Agenda 2030: come giocarsi la credibilità dell’Educazione civica nelle nostre scuole

C’è una sostanziale inscindibilità tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, e l’istruzione permanente, vale a dire un apprendimento che accompagna l’intero arco della vita delle persone.

Non so se di questo fossero consapevoli gli estensori della legge con la quale si è reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado del nostro paese.Tra i temi che durante l’anno scolastico le nostre ragazze e i nostri ragazzi dovranno studiare c’è appunto questo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.Nutro il sospetto che il legislatore avesse un’approfondita consapevolezza dei contenuti di questa Agenda, forse più affascinato dagli obiettivi della sostenibilità che interessato a conoscere effettivamente le pratiche richieste per la loro realizzazione dai diversi soggetti promotori dell’Agenda, dall’Onu all’ Unesco.
Questo potrebbe diventare un terreno molto sdrucciolevole per la credibilità e l’efficacia formativa dell’ Educazione civica come materia, dico subito perché e vedrò di spiegarlo meglio di seguito.L’Agenda 2030 avendo un obiettivo proiettato nel tempo costituisce un lavoro in progress, per questo studio e riflessione dei suoi contenuti richiederebbero di ritrovare poi una corrispondenza in quanto si va costruendo nell’ambiente sociale in cui le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono immersi e la scuola opera.
L’Agenda 2030, come sappiamo, si propone di assicurare ambienti di vita sostenibili per le generazioni presenti e per quelle future, ha come obiettivi, tra gli altri, di assicurare un’istruzione di qualità, promuovendo opportunità di apprendimento permanente a partire dal governo delle città.Nel nostro paese di Città che Apprendono, di Città della Conoscenza non se ne parla, fatta eccezione per rari casi che si contano sulle dita di una mano. E già qui si pone il problema della coerenza tra ciò che pretendiamo che i nostri ragazzi studino e i luoghi che abitano.
Del ruolo delle città, in particolare delle città che apprendono, le “learning cities”, nel perseguire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile se ne è parlato in conferenze internazionali con la partecipazione di sindaci, amministratori di città di tutto il mondo, dirigenti scolastici, esperti di apprendimento, rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, di settori privati, di organizzazioni regionali, internazionali e della società civile, a cui dubito che l’Italia abbia mai partecipato: Pechino nel 2013, Città del Messico nel 2015, Cork, in Irlanda, nel 2017, Medellín, in Colombia, nel 2019.Conferenze che si sono sempre concluse con Dichiarazioni nelle quali viene ribadito il ruolo centrale dell’apprendimento permanente come motore della sostenibilità ambientale, sociale, culturale ed economica.
Le città che apprendono sono per l’Onu e l’Unesco lo strumento principe per la realizzazione concreta degli obiettivi posti da qui al 2030 dall’Agenda, ora anche oggetto di studio nelle nostre scuole.
Ma la prima incongruenza nasce dal constatare che nessuno dei nostri governi nazionali, fino ad oggi, ha fornito le condizioni fondamentali e le risorse sufficienti per costruire città che apprendono capaci di promuovere inclusione e crescita.
L’idea di educazione permanente praticata nel nostro paese è a dir poco obsoleta, modellata com’è su una concezione dell’istruzione ancorata a categorie del secolo scorso.Non solo oggi è necessario che l’istruzione permanente pervada tutta la vita delle persone, ma anche l’intero impianto del sistema formativo del paese.
Ora è il governo della città a costituire il fattore chiave per sbloccare tutto il potenziale della comunità urbana, attraverso l’importanza dell’apprendimento permanente, per assicurare ambienti di vita sostenibili alle generazioni presenti e future.
Ma anche qui parliamo il linguaggio della luna. Se le nostre città non provvedono a divenire città che apprendono sarà proprio lo studio dell’Agenda 2030, nell’ambito dell’educazione civica, a far scoppiare le contraddizioni, che già le giovani generazioni con Greta denunciano.Eppure si potrebbe fare se solo attori pubblici e privati, settori delle città e delle comunità, compresi istituti di istruzione superiore e di formazione, nonché i rappresentanti dei giovani si riunissero in partenariato per promuovere l’apprendimento permanente a livello locale al fine di garantire che tutte le generazioni siano coinvolte nel processo di crescita della città che apprende.Gli strumenti non mancano, dalla rete Unesco delle città che apprendono alla Dichiarazione di Città del Messico del 2015 che fornisce una lista di controllo completa dei punti di azione per migliorare e misurare il progresso delle città che apprendono.
La cosa stravagante del nostro paese è che tante sono le nostre città riconosciute come patrimonio dell’Unesco, ma nessuna di loro aderisce alle Rete delle “Learning cities” dell’Unesco, né, tanto meno, è  impegnata a perseguirne gli obiettivi, a partire dalla città in cui vivo secondo l’adagio latino: nemo propheta in patria.È probabile che dovremo attendere la generazione degli amministratori istruiti alla scuola della nuova Educazione civica, sempre che decolli, ma temo che entro il 2030 non ce la faremo




Dall’alternanza scuola lavoro ai PCTO – Un ricco vademecum

di Antonella Mongiardo

Con la legge 107/2015, l’alternanza scuola-lavoro non è più occasionale, ma diventa strutturale e obbligatoria per gli studenti frequentanti il secondo biennio e l’ultimo anno di tutti gli istituti secondari di secondo grado.
La normativa prevede che per gli ultimi tre anni della scuola superiore debba essere previsto nel Ptof un percorso “per lo sviluppo di competenze trasversali e per l’orientamento”, che può essere svolto in un’azienda, in un ente pubblico, in un strutture di tipo culturale, come musei e biblioteche, e anche all’estero.
Il progetto o i progetti di alternanza inseriti nel Ptof vengono declinati e attuati dai singoli Consigli di Classe, che dovranno predisporre i singoli percorsi formativi personalizzati tenendo conto dei loro interessi e delle loro attitudini.

In allegato un ampio e dettagliato vademecum sull’argomento

 




Crocifisso sì, crocifisso no. La soluzione: non togliere, ma aggiungere

di Aluisi Tosolini

Pochi giorni fa la sentenza della Cassazione a sezioni unite (la numero 24414) ha posto fine ad una diatriba giudiziaria iniziata nel 2009 ma soprattutto ad una questione culturale che da decenni attraversa la società italiana.

Il nodo del contendere è il crocifisso  nelle aule scolastiche: imposizione che confligge con la laicità della scuola di uno stato laico in cui non può esistere una religione di stato oppure espressione di un sentire comune radicato nel nostro Paese e simbolo di una tradizione culturale millenaria?

