Come uccidere la formazione senza essere scoperti

di Mario Maviglia

Questo intervento vuole offrire una serie di utili suggerimenti a coloro che, a vario titolo, si occupano di formazione del personale della scuola e che sono mossi dalla comprensibile volontà di sopprimere ogni tentativo di renderla attuabile.
Parliamoci chiaro: la formazione in servizio è una  inutile perdita di tempo (e di soldi), soprattutto se riferita ad un sistema scolastico sano, avanzato, produttivo, eccellente come quello italiano, caratterizzato da risultati fuori dal comune, come emerge dalle classifiche internazionali (e infatti i risultati migliori si registrano al di fuori dei comuni italiani…), dalla grande cura che viene dedicata per far sì che nessuno si perda per strada (la dispersione scolastica in Italia è a livelli quasi zero…; il motto di tutte le scuole italiane infatti è No one left beynd), e da un corpo docente che sprizza salute da tutti i pori pedagogici ed esprime una preparazione professionale mediamente straordinaria e comunque non equiparabile a quella dei docenti degli altri Paesi avanzati.

Esiste anche da noi, ovviamente, qualche mela marcia, qualche docente che non sa fare il suo mestiere, ma il sistema è così solido che si riesce a risolvere queste criticità senza grandi difficoltà (ad esempio “sollecitando” il docente inadeguato a chiedere trasferimento ad altra scuola, e poi ad un’altra ancora e così fino all’età pensionabile. Il motto Nessuno resti indietro è da riferire ai docenti… ).

Tornando a noi, ci sono vari modi per uccidere la formazione senza farsi scoprire e lasciando credere alla UE e agli altri partner internazionali che nutriamo una profonda fiducia sul valore aggiunto della formazione e che quindi ci impegniamo a mettere in atto piani formativi di grande valenza pedagogica e didattica che contribuiscono in modo determinante ad innalzare il già altissimo livello di preparazione dei nostri docenti bla bla bla, bla bla bla… (cfr Greta Thunberg).

Questi metodi di soppressione della formazione sono il risultato di tanti studi svolti sul campo a vari livelli e di una continua sperimentazione in situazione. Ad esempio, per lunghi anni abbiamo detto che la formazione è un diritto/dovere dei docenti, una locuzione, questa, bellissima per dire tutto (ossia niente) e per scansare in modo rigoroso e scientifico l’inutile zavorra della formazione. Infatti, nella titanica (e bizantina) discussione riguardante quanto dovere e quanto diritto ci debba essere nella formazione, intere generazioni di docenti sono riusciti ad andare tranquillamente in pensione facendo poche o zero ore di formazione e potendo dire ai nipoti, con orgoglio: “Io non c’ero!” oppure, quelli più esterofili, “Not in my back yard!”

Questa situazione assolutamente idilliaca e tranquilla è stata proditoriamente e sciaguratamente sconvolta dalla legge 107/2015 che ha stabilito che la formazione dei docenti è “obbligatoria, permanente e strutturale”.
Panico nel mondo scolastico e sindacale! Non tutti hanno però colto la sottile e intelligente strategia utilizzata dal nostro legislatore nel far credere che la formazione diventasse qualcosa di stabilizzato nella vita delle istituzioni scolastiche. In realtà questa volontà il decisore politico non l’ha mai avuta! E il decisore amministrativo ancora meno! Il tutto, infatti, rientrava in una sorta di teatrino politico escogitato appositamente per confondere l’UE e far sembrare che in Italia la formazione è tenuta in grande considerazione. E in effetti, con visione lungimirante, la stessa Amministrazione scolastica si è ben guardata dal tradurre quella “obbligatorietà” in un monte ore definito e a sancirlo nel CCNL.

Anzi con una nota applicativa (n. 2915 del 15/09/2016), degna della migliore scuola sofista, il Ministero precisava che “il principio della obbligatorietà della formazione in servizio” [va considerato] “come impegno e responsabilità professionale di ogni docente” [e dunque] “l’obbligatorietà non si traduce, quindi, automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del Piano”.
Insomma, non esiste alcun monte-ore obbligatorio. Il sospiro che si è sentito in Italia al momento dell’emanazione della nota era quello di sollievo da parte di molte scuole e dei loro sindacati. Questo concetto veniva ribadito con commovente iterazione con una nota successiva (la n. 25134 dell’1/06/2017) la quale stabiliva che “l’obbligatorietà non si traduce automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del piano”.
Leggasi: ognuno fa quello che vuole. D’altro canto non poteva essere diversamente: la nostra è una matura democrazia liberale. La tua libertà finisce dove comincia la mia. Tu non vuoi fare formazione? No problem! Non costringere me a farla. Anzi, mettiamo insieme le nostre forze per costruire una formazione eterea, incorporea, leggera, quasi impalpabile.

Ma ci sono altri modi per uccidere la formazione senza essere scoperti: per esempio ricorrendo all’utilizzo di termini contrastanti o dando fiducia al tempo. Per quanto riguarda il primo aspetto, il gioco è abbastanza semplice: prendete una qualsiasi legge (ad esempio la n. 178 del 30/12/2020) e stabilite che viene avviata una formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità non in possesso (i docenti, non gli alunni…) del titolo di specializzazione sul sostegno.
Il principio dell’obbligatorietà lo ribadite anche in un successivo decreto applicativo (ad esempio il DM n. 188 del 21/06/2021).
Ma (attenzione! attenzione! A me gli occhi!) con una circolare che reca istruzioni in materia (ad esempio la n. 27622 del 6/09/2021) il personale docente interessato viene “invitato” a partecipare alle attività formative. Non “obbligato”, capite? E in effetti molti docenti, educatamente e con l’appoggio degli onnipresenti sindacati, hanno risposto al ministero: “Grazie dell’invito, mi ha fatto molto piacere riceverlo, ma non intendo parteciparvi. Ho altro da fare. Sarà per un’altra volta. Non perdiamoci di vista, però.”

