è stato di quel movimento, a più di quarant’anni di distanza? Tanto per cominciare, la Legge che regola le caratteristiche delle Cooperative Sociali è stata promulgata solo nel 1991 (Legge 381/91), introducendo il concetto di volontariato (discorso su cui, volontariamente, preferisco non soffermarmi); è stata poi integrata dalla Legge 142/01 che definisce le Cooperative Sociali come Enti senza scopo di lucro e rispondenti ai dettami del diritto privato, sottolineandone la natura determinata dal «rapporto mutualistico [che] abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio». Inoltre, «i soci lavoratori di cooperativa: a) concorrono alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa; b) partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell’azienda».
Democrazia interna e partecipazione dei soci-lavoratori, dunque. Ebbene, una magnifica utopia! Una tale visione rimanda all’idea di un circolo di amici che discute del benessere proprio e altrui.  Ma è proprio così?
C’è ad esempio una Cooperativa lombarda che ha decine di migliaia di lavoratori e opera, oltre che in Lombardia, in Liguria, Toscana, Abruzzo, Lazio, Puglia e Sardegna.
Senza fini di lucro e con la partecipazione mutualistica di quasi 20.000 soci (non è dato sapere quanti non siano soci, per altro…)? Almeno bisognerebbe porsi il dubbio se si tratta di non profit o di un’azienda vera e propria.

Ma chi sono i lavoratori del Terzo Settore? È necessario precisare che, sin dagli albori, queste professioni erano prive di normativa, percorsi di formazione nazionale e di riconoscimento, e tali restano in moltissimi casi, come accade per gli assistenti specialistici per l’autonomia e la comunicazione che operano nelle scuole e che attendono, invano, un Profilo Nazionale dal 2017.
Si tratta di una variegata umanità composta da laureati delle discipline di aiuto (psicologi, pedagogisti, educatori, assistenti sociali) o studenti delle stesse che fanno, spesso, questo lavoro “per farsi le ossa” in attesa ( o meglio, nella speranza) di fare di meglio, nonché di operatori di “vecchia data” che hanno iniziato con titoli svariati e, nel tempo, hanno seguito una quantità assolutamente stupefacente di corsi, come ad esempio i corsi OSS [Operatori Socio Sanitari, N.d.R.], che, inizialmente erogati da Enti Pubblici, hanno finito per essere “privatizzati”, arrivando a costi proibitivi. C’è poi una parte di lavoratori, per lo più stranieri, cui spesso vengono delegati (e questo non dovrebbe stupire…) i servizi più faticosi o poco specializzati, come, ad esempio, il Servizio SAISH a Roma (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione della Persona Disabile).
Ciò che accomuna la maggior parte di questi lavoratori è un’attitudine agli altri, una volontà precisa di occuparsi di chi è più in difficoltà, di portare aiuto dove serve. Con tutto il carico di responsabilità, impegno morale, ma anche senso di colpa e impotenza, di fronte a situazioni dinnanzi alle quali si comprende di poter portare solo piccolo sollievo. Ciò determina quello che notoriamente viene definito come burnout, ossia una condizione di “esaurimento affettivo”, demotivazione e afflizione da cui raramente si torna indietro, con stati di prostrazione anche importanti.
Si aggiunga a questo stipendi che sono la metà esatta di quelli di un dipendente pubblico (800/900 euro retribuite “a ore”), con tutele bassissime, periodi di interruzione lavorativa “involontaria” (part-time ciclici verticali utilizzati diffusamente per i lavoratori delle scuole), che non prevedono alcun tipo di ammortizzatore sociale, una disciplina contributiva che determina pensioni ridicole, corsi di formazione e riqualificazione onerosi e frequenti e, infine, una condizione di precarietà lavorativa strutturale, determinata dai bandi pubblici a ripetizione, spesso con il solo criterio dell’offerta economica più vantaggiosa, con operatori sociali che fanno il giro delle Cooperative come turisti sperduti senza mappa né itinerario.

In un Libro Bianco sulla condizione degli assistenti educativi scolastici, ricerca che condussi a Roma nel 2019, il 64% dei colleghi dichiarava di avere cambiato Cooperativa negli ultimi tre anni (“turisti senza mappa”, appunto). Dato ancora più impressionante, solo il 29% dichiarava di essere socio-lavoratore (dunque, dipendente privato a tutti gli effetti e non mutualisticamente coinvolto nella Cooperativa). A livello nazionale, la situazione è di poco migliore, come emerge dalla ricerca nazionale effettuata dalla sottoscritta durante la pandemia, con un dato del 40% di soci-lavoratori. Dunque, che ne è del lavoratore che concorre democraticamente alla gestione della Cooperativa?

Farò un esempio che spero dirimente. Annualmente, l’Assemblea dei Soci (quei pochi che ci sono) si riunisce per approvare il bilancio, dividere eventuali utili (sic), decidere i piani programmatici e rivedere il regolamento interno, che deve rispettare alcune normative fisse dalle quali non si può derogare.
Negli ultimi anni ho lavorato in una Cooperativa di cui ero socia (nell’ultimo cambio appalto, cambiando Cooperativa, non lo sono più, in attesa che la Presidenza decida «se ne sono degna», parole testuali). Le Assemblee si facevano in estate inoltrata, mai visto un bilancio, e si svolgevano in orario lavorativo, che non consentiva ai più di partecipare. Morale della favola: vi si presentavano venti/trenta persone di cui una metà con decine e decine di deleghe di altri lavoratori. Qualunque cosa la Presidenza proponesse veniva così approvata, anche in spregio ai diritti minimi (ad esempio: abolizione degli scatti di anzianità o malattia pagata solo al 50%).
Sia chiaro, è la mia esperienza, ma da ciò che mi è dato sapere parlando con moltissimi colleghi del Bel Paese, si tratta di esperienza piuttosto comune.

È cosa nota come, specie nel settore dei servizi sociali, che le Pubbliche Amministrazioni e gli Enti Locali abbiano perseguito, negli ultimi vent’anni, una politica indiscriminata di esternalizzazione dei servizi essenziali affidati, a seconda dei casi, ad aziende private o a enti del Terzo Settore. Quali controlli le stazioni appaltanti abbiano messo in atto è sotto gli occhi di tutti, con evidenti ripercussioni specialmente nel settore sanitario, socioassistenziale ed educativo, come la pandemia in corso ha messo impietosamente a nudo in questo ultimo anno. In sintesi:
° ospedali privi di personale (molte Cooperative appaltano anche servizi infermieristici);
° utenti del domiciliare sia sanitario che sociale abbandonati a se stessi (e operatori privi di sistemi di protezione individuale e degli aggiornamenti del documento di valutazione del rischio lavorativo);
° centri diurni chiusi;
° alunni e alunne con disabilità privati dell’assistenza educativa scolastica cui avevano diritto.

Il sistema, così com’è concepito, determina:
° bandi pubblici legati al criterio del massimo ribasso, con conseguente decadimento del servizio e nocumento della continuità assistenziale ed educativa per la continua mobilità degli operatori;
° contratti Collettivi Nazionali di Lavoro discriminanti rispetto a quelli del settore pubblico per diritti e retribuzioni;
° spesa pubblica lievitata fra costi per le procedure di indizione, verifica e aggiudicazione dei bandi, con un’ampia parte dei finanziamenti utilizzata per la gestione delle strutture amministrative degli enti aggiudicatari, tale per cui la spesa reale destinata all’utente finale del servizio (e a chi di fatto lo attua, ossia l’operatore sociale) si assottiglia fino all’estremo;
° mancata applicazione della Legge 328/00 (i Progetti Individuali, questi sconosciuti…) e scarsità cronica di personale pubblico, ciò che determina un collegamento assai difficoltoso fra le strutture territoriali di coordinamento (ASL e Comuni) e gli operatori che, di fatto, “sono sul campo” spesso senza strumenti reali per incidere significativamente sulle situazioni di disagio;
° meccanismi di controllo degli enti appaltanti assolutamente deficitari e inconsistenti, spesso chiamati in causa solo dalle parti danneggiate da gestioni perlomeno dubbie (la punta dell’iceberg emersa  con il caso “Mafia Capitale”).