La sentenza della corte suprema scrive: «L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso cercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi».

Aggiungere, non togliere

Anni fa, quando curavo la rubrica di educazione interculturale per il sito Pavonerisorse avevo dato conto dell’evoluzione dei punti di vista su questo tema segnalando come sia i primi documenti ministeriali sull’educazione interculturale prodotti dalla Commissione Ministeriale (si veda http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/ ) che il documento del 2007 dell’Osservatorio (La vita italiana le la scuola https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf) affrontano con chiarezza e stile innovativo il tema della compresenza di religioni diverse nella società e quindi nelle classi delle scuole italiane.
La proposta di cui mi fece portatore allora si riassume nella frase: “aggiungere, non togliere” che è la sintesi anche della posizione espressa dalla consulta.

In tema di religione e di identità religiosa non esiste infatti una possibile sintesi tra diverse esperienze ognuna delle quali si presenta come “verità”. Neppure è possibile ridurre l’esperienza religiosa al privato di una singola persona: la religione non è, infatti, soltanto un’esperienza interiore, ma ha anche una dimensione più ampia, sociale, culturale, materiale che coinvolge l’intera società.

Dove sta dunque la soluzione? Nell’impegno al rispetto dei credo altrui e nell’impegno comune a costruire una società che luogo della convivialità delle differenze dove tutti e ognuno si sentono a casa.
I bambini e le bambine nelle classi multiculturali della scuola italiana stanno imparando a vivere e a costruire assieme una società in cui tutti possano sentirsi a casa anche se con differenti culture e con differenti religioni. Per questo è fondamentale conoscere le diverse esperienze religiose dei propri compagni: solo così sarà possibile comprendersi e rispettarsi vicendevolmente. La scuola è il luogo della alfabetizzazione, ovvero il luogo dove si impara a scrivere, leggere e far di conto, ma anche a vivere assieme impegnandosi per il bene comune. La mancata conoscenza delle diverse religioni e dei vissuti che le stesse richiamano è una forma di analfabetismo che ha conseguenze negative sul presente e sul futuro del- le nostre società glo-cali fondate su doveri e diritti condivisi.

La dichiarazione universale dei diritti umani

La stessa posizione espresse anche uno dei massimi studiosi di diritti umani e fondatore del centro dei Diritti umani dell’università di Padova, Antonio Papisca.
Commentando l’articolo18 della dichiarazione universale dei diritti umani (Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti) Papisca scrive che ci troviamo di fronte al triangolo sacra della dichiarazione.
Per Papisca l’articolo 18 va letto insieme con l’articolo 1 ( “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”) perchè i due articoli contengono la parte per così dire sacrale dell’intera Dichiarazione universale. I soggetti di riferimento sono, ovviamente, tutte le persone umane, quindi ‘credenti’, ‘non credenti’, ‘atei’, ‘agnostici’. Pensiero, coscienza, religione: è il triangolo valoriale di più denso spessore etico, che qualifica la soggettività giuridica originaria della persona umana la cui retta coscienza (foro interno) è vero tribunale di ultima istanza dei diritti.

L’articolo 18 pone in relazione fra loro tre libertà, che sono sia “da” (interferenze e limitazioni) sia “per” (la realizzazione di percorsi di vita con assunzione di responsabilità personale e sociale). E’ il caso di sottolineare che queste tre libertà si riferiscono all’essere umano integrale – fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia – e sono pertanto interdipendenti e indivisibili rispetto a tutti gli altri diritti fondamentali. Però con una caratteristica peculiare. Gli altri diritti possono essere distrutti dall’esterno: si pensi al diritto all’alimentazione o al diritto all’assistenza pubblica in caso di necessità o al diritto al lavoro. Non è così per i tre diritti dell’articolo 18, essi hanno una intrinseca forza di resistenza, possono essere combattuti, contrastati, ma sopravvivono comunque: più forti della morte. Mi possono mettere in carcere, possono combattere la mia religione, ma le mie idee, la mia fede, la mia coscienza rimangono intatte. Al dittatore, al carnefice si può sempre gridare: dov’è la tua vittoria?

Rimandando al testo originale di Papisca per le altre considerazioni (https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Articolo-18-Libere-coscienze/22 ) basti qui rileggere quanto scrive a proposito dei simboli religiosi:  C’è anche dibattito sui simboli religiosi a scuola e in altri luoghi pubblici. C’è chi vuole togliere il Crocifisso dalle pareti motivando che nella scuola pubblica aumenta il numero di studenti di religione diversa dalla cristiana. La mia personale risposta è: non togliere, ma aggiungere. Non estirpiamo radici di grandi culture, al contrario motiplichiamole: la condizione della loro compatibilità è che tutte siano compatibili con il codice universale dei diritti umani, a cominciare dall’articolo 1 della Dichiarazione universale. Laicità non significa “togliere” valori, fare tabula rasa. Laicità significa pluralismo e rispetto reciproco. La laicità dello Stato si misura con gli indicatori che si riassumono in “tutti i diritti umani per tutti”, e tra questi, c’è appunto il diritto alla libertà religiosa”.

Per una scuola delle differenze

Spero che la soluzione proposta dalla Cassazione venga accolta da ogni singola scuola: far sì che nel rispetto di tutte le diverse posizioni (credenti, non credenti, atei, agnostici) a scuola ogni studente possa ritrovare il riferimento simbolico anche alla propria fede. Solo così può sentirsi a casa e solo così ognuno può impegnarsi per la costruzione di una casa comune delle differenze dove tutti si sentano a casa lavorando nel contempo per il bene comune.
Personalmente credo anche utilissimo creare, all’interno di ogni scuola (così come di ogni spazio pubblico), l’equivalente della stanza che  nel 1957 il segretario dell’ONU Dag Hammarskjöld volle al palazzo di vetro. Una stanza del silenzio e della meditazione come luogo di raccoglimento per tutte le fedi (https://www.un.org/depts/dhl/dag/meditationroom.htm).

Un segno che la scuola è capace di anticipare e costruire la società di domani dove tutti possano vivere la propria esperienza religiosa rispettando le altre posizioni in merito di religione apportando nel contempo il proprio contributo alla costruzione della convivialità.
Dove non si toglie, ma si aggiunge.




PNRR, Mission e Cultura

di Giovanni Fioravanti

Il sistema istruzione del paese funziona male, ormai è molto tempo che mostra segni di invecchiamento tanto da far presagire il suo esaurimento, dunque non è questione né di Covid  né di Dad.
Ora però siamo di fronte ad una svolta, il governo ha licenziato il PNRR che contiene quattro macro mission, dieci riforme e dodici investimenti per oltre diciannove miliardi  con l’obiettivo del “Potenziamento  dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università”, da realizzare da qui al 2026.

