Pedagogia della cura ai tempi del Covid

di Raffaele Iosa

E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa
che ha fatto la tua rosa così importante
Saint Exupery, il piccolo principe

Ho letto il messaggio di Dario Missaglia, presidente di Proteo,  attorno a questa terribile fase di espansione del COVID e di come la scuola sembri  aver perso il senso pedagogico del suo agire, travolta da aspre discussioni solo sulle  incertezze sanitarie, il caos gestionale, le tifoserie tra “presenza” e “distanza”,  e così via.

Condivido in pieno il suo messaggio per ri-mettere al centro del nostro impegno lo sguardo pedagogico,  che rifletta  su  come stanno i nostri bambini e ragazzi e cosa servirebbe loro  come priorità educativa in questa epoca così drammatica.

Già a settembre 2020 ho condiviso il suo Protocollo Pedagogico, rimasto per molti una vox clamans in deserto, che richiamava ad un diverso impegno per fronteggiare gli effetti psicologici, emotivi, cognitivi  dati da una scuola diventata balbettante, semiaperta o più semichiusa. Raccoglievo commenti del tipo “belle parole, ma oggi il problema è un altro”. Un “altro” che si riduceva, poi, alle sedie a rotelle, o alla Dad come fosse il demonio, scordando che spesso la mitica “presenza” è, seguendo il canone della tradizione,  noiosa aria fritta, distanza fino all’ estraneità.

Ma oggi la situazione educativa, a due anni dall’inizio della pandemia,  è quanto mai peggiorata.
Dunque, è necessario il coraggio di riprendere e rilanciare un pensiero pedagogico.
Rispondo qui alla sua proposta superando d’un colpo  le mie opinioni  su quarantene, mascherine, Dad e così via. Mi soffermo invece sul cuore della scuola rimettendo  al centro la voce pedagogica. Di questo qui scrivo,  anche con alcune proposte operative.

  1. Pedagogia della cura

La relazione educativa è termine generico, registrata nelle norme scolastiche e nei contratti, ma rischia di essere una specie di insalatina di contorno alla recita del dio contenuto/disciplina, per molti  il totem della scuola italiana.  Si sente ancora dire: “a scuola si impara, non si impara a vivere; al vivere ci penserà mamma e babbo o i preti.  Al massimo l’io docente spera di trasmettere le sue simpatie, cioè che l’alunno perfetto assomigli a lui/lei”. Ma non è così.

Proviamo invece ad approfondire in modo più rigoroso: l’evento “scuola” si realizza con una relazione sempre asimmetrica tra adulti e bambini/giovani  che mette insieme certo i contenuti, ma vissuti come eventi irripetibili (di apprendimento e di vita)  entro cui le dimensioni emotive, relazionali,  affettive, di sensibilità e di identità si mescolano concretamente realizzando  lo sviluppo di ogni persona. La stessa pura “trasmissione di contenuti” avviene come un evento didattico carico di senso non solo di esito, che determina o meno interesse, passione, curiosità. Ma c’è di più: la relazione educativa avviene nel tempo reale hic et nunc  della vita di un bambino e di un adolescente, ne riflette quindi le vicende concrete del vivere in un dato momento storico. Questo attuale momento  è, inutile negarlo, del tutto dolorosamente straordinario.
Infine,  c’è una cosa più importante ancora che rende la relazione educativa centrale  nel fare scuola:  l’art. 3 comma 2 della Costituzione quando ci dice che “compito della Repubblica è di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della persona umana”.
La rimozione degli ostacoli in pedagogia si chiama “cura dell’altro come sé”. Cura non perché malato o poveretto, ma perché persona e cittadino. Cioè è quell’ “I CARE” che ci ha insegnato don Milano a Barbiana. Che vuol dire concretamente: ”Mi interessi, non ti mollo, faccio di tutto per te, cerco una soluzione se gli ostacoli ti creano guai”.  E’ una scuola seria, non lassista!

Se questo è vero in generale, lo è ancora di più in questa terribile fase COVID nella quale i bambini e i ragazzi vivono oggi eventi inediti, di cui non abbiamo memoria comparativa, dentro una tempesta sociale, sanitaria, ed emotiva a fortissimo impatto individuale e collettivo. Si può insegnare una qualsiasi cosa  senza tenerne conto? Anzi:  come si fa ad apprendere se dentro di noi c’è la tempesta emotiva?

La relazione educativa dunque non è semplicemente confinata da quel generico modo di dire nel profilo del docente come “competenze psico-pedagogiche”, una tra le altre competenze, ma è elemento strutturale e trasversale del lavoro  docente.

  1. La tempesta emotiva dei nostri bambini e ragazzi oggi, e i rischi iatrogeni

Le ricerche di cui scrive Dario sulle crisi emotive dei nostri bambini e ragazzi  sono cospicue:  c’è uno stato diffuso di smarrimento, di stress, di alterità, di incertezza, di solitudine, e soprattutto di incertezza sempre più forte sul domani, anche quello più vicino. Quando finirà questa tempesta?
Questo prolungarsi e  della pandemia aumenta a dismisura le crisi già presenti nel primo anno.
La tempesta produce anche  casi clinici  drammatici. In questi mesi ho seguito e raccolto storie di suicidi e tentati suicidi, di autolesionismo, di isolamento fino al fenomeno kikomori, di anoressia o bulimia. Ma questi casi sono solo la punta di un iceberg molto più vasto sotto la superfice di diversi stati emotivi, spesso più  semplici ma sempre più diffusi e ma comunque duri.