Per quanto riguarda il tempo, c’è da ricordare innanzi tutto che esso è galantuomo; e mai massima fu più azzeccata come nel presente esempio. Infatti con la già citata nota 27622/2021 il Ministero ha fornito un’articolata proposta di organizzazione dei corsi di formazione sulla disabilità La nota reca la data del 6 settembre 2021; nel testo viene detto che “per consentire l’effettiva erogazione delle risorse finanziarie entro l’a.f. 2021, le scuole saranno invitate a fornire rendicontazione entro e non oltre la data del 30 novembre p.v.” Avete capito? Più veloce della luce! Il nostro Ministero certe volte è di una efficienza e tempismo mostruosi. (Di solito quando si tratta di far lavorare gli altri…).

In poco più di due mesi le scuole dovranno progettare le attività formative, trovare i formatori, stipulare i contratti (mi raccomando: non si trascuri di chiedere il consenso per il trattamento dati, l’antimafia, l’anticorruzione, i dati anagrafico-fiscali, la dichiarazione di insussistenza/incompatibilità, il CV in formato UE, e gli atri 15 atti previsti…), realizzare le attività formative a livello di ambito e fornire rendicontazione al Ministero entro il 30 novembre! Non ci si lasci però impressionare da questa veemenza decisionista; le ragioni in realtà sono molto serie e impongono un impegno solerte e senza indugi da parte delle scuole interessate alla formazione: infatti, se le scuole non rendicontano entro il 30 novembre potrebbe succedere qualcosa di grave al nostro Paese, qualcosa di irreparabile e catastrofico, qualcosa che in confronto lo scoppio della Terza Guerra Mondiale rappresenterebbe una bazzecola di second’ordine.

Vi chiederete che cosa; è presto detto: i ragionieri del Ministero dell’Istruzione non avrebbero i dati a disposizione per fare il conteggio di quanto è stato speso e di quanto resta da spendere! E questo è di palmare evidenza che non ce lo possiamo permettere! La pandemia è stata devastante per la scuola e per il Paese; non riusciremmo a sopportare un’altra sciagura se i dati non arrivano prima del 30 novembre a viale Trastevere!

Naturalmente questa oltremodo tempestiva mossa del Ministero nasconde un secondo fine, molto astuto e coerente con quanto abbiamo detto sopra: con tempi così ridotti molte scuole non riusciranno ad organizzare la formazione e quindi, ancora una volta, si riuscirà a farla franca rispetto al famoso vincolo della “obbligatorietà” della formazione. L’Italia è un Paese magnifico: ad ogni problema trova sempre una non soluzione.




La scuola italiana, un sistema senza identità

di Stefano Stefanel

Si è avviato da poco il terzo anno scolastico toccato dalle misure per il contenimento della pandemia da Covid 19. Il sistema scolastico italiano non è più quello dell’inizio del 2020, che lottava tra innovazione e conservazione mantenendo comunque, nei confronti del digitale, un’assoluta diffidenza, unita però alla spinta verso le sperimentazioni più ardite. Quel sistema scolastico sembrava avere, comunque, tre indirizzi ben precisi che ne facevano una confusa, ma percepibile identità: lotta alla dispersione scolastica, mantenimento di tutti gli elementi conservativi del sistema (esami di stato, libri di testo cartacei, orario rigido, contratti ingessati, progetti slegati dai curricoli, insomma tutto quanto la scuola ci ha mostrato negli ultimi 50 anni), spinta verso pratiche di inclusione. Dentro quel sistema l’innovazione e la ricerca didattica vivevano per spinte avanguardistiche, esperimenti locali, progetti formativi interessanti, ma poco praticati. Invece l’impressione odierna è che il sistema scolastico italiano non abbia più un’identità, anche se confusa, e sia semplicemente un’unione scomposta di indirizzi diversi e di pulsioni contrapposte. Per dare conto di questa impressione mi avventuro in alcune questioni che mi pare siano di attualità.

LA BATTAGLIA DEL (O CONTRO IL) DIGITALE

L’e-learning ha sempre avuto un alone negativo in Italia e, infatti, penetrava poco e male nel sistema scolastico italiano. I due passaggi dalla didattica sempre e solo in presenza alla Didattica a distanza e, poi, dalla Didattica a distanza alla Didattica digitale integrata sono stati il più grande esperimento formativo della scuola italiana dalla sua creazione. Sfugge pertanto perché di questo grande esperimento formativo non si vogliano conoscere contenuti, perimetri e risultati, ma si agisca in maniera assolutamente contorta vietando la Didattica a distanza anche in forma sperimentale (e confliggendo proprio con le leggi che autorizzano azioni di innovazione e sperimentazione) addirittura attraverso una legge dello stato e contemporaneamente finanziando enormi progetti di didattica digitale (per ogni progetto dei Curricoli digitali finanziato sono garantiti 180.000 euro). Quello che pare chiaro, ma incredibile, è che non si vuole tenere conto dei passi avanti fatti dalla didattica digitale, che da un lato ha favorito molti studenti e, dall’altro, ne ha fatti sprofondare altri nel baratro delle povertà educative: questo dovrebbe essere un caso di studio non di divieto, per capire in che modo molti studenti siano stati favoriti dalla didattica digitale per continuare a favorirli e dall’altro per intervenire sugli studenti deboli, con sistemi un po’ più scientifici del “tenetene conto” ministeriale della fine dello scorso anno scolastico.