Asili nido, tempo pieno e mense, riduzione dei divari territoriali nella formazione, riforma degli istituti tecnici e professionali, sviluppo degli istituti tecnici superiori, riforma del sistema di orientamento. Nuove competenze e nuovi linguaggi, sviluppo del digitale e della didattica integrata, nuove aule didattiche e laboratori, riqualificazione dell’edilizia scolastica. E in fine riforma dell’organizzazione del sistema scolastico, riforma del sistema di formazione e reclutamento dei docenti.

Ma sorge un interrogativo: con quale cultura?
La cultura di un sistema formativo morente? Quali modelli? Quale idea di istruzione?
Il problema della cultura è rilevante in tutto il mondo.

Il nostro sistema scolastico è entrato nell’epoca della conoscenza con cui si è aperto questo secolo senza colpo ferire, sempre uguale a se stesso, come se il tempo fosse da sempre fermo.
Un treno con vagoni importanti al suo seguito, la media unica, la scuola di massa, la scuola a tempo pieno, i Decreti Delegati, la scuola della legge 517 del 1977: la scuola di tutti, la scuola del lavoro collegiale dei docenti,  la scuola senza voti. Il sistema integrato zero-sei, l’autonomia scolastica.
Un treno su cui sono saliti personaggi come Loris Malaguzzi e Sergio Neri, Bruno Ciari, Don Milani e Mario Lodi. Ma in prima classe continuavano a sedere Gentile, Croce e Maritain, poco disposti a cedere il posto ai Piaget, agli Erikson, ai Bruner. Un treno di merci vecchie su cui si sono gettate, di volta in volta, quelle nuove un po’ alla rinfusa e con poca convinzione. Un treno ancora con le carrozze di prima: i licei, di seconda: gli istituti tecnici e, in fine, di terza, quelle con i sedili di legno, per la formazione professionale. Un treno che per troppi territori ha viaggiato a scartamento ridotto e che ancora perde passeggeri lungo il suo percorso. Un treno senza dubbio non attrezzato per attraversare le regioni della complessità, paradigma del nostro tempo.

Capitale umano non è una parolaccia, non è che persona e cittadino soggetti formativi del le nostre scuole siano meglio. Di fronte alla complessità l’umanità per salvarsi ha bisogno di capitale umano e il valore del capitale umano si misura in conoscenza. La centralità della conoscenza non perché funzionale al mercato ma perché funzionale alla nostra vita.
Veniamo dal secolo, quello scorso, dell’informazione e della formazione, abbiamo visto che nonostante l’enfasi attribuita a queste parole, esse servono a ben poco se non si traducono in conoscenza e da conoscenza in competenza, in padronanze per vivere, per dominare la nostra realtà, quella che ci circonda e quella che condividiamo con gli altri.

La conoscenza non è qualcosa che risiede a scuola, solo uno stupido potrebbe oggi coltivare un’idea simile. La conoscenza è ovunque, dalle reti del web al mondo universo, ovunque rintanata e ovunque si fa scoprire; scuole, biblioteche, musei, teatri e cinema ci offrono gli strumenti per conoscere, ce li insegnano, permettono di esercitarci nel loro uso, ma poi non c’è nulla della nostra vita che non sia conoscenza da farsi in proprio, da ricercare di continuo. Allora abbiamo necessità di apprendere da subito ad usare gli strumenti della conoscenza, da quando apriamo gli occhi sul panorama del mondo, su questo libro che non finiremo mai di sfogliare e di studiare, che passeremo agli altri dopo di noi, perché continuino a sfogliarlo e a studiarlo come hanno fatto quelli che sono venuti prima e ci hanno lasciato le loro pagine.

Dobbiamo assumere delle categorie nuove, degli a priori kantiani.
La conoscenza, lo studio, l’apprendimento appartengono a un tempo che mai ci abbandona, che ci sta addosso. Possiamo apprendere in tanti modi, gioiosi come quelli dei bambini, faticosi come quelli dell’adulto che si misura con la complessità, con le sfide di ciò che ancora non conosce, anche noiosi, poco interessanti, ma necessari.  Ma un concetto ci deve essere chiaro e cioè che l’apprendimento è permanente, che ha bisogno del nido per arrivare all’università ed oltre. Quando dico nido e università non penso alle istituzioni, penso a tappe della vita. Penso che darsi come obiettivo di giungere al 33% di bambini che frequentino l’asilo nido, anche se target europeo, equivale comunque ad accettare ancora per molti anni che nel nostro paese solo il 29% dei giovani tra i 25 e i 34 anni sia in possesso del diploma di laurea. La società dell’educazione permanente è la società del cento per cento.

Uscire dall’idea dell’istruzione come servizio sociale, acquisire un concetto maturo, universale, radicale di diritto allo studio, che non tollera limiti, che ha origine alla nascita come il respirare,  il nutrirsi e l’essere accuditi. La società della conoscenza dell’Europa di Lisbona del 2000 ha introdotto l’apprendimento per tutta la vita, non certo nell’ottica mercatistica di recuperare nuove competenze al lavoro, ma con l’dea di rompere con il concetto dell’ istruzione istituzionalizzata, statica, ingessata, unidirezionale dalle scuole alle università.

Nella società del capitale umano l’apprendimento inizia con la nascita e dura per tutta la vita, i luoghi di studio e di sapere sono luoghi aperti, di relazione permanente con il territorio e la vita delle persone, non conoscono chiusure, luoghi di flessibilità e non di rigidità, luoghi di accompagnamento e non di mortificazione, luoghi di valorizzazione e di condivisione, luoghi non di giudizio ma di comprensione, luoghi di crescita insieme, costante continua, luoghi di accudimento dei saperi.  Luoghi in cui non ci si dispera se si apprende a distanza perché la qualità degli apprendimenti e delle relazioni non ne risentono essendo luoghi dove l’apprendimento è organizzato e diffuso ovunque, dove le città che apprendono, che affondano le loro radici nel sapere diffuso, nella cultura e creatività dei loro abitanti sono considerate luoghi normali di vita e di costume.
Se i miliardi del Recovery Fund li spenderemo mantenendo i paradigmi del  ‘900 saranno soldi buttati via, spesi per inutili cattedrali nel deserto.
Insegnamento e apprendimento sono state le parole chiave della seconda metà del novecento per impossessarsi  attraverso discipline e curricoli del patrimonio di conoscenze già accumulato. Ora la parola chiave è l’apprendimento permanente, la società della conoscenza dove tutto deve essere al servizio di ciascuno per essere in grado di apprendere ciò che ancora non conosciamo, non ciò che ci sta alle spalle, ma ciò che ci sta davanti e ancora non vediamo. Dobbiamo immagazzinare il nuovo e saperlo andare a scoprire là dove si rintana, abbiamo bisogno degli attrezzi cognitivi per fare questo. Questo non è un compito da comunità educanti, ma è il compito di società che nelle loro politiche e in ogni aspetto della loro organizzazione sono strutturate per dare centralità alla formazione, alla conoscenza, alla cultura necessaria a nutrire il capitale umano, l’unica vera risorsa di cui possa disporre oggi l’intera umanità. Società della conoscenza dove scuole e istituzioni culturali sono parte di una rete di apprendimento permanente che ne costituisce il tessuto connettivo.

