Lo strano caso degli istituti comprensivi, la crisi infinita della scuola media e l’ignavia della politica

Stefaneldi Nicola Puttilli

Nel bel convegno organizzato da ANDIS a Jesolo lo scorso 29 ottobre il presidente di INVALSI Roberto Ricci ha ancora una volta ricordato come la scuola primaria italiana non sfiguri affatto nei confronti internazionali, mentre si registra una caduta verticale non appena il riferimento ricade sui dati relativi alla scuola secondaria di primo grado. Nell’intervento immediatamente successivo la prof.ssa Barbara Romano di Fondazione Agnelli (entrambe le relazioni sono visibili nell’area riservata del sito dell’associazione) ha illustrato in modo dettagliato numeri, condizioni e caratteristiche di questa crisi ormai più che ventennale, esito di una ricerca recentemente pubblicata.

Così come più che ventennale è l’istituzione dei primi istituti comprensivi, nati a metà degli anni ’90 come risposta al progressivo spopolamento di alcune specifiche e circoscritte aree del Paese (comuni montani, piccole isole, ecc.).
In poco più di un ventennio quella che era un’esperienza di nicchia legata a condizioni del tutto particolari è diventata la forma organizzativa largamente prevalente nella scuola di base, verosimilmente destinata ad ulteriori incrementi, fino a rendere di fatto residuali direzioni didattiche e scuole medie autonome.

Il tutto senza riferimenti normativi particolarmente significativi se si considera che quello più rilevante può essere considerato il DL 98 del 6.7.2011 dall’eloquente titolo “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” (neanche successivamente confermato dal Parlamento), scritto in tutta fretta dal governo Berlusconi in risposta alla famosa lettera a firma congiunta Commissione Europea – BCE, nel tentativo disperato di frenare la crisi economica dilagante.

Per il resto la L 97/94 ne decreta la nascita nell’ambito, come già detto, delle misure sulla “tutela delle zone di montagna”, mentre la crescita esponenziale di questo modello organizzativo è dovuta sostanzialmente al DPR 233/98 relativo a norme sul dimensionamento delle istituzioni scolastiche. Nessuna analisi né motivazione di ordine pedagogico nelle norme citate. Eppure, laddove nulla ha potuto la L 30/00 con il suo disegno complessivo di riforma è stato l’intervento fin troppo determinato di comuni e regioni (comunque ben assecondato dai vari governi in carica) a modificare sostanzialmente in pochi anni il panorama organizzativo (e non solo) della nostra scuola di base.

In realtà le prime esperienze di comprensivo erano nate in condizioni quasi sperimentali, in contesti fortemente motivati e protetti, con attenzione prioritaria alle variabili di ordine pedagogico, a partire dalla non semplice costruzione di un curricolo verticale, come base e premessa dei cambiamenti organizzativi.

I due ordini di scuola venivano del resto da storie e vissuti molto diversi: oltre un ventennio di riforme nate dal basso e in buona misura metabolizzate dalla scuola primaria (L 820 sul tempo pieno, L 517 sulla valutazione formativa, nuovi programmi dell’85, buona attitudine alla formazione in servizio), mentre la scuola media era sostanzialmente rimasta quella delle “vestali della classe media” così ben descritte da Barbagli e Dei nel loro saggio degli anni ’70, con riforme che pur ci sono state in analogia con quelle della scuola primaria (tempo prolungato, programmi del ’79) ma che non hanno inciso in modo sostanziale sul reale modo di essere di questo ordine di scuola.

Nonostante tutto ciò il messaggio lanciato dal comprensivo è risultato suggestivo e accattivante: come rispondere alle sacrosante esigenze di continuità e alla crisi, già nettamente percepita, della scuola media senza intervenire formalmente sugli ordinamenti, materia sempre scottante anche sul piano ideologico e soprattutto senza toccare lo stato giuridico, e i conseguenti aspetti retributivi, del personale docente. Una volta scongiurato il “pericolo” della L 30 il personale (e i sindacati) della scuola hanno accettato come male minore le proposte (a volte folli più che stravaganti) degli enti locali sul dimensionamento, purtroppo entusiasticamente sostenuti (non sempre per fortuna) da dirigenti scolastici in vena di manie di grandezza.

E’ del tutto ovvio e generalmente condiviso che una reale continuità didattica, curricolare, organizzativa possa essere di grande giovamento ai due ordini di scuola e in particolare a quello che si trova in maggiore difficoltà e il modello originale di comprensivo offriva per intero questa potenzialità. Il fatto di nascere “dal basso” ne costituiva, inoltre, un ulteriore punto di forza. La continuità, tuttavia, non si ottiene magicamente mettendo semplicisticamente  insieme due pezzi di scuola che, tra l’altro, per decenni non si sono parlati, guardandosi  spesso con sospetto e diffidenza.

Chi ha effettivamente lavorato su una vera continuità sa che si tratta di un percorso lungo, faticoso e delicato che deve essere costantemente guidato e supportato e che richiede, per avere successo, alcune condizioni di contesto e di fattibilità. Almeno su alcune di queste si sarebbe dovuto intervenire prima di procedere (o al limite contestualmente) ai massicci processi di accorpamento ai quali abbiamo assistito e alla quasi generalizzazione degli istituti comprensivi:

la continuità tra i flussi di alunni e la dimensione delle autonomie scolastiche.
Viene meno la continuità del progetto educativo elaborato congiuntamente se gli alunni della scuola primaria, per ragioni di vicinanza ad esempio, vanno a frequentare la scuola media di un’altra autonomia scolastica. La dimensione dell’autonomia è inoltre un fattore cruciale: i parametri delineati dal DPR 233/98 (tutt’ora in vigore, di norma tra 500 e 900 alunni) consentono un confronto non solo formale nell’ambito del Collegio dei docenti e al dirigente scolastico l’esercizio di quella leadership educativa e relazionale che tante ricerche hanno dimostrato essere elemento centrale nel buon funzionamento della scuola e nei relativi esiti.
Nella gran parte dei dimensionamenti realizzati che hanno portato alla formazione degli istituti comprensivi non si è assolutamente tenuto conto di questi fattori. Nei contesti a forte urbanizzazione in particolare, sovente non è rispettata la continuità dei flussi e l’accorpamento si è spesso verificato mettendo semplicemente insieme una direzione didattica e una scuola media, a volte neanche la più vicina. Altre volte si è proceduto alla scomposizione della direzione didattica assegnando i relativi plessi a diverse scuole medie. In ogni caso l’esito conclusivo è stato quasi sempre il raddoppio della popolazione scolastica, con medie intorno ai 1500 alunni, delle singole autonomie (peraltro in molti casi, come in Piemonte, già perfettamente dimensionate ai sensi di legge) quasi fosse vanto dell’assessore di turno procedere al maggior numero di accorpamenti possibile (nelle superiori è andata anche peggio con la creazione di mostri di 2500/700 alunni, per i dirigenti scolastici è un altro lavoro).