Solo un sistema scolastico senza indirizzo compie azioni così contraddittorie: mentre da un lato conduce una battaglia contro la didattica digitale, dall’altro lato la finanzia copiosamente, attivando anche convegni e percorsi di formazione che mostrano i vantaggi possibile di una vera didattica a distanza, che non sia la parodia delle interrogazioni, dei compiti in classe e delle lezioni frontali fatte via video. Tra l’altro mentre gli esperti ministeriali spingono a integrare didattica in presenza e didattica digitale, gli uffici scolastici periferici vigilano attenti affinché tutto avvenga sempre e solo in presenza. Questo accade dentro una cornice di finanziamenti in cui è chiaro che ciò che importa è come si rendicontano i soldi ricevuti, non come si certificano i risultati raggiunti. Così nelle scuole arrivano montagne di soldi non facili da spendere, perché le piattaforme digitali, in cui tutto va rendicontato, sono uno strumento “nemico” di controllo. Moltissime scuole non presentano alcuna domanda per fondi PON, PNSD, Monitor 440, Povertà educative, Piano estate, ecc. per paura di dover poi sottostare alle rendicontazioni con piattaforme ostili e complesse, revisori dei conti interessati al formalismo della documentazione e non ai risultati dell’azione, segreterie che sconsigliano le progettualità perché le considerano ostacolanti il compito storico-burocratico che devono portare avanti.

UN SISTEMA CHE SI DISTRAE

Una cosa che fa sinceramente impressione è vedere la velocità con cui il sistema scolastico si distrae da compiti che nell’immediato lo appassionano. Sembra quasi che ci sia un limite di un paio di mesi per l’attenzione massima delle scuole ad un problema.
Accade così che il Ministero abbia già fissato le date dell’esame di stato conclusivo dei due cicli, ma non abbia detto come si farà. Dopo due anni di esame senza scritti dovrebbe essere chiaro a tutti che gli scritti del passato servivano solo a perdere del tempo. Ci sono però le case editrici e le associazioni professionali delle varie discipline che spingono per il ritorno degli esami scritti: le prime perché dovrebbero sennò riformare i libri di testo (tutti tesi verso l’esame e quindi ostili al concetto di curricolo, visto che i libri di testo possono accompagnare solo programmi) e questo costa molto e non fornisce alcuna certezza di incassi futuri; le seconde perché vogliono preservare la dignità delle discipline costringendo gli studenti a scrivere qualcosa su di loro durante il caldo di giugno. Poiché penso sia chiaro come la penso e poiché penso sia altrettanto chiaro che in Italia moltissimi non la pensano come me, l’unica cosa è attendere che il sistema scolastico italiano scelga tra l’innovazione (con un esame di stato simile alla tesi di laurea) e la conservazione (esame lungo, difficile e faticoso dove non viene mai bocciato nessuno, “tanto rumor per nulla”). Poiché le due idee si contrappongono e non sono applicabili contemporaneamente servirebbe uno sforzo per uscire dall’emergenza e darsi un indirizzo, ma l’impressione è che le due tendenze siano desinate a convivere fino alla fine dell’inverno e poi qualcosa verrà deciso, senza prendere comunque una posizione precisa.
Ma accade anche che sulla nuova scheda di valutazione per obiettivi della scuola primaria e sull’introduzione dell’educazione civica come materia trasversale in tutti gli ordini di scuola si sia assistito a folate formative e a slanci sperimentali che paiono già terminati. La nuova scheda di valutazione prevedeva due anni di sperimentazione nelle scuole: presto però arriva la terza scheda sperimentale dopo le due dello scorso anno e la sperimentazione è così già finita. Ci sono state un po’ di “fiammate” invernali, ma ora tutto sembra assopito, anche se molti obiettivi sono contenuti, le schede hanno assunto il non leggibilissimo “effetto lenzuolo” e abbondano gli aggettivi “appiccicati” agli obiettivi, che ne snaturano il senso.

C’è poi la vicenda, che dovrebbe essere incredibile e che invece è sotto gli occhi di tutti, della sospensione da parte del TAR del nuovo PEI con il susseguente convivere di vari indirizzi, tra attesa e volontà di modifica, con un Ministero che ha rivelato di non avere un piano B, mentre le scuole devono già compilare i documenti, perché comunque il processo del sostegno non si può fermare. Per non parlare del piano di formazione delle 25 ore, finanziato a settembre e che deve concludersi a novembre, obbligatorio ma non troppo, con procedure di spesa non modificate e segreterie interessate solo alle scadenze e non all’effettivo svolgimento di un servizio formativo necessario.
Possiamo anche citare la personalizzazione dei percorsi degli Istituti professionali introdotta nel 2019 e che non va a regime, non desta interessa, non modifica le modalità progettuali e valutative degli istituti professionali, dentro la loro grande crisi vocazionale, che fa il paio con la crisi occupazionale del paese, laddove spesso le tanto sbandierate nuove professioni sono nient’altro che una corsa verso il precariato a vita.