C’è oggi il rischio di pensare che ad ogni “sintomo di dolore”  basti riferirsi al medico o allo psicologo, come se per le sofferenze non servisse la relazione educativa. Il che è paradossale: nel primo periodo del lockdown (primavera 2020) si imparò nei fatti che una Dad che volesse scimmiottare online la lezione tradizionale o la “normalità dell’aula” rischiava due fallimenti: apprendimenti incerti ma anche stati d’animo più tristi, ragazzi  sperduti nella solitudine del video, cui non si chiedeva come stavano nei loro sentimenti, ma di rispondere alle domande curricolari.  Perfino con la buona fede di pensare che se si “evitava” di trattare la condizione esasperata di confinamento questo poteva essere meno doloroso. Insomma una specie di finzione amnesica.  Oggi questa contraddizione  è più importante da considerare, visto il prolungamento di questa fase pandemica “straordinaria”  (intesa come strana) con l’aumento della sofferenza.

Il rischio di una intensa medicalizzazione è elevata.  La scuola con la relazione asimmetrica adulti/ ragazzi e quella tra pari sono invece  “luoghi esistenziali” che alleviano con il   “prendersi cura”  (o sfasciano con la sua mancanza) i tanti  e diversi dolori.  Dobbiamo quindi considerare questi prossimi mesi, così ancora incerti e difficili,  come un periodo in cui lo sguardo pedagogico della cura educativa sia la base del nostro agire,  qualsiasi siano le condizioni di lavoro.

Rischiamo altrimenti  una deriva iatrogena, cioè di etichettare oltre il lecito e il giusto le diverse storie dei nostri ragazzi,  isolandoli nel cerchio della certificazione, della terapia, della “dispensa”, cioè all’assistenzialismo che produce dipendenza e abbassamento delle attese dell’io.
Penso spesso, per confronto,  a come mia mamma e mio papà erano durante la guerra. Avevano tra i 10 e i 15 anni. La guerra è passata dura nelle loro vite. Se un qualche psicologo li avesse visitati  a quei tempi avrebbe trovato molte  patologie. Eppure il dopoguerra fu un  miracolo: una generazione di bambini maltrattati dalle guerre vissero i tanto celebrati “favolosi 30 anni”.

Ci vuole dunque molta attenzione a non catastrofizzare eventi drammatici della vita. Se ne potrebbe uscire anche migliori ,con una maggiore capacità di resilienza davanti alle disavventure. E’ con questo sguardo che la nostra “cura educativa”  deve saper trovare il giusto equilibrio  tra comprendere e sollevare il dolore diffuso nello loro anime, ma anche quella di far leva nelle loro forze interiori, nei loro talenti e passioni,  nel saper dare uno scopo al dopo e al dopodomani.

  1. L’io docente nella relazione ai tempi della pandemia

Quale comportamento docente è più opportuno, in questa fase complicata, per gestire una “cura” educativamente saggia?
Trovo giusto che gli insegnanti no-vax  non insegnino  e non solo per motivi sanitari.  Il nostro paese ha scelto di adottare il principio costituzionale della priorità della salute come interesse pubblico (e quindi il vaccino). Da qui ripartiamo.
Ma ho riscontrato anche la presenza, umanamente comprensibile,   di docenti che si trovano in una fase emotivamente fragile della loro vita. Aver paura non è una colpa.
Mi raccontano a volte  di colleghi  ansiosi,  che emotivamente si isolano in una fisica e psicologica “distanza” relazionale. Penso che avremmo dovuto capire e aiutare questi colleghi.

Ma ora proviamo a precisare alcune caratteristiche di cura educativa che gli insegnanti dovrebbero, a mio avviso,  avere in questa difficile fase. Ne segnalo quattro.

Empatia.

Che, come noto non è simpatia o antipatia. E’ sentire l’altro, fargli capire che lo sentiamo, con discrezione, senza invadenza esagerata. Si può anche chiamare scaffolding, con Bruner. Uno stile relazionale dove si sta dietro non davanti all’altro,  che non si obbliga a parlare o fare, ma si incentiva ad agire, perché lui sa che se cade ci siamo noi dietro  a tirarlo su. E’ per la verità un paradigma di tutta la didattica attivistica, utile sempre, ma in questo periodo necessaria.

Equilibrio

E opportuno avere uno stile relazionale sereno, sobrio, offrendo sicurezza,  evitando eccessi sia di ansia che di superficialità. Non è un periodo facile per nessuno, ma il bambino e il ragazzo devono sentire che l’insegnante è un adulto. E solido.

Creatività e flessibilità

Le diverse e complicate situazioni di lavoro di questi mesi ci obbligano ad avere una maggiore flessibilità nell’organizzazione dell’attività scolastica. Potrebbe anche essere la volta buona di sperimentare  didattiche innovative, e soprattutto evitare che le regole sanitarie impediscano o riducano forme di didattica attiva. Forse serve una riscoperta dell’attivismo,  oggi più importante che mai perché può dare ai ragazzi una più felice pratica di  partecipazione, piuttosto che  essere passivi ascoltatori chiusi nella loro mascherina. Questa è la pedagogia della cura necessaria.

Adattamento

Questa è forse la dote più difficile da spiegare evitando equivoci. La vita a scuola è per forza di cosa diversa dal passato, e giorno per giorno possono cambiare molte cose. Significa per chi ci lavora trovare forme di adattamento positivo e flessibile secondo le diverse avversità. Un eccesso di rigidità e formalismo rende la scuola più dura per tutti, anche per chi insegna.

  1. Proposte per agire, stimoli per costruire il positivo

Ed ora, la parte che più mi interessa approfondire: cosa potremmo fare?
SI aprono sei mesi duri, con poche certezze. Potremmo avere situazioni  varie in vari periodi, dal confinamento  per positività, alla quarantena preventiva, al ricovero ospedaliero, sia per studenti che per insegnanti. Potremmo avere classi strappate a metà tra “presenza” e Dad.