Le condizioni di lavoro, lo stato giuridico e il trattamento retributivo del personale docente.
A oltre un ventennio dall’istituzione dei primi comprensivi continuiamo ad assistere al paradosso dell’insegnante che lavora di più pagato meno di tutti. Sempre da un ventennio circa per tutti i docenti è prevista la formazione universitaria, ma un’insegnante di scuola dell’infanzia con 25 ore settimanali di insegnamento (certo non meno impegnativo degli altri ordini di scuola) guadagna meno dell’insegnante di scuola primaria che di ore ne ha 22+2 di programmazione e ancora meno dell’insegnante di scuola media il cui orario di cattedra è di 18 ore (senza programmazione, evidentemente serve solo nella primaria, mentre nella costruzione di una realtà così complessa e innovativa sarebbe una condizione irrinunciabile).

– Il piano strategico della formazione.
La situazione generale della nostra scuola per come emerge dai confronti internazionali e per le forti disparità che la caratterizzano, richiederebbe un’azione di formazione qualificata e permanente in tutti gli ordini di scuola e in particolare nella secondaria per quanto concerne gli aspetti pedagogici, psicologici e relazionali. La costituzione degli istituti comprensivi avrebbe a sua volta richiesto un parallelo percorso di formazione particolarmente centrato sulla continuità curricolare.

L’idea di istituto comprensivo, per quanto nata per e in contesti specifici e particolari, si è ben presto rivelata un’idea di successo apprezzata dal personale della scuola, contrariamente a leggi di sistema che intervenivano in modo più completo e organico sugli ordinamenti e le prime esperienze lasciavano intravvedere interessanti sviluppi sia sul piano organizzativo che sul piano pedagogico e didattico. L’aver praticamente identificato il percorso del comprensivo con quello del dimensionamento, senza minimamente curarne le condizioni di fattibilità (corretta dimensione e rispetto dei flussi di continuità, omogeneizzazione delle condizioni di lavoro e di stato giuridico del personale, congruo tempo per la progettazione e la programmazione comune tra ordini di scuola, formazione mirata e qualificata) rischia di bruciare nel caos e nella frustrazione un’esperienza che avrebbe potuto essere vincente (si aggiunga, non ultimo per chi lo deve gestire, il caos generato dai processi amministrativi diventati molto più complessi senza alcun adeguamento del personale).

Quanto ai dimensionamenti è impossibile tornare indietro, ma è doveroso considerare con attenzione estrema quelli futuri e correggere le distorsioni più evidenti e insostenibili, per il resto le risorse ci sarebbero anche, quello che manca è un po’ di visione e di volontà politica, anche nel contrastare le resistenze “a prescindere” di parte del personale.

Cura, accompagnamento, supporto e qualche solido finanziamento per un serio percorso di formazione e per l’adeguamento e l’omogeneizzazione dello stato giuridico e del trattamento economico del personale. Invece si è colta l’occasione di ulteriori risparmi con la soppressione, senza condizioni, di centinaia di autonomie scolastiche, con l’alibi più o meno consapevole della continuità didattica. A quanto pare la scuola media non è migliorata, speriamo non peggiori la scuola primaria.




Contratto scuola: “adeguamento” e “aumento” non sono sinonimi

di Gianfranco Scialpi

Quando si parla del cntratto scuola, “adeguamenti” e “aumenti” sono spesso utilizzati come sinonimi.
Facendo chiarezza, si comprende la realtà sconsolante nella quale si trova il docente italiano

Contratto scuola, facciamo chiarezza sui termini

Contratto scuola. Riguarda la categoria più numerosa del pubblico impiego. Purtroppo, il patto è regolato dal D. Lvo 29/93 che purtroppo impedisce di sognare cifre esagerate. Le dichiarazioni e il dibattito pre-contrattuale è viziato da una certa confusione sulla terminologia usata. In altri termini si presentano come sinonimi adeguamenti e aumenti. Il primo ha un riferimento molto preciso: il tasso d’inflazione programmata (D.Lvo29/93) da non confondere con quella reale, sempre maggiore. Il secondo invece fa riferimento a risorse superiori al costo della vita reale. Pertanto, per il pubblico impiego e quindi anche per la scuola, non parliamo di mancati aumenti, bensì di graduale perdita d’acquisto. Il concetto rimanda alla possibilità di acquistare un determinato numero di beni e servizi con un certo reddito. Il potere d’acquisto è correlato all’inflazione. Se i prezzi aumentano (inflazione reale) e il reddito rimane inalterato, allora la nostra possibilità di acquistare gli stessi beni si riduce. Da qui si comprende il graduale impoverimento dei docenti che purtroppo dura da quasi trent’anni. Si comprendono i confronti impietosi
Un lavoro condotto dal Centro Studi Nazionale della Gilda, spazza via ogni alibi. Abbiamo perso tanto. Si legge “In 10 anni gli stipendi dei docenti italiani sono calati mediamente del 7% rispetto all’andamento dell’inflazione. Tradotto in altri termini, significa che dal 2007 a oggi le buste paga mensili si sono alleggerite di circa 170 euro lordi.”
Impietoso diventa il confronto con i paesi europei. Si legge sul sito del sindacato Anief: “In Germania e in Francia le cose sono andate ben diversamene. Il lavoratore dipendente tedesco nel 2010 godeva già in media di una retribuzione lorda più alta di quello italiano, collocandosi a quota 35.621 e nel 2017 è salito di ben 3.825 euro quota 39.446 euro. Anche il lavoratore francese nel 2010 guadagnava di più del nostro – era a quota 35.724 – e nel 2017 porta a casa il 5,3 per cento in più collocandosi a 37.622 euro”.




La scuola perde colpi, è troppo autoreferenziale, Don Milani e il ’68 non c’entrano nulla

di Giovanni Fioravanti
(per leggere altri interventi dell’autore vai al suo sito Istruire il futuro)

Pare che le ricette per cambiare l’istruzione non manchino al pensiero ben pensante. Azzerare tutto e portare indietro la macchina del tempo, c’è chi invoca cattedre e predelle e chi il ritorno al riassunto nell’epoca degli abstract. Ben pensanti che neppure si preoccupano di visitare il sito della Fondazione Agnelli dedicato alla Scuola, giusto per tentare di aggiornare i loro archetipi al fine di diradare le nebbie che offuscano la loro navigazione.

Scrivere di istruzione richiederebbe di disporre di una buona cultura almeno in scienze dell’educazione, quelle che in tutto il mondo da decenni hanno soppiantato la pedagogia. Bisognerebbe conoscere la psicologia dell’apprendimento, un po’ di docimologia, un po’ di ricerca educativa, sempre di scarso interesse nel nostro paese persino per la formazione dei docenti dalle scuole medie in su.

Immaginare di trattare più di mezzo secolo di storia del nostro sistema formativo come se il tempo, il mondo, la società fossero stati pietrificati intorno ad esso, denuncia una concezione della scuola come corpo a se stante, come tempio incontaminato, come luogo degli otia studiorum che non si sporca le mani con le cose prosaiche come il lavoro e le altre necessità materiali. Chi osa aprirne le porte come pretenderebbero di fare l’Invalsi e le indagini Pisa dell’Ocse altro non è che un profanatore del tempio e dei suoi sacerdoti.