LA TRANSIZIONE ECOLOGICA AD EDILIZIA IMMUTATA

Il sistema scolastico italiano ha trovato un grande punto di congiunzione intergenerazionale nella transizione ecologica. Sulla questione mi pare che il “bla,bla,bla” lo diciamo tutti, Greta Thunberg e Vanessa Nakate incluse, anche perché non si mette mai in rapporto la transizione ecologica con la perdita di tantissime professioni a favore di altre, che saranno governate però dalle multinazionali, visto che gli Stati la transizione ecologica la devono comunque appaltare a qualcuno. In tutta questa questione, che unisce tutti e che tutti ci trova concordi, si vede perfettamente come il sistema scolastico italiano non abbia alcuna identità. Credo sia evidente che in almeno il 60% (se non di più) degli edifici scolastici italiani quel tipo di transizione non sarà possibile. Però, invece di avere un piano di edilizia scolastica che abbatta le scuole “non transitabili” ecologicamente e le ricostruisca nuove e belle, si continua a puntare sulle manutenzioni ordinarie o straordinarie che rifanno le scuole così come sono state pensate e progettate 50, 70 o anche 100 anni fa. Per poi magari mettere qualche pannello sul tetto e un po’ di striscioni verdi sulle vetrate.
Un piano nazionale di edilizia scolastica che abbatta gli edifici vecchi, cancelli tutte le locazioni che costringono molte scuole soprattutto nel centro sud dentro edifici non adatti, che sposino l’ecosostenibilità all’antisismicità penso si potrebbe fare con 50 dei 209 miliardi del PNRR. Invece niente, in quel piano c’è sì la banda larga anche per le scuole, anche se non si dice come arriverà sulle scrivanie delle nostre segreterie e alle LIM delle nostre classi, ma non c’è, invece, un’idea cha sia una su come devono essere le scuole del 2050 per stare al passo col mondo che cambia. A nessuno viene in mente di chiedersi come scuole progettate e costruite tra il 1950 e il 1980 possano transitare nella nuova visione ecologica degli edifici, quasi che gli architetti di quel tempo avessero già pensato al 2050-2070.

Diciamo che è impressionante stare dentro un sistema scolastico che si autocombatte, che nomina sempre l’autonomia e poi schiera le Direzioni Generali per combatterla, che si fonda sui Dirigenti scolastici ma non li valuta e non si fida di loro, che va verso una richiesta flessibile di formazione e istruzione e contemporaneamente sviluppa rigidità esiziali, che dice, insomma, di fare una cosa, ma poi ne fa un’altra.




Filosofia nei tecnici. Parliamone, ma i dubbi sono tanti

di Raimondo Giunta

Il ministro Bianchi promette l’inserimento della filosofia nel curriculum dei tecnici.
Presa così, senza approfondimenti, sembra una buona notizia.
A chi può dispiacere che si studi filosofia in tutte le scuole superiori? Bisogna, però, ragionarci seriamente.
Cercherò di elencare i problemi che si presentano ogni volta che si parla di nuove discipline soprattutto se la questione riguarda i tecnici.

 

  1. Un tentativo nel passato era stato fatto con il liceo economico; farlo passare nella mia scuola ha comportato un certo e difficile lavoro di convincimento, perchè gli insegnanti di materie professionali paventavano una riduzione delle ore di insegnamento per loro disponibili.
  2. I tecnici e i professionali ancora di più hanno gli orari settimanali più estesi e pesanti tra tutti gli istituiti superiori. Ogni nuova materia dovrebbe comportare una riduzione delle ore di insegnamento di quelle esistenti, se non si vuole rendere insopportabile la vita degli studenti.
    A mio modesto parere, orari di lezione antimeridiani di 36 ore sono umanamente impraticabili, da qualsiasi punto di vista li si voglia considerare.
    Altra cosa sarebbe ,se le scuole potessero disporre di mensa, per potere dividere in due parti l’orario delle lezioni, se i trasporti pubblici fossero finalizzati per questo scopo e se per una certa categoria di studenti pendolari le scuole fossero dotate di convitto, come avviene per molti tecnici agrari
  3. Ogni nuova materia finisce per ridefinire l’identità di un curriculum scolastico; la filosofia riporterebbe in causa la licealizzazione dei tecnici, dalla quale si è voluto fuggire con tutti i provvedimenti presi a partire dal Ministro Fioroni
  4. Ai tecnici e ai professionali manca soprattutto l’insegnamento del diritto, che campeggiava in tutti gli indirizzi sperimentali del biennio e in alcuni del triennio e che tranne negli indirizzi economici è stato fatto sparire con grave danno degli studenti e non solo
  5. Credo che bisognerebbe smettere di inventarsi ad ogni cambio ministeriale una svolta nei curricoli scolastici, che in genere funzionano se godono di una certa stabilità.
    In assenza di una riformulazione degli spazi scolastici, degli spazi di apprendimento e dei servizi necessari alla vita scolastica, ogni nuovo carico disciplinare non servirebbe a migliorare i processi formativi.