Caso mai tutto questo non fosse sufficiente a mostrare un sistema che, così concepito, non tutela né gli utenti, né gli operatori, la questione andrebbe posta su un piano anche normativo.
Lo Stato, esternalizzando i servizi sociali ed educativi essenziali, ha sostanzialmente delegato al Terzo Settore la gestione, progettazione, messa in atto e verifica del cosiddetto Stato Sociale.
Soffermiamoci sull’etimologia della parola delega, ossia “mandare con un incarico”. Potrebbe leggersi anche come il leggendario “armiamoci e partite”. Sinonimo di “delegare”, poi, è affidare o anche demandare. Cosa significa, dunque, demandare? Che lo Stato, e per mano sua gli Enti Locali, da oltre vent’anni ha assegnato compiti e funzioni che gli erano propri per mandato costituzionale, ad altri soggetti privati, delegando la propria oggettiva responsabilità riguardo al benessere dei propri cittadini, e in particolar modo di quei cittadini che necessitano di particolare cura e protezione.
Se lo Stato delega e demanda, determinando spreco di risorse, situazioni professionali nebulose, carenza in qualità e quantità dei servizi, e producendo un vero e proprio “esercito” di lavoratori, operatori sociali di tutti i tipi (psicologi, educatori, assistenti specialistici scolastici, assistenti domiciliari, educatori domiciliari e così via) che di fatto portano sulle proprie fragili spalle la realizzazione del welfare in Italia, forse un sistema siffatto non risponde più a criteri non solo di efficacia e di efficienza dei servizi (oltre che di costituzionalità, mi verrebbe da dire), ma anche semplicemente di giustizia sociale.  Un sistema che così com’è, significa, sinteticamente, “mettere i Penultimi ad occuparsi degli Ultimi”. Bisognerebbe, forse, ripensare lo Stato Sociale. Pubblico, come lo voleva Basaglia.

(*) Paola Di Michele è psicologa clinica, formatrice, assistente specialistica all’autonomia e alla comunicazione




Un tagliando per l’autonomia scolastica

Stefaneldi Pietro Calascibetta

E’ recente la pubblicazione di un «Manifesto per la nuova Scuola» firmato da noti intellettuali italiani e da alcuni docenti.
Si tratta dell’ennesima chiamata a raccolta di quella fetta di opinione pubblica da sempre contraria per scelta ideologica all’autonomia e alle riforme che hanno ridisegnato negli ultimi venti anni l’assetto dell’istruzione pubblica in Italia.
La novità è che questo documento, approfittando dell’attuale contesto, cerca di intercettare il disorientamento del momento di alcuni settori della popolazione e di parte dello stesso corpo docente per trovare nuovi follower per sostenere il superamento dell’autonomia e delle «disastrose riforme».

UN NUOVO CONTESTO PER UNA VECCHIA QUERELLE

Ci sono tre nuove opportunità da non sottovalutare che si sono aperte per i firmatari del «Manifesto».
La prima sul piano psicologico. Dopo la pandemia siamo in presenza di un’opinione pubblica desiderosa di voltare pagina su tutto con lo slogan “Tutto non sarà come prima”, che altro non è che una formula magica per far apparire come “nuova” qualsiasi cosa, basta che possa sostituire l’esistente, nel nostro caso anche la scuola gentiliana pare essere una novità al posto dell’autonomia.


La seconda opportunità è sul piano ideologico. La crisi economica e le contraddizioni nella globalizzazione che si sono aperte con la pandemia alimentano la discussione sul fallimento del modello neoliberista. Un’occasione troppo ghiotta per non considerare fallita anche un’autonomia scolastica bollata fin da subito come adesione proprio al modello neoliberista.
La terza opportunità è data dall’inquietudine già da tempo presente nella società e ingigantita dalle polemiche di due anni di DaD per una scuola che non riesce, nonostante le riforme, a raggiungere in tutto il Paese gli obiettivi che si era proposti riguardo al successo scolastico soprattutto delle fasce deboli (vedi la dispersione,  gli scarsi risultati a livello di apprendimenti di base, il divario tra Nord e Sud).

RICORDARE FA BENE ALLA VERITA’

Non è il caso di fare qui una difesa d’ufficio dell’autonomia, ma alcune cose vanno dette, forse per rispetto di quelle migliaia di docenti, dirigenti e genitori che hanno creduto e credono ancora nell’autonomia, hanno  sperimentato le sue potenzialità e ora di fatto vengono accusati di essere complici  della “Spectre dei poteri forti”.
L’autonomia scolastica è nata con il dichiarato intento di conciliare il dettato costituzionale alle esigenze didattiche ed organizzative poste da una scuola ormai diventata di massa.
L’istituzione della scuola media unica nel 1962 non è stata una riforma qualsiasi, è stata di fatto un cambiamento di sistema. Questo è un passaggio fondamentale per capire l’autonomia e la pretestuosità delle obiezioni che le vengono mosse.  La secondaria di primo grado non poteva essere né un ginnasio come vorrebbero gli adoratori della conoscenza pura, né un avviamento sia sul piano didattico che organizzativo, di conseguenza anche la secondaria di secondo grado non poteva essere la stessa di prima, ma anche la scuola elementare doveva tener conto che i propri alunni non avrebbero più dovuto scegliere tra avviamento e ginnasio.
Dal 1962 si è avviata una fase di ricerca di una nuova forma scuola per il sistema scolastico che alla fine ha preso la forma dell’autonomia. Il superamento della scuola gentiliana non è stata una scelta ideologica calata dall’alto e pensata a tavolino, scritta da infiltrati della Confindustria al ministero, ma una scelta pedagogica che  tra l’altro raccoglieva pratiche diffuse.

Non a caso l’autonomia con le riforme successive ha le sue radici profonde nell’esperienza della scuola attiva e nella sperimentazione diffusa degli anni ’70 e ’80 che ha addirittura cercato di far diventare ordinamento, come ben testimonia l’art. 6 del Regolamento che ne mutua il metodo per tutti.
Si trattava di una scuola militante che aveva come punti di forza: la progettualità; la flessibilità didattico-strutturale; la cooperazione tra i docenti; il lavoro collegiale come contesto di crescita professionale; i convegni, i workshop e le letture per rispondere ai problemi incontrati nel lavoro quotidiano con gli studenti e non come adempimento e infine un rapporto di collaborazione autentica con le famiglie e i territori intesi come risorse culturali da cui attingere conoscenze ed esperienze reali e non come vincolo per piegare il curricolo ad intrusioni  estranee alla formazione.

Una scuola di prossimità per permettere a ciascun istituto di sintonizzarsi con I propri allievi e con quel «ecosistema formativo» descritto chiaramente ora grazie alle  “Linee guida 0-6” che caratterizza una scuola di massa dove per la formazione di un cittadino colto diventa fondamentale l’educazione accanto all’istruzione.
Un impianto pedagogico che ha come riferimento teorico ben altre figure rispetto agli economisti neoliberisti e ben altre motivazioni rispetto a quella di attivare uno pseudo mercato degli iscritti (a che pro?). Difficile spiegare ai guardiani dell’ortodossia la differenza  tra libertà come profitto  capitalistico  e libertà  come empowerment.