Se qualcuno l’ha dimenticato, a scuola si va con il corpo e la mente, il primo dovrebbe trovarsi a suo agio, la seconda andrebbe impiegata in un continuo allenamento. Raffaele Simone, il linguista, alcuni anni fa nel suo libro “Presi nella rete. La mente ai tempi del web” ha sottolineato come la tecnologia, modificando il nostro modo di comunicare, ha trasformato il nostro modo di usare il corpo e la mente.

Il libro è del 2012 come le “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”, che sono legge dello stato. Ci sta scritto che lo scenario è così cambiato che l’apprendimento scolastico altro non è che una delle tante esperienze di formazione che bambini e adolescenti vivono e che spesso per acquisire competenze specifiche non vi è bisogno dei contesti scolastici. C’è anche scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende (vedi: corpo e mente), non dagli insegnanti e dai programmi, ma dal piccolo o dall’ adolescente in carne ed ossa che hai di fronte, con cui dovresti stipulare un patto formativo per garantirgli l’originalità del suo percorso individuale come prescritto dalle stesse “Indicazioni nazionali”.

Dewey ci ricorda che il fine dell’istruzione è quello di andare incontro alla società: «Ogni qualvolta ci proponiamo di discutere un nuovo movimento nell’educazione, è particolarmente necessario mettersi dal punto di vista più ampio, quello sociale».

È mettersi dal punto di vista sociale che il nostro sistema di formazione non sa fare. Quando la società e con essa gli individui cambiano e l’istruzione resta immutata in se stessa, allora si crea il cortocircuito con i diritti delle persone, in particolare delle nuove generazioni, correndo il rischio di vendere merce avariata ai nostri giovani, come dimostrano le indagini nazionali e internazionali sul nostro sistema formativo.

Se i giovani escono dalle nostre scuole impreparati non è colpa né della media unica né di Barbiana né delle lettere alle professoresse, ma del fatto che nel corso degli anni si è accresciuto il distacco tra il nostro sistema di istruzione e lo sviluppo della conoscenza, due funzioni sociali che si muovono a velocità differenti.

La scuola ha perso sempre più terreno rispetto alla rivoluzione spettacolare prodotta dalle nuove tecnologie della comunicazione e dallo sviluppo impetuoso della mediasfera.

L’abbiamo toccato con mano con l’emergenza della didattica digitale, della didattica a distanza. Tenersi al passo con un’evoluzione tecnologica e cognitiva inarrestabile è un enorme impegno. Come conseguenza la scuola risponde guardando al passato, limitandosi a trasmettere un pacchetto ben delimitato di conoscenze, pochi ben definiti saperi, tenendosi alla larga da due meccanismi che oggi sono invece essenziali: il veloce processo di accrescimento della conoscenza e la diffusione di metodologie di accesso ai depositi della conoscenza. Invece di essere il luogo dell’incontro con la conoscenza e della sua prima elaborazione, la scuola si ripiega su se stessa difendendo cattedre, discipline e trasmissione del sapere, per proteggersi dalla conoscenza, dal suo fluire, dal suo accrescersi che preme alle sue porte.

Siamo un paese di retori e di retorica, di buone oratorie ma di pessime cattedre. Non sappiamo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema di istruzione che ormai da troppo tempo accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi e nelle sue strutture. Se ne discetta da decenni, ma non abbiamo ancora chiarito per quale idea di scuola debbano essere formati gli insegnanti, per quali finalità dell’istruzione sono chiamati a lavorare.

In giro per il mondo gli argomenti che hanno preso il centro della scena trattano di come i giovani imparano meglio nel 21° secolo, di come rendere le scuole i catalizzatori del loro impegno per il sapere e la cultura, di come i giovani possono scegliere di imparare, di quanto la motivazione e l’amore per l’apprendimento significano nel contesto della scuola, di come dare più enfasi al coinvolgimento degli studenti nella scelta e nelle modalità dei loro percorsi formativi.

Siamo tornati al divorzio tra scuola e società, non si tratta di una distanza di classe come nel passato, ma della distanza tra bisogni culturali diversi che determina una nuova forma di discriminazione tra chi può soddisfarli e chi no.

La scuola si è chiusa in se stessa, nella sua autoreferenzialità. Il rischio è di rimanere stritolati tra la tentazione di un ritorno al centralismo amministrativo per insipienza, l’assordante silenzio di una classe docente senza spessore sociale e professionale, e le ricette di intellettuali ben pensanti che finiscono per accumulare la loro supponenza all’ignoranza che la scuola è oggi accusata di produrre.




Il regime di incompatibilità per il personale scolastico

di Antonella Mongiardo e Ferdinando Rotolo

La questione delle incompatibilità e del cumulo di impieghi per il personale della scuola è
alquanto complessa, perché si inquadra in una disciplina normativa frastagliata e in
continua evoluzione, caratterizzata da leggi, decreti, sentenze e circolari.
L’istituzione scolastica, come ogni amministrazione pubblica, è soggetta al principio di
esclusività del rapporto di lavoro, sancito dalla Costituzione a tutela del buon andamento
della P.A.
Pertanto, il personale della scuola, docente e ATA, ha il dovere di prestare il proprio lavoro
ad esclusivo servizio dell’amministrazione scolastica. Ne conseguehttps://www.gessetticolorati.it/dibattito/wp-content/uploads/2021/10/INCOMPATIBILITA.pdf che, al momento
dell’assunzione, il personale scolastico deve essere libero da ogni altra occupazione
lavorativa e, in caso di eventuale rapporto esistente, pubblico o privato che sia, questo deve
immediatamente cessare.

L’ampio saggio di Antonella Mongiardo è disponibile in allegato 




Comunità di pratica nella scuola. Appunti e spunti per la ripartenza

Stefaneldi Antonio Valentino

Alcune ragioni per parlarne.

La percezione diffusa, mi sembra, è che la nostra scuola sia stata poco coinvolta dal dibattito e da esperienze legati alla Comunità di Pratica (d’ora in avanti: CdP). Prima della pandemia è stato oggetto di interesse soprattutto nei convegni e nelle sedi universitarie dove si coltivano questioni riguardanti le teorie dell’apprendimento. Non sono mancate tesi di laurea e pubblicazioni [1] – molto più numerose di quanto si possa credere – che hanno approfondito l’argomento proponendo anche esperienze maturate in Italia[2]. Però la loro risonanza era e continua ad essere ancora modesta.

Nello stesso sito dell’Indire, alla voce ‘Comunità di pratica’ , vengono riportate poco più di un centinaio di iniziative e studi, che però si riferiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, a progetti italiani ed europei di School Improvement (progetti di miglioramento delle scuole), che solo tangenzialmente toccano questioni riconducibili specificamente alle CdP e alle ricerche ed elaborazioni al centro di queste riflessioni.