Le ultime decisioni del Governo per la scuola prevedono di fatto un sistema differenziato perfino da classe a classe, cioè  non più il precedente modello del lockdown generalizzato a tutti nello stesso periodo a prescindere dalla  salute  individuale.  Questa è la novità essenziale da cui partire.

Inutile negarlo: una condizione molto difficile da gestire dal punto di vista didattico, che ha bisogno di due atteggiamenti professionali e organizzativi fuori dal canone classico dell’orario scolastico standard uguale per tutti:

la flessibilità didattica, preparandosi  a gestire diverse situazioni, periodi diversi tra loro, condizioni diverse tra gli stessi alunni. Proviamo a rovesciare il dramma in opportunità: potrebbe essere il momento di utilizzare forme di flessibilità inedite che possono perfino essere più gradite e efficaci del rito lineare tradizionale. Finalmente l’autonomia didattica prevista dal DPR 275/99 potrebbe diventare simpatica e certo utile, dopo vent’anni di amnesia e di boicottaggio. Servirebbe ai bambini e ragazzi fare una scuola sui loro tempi, non sul rito lineare settimanale.

l’accomodamento ragionevole. Utilizzo qui un ben termine ripreso dalla Carta dei diritti della persona con disabilità dell’ONU del 2006, allargata a tutti i nostri bambini e ragazzi.      Adattamento è  la capacità di fare istruzione il meglio possibile nelle condizioni  date,  che ci obbligano a mettere al centro i  ragazzi più che le discipline. Ce lo chiede la loro condizione esistenziale, che ha bisogno di  opportunità di apprendere  come lievito di curiosità, coinvolgimento, desiderio,  passione.

            Ragionevole è accettare che questo non è un periodo normale, che non si può ripetere il passato in forme ristrette,. ma che conviene puntare ai saperi e alle esperienze essenziali, non pretendendo quantità ossessive ma conoscenze e competenze fluide e interconnesse.

Partendo da queste due pre-condizioni, presenterò qui alcune proposte per una buona pedagogia della cura  attraverso alcune idee-stimolo, esempi-tipo, senza pretesa di una summa, mettendo insieme una buona cura educativa e una buona ragionevole didattica.
Ovviamente sono schegge di azioni  perché mi fido della fantasia e creatività degli insegnanti, se riacquistano  l’autonomia didattica libera, pur troppo scippata in questi anni.

4.1  Il perdere tempo

I lettori più attenti si saranno chiesti perché ho posto all’inizio una frase del Piccolo Principe.

Si parla della sua relazione con una rosa cui ha dedicato molta cura e attenzione. Il valore sta in quel perdere tempo che, come si sa dalla storia, è stato tempo intenso. Nel  perdere tempo sta la mia prima proposta di cura. Significa preoccuparsi meno del calendario  e più del tempo di cura che si passa parlando, riflettendo, creando comunità di parola e di ascolto tra noi e loro.

E’ evidente che avere cura non è perdere tempo, ma anzi guadagnarlo  nello sviluppo di significati, emozioni, confronto di esperienze, saper connettere eventi ed emozioni. E’ per me una fase essenziale della cura, diversa ovviamente secondo le diverse età. Dare tempo alla parola e al pensiero sui vissuti interiori è in questo momento centrale per una relazione educativa di cura. Non serve a fare una specie di “ricognizione indiretta” dei diversi dolori , ma invece a socializzare i diversi stati e darne una ragione e un senso. Potrebbero nascere molte connessioni anche con i saperi esterni ai ragazzi,  che avrebbero al centro non un certo capitolo di un manuale ma “un interesse” reale dei nostri studenti. Dario Missaglia sostiene che questo è tempo di lavoro, che andrebbe registrato in un diario, e sono proprio d’accordo: non è perdita di tempo, ma guadagno di senso. Un tempo professionale autentico che va riconosciuto.

Il perdere tempo è una suggestione pedagogica per il brutto tempo presente che mi affascina per la sua intrinseca utilità ma anche per il valore solidaristico e civico che produce.

  • Una cura educativa al telefono

Un piccolo suggerimento-stimolo che potrebbe avere diverse varianti e che tocca un tema centrale nella cura: il saper agire verso ogni persona partendo dall’individualità.
Accadrà ancora nei prossimi mesi che i bambini e i ragazzi debbano stare a casa o perché contagiati o perché in quarantena.
Potrebbe quindi essere una buona consuetudine se l’insegnante si fa vivo con una telefonata per salutare il suo studente, sapere come sta, fare due chiacchiere. Ovviamente anche questo  è per me tempo vero di lavoro. Questo contatto diretto e individuale, perfino sorprendente per chi lo riceve,  ha un significato pregnante a fronte di un ragazzino chiuso in casa e pieno di paure. Dà il segno dell’I CARE, dell’ “io ti penso”, del sapere che non sei solo.

Quest’idea me l’ha data un bambino triste di 5.a primaria che ha scritto a maggio 2020 alla maestra un messaggino che mi ha commosso. Scrive così: “Maestra, scusami se ogni tanto ti telefono. Te dici sempre che dobbiamo essere ottimisti. Allora quando  sono nervoso ti chiamo. Sento la tua voce e mi calmo”.  Questo si aspettano i bambini da noi: l’ascolto e la calma.
Se ogni ragazzo chiuso in casa per quarantena ricevesse una telefonata dal suo prof non se la dimentica più. Forse studierà anche più volentieri al ritorno a scuola.
”Sento la tua voce e mi calmo”. La voce capite? Non le tabelline o la storia. Straordinaria lezione di quanto possiamo contare per loro.

  • Lavorare per curricoli adattati e ragionevoli: l’autonomia creativa

E’ probabile che il calendario delle lezioni verrà spesso travolto dalle varie vicissitudini del COVID.  Potrebbero essere assenti anche alcuni insegnanti.
E’ forse giunto il momento  del coraggio della flessibilità curricolare, adattata secondo le diverse condizioni,  ore utili e flessibili secondo la situazione di fatto. Questo non è difficile in una scuola primaria e facilissimo in una dell’infanzia. Ma è ora che ci provino anche le medie e superiori.  Porto qui alcuni esempi da sviluppare. 