Se sarà questa la cultura e la consapevolezza con cui affronteremo le mission  per il “Potenziamento dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università” del PNRR, potremo sperare di far entrare il nostro sistema formativo a pieno titolo nella società della conoscenza, nell’epoca della conoscenza del ventunesimo secolo. Ma l’interrogativo con quale cultura resta aperto, con molte ombre e preoccupazioni, perché ciò che non è stato curato finora è proprio la cultura e il tempo per recuperare il tempo perduto potrebbe essere scaduto.




Classi numerose e risultati scolastici

di Stefano Stefanel

Con il concetto di “classi pollaio” si intendono contemporaneamente due concetti molto diversi tra loro:

  • classi con troppi alunni in spazi troppo ristretti e assegnati ad un docente per ora;
  • classi che a causa della numerosità penalizzano i risultati degli studenti.

Nessuno ritiene che le “classi pollaio” siano un fenomeno positivo, ma l’argomento viene affrontato in maniera non organica e quasi esclusivamente attraverso dichiarazioni, proclami o generici interventi dentro le molte e spesso illeggibili linee guida. Cerco, pertanto, di andare un po’ al fondo della questione, anche perché la pandemia e il distanziamento non hanno portato a nessuna modifica, nemmeno temporanea, del numero di alunni per classe.

TROPPI STUDENTI IN POCO SPAZIO

25 studenti in 50 metri quadrati stanno troppo stretti. In molti casi i metri quadrati sono 40 e gli studenti 27. Se, dunque, parliamo di vivibilità dentro gli spazi scolastici dovremmo intervenire immediatamente sull’edilizia scolastica, costruendo nuove sedi per trasformare le “classi Pollaio” in classi a misura di studente. Qual è la misura ideale per uno studente? Direi, senza molti dubbi, tre metri quadrati.


Quindi per mettere 25 studenti in una classe e farli vivere a loro agio l’attività didattica servirebbero 75 metri quadrati, per 20 studenti ne servirebbero 60. E non bisogna pensare che gli studenti delle scuole primarie abbiano bisogno di spazi più piccoli di quelli delle scuole secondarie, perché non è così: più piccoli sono, gli studenti, più hanno bisogno di spazio. Chi conosce un po’ le scuole sa che aule di 75 metri quadrati in giro ce n’è poche (e di solito, quelle poche, sono occupate da laboratori) e dunque se si vuole ridurre “il pollaio” bisogna demolire le scuole che ci sono e costruirne di nuove con spazi ampi. Sta succedendo questo? Non mi pare: più sono nuove le scuole e più sono piccole e le aule anguste (perché sono state progettate prima della pandemia per risparmiare su luce, riscaldamento, ecc.).

Dati precisi, comunque, io non ne ho, ma ho una visione empirica forse non completamente sbagliata. Dirigo un Liceo di 1515 studenti con 60 classi: due hanno a disposizione 70 metri quadrati, le altre 50, 40 o, purtroppo, anche meno. Se però noi diminuiamo gli studenti per classe e li portiamo a 20 arriviamo a contenere negli attuali edifici 1.200 studenti. E gli altri 300 dove dovrebbero andare? Bisognerebbe costruire per loro una scuola vicino alla vecchia o mandarli altrove.
Ma poiché già applico la lista d’attesa (cioè faccio tante prime quante quinte escono e quindi non accetto tutte le iscrizioni) quanta gente dovrei mandare via ogni anno? E tutti questi studenti dove andrebbero? Forse ai Licei di fuori città in cui però, pare, non vogliano andare? Ovviamente l’eliminazione delle “classi pollaio” in una situazione come la mia creerebbe solo questioni di ordine pubblico o un Liceo diviso in cinque-sei sedi sparse per la città. In ogni caso un disastro.

Ho scritto in passato, in vari interventi pubblici, che l’edilizia scolastica è un problema assoluto del sistema scolastico e che quindi bisognerebbe utilizzare i soldi del PNRR-Next Generation Eu per abbattere e rifare almeno il 70% del patrimonio scolastico nazionale, ma non ho avuto alcun riscontro in merito, né la livello locale, né a livello nazionale anche se i miei interventi sono stati comunque letti. Mi pare di poter dire che l’idea di intervenire massicciamente sul patrimonio edilizio scolastico nazionale sia un’idea (quasi) solo mia.

POCHI STUDENTI E RISULTATI MIGLIORI

L’altra questione è ancora più controversa: non so se esiste in giro uno studio accurato ed esaustivo che certifichi come nelle classi con pochi alunni si apprenda meglio che in quelle con tanti alunni. Anche in questo caso servirebbero dati e questi non ci sono, ci sono solo dichiarazioni che danno per scontata la cosa (che nelle classi con pochi alunni si apprenda meglio che in quelle con molti alunni). Anche in questo caso riporto qualche osservazione personale.

Ci sono molte scuole con “classi pollaio” che hanno ottimi risultati e scuole con classi piccole che hanno un’alta dispersione scolastica. Molte scuole con tante classi pollaio hanno ottimi risultati nell’Invalsi, nell’Ocse-Pisa (quando vengono testate), negli esami di stato e anche nel criticato Eduscopio (per le scuole secondarie di secondo grado). Poi ci sono scuole con piccole classi dove la dispersione e alta e i risultati negativi. Situazioni del genere le conosco io, ma sono facilmente conoscibili da chiunque.