Però, a ben vedere, non poche, nè di poco conto sono le ragioni che spingono anche e soprattutto le persone di scuola ad avvicinarsi a tali questioni, in quanto volte a capire più e meglio la natura dell’apprendimento come fenomeno sociale collettivo e a coltivare quindi luoghi e strategie che ne permettono lo sviluppo.

Recuperare la dimensione collettiva dell’apprendere e la sua centralità nella pratica scolastica.  

In primo luogo non è ancora adeguatamente diffusa – mi sembra – la consapevolezza

  1. che i singoli apprendimenti acquisiti sul lavoro, se non sono partecipati e condivisi, raramente diventano patrimonio culturale e didattico dell’intera comunità scolastica in cui si sono sviluppati; e difficilmente quindi ne possono favorire sviluppi e miglioramenti;
  2. che l’efficacia dell’azione educativa è garantita soprattutto dalla dimensione collettiva dell’insegnare che si concretizza negli spazi istituzionali e non (Consigli, Dipartimenti, aggregazioni diverse), vissuti come comunità di intenti e di pratiche condivise); e che raramente – tale efficacia – è invece assicurata dal singolo docente.

A queste consapevolezze si lega l’idea che appropriarsi opportunamente del costrutto di Comunità di pratica rappresenti / possa rappresentare per le nostre scuole non solo uno stimolo ad approfondire e aggiornarne la conoscenza sui processi di apprendimento – questione comunque centrale – ma anche un’occasione per attrezzarsi a superare la cultura dell’isolamento professionale e dell’autoreferenzialità ancora diffusa nell’insegnamento, e a promuovere e mettere al centro pratiche di cooperazione e coordinamento.

L’apprendimento organizzativo in primo piano.

L’apprendimento organizzativo è concetto centrale nelle ricerche e negli studi sulla Comunità di pratica. Denominazione coniata da Etienne Wenger e Jean Lave,  due studiosi dell’apprendimento (filone di ricerca di matrice sociologica) che  agli inizi degli anni ’90 cominciano a pensarlo  non più come una semplice acquisizione mnemonica di nozioni astratte e formali proposte dall’esterno (l’idea tradizionale), ma come un processo di natura attiva, caratterizzato dalla partecipazione e dal coinvolgimento dell’individuo all’interno di un determinato contesto d’azione.

E lo ripensano sulla base di ricerche sulle organizzazioni e di studi sulle teorie dell’apprendimento nei vari ambiti disciplinari e su una varietà di altre teorie (della pratica, del significato, dell’esperienza situata, della soggettività …) – che hanno loro permesso di elaborare sulla base di una interpretazione multidimensionale dei processi di apprendimento, anche apprezzate elaborazioni per una efficace riprogettazione delle organizzazioni orientate alla conoscenza[3].

La comunità di pratica è il campo tematico a cui i due ricercatori dedicano più energie all’interno di questi loro interessi e studi. Il loro senso e  fondamento rinvia ai seguenti due aspetti dei processi di apprendimento in parte accennati che vale la pena di puntualizzare:

  1. L’apprendimento, non più come esperienza esclusivamente individuale e mentale, ma come fenomeno sociale e collettivo, e quindi come inscindibilmente collegato a fattori come il clima, le relazioni e  le interazioni dei contesti in cui si sviluppano. L’approdo delle ricerche su tale fenomeno sono le teorie dell’“apprendimento situato” e del “practice-based theorizing”, che enfatizzano appunto la dimensione situata ed esperienziale dell’apprendere, visto come  processo costruttivo (nel senso che costruisce conoscenza attraverso la  sperimentazione di pratiche e comportamenti condivisi), ma anche sociale e contestualizzato.
  2. L’apprendimento soprattutto come risultato delle pratiche, in risposta a bisogni e attese dei singoli e dei gruppi e delle organizzazioni in cui questi bisogni emergono (apprendimento situato[4]); e quindi elemento motore nella formazione di una conoscenza collettiva, oltre che risorsa in grado di arricchire il patrimonio di know-how dei contesti in cui in cui esso si costruisce[5].

Di questa riscoperta che recupera prime elaborazioni di Vygotskij e Schön, soprattutto Wenger ha cercato applicazioni e conferme inizialmente nelle organizzazioni di tipo aziendale e successivamente, nelle amministrazioni pubbliche e in ambiti altri (come, ad esempio, l’associazionismo e la formazione).

Da richiamare qui soprattutto il concetto di apprendimento organizzativo che Wenger e Lave mutuano da Argyris e Schön e che sviluppano attraverso un approccio che guarda a chi opera nelle organizzazioni non soltanto come soggetto di azione, ma anche come soggetto di apprendimento ‘organizzativo’; di un apprendimento, cioè, in grado di trasformare il modo di vedere la realtà del contesto organizzativo e di individuare e intervenire sulle sue criticità con un coinvolgimento collettivo.

Il modello[6] wengeriano della CdP come promettente ipotesi di lavoro

Entrando nello specifico del modello di CdP – come proposto in termini definitivi da Wenger, soprattutto nelle pubblicazioni del 1998 e del 2002[7] –  vanno qui richiamati in primo luogo i suoi cardini: la comunità e la pratica. A cui va aggiunto l’elemento motore – e quindi prioritario e fondamentale – che spinge un insieme di persone a aggregarsi: il campo tematico (termine originario: domain) – traducibile anche come l’interesse in comune tra soggetti – che spinge a sentirsi e costituirsi come comunità.

Le parole chiave

Comunità, il primo elemento che connota le CdP, è qui nozione che va oltre l’idea di “un insieme di persone che fanno lo stesso lavoro e che operano in condizioni simili” (stesso contesto e identiche attività professionali). Per caratterizzarsi come “luogo di relazione (cooperazione,  scambio, confronto), acquisendo una sua identità specifica legata alla capacità di sviluppare best practise” (I. Summa[8] ). È con questa connotazione che la comunità diventa comunità di pratica e di apprendimento.

Il peso specifico dell’dea di comunità nel concetto di CdP non risulta  però particolarmente enfatizzato da Wenger e colleghi ; anche se è innegabile la sua forza evocativa (al pari della sua ambiguità)[9].

Il secondo elemento cardine: Pratica viene rappresentato essenzialmente come risultato di un processo potenzialmente arricchente, perché  basato  soprattutto su quattro fondamentali modalità operative: interazione, cooperazione,  negoziazione e riflessività[10]. Comunque “non è  solo il fare in sé e per sé”, ma  è un ‘fare’ situato, negoziato e condiviso, diverso del tutto o in parte dal ’fare’ precedente. E comprende intese operative e cornici di significato, che sono esse stesse occasioni di apprendimento e nuova conoscenza.

Pratica quindi come espressione di cultura professionale e cultura tout court. E anche come risultato – in termini di know how – della sedimentazione del lavoro di riflessione e negoziazione del gruppo sulle esperienze maturate nello stesso ambiente o in ambienti simili.