P.S. Quella mia esperienza di Liceo Economico ebbe una relativa fortuna, perché, fino a quando sono stato in servizio, non si andò al di là della formazione di una sola sezione.
Nel suo ultimo anno la prima classe di Liceo Economico del mio istituto ebbe agli esami di maturità i migliori risultati. Avevo provveduto ad assegnargli quelli che ritenevo i migliori insegnanti. Dopo debita richiesta degli stessi…




Agenda 2030: come giocarsi la credibilità dell’Educazione civica nelle nostre scuole

C’è una sostanziale inscindibilità tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, e l’istruzione permanente, vale a dire un apprendimento che accompagna l’intero arco della vita delle persone.

Non so se di questo fossero consapevoli gli estensori della legge con la quale si è reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado del nostro paese.Tra i temi che durante l’anno scolastico le nostre ragazze e i nostri ragazzi dovranno studiare c’è appunto questo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.Nutro il sospetto che il legislatore avesse un’approfondita consapevolezza dei contenuti di questa Agenda, forse più affascinato dagli obiettivi della sostenibilità che interessato a conoscere effettivamente le pratiche richieste per la loro realizzazione dai diversi soggetti promotori dell’Agenda, dall’Onu all’ Unesco.
Questo potrebbe diventare un terreno molto sdrucciolevole per la credibilità e l’efficacia formativa dell’ Educazione civica come materia, dico subito perché e vedrò di spiegarlo meglio di seguito.L’Agenda 2030 avendo un obiettivo proiettato nel tempo costituisce un lavoro in progress, per questo studio e riflessione dei suoi contenuti richiederebbero di ritrovare poi una corrispondenza in quanto si va costruendo nell’ambiente sociale in cui le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono immersi e la scuola opera.
L’Agenda 2030, come sappiamo, si propone di assicurare ambienti di vita sostenibili per le generazioni presenti e per quelle future, ha come obiettivi, tra gli altri, di assicurare un’istruzione di qualità, promuovendo opportunità di apprendimento permanente a partire dal governo delle città.Nel nostro paese di Città che Apprendono, di Città della Conoscenza non se ne parla, fatta eccezione per rari casi che si contano sulle dita di una mano. E già qui si pone il problema della coerenza tra ciò che pretendiamo che i nostri ragazzi studino e i luoghi che abitano.
Del ruolo delle città, in particolare delle città che apprendono, le “learning cities”, nel perseguire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile se ne è parlato in conferenze internazionali con la partecipazione di sindaci, amministratori di città di tutto il mondo, dirigenti scolastici, esperti di apprendimento, rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, di settori privati, di organizzazioni regionali, internazionali e della società civile, a cui dubito che l’Italia abbia mai partecipato: Pechino nel 2013, Città del Messico nel 2015, Cork, in Irlanda, nel 2017, Medellín, in Colombia, nel 2019.Conferenze che si sono sempre concluse con Dichiarazioni nelle quali viene ribadito il ruolo centrale dell’apprendimento permanente come motore della sostenibilità ambientale, sociale, culturale ed economica.
Le città che apprendono sono per l’Onu e l’Unesco lo strumento principe per la realizzazione concreta degli obiettivi posti da qui al 2030 dall’Agenda, ora anche oggetto di studio nelle nostre scuole.
Ma la prima incongruenza nasce dal constatare che nessuno dei nostri governi nazionali, fino ad oggi, ha fornito le condizioni fondamentali e le risorse sufficienti per costruire città che apprendono capaci di promuovere inclusione e crescita.
L’idea di educazione permanente praticata nel nostro paese è a dir poco obsoleta, modellata com’è su una concezione dell’istruzione ancorata a categorie del secolo scorso.Non solo oggi è necessario che l’istruzione permanente pervada tutta la vita delle persone, ma anche l’intero impianto del sistema formativo del paese.
Ora è il governo della città a costituire il fattore chiave per sbloccare tutto il potenziale della comunità urbana, attraverso l’importanza dell’apprendimento permanente, per assicurare ambienti di vita sostenibili alle generazioni presenti e future.
Ma anche qui parliamo il linguaggio della luna. Se le nostre città non provvedono a divenire città che apprendono sarà proprio lo studio dell’Agenda 2030, nell’ambito dell’educazione civica, a far scoppiare le contraddizioni, che già le giovani generazioni con Greta denunciano.Eppure si potrebbe fare se solo attori pubblici e privati, settori delle città e delle comunità, compresi istituti di istruzione superiore e di formazione, nonché i rappresentanti dei giovani si riunissero in partenariato per promuovere l’apprendimento permanente a livello locale al fine di garantire che tutte le generazioni siano coinvolte nel processo di crescita della città che apprende.Gli strumenti non mancano, dalla rete Unesco delle città che apprendono alla Dichiarazione di Città del Messico del 2015 che fornisce una lista di controllo completa dei punti di azione per migliorare e misurare il progresso delle città che apprendono.
La cosa stravagante del nostro paese è che tante sono le nostre città riconosciute come patrimonio dell’Unesco, ma nessuna di loro aderisce alle Rete delle “Learning cities” dell’Unesco, né, tanto meno, è  impegnata a perseguirne gli obiettivi, a partire dalla città in cui vivo secondo l’adagio latino: nemo propheta in patria.È probabile che dovremo attendere la generazione degli amministratori istruiti alla scuola della nuova Educazione civica, sempre che decolli, ma temo che entro il 2030 non ce la faremo