Chiunque abbia esperienza di quegli anni può testimoniarlo. Tutto questo per dire che non mi sono mai sentito nei miei anni di lavoro nella scuola della sperimentazione prima e poi dell’autonomia, un avanguardista del neoliberalismo per aver applicato la normativa dell’autonomia! Mi dispiace per i guardiani dell’ortodossia, ma non abiuro un modello formativo che ha molto in comune con quello dei Convitti della Rinascita fondati dai partigiani alla fine della guerra per contribuire alla ricostruzione del Paese.

DALLE QUESTIONI DI PRINCIPIO ALLA RACCOLTA DEL DISAGIO DEI DOCENTI

Non ci sono dubbi che quella del «Manifesto» sia l’espressione di una posizione politica vera e propria di chi si sente garante (un ruolo  tanto di moda oggi!) di una presunta ortodossia e non invece di una critica costruttiva per migliorare una legge esistente che va pur applicata, basta vedere il linguaggio utilizzato e la forma di proclama che assume il testo nel suo insieme.
Il «Manifesto» ha dunque il solito obiettivo di rilanciare  la proposta di fare tabula rasa dall’autonomia e delle «disastrose riforme» che ovviamente per i firmatari non sono “politicamente corrette”, fin qui nulla di nuovo, questa volta però strizzando l’occhio ai docenti.

Questo è l’aspetto che a mio avviso è più rilevante perché cerca di attribuire all’autonomia e alle riforme la causa del malessere presente oggi in diversi docenti per sostenere la tesi che vanno eliminati.
E’ una questione delicata  che va affrontata con trasparenza perché non sia strumentalizzata.
In questi venti anni   si è diffuso in ampi settori del corpo docente un profondo scontento per tutti gli impegni collegiali richiesti via via dalle riforme che, nell’attuale struttura organizzativa, si riducono ad una serie di adempimenti burocratici che finiscono per saturare il già esiguo tempo a disposizione per il lavoro collettivo che avrebbe dovuto costituire un’occasione di valorizzazione delle competenze di ciascuno e di sviluppo professionale.

Un esempio tra tanti la sproporzione tra il tempo necessario per tutte le incombenze burocratiche e financo amministrative che ricadono sulla testa del tutor dell’alternanza scuola lavoro rispetto al tempo a disposizione per un lavoro individuale e collegiale con i colleghi e con il tutor aziendale di progettazione e di monitoraggio che possa permettere a tale attività di non appiattirsi sulle esigenze del partner aziendale, di essere effettivamente un’esperienza formativa che arricchisce la preparazione culturale dello studente e di non essere una forma di apprendistato mascherato.
In altre parole, serpeggia tra molti docenti, soprattutto della secondaria e dei licei, un malessere profondo che nasce dalla sensazione di un tempo sprecato e inutile in attività impiegatizie e in obblighi formali che sottraggono energia che altrimenti potrebbe essere indirizzata alla funzione docente e alla propria disciplina.
E’ vero che vi sono molti casi in cui il lavoro collegiale funziona, ma grazie al volontariato dei docenti coinvolti che trovano troppo spesso il tempo al di là dell’orario di lavoro e il misero riconoscimento economico.

Il lavoro collegiale da punto di forza dell’autonomia e delle riforme è diventato oggi il suo “ventre molle” e non a caso è proprio il lavoro collegiale che è sotto attacco in questa “nuova” versione del “Manifesto» anti-autonomia, con tutto ciò che resta della scuola attiva   che implica un’attività di progettazione comune fuori dall’aula con il territorio e le famiglie.  Una mossa astuta.
Ancora una volta non è una forzatura interpretativa di quanto scritto nel «Manifesto».
A che scopo questa enfasi per un ritorno alla centralità dell’ora di lezione «senza distrazioni» di progetti e attività trasversali. Una scuola di 60 minuti come dovrebbe essere questa cosiddetta “nuova scuola” al di là  delle motivazioni  filosofiche,  è una scuola che non ha bisogno di progettazione e di monitoraggio collettivo in itinere e quindi di tempo dedicato al lavoro tra docenti fuori dalla classe, bastano gli scrutini. E’ una scuola che riducendo all’osso l’organizzazione e il ruolo del dirigente scolastico nella regia delle attività, toglie finalmente di mezzo “l’uomo solo al comando” con “ li beli braghi bianchi”.

Un bel risparmio anche di risorse non dovendo pagare figure di sistema e altri docenti in ruoli organizzativi non più necessari. Più piccioni con una fava!
Il richiamo poi alla libertà di insegnamento è un altro tassello a favore del vecchio e tranquillizzate modo di lavorare del fu ginnasio: preparare la propria lezione a casa senza «perdite di tempo collegiali» come è espressamente scritto nero su bianco, fare lezione in aula in santa pace senza dover concordare nulla con i colleghi e non avere alcun obbligo di doversi uniformare a qualsiasi «didattichese» non solo ministeriale, ma neanche a quello elaborato e  approvato dal collegio in forza del POF,  che ovviamente si deve abolire facendo quadrare il cerchio  di quelle che sono diventate  quasi delle rivendicazioni  para-sindacali.

Messa in questo modo non è più solo una critica ideologica all’autonomia con le solite parole d’ordine che mobilitano sempre i guardiani dell’ortodossia, ma una chiamata alle armi rivolta ai docenti per “rimettere i remi in barca” approfittando del fatto che la scuola come comunità di pratiche è in difficoltà.

L’AUTONOMIA E’ UN CANTIERE ANCORA APERTO ?

Come scrive Berlinguer nella prefazione al volume «Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome» (a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020), l’autonomia è nata per realizzare nella scuola un contesto di lavoro capace di «produrre ricchezza intellettuale, sperimentare metodologie, di fare della partecipazione una condizione essenziale», in altre parole valorizzare chi vi lavora e gli stessi utenti, studenti e genitori  come membri della società civile e portatori anch’essi di cultura.
Altro che robotizzazione della scuola e alienazione, piuttosto una scelta strategica di empowerment delle risorse umane presenti invece di far calare dall’alto   programmi  e didattiche  queste  sì preconfezionate.

Se le premesse sono queste, bisogna però a questo punto chiedersi sinceramente perché una scuola immaginata e voluta come un laboratorio artigianale a disposizione dei docenti sia percepita a torto o a ragione proprio da molti insegnanti come una struttura tecnocratica o tendente ad esserlo che non offre motivi di gratificazione.
Sempre Berlinguer scrive «Bisogna essere chiari: è inequivocabile che questa sia ancora la fase di attuazione dell’autonomia; non si può infatti affermare che i vent’anni trascorsi […] abbiano già introdotto sufficiente autonomia nelle scuole».
Questa è un’affermazione politicamente rilevante.

Sono sotto gli occhi di tutti i non pochi ostacoli che ha subito la l’attuazione dell’autonomia soprattutto sul piano della struttura organizzativa e contrattuale chiave di volta per la sua possibile e reale attuazione, tra tagli delle risorse, fuoco amico, personalismi e cambi di governo..
Forse allora una spiegazione al malessere c’è. Se le cose stanno come scrive Berlinguer, la forma che ha assunto oggi l’autonomia non è quella che avrebbe dovuto essere. Il malessere dei docenti è reale perché lavorano in un contesto che non permette di fare quanto richiesto dalle stesse norme, è come avere il piede in una scarpa fuori misura, troppo stretta per camminare.
Questo va detto con forza e chiarezza per essere credibili nella risposta a quei docenti che credono di risolvere i problemi della scuola abolendo l’autonomia e le riforme.
L’attuazione piena dell’autonomia può diventare un obiettivo politico proprio in questo momento in cui è così forte il desiderio di cambiamento e trovano terreno fertile le vecchie polemiche ideologiche corroborate dall’uso strumentale del disagio dei docenti.