  • pratiche di flessibilità organizzativo-didattica

Si potrebbero sperimentare curricoli con didattiche brevi aggregando più ore di una disciplina per settimana.

Si potrebbe lavorare per centri di interesse che coinvolgono più insegnamenti, in cui l’intercambiabilità dei docenti facilita il lavoro, anche con una ricerca degli snodi essenziali.

Si potrebbe lavorare più frequentemente per gruppi laboratoriali, in cui la questione presenza e distanza potrebbe essere adattata a gruppi che condividono un comune lavoro

Più in generale, è opportuno che in questo periodo si utilizzino il più possibile pratiche di didattica attiva,  in forme flessibili. Proprio la cura necessaria ci chiede di dare ai ragazzi opportunità di apprendimento come protagonisti, interagenti,  ricercatori e comunità.   Potrebbero essere moduli interdisciplinari, ma comunque (nel rispetto delle regole) momenti e eventi in cui il ragazzo fa con gli altri, non solo ascolta.

  • Pratiche di metodologica didattica attiva

Ed ora alcuni suggerimenti di carattere metodologico-didattico, tra le molte possibilità, spesso già note. Sono alcune proposte-stimolo nel vasto panorama didattico, che mettono insieme l’innovazione didattica  con una migliore “cura” della fase emotiva e sociale dei nostri ragazzi.

Tutti i suggerimenti qui proposti hanno carattere di attivismo, di comunicazione interpersonale, di ricerca e possono avere adattamenti di grande flessibilità, anche potendo realizzarsi in forme “miste” con ragazzi in presenza e contemporaneamente in Dad.

            Flipped classroom.  Cioè le classi rovesciate, dove i ragazzi si documentano e fanno ricerca su un certo tema prima che se ne parli a scuola. Poi, nell’aula virtuale o fisica, discussione e presentazione da parte dei ragazzi del loro punto di vista, con un lavoro di scaffolding socratico del docente che lievita ed alimenta la discussione   per  giungere ad una consapevolezza comune.

            I brevetti alla Freinet. attività individuali di studio-ricerca autonomamente scelte che ogni ragazzo approfondisce partendo dalle proprie passioni e interessi, che poi presenta nel gruppo di pari, come esperienza di comunicazione orizzontale, effetti di cooperazione,  e auto-valutazione possibile da parte dello studente.  Scrivendo questa proposta, mi sono ricordato della mia antica scuola media (anni 63-66) in cui il prof. faceva un po’ il Freinet, probabilmente non conoscendolo. In geografia in prima ci ha fatto scegliere una regione da far diventare ”nostra”, in seconda uno stato europeo, in terza uno extraeuropeo. Curiosa è la mia scelta: in prima il Friuli VG (terra dei miei nonni), in seconda l’Austria (perchè mio padre era andato a Vienna a veder la finale di coppa campioni Inter – Real Madrid, gol di Mazzola), la terza l’Argentina perché avevo lì uno zio prete salesiano. In tutti e tre gli anni ricordo ricerche appassionate (dai libri alle foto alle cartoline, ecc..), dall’Argentina mio zio mi scrisse una lunga lettera geo-politica e materiale. Nel lavoro d’aula ad ognuno di noi veniva chiesto di presentare “la sua” regione o nazione. Questi tre luoghi geografici mi sono ancora oggi un po’ rimaste nel cuore.

            Freedom writer. Se qualcuno ha visto il film mi capisce: una classe di ragazzi di una zona disperata della California, un’insegnante intelligente  propone loro di scrivere un diario personale con tutte le cose che gli passano nella loro tormentata mente. Ne esce un capolavoro didattico e l’incontro con…Anna Frank e il suo diario. La scrittura come comunicazione e riflessione è aspetto importante dello sviluppo, individuale e collettivo.  Vi possono essere molte varianti che oggi con la tecnologia si possono fare a prescindere dall’aula fisica e dall’orario settimanale. Penso alla corrispondenza scolastico con classi e scuole di altri luoghi. Ma potrebbe essere anche la ripresa del giornalino scolastico, che oggi i computer rendono possibile colorati e ricchi.

            la scrittura collettiva. Più seriamente, amo proporre la scrittura collettiva di don Milani e di Mario Lodi: un lavoro che parte da testi individuali, costruisce con una discussione collettiva un testo comune condiviso. Un’operazione cooperativa di grande efficacia relazionale, e di civismo.

            La cura  tra pari.  In questa fase la relazione con i compagni di classe e di scuola è già di per sé un evento di cura. Dunque, sia che siano a scuola sia che siano a casa, si devono favorire forme di comunicazione, di solidarietà  e di auto-aiuto tra compagni di classe come forma comunitaria  di uscirne insieme. Sarebbe anche un eccellente modo di sostituire quelle cose orrende dette “recuperi”  con pratiche di apprendimento dove ci si aiuta a vicenda.

            Questo è il momento di rovesciare la sventura del COVID con una nuova avventura pedagogica, che non solo aiuti i ragazzi, ma dia anche un senso di cambiamento  positivo per gli insegnanti. Anche loro hanno bisogno di passare dalle isole separate per discipline a comunità realmente educanti, non a parole.