Se fosse certo che classi con numeri bassi di studenti danno risultati molto positivi e “classi pollaio” creano invece problemi all’apprendimento allora bisognerebbe spingere, immediatamente, per una nuova edilizia scolastica. Però, scusate, faccio una domanda banale e retorica: se in una grossa scuola superiore con più di 1500 studenti ne viene bocciato lo 0,56%, i risultati del criticato Eduscopio la danno da anni il primo posto in provincia e le classi sono “pollaio”, perché dovrebbe esserci la corsa ad un iscriversi ad una piccola scuola di 500 studenti con un tasso di bocciature dell’8% che sta sempre all’ultimo o penultimo posto di Eduscopio, ma che ha 14-15 studenti per classe (ogni riferimento a fatti realmente esistente è puramente casuale o almeno così è meglio dire).

Io credo sia necessario avere dei dati per verificare dove sono le “classi pollaio”, per capire se chi frequenta le scuole di una zona (città o paese) è disponibile ad andare altrove per non stare in “classi pollaio” e , infine, se conviene frequentare la scuola in classi piccole, dove possono anche interrogarti tre volte in più che nelle “classi pollaio” e senza avere poi alcun reale vantaggio certificabile.

In conclusione ho molte perplessità sul concetto di eliminazione delle classi pollaio se non legato ad una revisione del patrimonio edilizio scolastico, ma, soprattutto, ad una revisione del patrimonio didattico-pedagogico della scuola italiana. Mi piacerebbe avere dati che confermano che  alla diminuzione degli studenti per classe corrisponde un sensibile e verificabile miglioramento degli apprendimenti, non del numero delle verifiche (visto che ci sono meno compiti da correggere e meno studenti da interrogare allora si verifica di più: in questo caso è uno strazio, “meglio il pollaio”).




Le “figure di sistema”: una questione rimossa?  

di Antonio Valentino

  1. Ha sorpreso non poco – nella Misura dedicata a Istruzione e Ricerca del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – la mancanza di riferimenti alle figure di insegnanti non solo insegnanti, indicate finora generalmente come ‘figure di sistema’ o ‘figure intermedie’ o Middle Management[1]. O anche – e forse più giustamente – ‘Figure di supporto all’Autonomia’.

Eppure sono chiari e interessanti i segnali che abbiamo letto su tale questione nel Rapporto finale di fine luglio 2020 della Commissione Ministeriale (nominata dell’allora Ministra Azzolina): Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro”[2], coordinata a suo tempo dall’attuale Ministro.

Ad essa infatti si riserva un intero capitolo (Formazione e valorizzazione delle figure a supporto dell’autonomia, pp. 44-49) e se ne evidenziano non solo il senso e l’importanza, ma anche le condizioni e i passaggi necessari (quadro di riferimento giuridico e contrattuale, meccanismi di valorizzazione delle professionalità, sviluppi di carriera e accordi contrattuali) [3]  e i problemi da prevedere e risolvere per affrontarla.

Ma segnali inequivoci al riguardo il prof. Bianchi li ha lanciati direttamente anche da ministro.
Da ciò la sorpresa, in quanti ci avevano contato, per la totale assenza nel PNRR di riferimenti all’argomento.
Ne ha dato voce recentemente, tra gli altri, e in modo preoccupato, la Rivista telematica DDi del giugno scorso,  dedicata all’analisi della Misura sopra citata del Piano.
Si tratta in effetti di ‘una assenza’ che non andrebbe sottovalutata.

  1. Ad oggi non è dato conoscere le ragioni di tale omissione: avranno probabilmente pesato timori e diffidenze nelle Organizzazione sindacali della scuola, ma anche tra gli insegnanti, per una operazione mai adeguatamente approfondita nelle sedi giuste; oppure la sottovalutazione, nello staff del ministro, della posta in gioco. Ma forse ha giocato anche la diffusa percezione che si tratti di questione a sé, scollegata, o marginale, rispetto ai grandi problemi del fare scuola.

Probabilmente però tutte e tre queste possibili ragioni hanno pesato nell’impedire una regolazione chiara e precisa – in termini di tipologia di incarichi e responsabilità, di requisiti per accedervi, di disciplina giuridica e contrattualizzazione sindacale – che ha fatto parlare giustamente, per quelle attuali, di figure aleatorie e instabili, mandate allo sbaraglio, anche perché generalmente prive della necessaria preparazione. Figure pertanto prive di appeal; e tali comunque da creare frequentemente situazioni di incertezza e instabilità nell’organizzazione e gestione della scuola e nel lavoro del DS; trattandosi, tra l’altro, di nomine annuali.

  1. Probabilmente però non si coglie ancora diffusamente l’importanza e l’urgenza della questione, sebbene il quadro generale nel quale ci si muove veda decisamente cresciuti negli ultimi decenni i livelli di complessità, anche per le nuove responsabilità e incombenze  cui fronte senza adeguati supporti. Si pensi alle trasformazioni introdotte dai processi di inclusione e dagli impegni per la sicurezza e, più in generale, ai cambiamenti che impegnano la scuola – almeno a partire dalla istituzione dell’Autonomia –  sul fronte della progettazione collegiale delle attività formative, e del loro monitoraggio, previsti per il POFT; dell’autovalutazione e rendicontazione di Istituto del SNV del 2013; della pianificazione della formazione di istituto del personale, prevista dalla L. 107/15 e dal CCNI del 2019…. .
    Tutte attività che vanno organizzate e gestite opportunamente perché non vengano considerate degli optional o comunque vissute dentro logiche da puri adempimenti formali.

È all’interno di tale quadro che si può cogliere più facilmente il senso di Figure professionali, opportunamente ‘regolate’ per sostenere i cambiamenti, e vederle come promettente risorsa per aiutare il sistema a superare le difficoltà da essi prodotti.

  1. Ma perché questo atteggiamento maturi, vanno sviluppate e chiarite alcune consapevolezze che danno fondamento al senso e alla necessità di queste figure e maggiore chiarezza ai termini di una loro regolazione. E prime tra queste:
    – che la didattica non può continuare ad essere vista come una faccenda individuale del singolo docente e la progettazione collettiva un optional[4];
    – che la qualità e l’efficacia della didattica non si possono concretizzare senza l’impegno differenziato e la preparazione di chi (insegnanti motivati e attrezzati, appunto) si faccia carico delle condizioni operative e degli strumenti e materiali che permettono l’effettivo funzionamento delle diverse articolazioni del Collegio.

Né, d’altra parte, si può continuare a pensare che gestire i gruppi in modo efficace e competente sia la stessa cosa che presiedere una riunione; e che, quindi, tempo a disposizione e preparazione e gestione degli incontri siano fattori ininfluenti sull’efficienza e sull’efficacia del lavoro dei gruppi o del presidio di aree specifiche della vita scolastica.

