Archivi categoria: AUTONOMIA

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Una scuola a misura di studente

di Stefano Stefanel 

Una scuola a misura di studente è uno slogan un po’ vecchiotto e un po’ retorico, ma rende ugualmente bene l’idea della scuola dentro la società della conoscenza, che ha cura per tutti i suoi studenti. Gli studenti dovrebbero trovare nel sistema scolastico quello che risponde meglio alle loro singole esigenze, nell’interesse comune di aumentare le possibilità e le potenzialità di tutti e quindi anche il benessere (sociale, culturale, economico) di ogni nazione. Nei fatti, però, accade spesso che sia più corretto lo slogan opposto: Uno studente a misura di scuola. Il sistema scolastico non si struttura come un servizio verso le esigenze di ogni singolo studente, ma propone delle strade e cerca studenti che si adattino a queste. Tutta le questioni dell’orientamento, delle bocciature, dei percorsi opzionali, delle materie di indirizzo, delle valutazioni docimologiche trasformano l’idea di essere, come scuola, “a misura di studente” a quella più pragmatica di cercare studenti “a misura di scuola”. Ma fin qui siamo nella normalità del rapporto diretto tra dichiarato ed agito, una questione su cui la scuola sta dibattendo ormai da almeno vent’anni, quelli dell’autonomia, e che i vari tentativi di accountability non sono riusciti a modificare.

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Ripensare lo Stato sociale dalle fondamenta: dalle leggi di fine anni ’70 al Terzo settore.

di Paola Di Michele

 

C’è un quadro bellissimo, arcinoto, di Pellizza Da Volpedo che rappresenta il Terzo Stato in marcia. Fatto di gente povera, vestita male ma con lo sguardo dignitoso e deciso proteso al futuro di chi cerca di conquistare il proprio pezzetto di dignità. E c’è un movimento nascente di lavoratori, operatori del sociale, che comincia adesso a prendere coscienza di condizioni lavorative diventate ormai al limite della sopportazione.
Per capirci, mi riferisco alle Cooperative Sociali di tipo A, cui l’ISTAT assegna un totale di lavoratori di circa 380.000 unità, per un indotto di più di 8 miliardi di euro, e che si suddivide in servizi scolastici educativi, servizi domiciliari socioassistenziali, socioeducativi, sociosanitari, centri diurni, centri di accoglienza, case-famiglia, nidi, e altro. Fondi che lo Stato stanzia alle Cooperative Sociali e che per meno della metà giungono nelle mani dei lavoratori.

Facciamo un piccolo passo indietro. Quando nasce questa situazione? Alla fine degli Anni Settanta, in un lasso di tempo brevissimo, appena un biennio, si può collocare la nascita del moderno Stato Sociale in Italia.
A fare da spartiacque sono una serie di leggi: la Legge 517/77, che abolisce le classi differenziali nelle scuole italiane e introduce le figure dell’insegnante di sostegno e dell’assistente all’autonomia e la comunicazione; la Legge 833/78, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, introducendo un modello universale di tutela della salute, intesa come stato di «completo benessere psico-fisico», perseguendo gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le Istituzioni, attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria (oggi ASL); la Legge 180/78, cosiddetta “Legge Basaglia”, che abolisce le strutture manicomiali, e rimane riforma a metà anche a causa della morte dello stesso Basaglia che la voleva più compiuta, con le strutture territoriali di accoglienza che avrebbero sostituito l’istituzione totale manicomiale.
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Un tagliando per l’autonomia scolastica

Stefaneldi Pietro Calascibetta

E’ recente la pubblicazione di un «Manifesto per la nuova Scuola» firmato da noti intellettuali italiani e da alcuni docenti.
Si tratta dell’ennesima chiamata a raccolta di quella fetta di opinione pubblica da sempre contraria per scelta ideologica all’autonomia e alle riforme che hanno ridisegnato negli ultimi venti anni l’assetto dell’istruzione pubblica in Italia.
La novità è che questo documento, approfittando dell’attuale contesto, cerca di intercettare il disorientamento del momento di alcuni settori della popolazione e di parte dello stesso corpo docente per trovare nuovi follower per sostenere il superamento dell’autonomia e delle «disastrose riforme».

UN NUOVO CONTESTO PER UNA VECCHIA QUERELLE

Ci sono tre nuove opportunità da non sottovalutare che si sono aperte per i firmatari del «Manifesto».
La prima sul piano psicologico. Dopo la pandemia siamo in presenza di un’opinione pubblica desiderosa di voltare pagina su tutto con lo slogan “Tutto non sarà come prima”, che altro non è che una formula magica per far apparire come “nuova” qualsiasi cosa, basta che possa sostituire l’esistente, nel nostro caso anche la scuola gentiliana pare essere una novità al posto dell’autonomia.

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Sulle povertà educative

di Stefano Stefanel

La pandemia e l’avvento totalizzante delle tecnologie digitali hanno reso agevole per tutti la comprensione di un concetto che prima dell’emergenza era appena entrato nel lessico scolastico e sociale e cioè quello di povertà educativa. Fino a qualche tempo fa si parlava di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale e dentro queste distinzioni sociologiche era nata tutta la problematica relativa ai Bes (Bisogni Educativi Speciali), vissuti da una parte del sistema scolastico nazionale come l’ennesimo tentativo di sdoganare i fannulloni, da un’altra parte come una vera emergenza con potenzialità distruttive, da un’altra parte ancora come un elemento da catalogare senza avere bene chiaro in mente poi di cosa farsene di questa catalogazione.