  1. Non dimentichiamo la disabilità

Gli alunni con disabilità hanno pagato i diversi lockdown e le restrizioni legate al COVID molto più di tutti gli altri compagni di classe. Su di loro una pedagogia della cura deve essere ancora più attenta e di adattamento ragionevole.
Nella crisi complessiva dell’inclusione nelle nostre scuole, il COVID ha reso ancora più isolati e soli questi bambini e ragazzi. Sarebbe grave se si tornasse a circolari ministeriali  che rendevano possibile il loro ritorno a scuola “da soli”, tanto per fare badantato,  o magari (se la scuola è buona) con alcuni altri bambini o (peggio) con altri disabili . Cioè l’anticamera delle scuole speciali.
Molte delle proposte-stimolo sulla flessibilità didattica sopra presentate possono facilitare l’accoglienza dei nostri studenti con disabilità, ognuno titolare di un pensiero, di desideri e passioni, ma anche dolori.  Perché l’accoglienza diventi invece un’appartenenza a pieno titolo.
Questi sei mesi sono importanti per costruire  azioni di una nuova gruppalità solidale tra pari. Ne hanno bisogno tutti, anche gli altri.  Perché la solidarietà serve a tutti reciprocamente, aiutare e aiutarsi. Perché, come sempre, sortirne insieme è la Politica.

Qui mi fermo. Non parlo qui del futuro più lontano dei prossimi sei mesi. Mi pare già tanto provare a non perdere o sfasciare la scuola  in questo breve periodo. Breve ma delicatissimo, perché la crisi COVID rischia di lasciare troppi segni  permanenti. E’ adesso l’ora di reagire e di ripensare al pedagogico. La pedagogia della cura è il nostro orizzonte  attuale.




La nuova emergenza Covid: riparare le ferite dell’infanzia e dell’adolescenza volgendo lo sguardo al futuro

di Antonio Valentino

Tra dati di fatto e percezioni fondate

Sulla questione ‘nuova emergenza Covid’, considererei soprattutto i seguenti aspetti:

  1. Il dato di fatto con cui anche la scuola è costretta a confrontarsi in queste settimane – con la variante ‘Omicron’ che impazza – è che l’uscita dal Covid non ci è ancora dato di vederla all’orizzonte, come si pensava fino ad alcune settimane fa grazie alla vaccinazione di massa in atto da mesi.
  2. Comunque la crescita percentuale del contagio nelle ultime due settimane (10-16 e 17-22 gennaio) ha continuato a scendere: vi sono ormai “evidenze certe di una decelerazione della curva epidemica, in linea con quanto osservato in altri Paesi” (Franco Locatelli, Coordinatore del CTS)
  3. È percezione fondata che il contagio con l’ultima variante non sembra comportare i rischi gravissimi (persone in terapia intensiva e esiti letali) delle prime ondate, a seguito delle misure adottate.
  4. Le consapevolezze dell’attuale situazione – a. la convivenza obbligata col virus però depotenziato nei suoi esiti più dolorosi (il riferimento è alla variante ultima, la più contagiosa); b. gli strumenti di difesa dal Covid sempre più disponibili e mirati – è condizione di un diverso sguardo anche sul futuro prossimo del mondo scolastico.

Proviamo, con i ragionamenti che seguono, a riavvolgere il nastro di questa storia degli ultimi due anni con riferimento alla scuola, per individuare qualche direzione di marcia sensata e possibile, per gestire al meglio la fase sulla base dei dati e delle consapevolezze di cui ai punti precedenti.

A tal proposito, è opportuno richiamare in prima battuta che il blocco delle attività didattica in presenza nel 2020 – e l’avvio della Didattica a Distanza (DaD), è stato certamente l’evento tra i più drammatici che il mondo della scuola abbia vissuto dal secondo dopo guerra.

Va però anche detto che la Dad ha limitato in parte i danni di tale blocco sulla vita delle scuole ed ha, tra l’altro, reso evidente, riportandole in primo piano, non solo le inadeguatezze pesanti della scuola sul fronte delle tecnologie informatiche (strumenti e formazione); ma anche e soprattutto ha ridato evidenza, ulteriormente acutizzandole, alle vecchie ferite del sistema, attraverso le molte ricerche, inchieste, articoli e saggi e commenti che, a partire già dalle settimane in cui si concludeva il primo anno scolastico segnato dalla pandemia, hanno alimentato il dibattito sul presente e il futuro della scuola.

Ricerche e dibattiti che in modo generalizzato  esprimevano preoccupazioni estese e profonde ma anche nuove e generalizzate attenzioni e propositi di una ripartenza che non fosse un ritorno al passato pre-pandemia; che non riproducesse cioè le stesse disfunzioni, arretratezze, traumi, ingiustizie del sistema vigente.

Sul fronte studenti si evidenziavano soprattutto – come è noto -, con sottolineature più o meno preoccupate, oltre al peggioramento pressocché generalizzato degli apprendimenti, anche a. l’aumento delle diseguaglianze nel rendimento scolastico e degli abbandoni, come conseguenza delle disparità sociali e  b. la drammaticità degli effetti del lockdown su bambini e adolescenti, in termini di disturbi comportamentali e psicofisici e di difficoltà di concentrazione; sui quali ci ha richiamati recentemente il Presidente di Proteo Fare sapere nazionale, Dario Missaglia[1].

Sul fronte insegnanti, i dati e le testimonianze raccolte riportavano invece in primo piano – assieme all’ impegno complessivamente generoso e generalizzato del mondo della scuola – le carenze di una cultura professionale non attrezzata a fronteggiare situazioni così nuove e impegnative; e non solo per carenze nella gestione mirata degli strumenti informatici.

In quei mesi – si ricorderà – ‘ripartenza’ e ‘riprogettazione’ entravano con nuova forza nel dibattito sulla scuola tanto, da diventarne parole d’ordine particolarmente diffuse.

Dal bisogno diffuso di “ripartenza” alle tendenze al recupero di una ‘normalità’ pre-pandemia

‘Niente sarà più come prima’ – ricordate? – è stato lo slogan più diffuso di quella stagione che ha caratterizzato soprattutto gli ultimi mesi del 2020 e i primi del ’21. Uno slogan che se da una parte sottolineava che non si poteva più far finta di niente rispetto ai mali vecchi e nuovi che venivano riportati in primo piano, dall’altra includeva anche il richiamo alle opportunità, da saper cogliere, che si aprivano con le tecnologie digitali.