Dall’alternanza scuola lavoro ai PCTO – Un ricco vademecum

di Antonella Mongiardo

Con la legge 107/2015, l’alternanza scuola-lavoro non è più occasionale, ma diventa strutturale e obbligatoria per gli studenti frequentanti il secondo biennio e l’ultimo anno di tutti gli istituti secondari di secondo grado.
La normativa prevede che per gli ultimi tre anni della scuola superiore debba essere previsto nel Ptof un percorso “per lo sviluppo di competenze trasversali e per l’orientamento”, che può essere svolto in un’azienda, in un ente pubblico, in un strutture di tipo culturale, come musei e biblioteche, e anche all’estero.
Il progetto o i progetti di alternanza inseriti nel Ptof vengono declinati e attuati dai singoli Consigli di Classe, che dovranno predisporre i singoli percorsi formativi personalizzati tenendo conto dei loro interessi e delle loro attitudini.

In allegato un ampio e dettagliato vademecum sull’argomento

 




Crocifisso sì, crocifisso no. La soluzione: non togliere, ma aggiungere

di Aluisi Tosolini

Pochi giorni fa la sentenza della Cassazione a sezioni unite (la numero 24414) ha posto fine ad una diatriba giudiziaria iniziata nel 2009 ma soprattutto ad una questione culturale che da decenni attraversa la società italiana.

Il nodo del contendere è il crocifisso  nelle aule scolastiche: imposizione che confligge con la laicità della scuola di uno stato laico in cui non può esistere una religione di stato oppure espressione di un sentire comune radicato nel nostro Paese e simbolo di una tradizione culturale millenaria?

La sentenza della corte suprema scrive: «L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso cercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi».

Aggiungere, non togliere

Anni fa, quando curavo la rubrica di educazione interculturale per il sito Pavonerisorse avevo dato conto dell’evoluzione dei punti di vista su questo tema segnalando come sia i primi documenti ministeriali sull’educazione interculturale prodotti dalla Commissione Ministeriale (si veda http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/ ) che il documento del 2007 dell’Osservatorio (La vita italiana le la scuola https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf) affrontano con chiarezza e stile innovativo il tema della compresenza di religioni diverse nella società e quindi nelle classi delle scuole italiane.
La proposta di cui mi fece portatore allora si riassume nella frase: “aggiungere, non togliere” che è la sintesi anche della posizione espressa dalla consulta.

In tema di religione e di identità religiosa non esiste infatti una possibile sintesi tra diverse esperienze ognuna delle quali si presenta come “verità”. Neppure è possibile ridurre l’esperienza religiosa al privato di una singola persona: la religione non è, infatti, soltanto un’esperienza interiore, ma ha anche una dimensione più ampia, sociale, culturale, materiale che coinvolge l’intera società.

Dove sta dunque la soluzione? Nell’impegno al rispetto dei credo altrui e nell’impegno comune a costruire una società che luogo della convivialità delle differenze dove tutti e ognuno si sentono a casa.
I bambini e le bambine nelle classi multiculturali della scuola italiana stanno imparando a vivere e a costruire assieme una società in cui tutti possano sentirsi a casa anche se con differenti culture e con differenti religioni. Per questo è fondamentale conoscere le diverse esperienze religiose dei propri compagni: solo così sarà possibile comprendersi e rispettarsi vicendevolmente. La scuola è il luogo della alfabetizzazione, ovvero il luogo dove si impara a scrivere, leggere e far di conto, ma anche a vivere assieme impegnandosi per il bene comune. La mancata conoscenza delle diverse religioni e dei vissuti che le stesse richiamano è una forma di analfabetismo che ha conseguenze negative sul presente e sul futuro del- le nostre società glo-cali fondate su doveri e diritti condivisi.

La dichiarazione universale dei diritti umani

La stessa posizione espresse anche uno dei massimi studiosi di diritti umani e fondatore del centro dei Diritti umani dell’università di Padova, Antonio Papisca.
Commentando l’articolo18 della dichiarazione universale dei diritti umani (Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti) Papisca scrive che ci troviamo di fronte al triangolo sacra della dichiarazione.
Per Papisca l’articolo 18 va letto insieme con l’articolo 1 ( “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”) perchè i due articoli contengono la parte per così dire sacrale dell’intera Dichiarazione universale. I soggetti di riferimento sono, ovviamente, tutte le persone umane, quindi ‘credenti’, ‘non credenti’, ‘atei’, ‘agnostici’. Pensiero, coscienza, religione: è il triangolo valoriale di più denso spessore etico, che qualifica la soggettività giuridica originaria della persona umana la cui retta coscienza (foro interno) è vero tribunale di ultima istanza dei diritti.

L’articolo 18 pone in relazione fra loro tre libertà, che sono sia “da” (interferenze e limitazioni) sia “per” (la realizzazione di percorsi di vita con assunzione di responsabilità personale e sociale). E’ il caso di sottolineare che queste tre libertà si riferiscono all’essere umano integrale – fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia – e sono pertanto interdipendenti e indivisibili rispetto a tutti gli altri diritti fondamentali. Però con una caratteristica peculiare. Gli altri diritti possono essere distrutti dall’esterno: si pensi al diritto all’alimentazione o al diritto all’assistenza pubblica in caso di necessità o al diritto al lavoro. Non è così per i tre diritti dell’articolo 18, essi hanno una intrinseca forza di resistenza, possono essere combattuti, contrastati, ma sopravvivono comunque: più forti della morte. Mi possono mettere in carcere, possono combattere la mia religione, ma le mie idee, la mia fede, la mia coscienza rimangono intatte. Al dittatore, al carnefice si può sempre gridare: dov’è la tua vittoria?