LA CRITICA COME OPPORTUNITA’ PER FINIRE L’OPERA

L’intervento dei firmatari del «Manifesto» può essere sicuramente l’occasione per coinvolgere i docenti e i cittadini dopo vent’anni in una riflessione su cosa sia realmente l’autonomia scolastica e quale sia la sua valenza nell’applicazione del dettato costituzionale (vedi il dibattito aperto da Gessetti Colorati) e  quali siano gli ostacoli che si contrappongono ad una sua  piena realizzazione,  senza nascondere le difficoltà.
Questo però non basta. E’  urgente fare il punto su dove siamo arrivati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme e valutare bene   ciò che manca ed è indispensabile che ci sia per il suo regolare funzionamento.
Se il cantiere dell’autonomia è ancora aperto, allora è necessario mettersi al lavoro con proposte politiche precise facendone  una questione “identitaria” come si usa dire oggi rispetto alla scelta fatta vent’anni fa.

E’ giunto il momento che chi ha a cuore le sorti dell’autonomia e crede della sua importanza per una pedagogia attivistica si faccia carico anche di ciò che non funziona e del malessere dei docenti e ne prenda atto come problema da risolvere esplicitandone in modo puntuale e trasparente i motivi e prospettando soluzioni concrete sul piano normativo e contrattuale che possano evitare, come si dice, di “dover buttare il bambino con l’acqua sporca” perché è nello status quo attuale il rischio di una deriva tecnocratica da una parte o di un reset di sistema come estrema ratio dall’altra, come vorrebbe il «Manifesto».
Per questi motivi penso che non si possa discutere di quanto afferma il «Manifesto» aprendo solo una disputa intellettuale sul piano pedagogico tra addetti ai lavori.

LIBERARE L’AUTONOMIA

Gli aspetti strutturali e organizzativi rappresentano i nodi più delicati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme perché la posta in gioco tocca i docenti anche come lavoratori .
L’autonomia non può attuarsi in modo efficiente ed efficace dentro una struttura organizzativa che fa riferimento al modello gentiliano di cui è prigioniera.
Questo vuol dire che per poter parlare di un’autonomia compiuta bisogna avere il personale, uno stato giuridico, un contratto, dei profili professionali per le figure di sistema che comunque l’autonomia prevede come figure chiave,  nonché una configurazione dell’orario di cattedra dei docenti  tutti funzionali alla realizzazione del progetto didattico-strutturale di ciascuna scuola.
Dall’organizzazione del lavoro dei docenti dipende la capacità della scuola autonoma di individualizzare e personalizzare i percorsi da cui dipende a sua volta il potersi fare realmente carico delle differenze sociali, culturali, cognitive degli studenti. Insomma di essere efficaci.
Si tratta di un aspetto che attiene alla professionalità e al benessere di docenti, ma anche ai risultati e al successo formativo degli studenti.
E’ inutile investire nei corsi di recupero extrascolastici creando una scuola parallela  invece di investire    nel far funzionare  la flessibilità    per permettere alle scuole   di  riorganizzare  i curricoli  disciplinari su una  metodologia attivistica  che possa  unire  progetti e curricolo in un unico percorso integrato di istruzione ed educazione  .

Anche l’appello lanciato per la scuola del futuro dall’Associazione Gessetti Colorati individua un aspetto critico nell’organizzazione del lavoro “Una buona azione d’insegnamento/ apprendimento è possibile solo in presenza di un’adeguata organizzazione del lavoro che dovrebbe essere responsabilità dei gruppi di insegnanti. Solo una nuova e miglior organizzazione può contrastare il modello tecnocratico che il documento [il Manifesto] denuncia.”

UN CONTRIBUTO CHE VIENE DALLE SPERIMENTAZIONI DIDATTICO-STRUTTURALI

Purtroppo l’organizzazione del lavoro non dipende  solo dalla buona volontà dei docenti, ma dai vincoli normativi e contrattuali.
Sulla base dell’esperienza di sperimentazione didattico-strutturale avuta nella mia carriera scolastica, gli ambiti su cui porre l’attenzione che hanno un’influenza sull’efficienza e l’efficacia della scuola dell’autonomia possono essere i seguenti.

  • Un organico funzionale al progetto come era espressamente previsto in origine dalla stessa normativa applicativa. In altre parole un organico con più docenti di quelli necessari alla lezione frontale individuati come numero e classi di concorso in base al progetto di ciascuna scuola ovviamente entro un range    L’organico funzionale doveva accompagnare l’attuazione della riforma, ma dopo un anno di sperimentazione è rimasto lettera morta fino alla “Buona Scuola” che lo ha introdotto timidamente in modo residuale rispetto alla disponibilità di docenti nelle graduatorie e per attività di potenziamento e non per il curricolo disciplinare vero e proprio a cui doveva essere destinato. Sull’importanza e le vicende dell’organico funzionale rimando ad un mio contributo in RIVISTA DELL’ISTRUZIONE n.4 del 2020 dal titolo “Autonomia scolastica e organico funzionale. Un matrimonio che s’ha da fare!”
  • Un tempo scuola per poter avere a disposizione un monte ore adeguato come risorsa disponibile per una scuola attiva, in altre parole un tempo pieno non solo nella primaria, ma anche nella secondaria di primo grado e nel biennio della secondaria di secondo grado. Un tempo pieno non solo e non tanto come misura di welfare, ma come tempo scuola necessario e riconosciuto per una didattica attiva.
  • Un’articolazione del monte ore di cattedra e un’organizzazione del lavoro che permetta ai docenti di operare realmente come comunità professionali. In altre parole:
  • non avere in ordinamento docenti con 6 o 9 classi che di fatto sono docenti “di serie B” non potendo materialmente fare parte realmente di nessuna équipe inficiando lo stesso concetto di comunità professionale e creando di per sé malumore e frustrazione. Le ore di cattedra in più potrebbero costituire un monte ore per la flessibilità dei curricoli attraverso  il lavoro   con gli studenti.
  • Poter utilizzare parte dell’orario di cattedra  per le  attività collegiali  soprattutto quelle di équipe previste dalle stesse riforme come la progettazione di classe  e avere così    un numero certo di ore a disposizione settimanali o quindicinali per progettare, individualizzare, personalizzare, monitorare in itinere e valutare i curricoli.

Sull’importanza e la funzione del consiglio di classe come motore dell’autonomia e centro della comunità professionale rimando ad un mio contributo in RIVISTA DELL’ISTRUZIONE n.1 del 2021 dal titolo “Il coordinatore di classe: una figura chiave”

  • Avere un vero e proprio organico in ogni istituto di figure di sistema individuate nella tipologia a livello nazionale come fondamentali e riconosciute come tali nel loro ruolo.  Fare in modo che i  possano scegliere di mettersi a disposizione per questi incarichi  arricchendo  la propria formazione specificatamente per svolgere compiti di project leader dei consigli di classe e dei dipartimenti o di referenti organizzativi   con adeguati distacchi dall’insegnamento e un riconoscimento contrattuale specifico, una modalità già praticata per i docenti distaccati all’università.

Questo può permettere finalmente agli altri colleghi di poter svolgere in modo efficace il proprio lavoro di docenti in aula, E’ una scelta  organizzativa  per lasciare a chi vuole solo insegnare la possibilità di farlo senza dover essere obbligato dalle circostanze in ruoli di sistema mal sopportati e per i quali non si ha il minimo interesse e attitudine. Questa specializzazione nell’ambito del ruolo docente non necessariamente deve essere collegato alla progressione di carriera che potrebbe trovare anche  altri canali e  modalità per attuarsi.
Sull’importanza e la funzione delle figure di sistema per il funzionamento di una vera comunità professionale, oltre all’intervento di cui sopra sul coordinatore di classe, rimando ad un mio contributo in NUOVO PAVONERISORSE 26 maggio 2021 dal titolo “Figure di sistema: questa volta partiamo dal problema

La verità è che la qualità della scuola dipende non solo dalla innovazione didattica messa in atto dal singolo docente, ma anche dalla forma  che  assume    la struttura e l’organizzazione  in base ai vincoli  in cui è costretta. L’innovazione organizzativa  proposta dall’autonomia e dalle riforme  ha bisogno di risorse, non si può fare  “con i fichi secchi”.