Il  terzo elemento alla base del modello delle CdP può essere ulteriormente esplicitato come l’interesse che spinge persone animate dalla passione per lo stesso tema specifico (il Campo Tematico – CT –) ad aggregarsi in una logica di reciprocità e condivisione. Il CT non è comunque un’area astratta di interesse, ma ruota sempre intorno questioni e problemi chiave[11].

Con riferimento a questi tre elementi cardine, le CdP si configurano pertanto come ambienti di apprendimento in cui dei professionisti decidono liberamente di interagire per migliorare la propria pratica professionale attraverso soprattutto la condivisione di esperienze e la individuazione delle pratiche più efficaci per i destinatari delle stesse. Particolarmente eloquente la definizione che ne dà Wenger in Apprendimento situato (2006): “…un’aggregazione informale di attori che, nelle organizzazioni, si costituiscono spontaneamente attorno a pratiche di lavoro comuni sviluppando solidarietà organizzativa sui problemi, condividendo scopi, saperi pratici, significati, linguaggi[12].

 La svolta: si cambia pagina

Il tutto – assicurano gli Autori in più passaggi del testo, nonostante la evidente forzatura – comunque dentro una cornice in cui flessibilità e modificabilità restano sempre principi basici, tesi a garantire l’equilibrio tra la sfera più  libera e ‘autonoma’ delle CdP e quella formale dell’organizzazione (il suo contesto organizzativo di lavoro).

Con questa svolta, l’attenzione di Wenger e colleghi, dal campo della teoria dell’apprendimento si sposta su quella della progettazione ‘evolutiva’ delle CdP, e quindi sul ‘pianificare e lanciare’ CdP prevedendone strumenti, ruoli, risorse, partnership per contrastare i rischi della decadenza della sua vitalità e della sua scomparsa[14].

Le CdP continuano a collocarsi / si collocano ancora al di fuori dell’organigramma delle organizzazioni; queste  però, nella nuova prospettiva, diventano soggetti in qualche modo cruciali per la ‘coltivazione’ e il supporto alle CdP. Questa previsione – che è anche una indicazione di lavoro – di un ruolo di partnership delle organizzazioni nella vita delle CdP, viene descritta come operazione promettente per entrambe. Volta a contrastare i rischi di cui sopra per le CdP, ma promettente anche per le organizzazioni che comincia a guardare in modo più consapevole alle CdP come possibile risorsa nella prospettiva del rinnovamento e dello sviluppo dei loro saperi organizzativi: condizione non ultima per vincere le sfide inedite del nostro tempo.

Anche sotto questo aspetto, la svolta prospetta discorsi di un certo interesse anche per il mondo della scuola.

Le prospettive per le scuole e il ruolo del DS in quattro punti

Si tratta, a questo punto, di capire in termini più compiuti quali potrebbero essere gli stimoli e l’interesse che queste elaborazioni possono offrire al nostro sistema scolastico:

uno, per contrastare le criticità legate alla sua cultura organizzativa e alla cultura professionale ancora egemone (sostanzialmente caratterizzata da individualismi e autoreferenzialità e scarsa responsabilità rispetto agli esiti);

due, per far crescere una cultura della formazione in itinere del personale fondata sulla dimensione ‘situata’ degli apprendimenti (da trasferire anche nel lavoro d’aula) e orientata alla promozione di comportamenti organizzativi (pratiche) decisivi per una didattica efficace (cooperazione, interazione, mutuo aiuto, coordinamento, negoziazione del senso);

tre, per alimentare una cultura associativa (delle associazioni professionali e scolastiche in generale) più mirata sul senso delle specifiche ‘mission’ e su pratiche coerenti e finalizzate;

quattro, per verificare la possibilità di ripensare le articolazioni collegiali della funzione docente (consigli, dipartimenti, gruppi di ricerca, commissioni di lavoro…) così da rendere possibile una contaminazione delle stesse con orientamenti, logiche, strumenti propri delle CdP.

Qui si cercherà di riprendere schematicamente, per economia di discorso, solo i punti 2 e 4.

Cominciamo dall’ultimo che potrebbe riformularsi così: le articolazioni collegiali tendono a strutturarsi e a viversi come CdP, sulla base di una lettura non restrittiva dell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di cui agli articoli 6 e 12 del Regolamento (DPR 275/’99).
Si tratta concretamente di una prima approssimazione ad una ipotesi di lavoro che si pensa compatibile con lo sviluppo di CdP come emerge dagli studi indicati.

Abbiamo già visto che le CdP tendono generalmente ad attivarsi su base volontaria, eccetera; ma le pur diverse modalità di guardare alle CdP nelle fasi pre e post svolta, conservano, in entrambi i casi, un punto cardine così riassumibile: è la specificità delle situazioni di riferimento e dei contesti organizzativi che determina previsione e sviluppo dei processi più adeguati e agibili.

Nell’ipotesi che qui si prospetta, è la promozione e lo sviluppo degli apprendimenti ai diversi livelli (degli allievi, dei docenti e del DS, del personale ATA) che diventa la priorità in comune, il vero ‘campo tematico’ di ciascun organo collegiale. Che può eventualmente ridefinirlo autonomamente sulla base di propri interessi e bisogni.

Comunità di pratica si diventa comunque soprattutto attraverso a. la pratica maturata e messa in opera dentro ciascuna delle articolazioni collegiali (e di esse propria); b. la competenza professionale che si alimenta di conoscenza organizzativa nell’accezione prima precisata.

Garantire l’equilibrio tra sfera formale (la scuola come organizzazione) e quella più libera e ‘autonoma’ (le diverse aggregazioni previste o comunque attive negli Istituti scolastici), può diventare allora una strategia organizzativa possibile e promettente, a condizione – fondamentale – che le Istituzioni scolastiche si vivano come CdP quanto a modalità operative e relazionali e a pratiche condivise; dentro comunque spazi regolati dai riferimenti ordinamentali alla ragione sociale dell’essere Scuola.

In questa ipotesi diventa rilevante la figura del DS in quanto rappresentante della scuola/organizzazione, in base a come gioca il suo ruolo e al profilo che intende privilegiare.
Ma qui il discorso passa anche attraverso le figure di funzionamento organizzativo e didattico dell’istituto; e tra queste, in primo luogo, quelle di coordinamento, di collaborazione e di presidio delle aree più fragili e più strategiche nella vita della scuola. E richiede pertanto strategie adeguate che spostano ancora l’attenzione sul DS (e, prima ancora, su aggiornamenti contrattuali appropriati).