Oppure ritenere che tutti i docenti abbiano esperienze e competenze – o siano interessati  ad averle – per svolgere  le funzioni previste per il  coordinamento degli organismi collegiali o la cura specifica di iniziative e progetti.
Che sia giusto e doveroso che tutti i docenti abbiano le competenze per insegnare – e insegnare bene – e partecipare agli impegni collettivi, è scontato[5].

Qui però il discorso – come è subito evidente – non riguarda i compiti e le competenze dell’insegnante in quanto insegnante, ma competenze e compiti altri e diversi che devono essere svolti per garantire efficacia al lavoro nelle scuole[6].

A questo punto, il problema si sposta su come (cioè con quali dispositivi contrattuali e giuridici con quale nuova cultura professionale e quindi con quali percorsi formativi) far diventare consapevolezze e pratica professionale diffusa (e non mero adempimento formale) i ragionamenti di cui sopra; ma soprattutto su chi se ne debba far carico. Su quest’ultimo interrogativo, la risposta, in una situazione di normalità, dovrebbe essere ovvia. Ma purtroppo, nella nostra situazione non è sempre così.

Anche il mondo della scuola però – a partire dall’associazionismo professionale e dalle OOSS della scuola – non può tirarsi indietro e fare al riguardo la propria parte. La scuola è del Paese, ma chi la fa  sono quelli che ci lavorano, che devono quindi sentire il dovere di proteggerla e migliorarla.

  1. Ultimo punto. Il funzionamento dei gruppi nei quali si sviluppa la collegialità docente rinvia per forza di cose alla più generale questione organizzativa delle nostre scuole e alla necessità di un suo ripensamento per recuperarne senso e valore (la parola d’ordine della partecipazione dei DD del 1974 è ormai inadeguata a cogliere esigenze e attese della realtà di oggi). Al riguardo, l’idea di una strutturazione reticolare del Collegio[7] – non certo nuova, ma sempre lì appesa, come i caciocavalli di Benedetto Croce – può diventare una risposta promettente solo se le sue articolazioni (i vari gruppi di lavoro: consigli, dipartimenti, gruppi di progetto e di approfondimento …), diventano unità operative funzionali al POF di scuola (e – a voler volare – prime anticipazioni di comunità di pratica nelle nostre scuole).

E tutto questo ‘chiama’, verosimilmente, due essenziali condizioni: la prima che riguarda proprio le  Figure degli insegnanti non solo insegnanti e la necessità di un loro profilo professionale potenziato – dentro il ruolo docente[8]; la seconda che ci porta al profilo del DS e alla necessità di una sua opportuna rimodulazione che si faccia carico delle nuove ‘competenze’ della scuola e dei cambiamenti del lavoro docente e delle responsabilità che ne derivano (e delle quali abbiamo difficoltà a parlare).
Rimodulazione che tenda a spostare il focus dell’impegno professionale ds

  1. su una maggiore vicinanza al lavoro dei suoi insegnanti, anche per prevenire eventuali difficoltà professionali e facilitare il loro coinvolgimento nei lavori delle articolazioni collegiali;
  2. sul supporto alle figure professionali impegnate nella conduzione dei gruppi ecc..

Sulla base di queste considerazioni – fermo restando il necessario approfondimento degli aspetti ancora problematici[9] -, passaggi ulteriori dovrebbero riguardare la costruzione di una di una leadership distribuita, in grado di valorizzare competenze ed esperienze che maturano nelle figure professionali al centro di queste riflessioni.  E non solo di esse, ovviamente.

Ma con questi temi, siamo oltre gli intenti di queste note.

[1] V. A. Valentino, Insegnanti non solo insegnanti, in Gli insegnanti nell’organizzazione scolastica, Edizioni Conoscenza, 2015

[2] L’argomento è affrontato con chiarezza in un apposito capitolo dal titolo ‘Le figure di sostegno all’autonomia’ (pp.44 sgg)

[3]A tutte le figure a supporto dell’autonomia, sono richieste competenze e responsabilità diverse. Ma non ci sono standard di riferimento, mancano indicazioni per eventuali sviluppi di carriera, gli accordi contrattuali sono assai generici. A fronte di una certa vaghezza giuridica e contrattuale c’è una realtà molto ricca, articolata e complessa che avrebbe bisogno di un nuovo quadro di riferimento (giuridico e contrattuale). Per qualificare ulteriormente le diverse figure professionali sarebbe forse utile prevedere nuovi meccanismi di valorizzazione delle professionalità e processi di reclutamento più funzionali.” (dal Il Rapporto finale del 23 luglio 2020, del Comitato ministeriale coordinato dal prof. Patrizio Bianchi)

[4] Per questo paragrafo, ho seguito, considerandole stimolanti e condivisibili, alcune considerazioni di P. Calascibetta, Figure di sistema: questa volta partiamo dal problema, in “Nuovo Pavone Risorse (www.gessetticolorati.it/dibattito), maggio 2021, svolte su un mio articolo: Figure di sistema e questione organizzativa. Farci i conti, in “Nuovo Pavone Risorse”, www.https://www.gessetticolorati.it/.it – Maggio 2021, dove si cerca di presentare un quadro più compiuto sull’argomento.

[5] G. Cerini ha sempre sostenuto (e tanti con lui, anche chi scrive queste note) che forme di premialità andrebbero previste (accelerazione di carriera, altre forme di riconoscimento) per gli insegnanti che investono sulla loro professionalità (ricercando, sperimentando, formalizzando esperienze ecc.) e conseguono risultati significativi, misurabili attraverso evidenze riconosciute come tali da apposite Commissioni interne (esiti di apprendimento soddisfacenti anche di allievi in situazioni critiche; costruzione e realizzazione di progetti didattici proponibili anche in altri contesti similari…).

[6] Sul punto però non vanno minimizzati né il rischio cosiddetto di aziendalizzazione della scuola, nè le preoccupazioni di ricadute divisive per il personale scolastico. di cui parlano un po’ da sempre le organizzazioni sindacali della scuola, e non solo loro. La questione è certamente complessa, come è seria la problematica del recupero di efficacia e di efficienza dell’organizzazione scolastica per assolvere alle sue finalità. La letteratura è vasta al riguardo. Quelle che vanno contrastate sono le derive autoritarie che possono esserci dietro certe trasformazioni organizzative e va invece promossa e sostenuta, attraverso strategie ad hoc, una cultura che assume e ‘agisce’ le posizioni organizzative che si ricopre non come posizione di autorità, ma come insieme organico di funzioni e compiti che devono essere svolti per garantire efficacia al lavoro nelle scuole. V. L. Benadusi, R. Serpieri (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci 2000, pp. 93 sgg.)