Un’autonomia senza oneri per lo Stato rimarrà purtroppo incompiuta.




Sulle povertà educative

di Stefano Stefanel

La pandemia e l’avvento totalizzante delle tecnologie digitali hanno reso agevole per tutti la comprensione di un concetto che prima dell’emergenza era appena entrato nel lessico scolastico e sociale e cioè quello di povertà educativa. Fino a qualche tempo fa si parlava di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale e dentro queste distinzioni sociologiche era nata tutta la problematica relativa ai Bes (Bisogni Educativi Speciali), vissuti da una parte del sistema scolastico nazionale come l’ennesimo tentativo di sdoganare i fannulloni, da un’altra parte come una vera emergenza con potenzialità distruttive, da un’altra parte ancora come un elemento da catalogare senza avere bene chiaro in mente poi di cosa farsene di questa catalogazione.

Dietro il concetto di povertà educativa ci sono due macro categorie: quella di isolamento e quella di deprivazione. I vari loockdown e un anno e mezzo di grandi incertezze delle classi politiche e di quelle educanti hanno reso macroscopico il problema. La novità è che la povertà educativa è diventata una categoria non difficile da individuare e che va al di là della volontà del singolo. E’ indifferente, dentro questa categoria, se un ragazzo si chiude in camera e dialoga solo con lo smartphone perché sta male, perché è depresso o perché è un fannullone o perché sta deviando: comunque siamo dentro ad un problema e ad una vera povertà educativa e solo questo è il dato da cui partire. Le famiglie non sono tutte attrezzate allo stesso modo e una stessa povertà educativa può dare esiti diversi: un figlio ci sta dentro fino al collo, un altro figlio invece riesce, pur vivendo nello stesso ambiente, ad affrancarsi dalla povertà educativa familiare e a salire sul famoso, anche se acciaccato, ascensore sociale.

Succede – e dico “per fortuna” – che figli di genitori alcolizzati o drogati trovino nella scuola o nel lavoro le possibilità per uscire dal degrado familiare, ma succede anche che ragazzini fragili vengano travolti dai problemi delle proprie famiglie. E tutto questo, pur avvenendo in tutti i ceti sociali, ha una ricaduta molto più forte tra gli stranieri immigrati e tra le fasce deboli della popolazione, non sorrette da supporti economici, che di per sé non danno garanzia di nulla, ma che comunque permettono anche agevoli vie d’uscite, che la povertà economica unità alla povertà educativa spesso non permettono.

Gli insegnanti dentro questo girone infernale del nostro tempo hanno maturato ottime capacità nell’individuare e diagnosticare la povertà educativa, molto al di sopra dei servizi sociali, ancora prede della ossessione per le lunghe diagnosi alla fine di lunghe riunioni, laddove il tempo dedicato a diagnosticare supera di gran lunga quello dedicato a supportare. Inoltre il rapporto tra servizi sociali e scuola è spezzato, a cominciare dalla mancata integrazione progettuale e formativa tra educatori di derivazione sociale e insegnanti di derivazione scolastica.

La pandemia ha prodotto dunque un aumento della sensibilità scolastica, anche in chi è totalmente contrario a corsie di attenzione per coloro che hanno problemi. Per cui si è assistito e si assisterà in futuro a povertà educative trattate allo stesso modo sia dai falchi (insensibili al problema che pare non  riguardarli) sia alle colombe (che per il problema soffrono) e cioè attraverso la valutazione disciplinare, che coincide per i falchi e per le colombe, perché ovviamente è negativa. La domanda che a me sorge spontanea (ma comincio a temere che sorga solo a me, anche se spero di no) è questa : come fa uno studente diagnosticato dentro una povertà educativa a rispondere correttamente alle sollecitazioni valutative effettuate attraverso prodotti di verifica stantii (i compiti in classe), sbagliati perché inseriti dentro uno schema “a domanda risponde” di tipo non colloquiale (le interrogazioni)? Davanti a grandi povertà educative la risposta più semplice è programmare più compiti e più interrogazioni e poi mettere due o tre in pagella perché lo studente non è mai venuto a farsi interrogare, anzi spesso non è proprio mai venuto e quindi la distanza tra falchi e colombe si è – per il suo comportamento – azzerata.

Stupisce in tutto questo come non si comprenda che la povertà educativa va affrontata con un progetto che tocchi la vita dello studente, non con una misurazione di apprendimenti effettuata su base docimologica, con le scuole primarie che vorrebbero cominciare a maneggiare una merce avariata come la bocciatura anche dei bambini di quel segmento di scuola. Davanti a diagnosi chiare diventa incomprensibile perché non si agisca sul concetto stesso, eliminando prima la povertà educativa e poi mettendo il soggetto dentro la normalità valutativa. Poiché gran parte degli insegnanti italiani non ha studiato come si valutano gli apprendimenti, il comportamento e come si valuta collegialmente spesso i termini “valutazione”, “misurazione”, “certificazione” sono considerati sinonimi dentro una confusione che produce dispersione scolastica ed esiti bizzarri (valutazioni di fine anno che contraddicono Invalsi e Ocse-Pisa, valutazioni in alcune zone d’Itaia che paiono irrealistiche rispetto ad altre, ecc.) in situazioni pressoché normali, mentre producono una totale catastrofe dentro le povertà educative.

Un’analisi del problema però non è stata fatta dal Ministero e non sembra sia dentro gli interessi attuali dell’Italia. Il Ministero ha solo inviato una estemporanea frase sibillina dentro una comunicazione non essenziale: “Pertanto il processo valutativo sul raggiungimento degli obiettivi di apprendimento avverrà in considerazione delle peculiarità delle attività didattiche realizzate, anche in modalità a distanza, e tenendo in debito conto delle difficoltà incontrate dagli alunni e dagli studenti in relazione alle situazioni determinate dalla già menzionata situazione emergenziale, con riferimento all’intero anno scolastico”. Cosa voglia dire proprio non lo si sa: ognuno tiene conto di quello che vuole e i criteri approvati dai collegi docenti hanno la specificità di essere così vaghi da produrre risultati opposti in base non alla situazione oggettiva dello studente, ma alla sensibilità valutativa del docente. Se poi si pensa di agire sulle povertà educative attraverso il “Piano Estate” (che poi finisce in inverno) mi pare che proprio non ci siamo.

Dentro l’ignobile frase: “Io lo faccio per il bene dello studente” (che vuol dire che qualcuno dei presenti facendo o pensando diverso fa il male dello studente) si nasconde tutta l’idea salvifica per cui l’insegnante sa cos’è il bene dello studente al di là e oltre quello che lo studente sa di se stesso. Tutto questo acuisce il problema, perché questa produzione di diagnosi senza esito sembra una storia che non potrà avere fine. Se due milioni di ragazzi dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano (i così detti NEET) e nessuno li mette in relazione con le scuole che hanno appena concluso o abbandonato o con le università che hanno iniziato e non concluso, forse qualche problema di rapporto tra diagnostica e soluzione c’è. Che però la soluzione sia quella di affrontare le povertà educative con dosi massicce di disciplinarismo e verifiche scritte o orali mi pare possa essere almeno messo in discussione. Se c’è stata una diagnosi corretta in base a quale illuminazione divina un soggetto dentro una povertà educativa potrà rispondere correttamente ad una domanda che attiene a contenuti disciplinari o ad un compito contenente la richiesta di risolvere quesiti numerici? Il disinteresse e l’assenza di impegno tracciano un confine molto labile tra voglia di far nulla e povertà educativa (anche se non è difficile da comprendere che al giorno d’oggi la voglia di fare nulla è un sintomo della povertà educativa). Avere in mano uno smartphone e usarlo solo per messaggiare o guardare gli stessi siti con stupidaggini o porcherie, disinteressandosi completamente di tutte le possibilità o le culture che sono accessibili attraverso quello smartphone, dovrebbe far dubitare sulla risoluzione di problemi epocali con metodi per lo più parternalistici e selettivi del secolo scorso (e di quello prima).