Tra le strategie possibili, quelle più funzionali al “coltivare CdP” mi sembrano quelle emerse recentemente in un gruppo di lavoro interregionale dell’Associazione professionale Proteo Fare Sapere, in preparazione della sua prossima Conferenza Nazionale[15]; se ne richiamano qui i tratti più significativi opportunamente ripensati con riferimento alla CdP:

  1. assicurare una maggiore vicinanza al lavoro dei suoi insegnanti, anche per prevenire eventuali difficoltà e problemi professionali e facilitare il loro coinvolgimento nei lavori delle articolazioni collegiali e nel loro funzionamento anche come CdP;
  2. garantire supporto e vicinanza alle figure professionali impegnate nella conduzione dei gruppi gestiti come comunità, attraverso appositi momenti strutturati e programmati o impegnati in compiti di collaborazione e di presidio delle aree più bisognose di attenzione;
  3. favorire, anche in base a quanto previsto dal ‘modello’ wengeriano, un funzionamento della scuola come memoria collettiva da coltivare e valorizzare per evitare che vada dispersa (le esperienze migliori dei gruppi di insegnanti con una marcia in più, ‘passati’ dalla scuola) e come luogo in cui si raccoglie e si classifica – e si ‘deposita’ -, con criteri che facilitino la ricerca e la fruizione di quanto può risultare didatticamente stimolante per migliorarsi come singolo e come gruppo. Impresa certamente ardua, ma comunque promettente;
  4. favorire attraverso il Piano di formazione di Istituto (PFI) la realizzazione di momenti formativi nella logica e nello spirito dell’apprendimento ‘situato’ che riprendiamo subito dopo.

Per ultima, ma comunque centrale, la formazione.

Concludo sul punto 2. con alcune annotazioni di contorno sulla “formazione” in servizio, che rimane comunque un ‘campo tematico’ per eccellenza anche delle associazioni professionali che organizzano il personale scolastico (e non solo)[16].

Qui mi preme solo richiamare che le questioni relative a quella in servizio trovano nella teoria dell’apprendimento situato sollecitazioni utili perchè riportano in primo piano l’importanza

  • della condivisione delle difficoltà e delle esperienze, delle pratiche e dei loro esiti, a partire dagli scambi di esperienze e conoscenze ‘indagate’ a più livelli e tradotte in schemi operativi ‘sensati’ e negoziati
  • dei luoghi in cui essa matura con maggiore cognizione di causa: lo specifico contesto organizzativo (la scuola di appartenenza ed eventualmente quelle di ambito) e le sue specifiche articolazioni (dipartimenti, classi parallele o aggregazioni informali proprie delle CdP), dove è più facile sviluppare apprendimenti funzionali all’ambiente in cui si opera; luoghi da vivere come spazi  di più libera ricerca, esplorazione di nuove pratiche che, opportunamente socializzate, arricchiscono il patrimonio di esperienze a disposizione della collettività[17].  

NOTE

[1] Apprezzabile quella di Patrizia di Giovanni che riserva nella sua tesi (2006) Istituzioni del cambiamento e cambiamento delle istituzioni, un lungo capitolo “Le “comunità di pratica” come setting di apprendimento collettivo”, in https://www.tesionline.it/tesi/brano/Le-“comunità-di-pratica”-come-setting-di-apprendimento-collettivo

[2] Lipari D, P. Valentini P., Comunità di pratica in pratica, Edizioni Palinsesto 2016; Tommasini M., L’apprendimento organizzativo nella scuola dell’Autonomia, in L. Benadusi, R. Serpieri (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci, dic 2000 pp. 224 – 230; Fabbri L. (2007). Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Carocci: Roma; Alessandrini G. (a cura di) (2007). Comunità di pratica e società della conoscenza. Roma: Carocci; Gherardi, S. (1998). “Apprendimento come partecipazione ad una comunità di pratiche”. In «Scuola democratica», v. 1, 2, pp. 247-264.

[3] Lave, J & Wenger ESituated Learning: Legitimate Peripherical Participation, Cambridge: Cambridge University Press, 1991, tradotto in Italia col titolo L’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006.

[4] Non assimilabile comunque all’apprendimento al lavoro e, in particolare, alle forme storiche di apprendistato, come risulta dal testo sopra citato.

[5] Sull’importanza e  il valore dell’imparare osservando e dei contesti in cui questo avviene, le botteghe artigiane del Rinascimento – che normalmente ruotavano intorno ad un artista noto,  rappresentano a tutt’oggi un modello organizzativo sul quale, per alcuni aspetti di fondo,  andrebbe ripresa la discussione (da noi aperta, almeno due decenni fa da Clotilde Pontecorvo). In queste esperienze infatti è possibile vedere in nuce il nucleo concettuale alla base delle teorie moderne dell’Apprendimento e dell’Organizzazione su cui ha lavorato Wenger. Delle quali sappiamo essere capitoli importanti per il mondo della scuola Learning by Doing (John Dewey), Learning Organization (Peter Senge ….), Cooperative  Learning (che è soprattutto una strategia didattica alla cui definizione contribuirono in misura importante David e Roger Johnson), la ‘Pedagogia del fare’ di Maria Montessori.

[6] Modello qui non indica, coerentemente con quanto è proprio delle teorie che fanno riferimenti a esperienze ‘situate’, qualcosa da imitare, fatta di canoni definiti che si fanno norma operativa; ma qualcosa a cui ispirarsi, da assumere a riferimento per ‘fare meglio’ o ‘diverso’.

[7] E. Wenger, Communities of practice – Learning, meaning, and identity, Cambridge University Press. 1998; E. Wenger, R. MCDermott, & W. M. Snyder, Cultivating Communities of Practice, HBS Press 2002. Rispettivamente pubblicati in Italia coi titoli di ‘Comunità di pratica.  Apprendimento, significato e identità’ (Franco Angeli editore, 2006) e ‘Coltivare Comunità di pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza’ (GueriniNEXT editore, 2007).

[8] I. Summa, Se il docente fa “comunità professionale, in Rivista dell’istruzione, n. 6 – 2013. V. anche al riguardo: A. Valentino, Gli insegnanti nella organizzazione della scuola, pp. 63-82 (Cap. 5 “Comunità di pratiche e leadership diffusa”), Edizioni Conoscenza 2015.

[9] Interessanti le annotazioni di Lipari-Valentini, cit. sul punto. Si chiarisce infatti che certamente l’idea di Comunità porta con sé suggestioni che possono funzionare come “potente veicolo di proselitismo per il bisogno di trovare forme elementari di solidarietà in un mondo (organizzativo) sempre più atomizzato, frammentato, anonimo e chiuso” (Cfr  C. Bauman, La grande voglia, 2001)”. Però affermano   che è difficile cogliere nell’elaborazione complessiva di Wenger e colleghi una qualche tentazione di indulgere a forme di  retorica comunitarista (mai esplicitata ma sempre presente come tratto essenziale della maggior parte  delle proposte circolanti),  perché consapevoli che dietro di esse “si nascondono ipotesi di intervento che incidono poco sulle dinamiche reali e sulle concrete relazioni organizzative”, pg. 30.

[10] Sulla riflessività, si recuperano, come è evidente, gli studi di Schön che sin dagli anni 70 del secolo scorso ne aveva fatto oggetto importante della sua elaborazione nell’ambito delle teorie dell’apprendimento. Con Wenger gli apprendimenti e le pratiche diventano significativi quando si fanno oggetto di riflessione; altrimenti sono come “gocce d’acqua che scivolano su un vetro, senza lasciare traccia alcuna”.