[7] V. mio contributo citato nella nota 5.

[8] Qui comunque si pensa a figure scelte dal collegio (altro è il discorso per i collaboratori del DS) e nominate dal DS e a incarichi almeno triennali, in coerenza con la durata di vigenza del POFT, ma non a tempo indeterminato.

[9] V. in http://www.proteofaresapere.it/cms/resource/5271/documento-dirigenza-e-organizzazione-scolastica-2.pdf, un interessante contributo – di un Gruppo interregionale dell’Associazione Nazionale Proteo Fare Sapere – sulle questioni ancora aperte e alcune ipotesi di lavoro.




Autonomia e libertà. Un ricordo di Giulio Giorello

Stefaneldi Pietro Calascibetta

In questi giorni il mondo della scuola festeggia Edgar Morin ricordandone il pensiero cha ha avuto una grande influenza su tutta una generazione di insegnanti. Un altro filosofo che ha ispirato la formazione di molti docenti è stato Giulio Giorello, purtroppo morto prematuramente poco più di un anno fa.
Desidero ricordarlo approfittando della recente la pubblicazione a cura di Antonio Carioti del volume dal bel titolo “Le avventure della libertà” che raccoglie i suoi contributi per #laLettura , supplemento culturale del Corriere della Sera.
Carioti nella prefazione tiene a sottolineare come il rapporto con Giorello non fosse stato casuale , ma frutto di una scelta precisa perché Giorello era la firma più adatta per collaborare ad un progetto culturale come quello de “la Lettura” che voleva «combinare il sapere umanistico e quello scientifico […] contaminare espressioni culturali elitarie e produzione per il consumo di massa».
Un progetto, continua Carioti, che «sembrava cucito su misura per Giulio Giorello […] perfettamente in grado di sparigliare il gioco, trovando sempre lo spunto per incuriosire il lettore o per cogliere nessi tra argomenti apparentemente distanti, con una versatilità più unica che rara».
Da dove derivava tutta questa poliedricità nell’approccio alla conoscenza?


Nella seconda di copertina troviamo una presentazione che in modo sintetico ce ne dà una spiegazione molto efficace che per questo motivo riporto integralmente.
«Eclettismo, apertura al nuovo e ai fenomeni di massa, contaminazione tra scienza e umanesimo, rifiuto di ogni schematismo. In una parola, libertà. Questa è stata la cifra intellettuale di Giulio Giorello, che ha reso la sua attività culturale un’avventura continua, fatta di incontri, sorprese, slittamenti dei punti di vista, in una pratica della ragione estranea a ogni dogmatismo e rigida appartenenza».

Leggendo questa biografia-lampo e ricordando sullo sfondo il pensiero di Morin a cui accennavo, mi viene spontaneo dire che queste parole potrebbero ben descrivere in modo semplice e chiaro ciò che una scuola dovrebbe fare e che Giulio Giorello personificava nella sua attività accademica e di divulgazione.
Spiazzare gli studenti, trovare il modo di incuriosirli, avere una visione olistica dei saperi, affrontare i classici senza disdegnare gli autori contemporanei, essere aperti al nuovo cercandone le valenze culturali e i nessi con il passato e le opportunità per gli sviluppi futuri, avere un atteggiamento non dogmatico nei confronti delle varie teorie pedagogiche e didattiche cercando di usarne le valenze e le possibilità in base ai bisogni degli studenti che di volta in volta si hanno davanti.
Insomma una scuola come laboratorio della conoscenza e della ricerca didattica applicata in cui sia possibile ai docenti accompagnare gli studenti in un’esplorazione dei saperi fuori da schemi precostituiti crescendo insieme a loro e arricchendosi anche sul piano professionale.
Utopia? No. Una forma-scuola che ha trovato la sua incubatrice nelle scuole cosiddette sperimentali degli anni ’70 e che ha trovato poi nell’autonomia scolastica la sua dimensione ordinamentale e proprio nella sperimentazione la sua dimensione metodologica, almeno nelle intenzioni del legislatore.

A questo punto ho ripensato al rapporto privilegiato che l’Istituto sperimentale Rinascita Amleto Livi di Milano ha avuto la fortuna di avere negli anni proprio con Giulio Giorello e mi sono reso conto di come questo incontro non sia stato casuale, come non lo era stato per “la Lettura”, perché il progetto di sperimentazione aveva diversi punti in comune con questo suo approccio alla conoscenza così ben descritto nelle righe precedenti.
Per cominciare la scelta culturale di dare pari dignità al curricolo scientifico e a quello umanistico a cui è corrisposta sul piano strutturale la scelta di assegnare lo stesso numero di ore curricolari ai rispettivi insegnamenti delle due aree e la creazione di un impianto orario, grazie al tempo pieno, in cui erano possibili occasioni di contaminazione interdisciplinare in copresenza tra i docenti in ambienti di apprendimento laboratoriali per consentire agli studenti di trovare o meglio scoprire in un lavoro individuale e di gruppo i nessi tra le diverse conoscenze, prendere consapevolezza di quelle mancanti da ricercare e, nel fare ciò, acquisire nuove competenze di studio per procedere poi con sempre maggior autonomia nell’esplorazione del sapere.
Ricordo che diverse sono state le occasioni di incontro con Giorello sia in occasione di workshop di formazione dei docenti, sia nella collaborazione con le iniziative promosse dalla scuola come quelle nate nell’ambito del progetto di rete di scuole “ Scienza under 18” promosso da Rinascita per aiutare le scuole a trovare nuove strade per valorizzare la cultura scientifica attraverso il protagonismo degli studenti.
Preso da queste suggestioni mi è venuto alla mente un intervento di Giulio Giorello sull’importanza della flessibilità e della sperimentazione nella scuola.
«L’adattamento presume la passività e il conformismo – diceva in quella occasione – mentre la flessibilità presuppone la voglia di cambiare, la libertà di cambiare, senza la quale le altre libertà vengono meno » Citando espressamente, come faceva spesso, il suo amico e maestro Ludovico Geymonat , anche lui come Morin filosofo e combattente partigiano che ben conosceva la libertà come valore e come condizione indispensabile alla formazione della persona.
Parole importanti e significative quelle di Giorello mi sono detto, in un momento in cui qualcuno si domanda se non sia il caso di tornare alla scuola di gentiliana memoria eliminando i progetti “distrattori”.