In realtà le parole d’ordine prima richiamate, per quanto ripetute con accenti appassionati, non riuscivano però a tradursi in iniziative evidenti di rinnovamento, per ragioni immediatamente comprensibili.

Le incertezze e una certa confusione nella gestione della pandemia soprattutto nella prima parte dell’anno scolastico, assieme alla mancanza di misure di difesa certa dal virus, hanno di fatto determinato situazioni di stop and go, soprattutto nella secondaria, che hanno di fatto impedito di pensare ad altro che non fosse quello di salvare il salvabile. Certamente le scuole si erano attrezzate al meglio, rispetto all’anno precedente, con le tecnologie necessarie; e gli insegnanti avevano imparato a organizzarsi e a utilizzare le nuove dotazioni messe a disposizione.

Per le parole d’ordine dei mesi precedenti non c’era però spazio. Erano state confinate – e lo sono ancora – in uno spazio tutto loro, in attesa di tempi migliori.

Lo stesso Il PNRR, nel quale il nuovo Governo Draghi è stato impegnato negli ultimi mesi dello scorso anno scolastico e che pure prevedeva misure importanti e urgenti per la scuola, ben poco l’ha coinvolto anche sul tema della ‘ripresa’, che pure è parola chiave di quel Piano.

In questi ultimi mesi è sembrata prevalere su più fronti la preoccupazione pressocchè unica di recuperare una normalità che sembra avvicinarsi alle forme di quella pre-pandemia.

Di ripartenza si è parlato sempre di meno in quest’anno scolastico e lo slogan prima ricordato non è più sembrato essere molto ‘popolare’.

E questo, nonostante le scadenze per il rinnovo del POFT e la riscrittura del RAV, previste dal calendario scolastico ’21.’22, che sarebbero potuto / dovuto essere una occasione per interrogarsi sul passato recente e derivarne indicazioni per la riprogettazione dell’offerta formativo del nuovo triennio.

L’interrogativo che verrebbe da porsi, alla luce delle considerazioni con cui si è aperta queta nota (le nuove incertezze portate dalla preoccupante contagiosità della nuova variante, ma anche le consapevolezze nuove sopra richiamate), è se l’attuale situazione generale socio-sanitaria, per quanto ancora problematica, possa giustificare del tutto l’accantonamento – o il rinvio – delle questioni della ‘ripartenza’.

“Niente sarà come prima”. Uno slogan ‘perso’?

Recupero qui, in ordine sparso, dalle cose lette e sentite e scritte di quel periodo, alcuni elementi (questioni, attese, priorità) tra quelli che ancora oggi mi sembrano particolarmente significativi.

Si ricorderà certamente che all’inizio dell’anno scolastico 2020-’21, al centro delle preoccupazioni, soprattutto dell’Amministrazione centrale, c’erano questioni più legate agli effetti della situazione che si stava vivendo: il previsto recupero e sostegno per i percorsi formativi ‘saltati’ – più prosaicamente: le parti di programma non svolte (nel secondo quadrimestre dell’a.s. ’19-‘20).

Ma nel dibattito tra gli addetti ai lavori, frequenti e insistiti erano i richiami ai problemi più legati al funzionamento incerto e preoccupato delle scuole e al carico di ansie, difficoltà relazionali e psicologiche che emergevano nei bambini e nei ragazzi e che chiedevano risposte che non arrivavano.

Mi riferisco

  1. alla necessità di superare, nella professione docente, comportamenti autoreferenziali e individualistici, sempre molto diffusi, e di rendere abituali pratiche cooperative e interazioni e, insieme, cura del contesto (i suoi spazi e loro dotazioni), come condizioni per migliorare la partecipazione degli studenti alla vita della scuola e qualificarne la formazione culturale e sociale;
  2. ad una idea di scuola in grado di coltivare – attraverso misure e riconoscimenti opportuni – la sua autonomia non solo didattica e organizzativa, ma anche ‘di ricerca sperimentazione e sviluppo’ (recupero pieno di quanto prevede l’art 6 del Regolamento del DPR 297/99); e di liberarsi dalla vocazione impiegatizia ancora persistente tra i suoi operatori;
  3. ad una filosofia progettuale, per quanto riguarda il ricorso al digitale, che evidenziasse la necessità di un approccio metodologico volto sia a sviluppare la “capacità di imparare a valutare le potenzialità d’uso, le implicazioni etiche, economiche e sociali delle nuove tecnologie”, sia a favorire “la contaminazione fra strumenti nuovi e vecchi, tra digitale e analogico, senza contrapposizioni ideologiche e con un approccio pragmatico” [3].

Questi soprattutto i termini del dibattito già meno di un anno fa. L’impressione che si ha oggi è che la maggior parte di quelle preoccupazioni e di quei ragionamenti si siano un po’ persi per strada, e che il futuro che si tende a prefigurare in questi ultimi mesi – già prima dello scatenarsi della nuova ondata di contagio – non sembra diverso dal quadro complessivo pre-pandemia, che pure si era giurato di voler cambiare in profondità.

Ci sarebbe da interrogarsi sulle ragioni dell’offuscamento (rimozione?) dei propositi prima richiamati; e se non possono essere liquidate semplicemente con la giustificazione – pure immediatamente  comprensibile – delle difficoltà a gestire le scuole in una situazione in cui la pandemia, che di preoccupazioni, ansia e lavoro aggiuntivo – e quindi stanchezza – ne continua a produrre a iosa.

Ragionando sulle ragioni altre della ‘rimozione’.