Dietro il concetto di povertà educativa ci sono due macro categorie: quella di isolamento e quella di deprivazione. I vari loockdown e un anno e mezzo di grandi incertezze delle classi politiche e di quelle educanti hanno reso macroscopico il problema. La novità è che la povertà educativa è diventata una categoria non difficile da individuare e che va al di là della volontà del singolo. E’ indifferente, dentro questa categoria, se un ragazzo si chiude in camera e dialoga solo con lo smartphone perché sta male, perché è depresso o perché è un fannullone o perché sta deviando: comunque siamo dentro ad un problema e ad una vera povertà educativa e solo questo è il dato da cui partire. Le famiglie non sono tutte attrezzate allo stesso modo e una stessa povertà educativa può dare esiti diversi: un figlio ci sta dentro fino al collo, un altro figlio invece riesce, pur vivendo nello stesso ambiente, ad affrancarsi dalla povertà educativa familiare e a salire sul famoso, anche se acciaccato, ascensore sociale.

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Un’idea di scuola: appunti per una riflessione

di Raimondo Giunta

1) Un’idea di scuola bisogna averla per poterne immaginare il suo futuro; privo di una propria prospettiva il mondo della scuola difficilmente potrà svolgere bene il proprio compito nel tempo in cui i cambiamenti trasformano i tratti della società e modificano consuetudini, comportamenti e orientamenti di tutti e in modo particolare quelli delle nuove generazioni, alle quali dovrebbero andare le cure del sistema di istruzione e formazione.
C’è bisogno di una narrazione mobilizzatrice .
”Chi siamo?” ”Cosa diverremo?” ”Quali valori accettare?” ”Come vivere meglio?”
Non bastano le assicurazioni sulla loro occupabilità.

2) Di fronte a fatti di turbolenza giovanile si parla con qualche eccesso di mutamento antropologico; in qualche modo, però, è vero che le trasformazioni delle consuetudini e degli stili di vita, alle quali va aggiunta l’invasività dei mass-media e di internet, abbiano contribuito a costituire una visione della vita che ha reso gli studenti estranei, incomprensibili a parte del corpo docente. Le innovazioni del sistema di istruzione finora sono state concentrate soprattutto sull’enciclopedia dei saperi da trasmettere o sulla trasformazione degli ambenti di apprendimento; ma queste oggi rischiano di non dare frutti, se non si procede a modifiche profonde e radicali nelle relazioni pedagogiche e nelle attività didattiche.
Le procedure didattiche sono di importanza pari a quella dei contenuti, perché tocca ad esse il compito di rendere i giovani coautori del proprio processo di crescita, capaci di riflessività e di autonomia, dotati degli strumenti per affrontare i problemi che incontreranno in una società, dominata dall’incertezza .

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L’ora di lezione, tra mito e idealismo

di Mario Maviglia

Nel recente Manifesto per la nuova Scuola (sottoscritto da noti intellettuali quali, tra gli altri, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Massimo Recalcati, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky), tra gli otto punti elencati per rilanciare il ruolo della scuola compare anche la centralità dell’ora di lezione a cui viene dedicata una particolare enfasi.
Vi si legge infatti: “Dopo vent’anni di devastanti riforme, occorrerebbero interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale”.
Sarebbe facile fare dell’ironia sottolineando che i promotori del Manifesto hanno dimenticato di aggiungere che per restituire centralità all’ora di lezione “disciplinare” è indispensabile disporre di una cattedra posta sopra una pedana, come avveniva qualche decennio fa, perché in questa modo viene esaltata ancor più la sacralità della lezione, ancorché in un contesto laico. Ci si potrebbe spingere oltre dicendo che in quest’idea sacrale di lezione si intravede lo Spirito che diventa atto, ossia un agire dello Spirito, per usare termini cari a Gentile.

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Dare di più a chi ha di meno

di Raimondo Giunta

I lunghi mesi della pandemia hanno accentuato le disuguaglianze nella società e di conseguenza anche nella scuola, dove già erano  forti per la diversità di non pochi fattori contestuali, per le diverse condizioni di  ogni singola scuola, non derivanti soltanto da carenze materiali e strumentali, per la diversità delle condizioni familiari di ogni singolo alunno.
L’impegno straordinario delle scuole, non adeguatamente apprezzato come sarebbe stato giusto, ha impedito che ci si trovasse oggi di fronte ad un vero disastro educativo; ci si trova, comunque, davanti a seri problemi, perché solo in parte si sono potuti arginare i danni provocati dalla chiusura delle scuole.
Con le antiche fratture e con quelle nuove, però, col miglioramento della situazione epidemiologica bisogna fare i conti; tra quest’ultime e che bisogna curare si colloca la lacerazione dei rapporti sociali tra gli stessi studenti, tra gli studenti e la scuola, messi in crisi dai necessari provvedimenti per tutelare la loro salute e quella del personale della scuola.
In quest’opera necessaria di ricomposizione di ogni singola comunità scolastica non si può dimenticare che diverso è stato il peso che ha dovuto sostenere ogni alunno o per mancanza di strumenti e di spazio o per la presenza  in famiglia  di morti e di malati o per familiari allontanati dal lavoro o impediti nelle proprie attività.

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