L’intervento a cui mi riferisco è quello svolto al Convegno nazionale del marzo 2017 tenutosi all’IRRE Lombardia dal titolo ”RICERCA DIDATTICA SPERIMENTAZIONE E PROFESSIONALITA’ DOCENTE.
Il protagonismo degli insegnanti per rispondere alle nuove esigenze della società” .
Un convegno organizzato dall’Istituto sperimentale “Rinascita A.Livi” di Milano con “Scuola città Pestalozzi” di Firenze e “Don Milani” di Genova per proporre all’attenzione del mondo della scuola l’opportunità di assegnare , nel nuovo quadro normativo dell’autonomia, un vero e proprio ruolo di sistema alle scuole sperimentali “storiche” esistenti già prima della riforma in collaborazione con quella che avrebbe dovuto essere l’ Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica poi ahimè abortita sul nascere con un’operazione di “palazzo” . Uno degli innumerevoli “inciampi” alla piena attuazione della riforma.

Consapevoli per esperienza diretta dell’assoluta necessità di avere almeno un’ipotesi progettuale degna di questo nome per guidare le scelte strutturali e organizzative da tradurre in un’offerta formativa , la rete delle tre scuole riteneva che l’esperienza organizzativa di gestione della flessibilità di queste “avanguardie” e di altri istituti con percorsi simili, sarebbe stata utile per sostenere nei vari territori tutte le scuole nell’attuazione proprio dell’autonomia di “ ricerca, sperimentazione e sviluppo”, come recita il dettato dell’art, 6 del Regolamento attuativo, che poi è il vero cuore della riforma in quanto la sola autonomia didattica e organizzativa si trasforma in un esercizio di ingegneria e il POF un menù di offerte nel mercato delle utenze in mancanza di un’ipotesi progettuale solida e specifica predisposta dai docenti di ciascun istituto con la propria comunità scolastica da sperimentare per il successo scolastico dei propri studenti.
Ho riascoltato allora per intero l’intervento di Giorello estrapolandone alcuni passi che mi sembrano particolarmente significativi alla luce del dibattito odierno per comprendere la valenza dell’autonomia come strumento di libertà progettuale non tanto per il singolo docente, ma, ed è questa la novità, per ciascuna comunità scolastica.
Un contributo prezioso per comprendere meglio che qui si tratta della libertà di trovare le modalità più adatte per raggiungere un obiettivo comune e non la libertà di fare ciò che si vuole.

« La libertà di sperimentare è una libertà molto preziosa per la scuola – sottolinea con passione Giorello – e credo che questa libertà debba essere con coraggio e con decisione rivendicata da queste tre componenti della scuola: gli studenti, gli insegnanti e le famiglie »
Una sperimentazione non fine a se stessa ma motivata dal fatto che la scuola non può essere solo custode del passato, ma deve essere in grado di rendere gli studenti consapevoli che la conoscenza è in continua evoluzione, da qui la necessità di un incessante rinnovamento dei contenuti, «basterebbe guardare appunto alla storia della fisica o alla storia della biologia – incalza Giorello – per renderci conto di come siano emersi nuovi problemi e come i contenuti stiano cambiando. Certo non puoi fare una riforma permanente dei contenuti cambiandoli ogni giorno, né tantomeno stabilire una serie di norme che regolino i comportamenti di docenti ed insegnanti che vengono cambiati col ritmo della rivoluzione permanente, per citare la battuta di Lev Trockij, però qualcosa si può fare, io – aggiungeva – me ne rendo conto di nuovo con la mia esperienza personale. […] un problema sarà quindi sicuramente quello dell’aggiornamento dei contenuti».

In questo compito Giorello sottolineava l’importanza di ripensare il rapporto tra università, luogo anche di ricerca disciplinare, e la scuola che ha bisogno di essere alimentata in progress dall’evoluzione della conoscenza anche in funzione orientativa e motivazionale per i propri studenti facendo nascere interessi e stimolando talenti. Un rapporto però da stabilirsi non sotto forma di adesione passiva ai rituali accademici, ma flessibile nelle modalità e nell’approccio in base ai bisogni delle singole scuole. Non a caso il Regolamento dell’autonomia prevede, accanto all’autonomia di sperimentazione, ricerca e sviluppo , l’autonomia nel creare reti e convenzioni con università, Enti e associazioni (art. 7).
Giorello vede la flessibilità per la scuola non solo come una condizione possiamo dire insita nello sviluppo del pensiero e nella metodologia di insegnamento, ma come un diritto vero e proprio.
Nell’intervento al Convegno per introdurre questo concetto prende spunto da cosa accadeva nelle università medievali. «Quando un gruppo con un maestro non si trovava a suo agio in un contesto prendeva e andava a sperimentare altrove, questo è un elemento molto bello ed è bello che sia nato nel mondo della scuola. Il “diritto di exit” è secondo me è una delle componenti fondamentali di una società aperta e democratica, certo è una componente di libertà che va gestita in modo responsabile […], il “diritto di exit” va pesato rispetto ad altri diritti come l’assenza di danno agli altri […] quindi ci sono problemi estremamente intriganti, ma il cercare una proliferazione di esperimenti in uno spirito di autonomia mi sembra un elemento che lega la nostra scuola o almeno dovrebbe legare la nostra scuola a una tradizione profonda libertaria che ha costituito il meglio dell’esperienza europea nel senso di Husserl».

Avviandosi alla conclusione del suo intervento, Giorello non poteva essere più chiaro rispetto all’importanza della libertà di sperimentare scegliendo non a caso una frase di Patrick Pearse, un leader nazionalista irlandese, poeta ed educatore che alla libertà aveva dedicato la sua vita in quanto fu fucilato dagli inglesi dopo il fallimento dell’insurrezione del 1916 di cui era stato uno dei promotori.
Pearse, spiga Giorello, « aveva definito una scuola in cui i programmi burocrati uccidono la spontaneità di insegnanti e di studenti una specie di” murder machine” cioè di macchina per uccidere. La sua risposta era stata quella di un continuo tentativo di aprire in più direzioni, di far vivere le alternative. Allora – continua Giorello portando un esempio – c’erano i sostenitori della Celtic revival che dicevano : “Insegniamo le grandi favole, le epiche dei Gaelici nella nostra scuola!” e quelli che invece dicevano “No, insegniamo geometria per esempio la dura geometria di Euclide!” e Patrick Pearse rispose loro “ Perché non tutte e due!”».
Il messaggio finale è un auspicio . « Questo tipo di exit – conclude – se diventa un abito intellettuale è qualcosa che impedisce alla nostra scuola di diventare solo una macchina per uccidere la creatività, la spontaneità degli studenti e la volontà di cambiare dei nostri migliori insegnanti.”