A volerci pensare su, si potrebbe dire che a facilitare questo ritorno alla scuola pre-pandemia ci siano alcuni elementi endemici della cultura metodologico-didattica e organizzativa della nostra scuola, che riprenderei sinteticamente così:

  • la prevalenza della lezione fatta di spiegazione-compiti-interrogazione-voti (oggi un po’ in crisi, ma mica poi tanto) e quindi
  • la poca diffusione della diversificazione delle strategie di insegnamento e apprendimento e la scarsa attenzione alla relazione di reciprocità (per quanto necessariamente asimmetrica) nella gestione degli studenti;
  • la non generalizzata attenzione al principio di cura, almeno nei termini in cui andrebbe più efficacemente coltivato;
  • la insufficiente attitudine a diffondere e valorizzare le esperienze più significative che pure nelle scuole si realizzano, senza però (quasi) mai farle diventare patrimonio comune e pratiche diffuse.

A proposito di quest’ultima problematica va evidenziato come essa faccia il paio con la cultura individualistica e autoreferenziale di cui si è detto, che continua ad essere ancora prevalente, e che ha generalmente ignorato:

  1. la dimensione collettiva e sociale del lavoro – e dell’apprendere attraverso il lavoro e le esperienze sul lavoro – ai diversi livelli (si pensi soprattutto alle articolazioni funzionali del collegio: dai consigli di classe/interclasse ai dipartimenti e ai gruppi di progetti o di coordinamento -; ma anche al lavoro d’aula),
  2. l’attitudine al diffondersi, anche solo a titolo sperimentale, delle pratiche più efficaci.

Ma si dovrebbe anche richiamare, per chiarire i fattori che stanno probabilmente contribuendo al ritorno quasi automatico alla situazione scolastica pre-covid, che la cultura professionale del nostro sistema scolastico si è generalmente sviluppata dentro orizzonti culturali e professionali che hanno poco valorizzato e coltivato la ricerca pedagogica e didattico-organizzativa di casa nostra (e questo meriterebbe un discorso a parte soprattutto per quanto riguarda i rapporti difficili e sostanzialmente infruttuosi tra università e mondo scolastico – con poche ma importanti eccezioni). Non solo, ma  ha anche sostanzialmente ignorato la ricerca internazionale; privilegiando, anche nella formazione all’insegnamento, pratiche che hanno preso in ben poca considerazione le varie dimensioni dell’apprendere.

Soprattutto, l’importanza di fare squadra e la modalità situata, collettiva della crescita professionale, come anche l’apprendimento fondato sull’esperienza e la riflessione partecipata, non hanno mai toccato più di tanto la maggior parte delle nostre scuole[4].

Concludendo

A questo punto – se non si vuol dare per scontato che le parole d’ordine della ‘ripartenza’ qui spesso richiamate abbiano definitivamente perso valore e senso,  e non debbano quindi trovar posto neanche in seguito, nell’agenda delle scuole, iniziative  volte a  tenerne viva l’attenzione – c’è da chiedersi in qual modo e con quali prospettive recuperare, sulle tematiche che le considerazioni svolte ripropongono, almeno dentro l’orizzonte dei ‘memoranda’ (dalla relazione all’apprendimento organizzativo, dalle strategie plurali dell’insegnamento alla ricerca-azione …), filoni di ricerca e teorie, più o meno recenti, in grado di offrire stimoli e strumenti per fronteggiarle – tali tematiche – con maggiori cognizioni di causa.

Riguardo specificamente ad esse, si vogliono qui richiamare, in aggiunta alle segnalazioni precedenti e in prima battuta, gli studi e le sperimentazioni, nell’ambito delle teorie sociologiche della conoscenza, sviluppati soprattutto negli Stati Uniti[5]  – a partire indicativamente dagli anni 70 del secolo scorso e proseguiti anche nel nuovo millennio.  Studi e ricerche che hanno coinvolto accademici e ricercatori/studiosi di altri paesi e anche di alcune nostre università[6].

Da sottolineare qui in modo particolare, oltre alle loro innovative elaborazioni sulle problematiche sopra richiamate, i loro contributi sul fronte della formazione nella dimensione ‘situata’, sul campo, in quanto condizione particolarmente stimolante per una cultura professionale degli insegnanti attenta ai bisogni formativi e alle attese di studenti e territorio.

Annotazioni, queste ultime, volte a sottolineare – concludendo – che nessuna eventuale ‘ripartenza’ può’ avere sviluppi importanti e innovativi con la semplice logica del fai da te; senza cioè recuperi e ri-appropriazioni di studi, ricerche, esperienze, che siano promettenti quanto a stimoli, allargamento d’orizzonti e proposte operative.

NOTE

[1] “Ricerche condotte in tutto il mondo e con dovizia di dati e numeri anche in Europa (…), ci dicono che il prolungarsi di questa fase di pandemia, con il suo carico di ansie, paure, limitazioni, riaperture e nuove chiusure, ulteriori richiami di vaccino, incertezza sul futuro, sta producendo ferite gravi e profonde nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza” (D. Missaglia, Allarme rosso, in www.proteofaresarere.itnewsnotizie  13.1.2022). In questo contributo il Presidente nazionale di Proteo Fare Sapere esplicita il concetto di pandemia secondaria che “indica la vasta gamma di conseguenze psicologiche, relazionali, emotive, cognitive che risultano compromesse dal prolungarsi della pandemia. Secondaria (…) non per importanza minore rispetto alla pandemia che produce ricoveri in terapia intensiva e decessi quotidiani…”.

[3] Sulle proposte al riguardo ho condiviso soprattutto l’elaborazione del cap. 3 (Il Digitale “Senza se e senza ma, pp. 50-55) del Rapporto finale del 13 luglio 2020: “Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro rapporto finale”, del  Comitato di esperti D.M. 21 aprile 2020. Coordinamento:  Prof.  Patrizio Bianchi. Le parti virgolettate sono state stralciate integralmente dal Rapporto.