[11]  V. home page del sito ewenger.it (interessante) si dà rilievo soprattutto ai seguenti ambiti tematici: progettare organizzazioni orientate alla conoscenza, creare sistemi di apprendimento tra organizzazioni, la formazione permanente, ripensare il ruolo delle associazioni professionali.

[12] in E. Wenger, Apprendimento situato (2006)

[14] A queste voci corrispondono altrettanti paragrafi nel testo della svolta.

[15] V. in http://www.proteofaresapere.it/cms/resource/5271/documento-dirigenza-e-organizzazione-scolastica-2.pdf

[16] Il ripensamento del ruolo delle associazioni professionali è un campo tematico a cui Wenger guarda con particolare attenzione (v. nota 12)

[17] Si segnala al riguardo, e più in generale sulla CdP, il recente contributo di M. Giacci, Formarsi nelle comunità di pratica, www.scuolaoggi.org (giugno 2021) che riprende anche il ‘modello’ per valorizzare le CdP come contesto di formazione e autoformazione di  LipariValentini, cit..

 




Le 25 ore di formazione sull’inclusione: come farle fallire nell’indifferenza generale

L’amico e collega Mario Maviglia, in un recentissimo articolo su Nuovo Pavone Risorse dal titolo “Come uccidere la formazione senza essere scoperti” descrive criticamente le 25 ore di formazione “obbligatoria” sulla disabilità previste dalla Legge finanziaria 2021 (10 milioni di euro) che sta insabbiandosi per i niet sindacali sul “contratto dovere-diritto”, cioè il nulla e per una organizzazione arruffata e frettolosa che dovrebbe concludersi….da oggi entro metà novembre, perché i ragionieri del MIUR devono rendicontare.
Riprendo il tema con grande tristezza.

Ad un anno dalla finanziaria, dopo discussioni infinite esce un corso militarizzato e generico offerto ai docenti curricolari che nulla sanno di disabilità. Lo scopo sarebbe quanto mai nobile: sensibilizzare anche i curricolari su un tema inclusivo delicatissimo perché troppo spesso “delegano” ai poveri “sostegni” l’inclusione facendo finta di nulla. Nel suo piccolo, sarebbe stata un’occasione d’oro, se pensata bene, di un primo dovere deontologico da espletare ampliando la conoscenza per tutti di un tema molto delicato. Mi sarei atteso dai sindacati (almeno quelli confederali, quelli dei soi disant “diritti”) un’attenzione diversa dei niet a priori, ma invece un’attenzione maggiore alla qualità formativa, visto la delicatezza “sociale” del tema.
Il Ministero è così “strano” che nell’ ultima circolare “invita” gli insegnanti curricolari a partecipare e con questo verbo crea confusione massima se si deve o si può. Insomma il rischio è di corsi in fretta e furia (la sveltina pedagogica) e realizzata nel caos gestionale sul diritto/dovere.


Si fa presto a riderci sopra, ma che tristezza. Il dilemma diritto/dovere alla formazione resta una burla, e il rischio è di un flop, che pagheranno (come sempre) gli alunni con disabilità.
Preso dalla rabbia civile, racconto qui due storie che ho raccolto in Europa su come si fa formazione. Non per invidia di chi è più bravo di noi, ma per capire come siamo fuori dal mondo.

Storia Germania: racconta un collega ispettore tedesco, in un incontro anni fa in Italia, che “tutti gli insegnanti da loro fanno almeno 15 giorni all’anno di formazione su temi comuni ed elettivi. Sono ospitati in alberghi ad hoc, spesso castelli recuperati, con una buona cucina perché si cura l’ospitalità degli insegnanti”. La riunione avviene negli anni in cui in Italia c’era per contratto il “bonus formazione” che rendeva possibile uno scatto di carriera. Più di un italiano presente fa la domanda delle domande: “Ma è davvero obbligatorio? Cosa ci guadagnano a fare questi corsi? E se un insegnante tedesco dice no cosa gli succede?”. Il collega tedesco fa fatica a capire, non sa del bonus. Poi risponde “Gli insegnanti hanno il viaggio pagato e il soggiorno gratuito, in alberghi molto belli. Non serve altro”. Non so perché ci tiene anche a ricordare la buona cucina. Poi continua “Se un insegnante tedesco non partecipa gli accade la cosa peggiore che può capitare ad un insegnante tedesco: la riprovazione dei colleghi!”. Ah, la terra del beruf di Lutero!

Storia URSS: una sindacalista sovietica, ai tempi di Gorbaciov, mi racconta cosa succede agli insegnanti sovietici: “ogni sette anni circa, hanno tre/quattro mesi di soggiorno gratuito in Crimea, organizzati dal sindacato”.
Finalmente al caldo: pensate un insegnante che viene da Irkutsk o Arckangels”.
Poi continua: “In quei mesi, si rifà i denti se serve, fa le terme, si fa curare se ha particolari malattie. E intanto fa dei corsi di formazione su diversi temi”.
Poi alla fine un esame: “Promosso (aumento stipendio), rimandato (rifà i corsi al freddo nella sua città), bocciato: cambia mestiere”.
A me l’idea della Crimea-sanatorio del corpo e della mente fa un simpatico e salutare effetto. PS. I paesi dell’ex Urss (tutti, dal Kazakistan alla Lituania) considerano gli insegnanti con grande rispetto e stima. Non c’è la divisione tra maestri e professori (sono tutti chiamati “maestri”), vengono da lauree pedagogiche prima che disciplinari.
Non a caso sono gli unici che vengono chiamati col patronimico, che neppure verso Putin si usa quasi più.




Come uccidere la formazione senza essere scoperti

di Mario Maviglia

Questo intervento vuole offrire una serie di utili suggerimenti a coloro che, a vario titolo, si occupano di formazione del personale della scuola e che sono mossi dalla comprensibile volontà di sopprimere ogni tentativo di renderla attuabile.
Parliamoci chiaro: la formazione in servizio è una  inutile perdita di tempo (e di soldi), soprattutto se riferita ad un sistema scolastico sano, avanzato, produttivo, eccellente come quello italiano, caratterizzato da risultati fuori dal comune, come emerge dalle classifiche internazionali (e infatti i risultati migliori si registrano al di fuori dei comuni italiani…), dalla grande cura che viene dedicata per far sì che nessuno si perda per strada (la dispersione scolastica in Italia è a livelli quasi zero…; il motto di tutte le scuole italiane infatti è No one left beynd), e da un corpo docente che sprizza salute da tutti i pori pedagogici ed esprime una preparazione professionale mediamente straordinaria e comunque non equiparabile a quella dei docenti degli altri Paesi avanzati.

Esiste anche da noi, ovviamente, qualche mela marcia, qualche docente che non sa fare il suo mestiere, ma il sistema è così solido che si riesce a risolvere queste criticità senza grandi difficoltà (ad esempio “sollecitando” il docente inadeguato a chiedere trasferimento ad altra scuola, e poi ad un’altra ancora e così fino all’età pensionabile. Il motto Nessuno resti indietro è da riferire ai docenti… ).