Concludo abbinando lo sconcerto ad un’ipotesi: e se invece di produrre diagnosi e piani personalizzati (che tali non sono) cominciassimo a ragionare su progetti scolastici personalizzati di recupero delle povertà educative, verificando solo la diminuzione della povertà educativa, non la risposta esatta ad un quiz di storia?




Un’idea di scuola: appunti per una riflessione

di Raimondo Giunta

1) Un’idea di scuola bisogna averla per poterne immaginare il suo futuro; privo di una propria prospettiva il mondo della scuola difficilmente potrà svolgere bene il proprio compito nel tempo in cui i cambiamenti trasformano i tratti della società e modificano consuetudini, comportamenti e orientamenti di tutti e in modo particolare quelli delle nuove generazioni, alle quali dovrebbero andare le cure del sistema di istruzione e formazione.
C’è bisogno di una narrazione mobilizzatrice .
”Chi siamo?” ”Cosa diverremo?” ”Quali valori accettare?” ”Come vivere meglio?”
Non bastano le assicurazioni sulla loro occupabilità.

2) Di fronte a fatti di turbolenza giovanile si parla con qualche eccesso di mutamento antropologico; in qualche modo, però, è vero che le trasformazioni delle consuetudini e degli stili di vita, alle quali va aggiunta l’invasività dei mass-media e di internet, abbiano contribuito a costituire una visione della vita che ha reso gli studenti estranei, incomprensibili a parte del corpo docente. Le innovazioni del sistema di istruzione finora sono state concentrate soprattutto sull’enciclopedia dei saperi da trasmettere o sulla trasformazione degli ambenti di apprendimento; ma queste oggi rischiano di non dare frutti, se non si procede a modifiche profonde e radicali nelle relazioni pedagogiche e nelle attività didattiche.
Le procedure didattiche sono di importanza pari a quella dei contenuti, perché tocca ad esse il compito di rendere i giovani coautori del proprio processo di crescita, capaci di riflessività e di autonomia, dotati degli strumenti per affrontare i problemi che incontreranno in una società, dominata dall’incertezza .


3) Se il cambiamento è diventato realtà quotidiana della nostra società, la scuola, che sempre è tenuta a considerarne gli effetti sulle proprie responsabilità, deve preoccuparsi di assicurare la permanenza di quei valori e di quei saperi che l’hanno costituita e differenziata rispetto ad altre società.
In questo compito palesemente educativo, purtroppo, non ha molti alleati, né tra le famiglie, né tra le istituzioni, né tantomeno nel mondo dei media.
E’ questo il modo, anche se svolto con difficoltà, per alimentare e coltivare quel sentimento di appartenenza di cui si nutre la coesione di una società.

4) L’appartenenza ad una comunità si declina in termini di valori condivisi, di storia e di cultura; ma deve essere legata ad una proiezione verso il futuro, alla capacità di costruire un progetto collettivo in cui riconoscersi. La scuola in questa indeclinabile responsabilità deve trovare un punto d’equilibrio fra trasmissione del patrimonio culturale e preparazione alla vita; fra continuità col passato e anticipazione del futuro.

5) La scuola è al crocevia fra tradizione e innovazione; tra passato e futuro. Funziona se tiene legati questi due poli d’attrazione. Il problema vero in questi nostri giorni è l’assenza di un’idea di futuro, ma lo è anche la facilità con cui si tende a cancellare il passato. “Niente è tanto dannoso quanto la cattiva coscienza di un educatore sottomesso ai venti e alla tirannia del momento, incapace di collocarlo nella storia, inconsapevole del fermento rivoluzionario che oggi può essere non la lettera, ma lo spirito di una tradizione.
Nè un passato colpevole, né un presente assoluto.
Le nuove generazioni hanno il diritto di aspettarsi dall’educatore i frutti di una tradizione che avrà passato al setaccio del presente (Michel de Certeau).

6) Bisogna fare i conti col fatto che per certi versi è ritardataria la natura della scuola, ma non retrograda (Alain), ed è naturale la sua diversità rispetto ad altre istituzioni nel modo di confrontarsi con i cambiamenti di una società.

7) La scuola non deve competere con altre agenzie formative sul piano delle conoscenze, ma su quello dell’organizzazione delle conoscenze…Deve essere luogo delle capacità critiche.
”La scuola usa e getta dei saperi effimeri, freschi di giornata, adatti a corrispondere alle bramosie culturali di quelli che sanno che cosa ci vuole per il loro amati pargoli, non potrà mai fare gustare il “sapore dei saperi”(J.P.Astolfi).

8) Si parla con enfasi della società della conoscenza, trascurandone gli aspetti di frammentarietà e di incertezza che mettono a dura prova la capacità di adeguamento di parte considerevole della popolazione al mondo che cambia ogni giorno. La sfida che la scuola deve vincere è quella di proporre saperi e valori significativi che possano consentire l’inserimento nel mondo del lavoro, soddisfare il bisogno di socialità e di padronanza di sé.

9) Si pensa di stupire dicendo che bisogna apprendere ad apprendere. Ma che cosa poi in fin dei conti? Nel caos delle informazioni, nell’incertezza del futuro, nella dissoluzione crescente dei legami comunitari, dovremmo APPRENDERE A COMPRENDERE.
Dovremmo dare più spazio e tempo alla riflessione.

10) Riempiamo un’aula di tutti gli attrezzi che vogliamo; ciò che conta e ciò che resta è il faccia a faccia con l’alunno.
Una relazione viva, fatta di incontri e di scontri, di dialogo e di conflitto in cui si fa esperienza della resistenza e dell’irriducibilità sua.
L’alunno non deve solo apprendere un sapere, adattarsi ad una cultura, ma a situarsi tra gli uomini

11) In classe il lavoro che vi si svolge è di fatto una pratica comunitaria di cui si deve comprendere il senso e che trova la sua efficacia nel fare confluire le diverse intenzioni nella costruzione del sapere di ognuno. Lavoro che diventa anche costruzione di sé, proprio nel confronto con gli altri e con il sapere.

12) Sono molte le parole che si usano a scuola di cui è difficile rintracciare il senso che pretendono di avere. Parole di chi non ha l’umiltà di osservare e di ascoltare; di chi non sa e non vuole situarsi nella vitale discordante confusione di emozioni, di incertezze, di passioni, speranze, timori che animano le quotidiane relazioni tra giovani e adulti.

13) Le parole della scuola oggi appartengono ad altri mondi.
E’ una pura illusione pensare di non averne preso anche le intenzioni e i significati con cui le impiegano ancora là dove sono nate. L’ansia di adattamento ha sfigurato la scuola.
Occorre ri-guadagnare il linguaggio che gli è proprio: quello dell’educazione.