Rimandando al testo originale di Papisca per le altre considerazioni (https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Articolo-18-Libere-coscienze/22 ) basti qui rileggere quanto scrive a proposito dei simboli religiosi:  C’è anche dibattito sui simboli religiosi a scuola e in altri luoghi pubblici. C’è chi vuole togliere il Crocifisso dalle pareti motivando che nella scuola pubblica aumenta il numero di studenti di religione diversa dalla cristiana. La mia personale risposta è: non togliere, ma aggiungere. Non estirpiamo radici di grandi culture, al contrario motiplichiamole: la condizione della loro compatibilità è che tutte siano compatibili con il codice universale dei diritti umani, a cominciare dall’articolo 1 della Dichiarazione universale. Laicità non significa “togliere” valori, fare tabula rasa. Laicità significa pluralismo e rispetto reciproco. La laicità dello Stato si misura con gli indicatori che si riassumono in “tutti i diritti umani per tutti”, e tra questi, c’è appunto il diritto alla libertà religiosa”.

Per una scuola delle differenze

Spero che la soluzione proposta dalla Cassazione venga accolta da ogni singola scuola: far sì che nel rispetto di tutte le diverse posizioni (credenti, non credenti, atei, agnostici) a scuola ogni studente possa ritrovare il riferimento simbolico anche alla propria fede. Solo così può sentirsi a casa e solo così ognuno può impegnarsi per la costruzione di una casa comune delle differenze dove tutti si sentano a casa lavorando nel contempo per il bene comune.
Personalmente credo anche utilissimo creare, all’interno di ogni scuola (così come di ogni spazio pubblico), l’equivalente della stanza che  nel 1957 il segretario dell’ONU Dag Hammarskjöld volle al palazzo di vetro. Una stanza del silenzio e della meditazione come luogo di raccoglimento per tutte le fedi (https://www.un.org/depts/dhl/dag/meditationroom.htm).

Un segno che la scuola è capace di anticipare e costruire la società di domani dove tutti possano vivere la propria esperienza religiosa rispettando le altre posizioni in merito di religione apportando nel contempo il proprio contributo alla costruzione della convivialità.
Dove non si toglie, ma si aggiunge.




PNRR, Mission e Cultura

di Giovanni Fioravanti

Il sistema istruzione del paese funziona male, ormai è molto tempo che mostra segni di invecchiamento tanto da far presagire il suo esaurimento, dunque non è questione né di Covid  né di Dad.
Ora però siamo di fronte ad una svolta, il governo ha licenziato il PNRR che contiene quattro macro mission, dieci riforme e dodici investimenti per oltre diciannove miliardi  con l’obiettivo del “Potenziamento  dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università”, da realizzare da qui al 2026.

Asili nido, tempo pieno e mense, riduzione dei divari territoriali nella formazione, riforma degli istituti tecnici e professionali, sviluppo degli istituti tecnici superiori, riforma del sistema di orientamento. Nuove competenze e nuovi linguaggi, sviluppo del digitale e della didattica integrata, nuove aule didattiche e laboratori, riqualificazione dell’edilizia scolastica. E in fine riforma dell’organizzazione del sistema scolastico, riforma del sistema di formazione e reclutamento dei docenti.

Ma sorge un interrogativo: con quale cultura?
La cultura di un sistema formativo morente? Quali modelli? Quale idea di istruzione?
Il problema della cultura è rilevante in tutto il mondo.

Il nostro sistema scolastico è entrato nell’epoca della conoscenza con cui si è aperto questo secolo senza colpo ferire, sempre uguale a se stesso, come se il tempo fosse da sempre fermo.
Un treno con vagoni importanti al suo seguito, la media unica, la scuola di massa, la scuola a tempo pieno, i Decreti Delegati, la scuola della legge 517 del 1977: la scuola di tutti, la scuola del lavoro collegiale dei docenti,  la scuola senza voti. Il sistema integrato zero-sei, l’autonomia scolastica.
Un treno su cui sono saliti personaggi come Loris Malaguzzi e Sergio Neri, Bruno Ciari, Don Milani e Mario Lodi. Ma in prima classe continuavano a sedere Gentile, Croce e Maritain, poco disposti a cedere il posto ai Piaget, agli Erikson, ai Bruner. Un treno di merci vecchie su cui si sono gettate, di volta in volta, quelle nuove un po’ alla rinfusa e con poca convinzione. Un treno ancora con le carrozze di prima: i licei, di seconda: gli istituti tecnici e, in fine, di terza, quelle con i sedili di legno, per la formazione professionale. Un treno che per troppi territori ha viaggiato a scartamento ridotto e che ancora perde passeggeri lungo il suo percorso. Un treno senza dubbio non attrezzato per attraversare le regioni della complessità, paradigma del nostro tempo.

Capitale umano non è una parolaccia, non è che persona e cittadino soggetti formativi del le nostre scuole siano meglio. Di fronte alla complessità l’umanità per salvarsi ha bisogno di capitale umano e il valore del capitale umano si misura in conoscenza. La centralità della conoscenza non perché funzionale al mercato ma perché funzionale alla nostra vita.
Veniamo dal secolo, quello scorso, dell’informazione e della formazione, abbiamo visto che nonostante l’enfasi attribuita a queste parole, esse servono a ben poco se non si traducono in conoscenza e da conoscenza in competenza, in padronanze per vivere, per dominare la nostra realtà, quella che ci circonda e quella che condividiamo con gli altri.