Tornando a noi, ci sono vari modi per uccidere la formazione senza farsi scoprire e lasciando credere alla UE e agli altri partner internazionali che nutriamo una profonda fiducia sul valore aggiunto della formazione e che quindi ci impegniamo a mettere in atto piani formativi di grande valenza pedagogica e didattica che contribuiscono in modo determinante ad innalzare il già altissimo livello di preparazione dei nostri docenti bla bla bla, bla bla bla… (cfr Greta Thunberg).

Questi metodi di soppressione della formazione sono il risultato di tanti studi svolti sul campo a vari livelli e di una continua sperimentazione in situazione. Ad esempio, per lunghi anni abbiamo detto che la formazione è un diritto/dovere dei docenti, una locuzione, questa, bellissima per dire tutto (ossia niente) e per scansare in modo rigoroso e scientifico l’inutile zavorra della formazione. Infatti, nella titanica (e bizantina) discussione riguardante quanto dovere e quanto diritto ci debba essere nella formazione, intere generazioni di docenti sono riusciti ad andare tranquillamente in pensione facendo poche o zero ore di formazione e potendo dire ai nipoti, con orgoglio: “Io non c’ero!” oppure, quelli più esterofili, “Not in my back yard!”

Questa situazione assolutamente idilliaca e tranquilla è stata proditoriamente e sciaguratamente sconvolta dalla legge 107/2015 che ha stabilito che la formazione dei docenti è “obbligatoria, permanente e strutturale”.
Panico nel mondo scolastico e sindacale! Non tutti hanno però colto la sottile e intelligente strategia utilizzata dal nostro legislatore nel far credere che la formazione diventasse qualcosa di stabilizzato nella vita delle istituzioni scolastiche. In realtà questa volontà il decisore politico non l’ha mai avuta! E il decisore amministrativo ancora meno! Il tutto, infatti, rientrava in una sorta di teatrino politico escogitato appositamente per confondere l’UE e far sembrare che in Italia la formazione è tenuta in grande considerazione. E in effetti, con visione lungimirante, la stessa Amministrazione scolastica si è ben guardata dal tradurre quella “obbligatorietà” in un monte ore definito e a sancirlo nel CCNL.

Anzi con una nota applicativa (n. 2915 del 15/09/2016), degna della migliore scuola sofista, il Ministero precisava che “il principio della obbligatorietà della formazione in servizio” [va considerato] “come impegno e responsabilità professionale di ogni docente” [e dunque] “l’obbligatorietà non si traduce, quindi, automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del Piano”.
Insomma, non esiste alcun monte-ore obbligatorio. Il sospiro che si è sentito in Italia al momento dell’emanazione della nota era quello di sollievo da parte di molte scuole e dei loro sindacati. Questo concetto veniva ribadito con commovente iterazione con una nota successiva (la n. 25134 dell’1/06/2017) la quale stabiliva che “l’obbligatorietà non si traduce automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del piano”.
Leggasi: ognuno fa quello che vuole. D’altro canto non poteva essere diversamente: la nostra è una matura democrazia liberale. La tua libertà finisce dove comincia la mia. Tu non vuoi fare formazione? No problem! Non costringere me a farla. Anzi, mettiamo insieme le nostre forze per costruire una formazione eterea, incorporea, leggera, quasi impalpabile.

Ma ci sono altri modi per uccidere la formazione senza essere scoperti: per esempio ricorrendo all’utilizzo di termini contrastanti o dando fiducia al tempo. Per quanto riguarda il primo aspetto, il gioco è abbastanza semplice: prendete una qualsiasi legge (ad esempio la n. 178 del 30/12/2020) e stabilite che viene avviata una formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità non in possesso (i docenti, non gli alunni…) del titolo di specializzazione sul sostegno.
Il principio dell’obbligatorietà lo ribadite anche in un successivo decreto applicativo (ad esempio il DM n. 188 del 21/06/2021).
Ma (attenzione! attenzione! A me gli occhi!) con una circolare che reca istruzioni in materia (ad esempio la n. 27622 del 6/09/2021) il personale docente interessato viene “invitato” a partecipare alle attività formative. Non “obbligato”, capite? E in effetti molti docenti, educatamente e con l’appoggio degli onnipresenti sindacati, hanno risposto al ministero: “Grazie dell’invito, mi ha fatto molto piacere riceverlo, ma non intendo parteciparvi. Ho altro da fare. Sarà per un’altra volta. Non perdiamoci di vista, però.”

Per quanto riguarda il tempo, c’è da ricordare innanzi tutto che esso è galantuomo; e mai massima fu più azzeccata come nel presente esempio. Infatti con la già citata nota 27622/2021 il Ministero ha fornito un’articolata proposta di organizzazione dei corsi di formazione sulla disabilità La nota reca la data del 6 settembre 2021; nel testo viene detto che “per consentire l’effettiva erogazione delle risorse finanziarie entro l’a.f. 2021, le scuole saranno invitate a fornire rendicontazione entro e non oltre la data del 30 novembre p.v.” Avete capito? Più veloce della luce! Il nostro Ministero certe volte è di una efficienza e tempismo mostruosi. (Di solito quando si tratta di far lavorare gli altri…).

In poco più di due mesi le scuole dovranno progettare le attività formative, trovare i formatori, stipulare i contratti (mi raccomando: non si trascuri di chiedere il consenso per il trattamento dati, l’antimafia, l’anticorruzione, i dati anagrafico-fiscali, la dichiarazione di insussistenza/incompatibilità, il CV in formato UE, e gli atri 15 atti previsti…), realizzare le attività formative a livello di ambito e fornire rendicontazione al Ministero entro il 30 novembre! Non ci si lasci però impressionare da questa veemenza decisionista; le ragioni in realtà sono molto serie e impongono un impegno solerte e senza indugi da parte delle scuole interessate alla formazione: infatti, se le scuole non rendicontano entro il 30 novembre potrebbe succedere qualcosa di grave al nostro Paese, qualcosa di irreparabile e catastrofico, qualcosa che in confronto lo scoppio della Terza Guerra Mondiale rappresenterebbe una bazzecola di second’ordine.

Vi chiederete che cosa; è presto detto: i ragionieri del Ministero dell’Istruzione non avrebbero i dati a disposizione per fare il conteggio di quanto è stato speso e di quanto resta da spendere! E questo è di palmare evidenza che non ce lo possiamo permettere! La pandemia è stata devastante per la scuola e per il Paese; non riusciremmo a sopportare un’altra sciagura se i dati non arrivano prima del 30 novembre a viale Trastevere!

Naturalmente questa oltremodo tempestiva mossa del Ministero nasconde un secondo fine, molto astuto e coerente con quanto abbiamo detto sopra: con tempi così ridotti molte scuole non riusciranno ad organizzare la formazione e quindi, ancora una volta, si riuscirà a farla franca rispetto al famoso vincolo della “obbligatorietà” della formazione. L’Italia è un Paese magnifico: ad ogni problema trova sempre una non soluzione.