14) Le dicerie intorno al sapere scolastico col tempo sono riuscite a creare un’estesa opinione di diffidenza, se non di compatimento su tutto quello che si fa a scuola.
Si dice scolastico per dire limitato, privo di immaginazione, fuori del mondo, elementare dogmatico etc, etc, .
Il sapere insegnato a scuola, invece, deve essere considerato una creazione originale e collettiva, secolare dell’istruzione scolastica in funzione del suo compito primario, che è quello di insegnare, di trasmettere dei saperi e dei saper fare per preparare persone capaci di essere buoni cittadini e valenti lavoratori.

15) Scuola pubblica e scuola della conoscenza; scuola pubblica ed equità devono essere la stessa cosa.

16) Per rimettere in sesto la scuola bisogna tornare al linguaggio delle grandi finalità.
E queste non può darsele la scuola da sola, perché ogni idea di scuola, qualsiasi idea di scuola presuppone un’idea di società; finisce per essere declinata in funzione degli interessi e dei valori prevalenti della società, in cui svolge le proprie funzioni.




L’ora di lezione, tra mito e idealismo

di Mario Maviglia

Nel recente Manifesto per la nuova Scuola (sottoscritto da noti intellettuali quali, tra gli altri, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Massimo Recalcati, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky), tra gli otto punti elencati per rilanciare il ruolo della scuola compare anche la centralità dell’ora di lezione a cui viene dedicata una particolare enfasi.
Vi si legge infatti: “Dopo vent’anni di devastanti riforme, occorrerebbero interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale”.
Sarebbe facile fare dell’ironia sottolineando che i promotori del Manifesto hanno dimenticato di aggiungere che per restituire centralità all’ora di lezione “disciplinare” è indispensabile disporre di una cattedra posta sopra una pedana, come avveniva qualche decennio fa, perché in questa modo viene esaltata ancor più la sacralità della lezione, ancorché in un contesto laico. Ci si potrebbe spingere oltre dicendo che in quest’idea sacrale di lezione si intravede lo Spirito che diventa atto, ossia un agire dello Spirito, per usare termini cari a Gentile.

Nessuno vuole misconoscere l’importanza che la lezione riveste nell’economia degli interventi didattici, ma, per come viene presenta dai promotori del Manifesto, si intravede una concezione alquanto ingenua, se non idealistica, della lezione stessa, che non tiene conto di cinquant’anni di ricerca culturale, psicopedagogica e didattica. Già l’insistenza sulla lezione “disciplinare” spazza via tutti i richiami ad evitare la compartimentazione e il frazionamento del sapere, inducendo – come sottolinea Morin[1] “a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro solidarietà), a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e a integrare”.
Tutto ciò porta a una divaricazione e tra “i saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra” [2].
È facile immaginare la fenomenologia didattica della centralità dell’ora di lezione disciplinare così come agognata dai promotori del Manifesto: un susseguirsi di docenti, nel corso della giornata scolastica, ognuno dei quali trasmette il suo sapere disciplinare agli studenti senza alcuna preoccupazione di costruire collegamenti e ponti con le altre discipline. Ovviamente, in questa rappresentazione, gli studenti sono tutti in estatico assorbimento del sapere magistrale, attenti e disponibili a fare da anello terminale di questo processo di transfer cognitivo che vede il docente-sacerdote elargire il suo sapere.

Questa narrazione non farebbe una piega se non trovasse due limiti sostanziali: la realtà concreta del fare scuola e, soprattutto, la realtà concreta degli studenti in carne ed ossa. È infatti noto, a chi ha qualche conoscenza diretta della scuola, che i livelli di attenzione degli studenti non sempre garantiscono una tenuta adeguata su tutte le quattro-cinque ore mattutine di lezioni disciplinari. In questo caso l’opera meritoria dell’agire dello Spirito rischia di essere compromessa dalla volgare, prosaica e ahimè reale esigenza dei corpi che recalcitrano, si distraggono, reclamano pause cognitive.
Va poi tenuto presente che non tutti gli studenti si trovano a loro agio con la comunicazione verbale, preferendo altri canali (motori, iconici, prassici). Una volta tutto ciò andava sotto il nome di stili cognitivi e una competenza specifica dell’insegnante consisteva proprio nel modulare il suo intervento in modo da intercettare, per quanto possibile, tutti i diversi stili cognitivi degli allievi. (Si rinvia alle opere di Jerome Bruner su questo). La lezione, classicamente intesa, azzera queste differenze ed enfatizza la produzione orale.

Connesso a quanto appena detto, c’è un altro aspetto che va considerato e che i nostalgici della centralità della lezione disciplinare hanno trascurato: più che di “lezione” occorre parlare di interventi didattici e formativi variamente connotati. Le attività didattiche svolte in forma laboratoriale sono da considerarsi lezioni in senso classico? E i lavori svolti in gruppo? E la realizzazione di un progetto didattico? E alcune metodologie di coinvolgimento attivo degli studenti come la flipped classroom o il debate? Ma già immaginiamo l’espressione inorridita e disgustata dei puristi della lezione: queste attività andrebbero vietate perché sottraggono ore preziose al vero fare scuola che si realizza solo nel momento in cui si svolge il rito della lezione. Ma forse sotto c’è un altro motivo: la lezione rappresenta l’esaltazione della centralità del docente, il suo potere (cognitivo e non solo). Dare spazio al protagonismo degli studenti (se se ne è capaci, ovviamente), mette in crisi questo paradigma e offusca l’immagine del docente-sacerdote. Lo Spirito che diventa atto potrebbe soffrirne.

[1] E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 7
[2] Ivi, p. 5




Dare di più a chi ha di meno

di Raimondo Giunta

I lunghi mesi della pandemia hanno accentuato le disuguaglianze nella società e di conseguenza anche nella scuola, dove già erano  forti per la diversità di non pochi fattori contestuali, per le diverse condizioni di  ogni singola scuola, non derivanti soltanto da carenze materiali e strumentali, per la diversità delle condizioni familiari di ogni singolo alunno.
L’impegno straordinario delle scuole, non adeguatamente apprezzato come sarebbe stato giusto, ha impedito che ci si trovasse oggi di fronte ad un vero disastro educativo; ci si trova, comunque, davanti a seri problemi, perché solo in parte si sono potuti arginare i danni provocati dalla chiusura delle scuole.
Con le antiche fratture e con quelle nuove, però, col miglioramento della situazione epidemiologica bisogna fare i conti; tra quest’ultime e che bisogna curare si colloca la lacerazione dei rapporti sociali tra gli stessi studenti, tra gli studenti e la scuola, messi in crisi dai necessari provvedimenti per tutelare la loro salute e quella del personale della scuola.
In quest’opera necessaria di ricomposizione di ogni singola comunità scolastica non si può dimenticare che diverso è stato il peso che ha dovuto sostenere ogni alunno o per mancanza di strumenti e di spazio o per la presenza  in famiglia  di morti e di malati o per familiari allontanati dal lavoro o impediti nelle proprie attività.

Una risposta a questi problemi bisognava darla e tentarla. Si possono legittimamente nutrire tutti i dubbi di questo mondo sulla qualità e pertinenza delle iniziative proposte dal Ministero, ma non si poteva restare inerti.
Il piano straordinario di interventi tesi ALL’AMPLIAMENTO DELL’OFFERTA FORMATIVA vuole ispirarsi al modello di “scuola inclusiva” e trova fondamento nell’art. 31, comma 6, del D. L n. 41 del 22 Marzo 2021 e nel DM n48 del 2 marzo; è stato ulteriormente definito con la nota n. 643 del 27 aprile e con il decreto dipartimentale n. 39 del mese di Maggio.
L’intenzione è quella di costruire un “ponte formativo” tra ciò che è successo negli ultimi tempi e ciò che si spera di potere fare nel nuovo anno scolastico, se si sarà riusciti ad avere ragione della pandemia.