La conoscenza non è qualcosa che risiede a scuola, solo uno stupido potrebbe oggi coltivare un’idea simile. La conoscenza è ovunque, dalle reti del web al mondo universo, ovunque rintanata e ovunque si fa scoprire; scuole, biblioteche, musei, teatri e cinema ci offrono gli strumenti per conoscere, ce li insegnano, permettono di esercitarci nel loro uso, ma poi non c’è nulla della nostra vita che non sia conoscenza da farsi in proprio, da ricercare di continuo. Allora abbiamo necessità di apprendere da subito ad usare gli strumenti della conoscenza, da quando apriamo gli occhi sul panorama del mondo, su questo libro che non finiremo mai di sfogliare e di studiare, che passeremo agli altri dopo di noi, perché continuino a sfogliarlo e a studiarlo come hanno fatto quelli che sono venuti prima e ci hanno lasciato le loro pagine.

Dobbiamo assumere delle categorie nuove, degli a priori kantiani.
La conoscenza, lo studio, l’apprendimento appartengono a un tempo che mai ci abbandona, che ci sta addosso. Possiamo apprendere in tanti modi, gioiosi come quelli dei bambini, faticosi come quelli dell’adulto che si misura con la complessità, con le sfide di ciò che ancora non conosce, anche noiosi, poco interessanti, ma necessari.  Ma un concetto ci deve essere chiaro e cioè che l’apprendimento è permanente, che ha bisogno del nido per arrivare all’università ed oltre. Quando dico nido e università non penso alle istituzioni, penso a tappe della vita. Penso che darsi come obiettivo di giungere al 33% di bambini che frequentino l’asilo nido, anche se target europeo, equivale comunque ad accettare ancora per molti anni che nel nostro paese solo il 29% dei giovani tra i 25 e i 34 anni sia in possesso del diploma di laurea. La società dell’educazione permanente è la società del cento per cento.

Uscire dall’idea dell’istruzione come servizio sociale, acquisire un concetto maturo, universale, radicale di diritto allo studio, che non tollera limiti, che ha origine alla nascita come il respirare,  il nutrirsi e l’essere accuditi. La società della conoscenza dell’Europa di Lisbona del 2000 ha introdotto l’apprendimento per tutta la vita, non certo nell’ottica mercatistica di recuperare nuove competenze al lavoro, ma con l’dea di rompere con il concetto dell’ istruzione istituzionalizzata, statica, ingessata, unidirezionale dalle scuole alle università.

Nella società del capitale umano l’apprendimento inizia con la nascita e dura per tutta la vita, i luoghi di studio e di sapere sono luoghi aperti, di relazione permanente con il territorio e la vita delle persone, non conoscono chiusure, luoghi di flessibilità e non di rigidità, luoghi di accompagnamento e non di mortificazione, luoghi di valorizzazione e di condivisione, luoghi non di giudizio ma di comprensione, luoghi di crescita insieme, costante continua, luoghi di accudimento dei saperi.  Luoghi in cui non ci si dispera se si apprende a distanza perché la qualità degli apprendimenti e delle relazioni non ne risentono essendo luoghi dove l’apprendimento è organizzato e diffuso ovunque, dove le città che apprendono, che affondano le loro radici nel sapere diffuso, nella cultura e creatività dei loro abitanti sono considerate luoghi normali di vita e di costume.
Se i miliardi del Recovery Fund li spenderemo mantenendo i paradigmi del  ‘900 saranno soldi buttati via, spesi per inutili cattedrali nel deserto.
Insegnamento e apprendimento sono state le parole chiave della seconda metà del novecento per impossessarsi  attraverso discipline e curricoli del patrimonio di conoscenze già accumulato. Ora la parola chiave è l’apprendimento permanente, la società della conoscenza dove tutto deve essere al servizio di ciascuno per essere in grado di apprendere ciò che ancora non conosciamo, non ciò che ci sta alle spalle, ma ciò che ci sta davanti e ancora non vediamo. Dobbiamo immagazzinare il nuovo e saperlo andare a scoprire là dove si rintana, abbiamo bisogno degli attrezzi cognitivi per fare questo. Questo non è un compito da comunità educanti, ma è il compito di società che nelle loro politiche e in ogni aspetto della loro organizzazione sono strutturate per dare centralità alla formazione, alla conoscenza, alla cultura necessaria a nutrire il capitale umano, l’unica vera risorsa di cui possa disporre oggi l’intera umanità. Società della conoscenza dove scuole e istituzioni culturali sono parte di una rete di apprendimento permanente che ne costituisce il tessuto connettivo.

Se sarà questa la cultura e la consapevolezza con cui affronteremo le mission  per il “Potenziamento dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università” del PNRR, potremo sperare di far entrare il nostro sistema formativo a pieno titolo nella società della conoscenza, nell’epoca della conoscenza del ventunesimo secolo. Ma l’interrogativo con quale cultura resta aperto, con molte ombre e preoccupazioni, perché ciò che non è stato curato finora è proprio la cultura e il tempo per recuperare il tempo perduto potrebbe essere scaduto.