Il ponte formativo non dovrebbe essere costituito con i soli mattoni del recupero delle competenze di base e col consolidamento delle discipline, ma anche e forse soprattutto con la promozione del “recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti”. Scompaiono dall’orizzonte il Piano Integrazione degli Apprendimenti e il Piano di Apprendimento Individualizzato dell’anno passato, calibrati sul piano cognitivo e senza altra ambizione formativa se non quella di rimettere in sesto il patrimonio di conoscenze e di competenze di ogni singola classe e di ogni singolo alunno.

E’ una scelta giusta?
Oggi, nei nuovi provvedimenti si può individuare un netto spostamento di attenzione verso il recupero di socialità, di cui sarebbero stati privati i ragazzi e i giovani, anche se in questo specifico compito il mestiere della scuola è un po’ improvvisato. Nella nota 643 del 27 Aprile 2021 vien detto, infatti, che “le modalità più opportune per realizzare “il ponte formativo” sono quelle che favoriranno la restituzione agli studenti di quello che più è mancato in questo periodo: lo studio di gruppo, il lavoro in comunità, le uscite sul territorio, l’educazione fisica e lo sport, le esperienze accompagnate di esercizio dell’autonomia personale.  In altri termini, attività laboratoriali utili al rinforzo e allo sviluppo degli apprendimenti, per classi o gruppi di pari livello”.

Se con il Piano Integrazione degli Apprendimenti e il Piano Individualizzato di Apprendimento ci si trovava nel consolidato terreno della scuola che istruisce, dissodato, arato e seminato con il consueto lavoro dei docenti, con il Ponte Formativo si pretende di più e qualcosa di diverso.
La scuola, per assolvere questo arduo compito educativo, recita la suddetta nota, ha necessità di modalità scolari innovative, di “sguardi plurimi”, di apporti differenziati.  Occorre una scuola aperta, dischiusa al mondo esterno.
Aprire la scuola significa aprire le classi ai gruppi di apprendimento; aprirsi all’incontro con “altri mondi” del lavoro, delle professioni, del volontariato; come pure aprirsi all’ambiente; radicarsi nel territorio;  realizzare esperienze innovative, attività laboratoriali.
Si tratta di moltiplicare gli spazi, i luoghi, i tempi, le circostanze di apprendimento, dentro e fuori la scuola”.

Gli sguardi plurimi e gli apporti differenziati evocano i contributi del mondo esterno alla scuola e di questi non si dovrebbe/potrebbe fare a meno, se il lavoro che sa fare la scuola non  è considerato sufficiente per costruire il nuovo ponte formativo… Ci si deve chiedere allora se a questo vasto programma di interventi, che con i PON si prolungano fino nel 2022, non sia sottesa l’ipotesi  che i danni della socialità siano più gravi delle smagliature nel possesso dei saperi e delle conoscenze e anche l’altra  che forse oltre alla pandemia sia stata la mancanza di questi sguardi e di questi apporti ad avere creato le  condizioni per l’insuccesso di tanti alunni.
Dubbi e perplessità legittimi.

Tutti i provvedimenti presi a partire dal mese di marzo dicono con inconsueta chiarezza che la missione del momento per la scuola  è quella di DARE DI PIU’ e di DIVERSO.
DI PIU’ a chi ha ed ha avuto di meno e forse di DIVERSO a tutti . L’obiettivo generale che si propongono è quello di contrastare la povertà e l’emergenza educativa; ma ce ne è anche uno  particolare, ma di assoluto rilievo, che è quello “di contrastare l’emergere di una nuova questione meridionale, segnata da un maggiore rischio di dispersione educativa”(art. 4 decreto dipartimentale  del 14/5/2021).
Per quest’ultimo, però, ci vorrebbe qualcosa di più di tutte le risorse predisposte ai sensi dell’art. 31 del DL n. 41 del 22 marzo 2021 e dei 40 milioni messi a disposizione col DM. 48 del 2 marzo 2021.

 

Dare a scuola di più a chi ha di meno è da sempre lotta contro le disuguaglianze.
Ma non è una   questione che riguarda solo singole persone, ma come si sa e come si individua dall’insieme dei provvedimenti presi dal governo, è anche una questione di intere comunità e di interi territori.
Ragione per cui, pur interagendo le due questioni, si dovrebbe distinguere in questa lotta ciò che manca alla singola persona e ciò che manca ad una comunità, per distinguere ciò che deve essere fatto per le persone, da ciò che va fatto per i singoli territori.

E allora a che cosa ci si riferisce quando si parla di ciò che manca o di ciò che non è sufficiente?
Mancano davvero gli sguardi plurimi e i rapporti col mondo esterno?

Ci si riferisce forse e anche alle risorse, culturali, materiali e finanziarie di cui dispongono alunni e territori?
Alla mancanza di sostegno individuale per gli alunni in difficoltà? All’assenza di attenzioni per i ragazzi disagiati?

Alla modestia dell’interesse per apprendere?
Alla povertà del patrimonio linguistico, strumentale e cognitivo di tanti alunni?
Alla qualità degli istituti?
Alla qualità degli insegnanti?
Sono tutti problemi di un certo rilievo e non tutti si risolvono con la restaurazione della socialità infranta degli alunni, perché ognuno di essi richiede specifico lavoro e se risolti aiuteranno con molta probabilità a sanare le fratture che nel seno della società e della scuola si solo allargate negli ultimi due anni.
L’ identificazione esatta di ciò che manca agli alunni e ad una comunità è condizione per trovare in modo realistico e razionale le soluzioni e per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad ogni ragazzo, che varca le soglie di un istituto scolastico, di raggiungere le mete che gli sono congrue e proprie e di essere alla pari di tutti gli altri. Lo dice anche la Costituzione.

Credo che l’apertura culturale e pedagogica dei provvedimenti e delle misure prospettate sia sostenuta da una individuazione generica e debole dei problemi da risolvere. Si parla di rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e “RELAZIONALI” (mese di giugno); di rinforzamento e potenziamento delle competenze disciplinari e della “SOCIALITA’” (mesi di luglio e agosto) e addirittura di RIQUALIFICAZIONE e ABBELLIMENTO degli edifici scolastici (mese di settembre?), accompagnati, però, da interventi per studenti stranieri, da iniziative di accoglienza, da sportelli ad hoc per bisogni educativi speciali.
Tanta generosità, ma anche tanta indeterminatezza.
C’è un investimento di risorse e di energie sulla periferia dei processi di apprendimento (animazione socio-educativa, artistica, ambientale e sportiva) e una rituale citazione dei problemi di apprendimento.
Ci voleva e ci vuole più innovazione pedagogica, più aiuto personalizzato, più senso da dare alla scuola e ai saperi e si è scelto la via di fare un po’ o tanto di più; appunto in quantità, ma non in qualità.

La prima e indiscutibile funzione della scuola è quella conoscitiva; il primo compito della scuola è dare a tutti gli alunni le conoscenze e i saperi, che usciti fuori sono indispensabili per essere in grado di inserirsi nel mondo del lavoro e per partecipare da cittadino alle vicende della propria comunità, se ne ha voglia: è su questo piano che si disegna il compito di dare ciò che manca e con tutta evidenza questo compito  è una responsabilità  imprescindibile della scuola in qualsiasi tempo e soprattutto nei giorni post-pandemici. Occorre tracciare lo spazio tra ciò che si deve fare e ciò che manca e cercare di colmarlo, essendo chiaro che può trattarsi anche di una differenza tra ciò che è la scuola e ciò che è l’alunno che ha bisogno di più. Una differenza che può essere attenuata o cancellata, modificando le caratteristiche dell’essere e del fare scuola. Alla scuola compete prendere in carico le differenze tra sé e la propria popolazione e vedere quali sono quelle che con strumenti propri può/deve eliminare.