[4] Non sono ovviamente le nostre scuole le prime indiziate, perché soprattutto altrove vanno individuate le maggiori responsabilità al riguardo.

[5] I nomi d’obbligo per quanto riguarda questo filone di ricerca sono – come si ricorderà – quelli di Donald Schön e di Chris Argyris, da noi noti non solo in ambito universitario. Ai quali vanno affiancati Jean Lave e Etienne Wenger, i cui contributi di ricerche e studi, nei decenni soprattutto a cavallo del 2000, sono confluiti nella elaborazione del concetto di Comunità di pratica. Nel quale è fondamentale il fattore solidarietà organizzativa tra soggetti che operano nello stesso ambito e si aggregano perché motivati/sollecitati a migliorare la propria pratica professionale. Le pubblicazioni più citate: C. Argyris, D. SchonApprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998; A.D. Schön, (1999) Il professionista riflessivo: per una nuova epistemologia della pratica, Bari, Dedalo; Lave, J & WengerL’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006 (prima pubblicazione: Cambridge University Press, 1991); E. Wenger, R. McDermott, & W. M. Snyder, Cultivating Communities of Practice, Coltivare Comunità di Pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza, guerinNext editore, 2007 (prima pubblicazione: HBS Press 2002).

[6] In campo universitario mi piace ricordare – ma sarebbero ben più numerosi i nomi da citare – soprattutto Francesco De Bartolomeis e Piero Romei; il primo in modo particolare per ‘La Didattica come antipedagogia’ e per la sue pubblicazioni sul lavorare in gruppo; il secondo, per ‘La scuola come Organizzazione’ in cui si sviluppa la nozione di Unità operativa, avvicinabile, con qualche approssimazione, al concetto di ‘Comunità di Pratica’ di Wenger e Lave. Su autonomia e organizzazione della scuola nella prospettiva di comunità di pratica, pubblicazione ancora stimolante: L. Benadusi, R Serpieri, (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci 2000, con contributi, oltre che dei curatori, di M. Tomassini, A.M. Ajello, V. Ghione, ….. Di quegli anni anche, P.G. Ellerani, La costruzione della comunità di apprendimento sostenuta dal Cooperative Learning. Progetto avviato dalla Provincia di Torino – A.s 97-98, proseguito nel 2003-2005.




Uno spettro si aggira per la scuola: le Non Cognitive Skills

di Giovanni Fioravanti

La Camera ha approvato, l’11 gennaio scorso, pressoché all’unanimità, la proposta di legge relativa all’introduzione dello sviluppo delle competenze non cognitive nei percorsi scolastici.

L’organizzazione degli studi nel nostro paese resta grossomodo la stessa dai tempi di Croce e Gentile, per non dire di Casati, ma la priorità che ora scopre coralmente il nostro Parlamento, con sfoggi culturali da Dewey al Costruttivismo, sono le competenze non cognitive (NCS), vendute come scoperta anglosassone e come panacea per migliorare il successo formativo, prevenire l’analfabetismo funzionale, la povertà educativa e la dispersione scolastica.

La sindrome da bonus edilizia deve avere contagiato i membri dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà fautori della proposta, i quali evidentemente pensano che siano sufficienti alcuni ritocchi alla facciata e i problemi della nostra scuola sono risolti. Si sperimenta per qualche anno e poi si vede, allo stesso modo di come si sta procedendo con la sperimentazione dei licei quadriennali. È la scuola a due velocità, da una parte si sta fermi un giro lasciando tutto inalterato, dall’altra si prova l’ebrezza del nuovo, salvo che non si tratti invece dell’usato riciclato, com’è costume storico nella nostra scuola.

La cosa strabiliante è che la proposta di legge in questione vorrebbe sperimentare l’insegnamento delle life skills, così sono definite dagli economisti le competenze non cognitive, senza indicare in alcun modo cosa siano e quali siano.

La confusione regna sovrana. Per capirci qualcosa bisogna leggere gli ordini del giorno che accompagnano l’approvazione della proposta in Parlamento. In essi si dice che le competenze non cognitive sono le Soft Skills, quelle cioè che rappresentano una risorsa fondamentale per l’accesso al mercato del lavoro come coscienziosità, apertura mentale, autodeterminazione, mentalità dinamica e resilienza. Si evoca il premio Nobel per l’economia nell’anno 2000, James Heckman, per il quale le competenze non cognitive sono l’affidabilità, capacità di lavorare in gruppo, la perseveranza e l’impegno nel processo di apprendimento e nel lavoro.

A nessuno è dato sapere come si raggiungerà e come sarà misurata la “competenza” nelle competenze non cognitive. È comunque importante iniziare fin dalla fase prescolare e dalla prima scolarizzazione, lo suggeriscono il professor Heckman, noto per la sua ricerca empirica in economia del lavoro e, in particolare, per quanto riguarda l’efficacia dei programmi di educazione della prima infanzia. E poi c’è Martin Seligman, psicologo statunitense, fondatore della psicologia positiva, autore di molti best seller come Imparare l’Ottimismo, Come Crescere Un Bambino Ottimista e La Costruzione Della Felicità.

Quando si evocano le competenze non cognitive come un corpo a se stante, specie nella scuola, è difficile non pensare alla teoria del doppio legame della pragmatica della comunicazione e all’ingiunzione divenuta famosa: “Sii spontaneo!”. Sarà interessante verificare gli esiti dell’apprendimento: “essere spontanei”.

In definitiva non sono sufficienti le linee guida dettate dal MIUR per i PCTO, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, occorre una legge in modo che fin da subito i piccoli siano esercitati alle competenze non cognitive. Non è più una questione di competenze chiave per l’apprendimento permanente come richiesto dall’Europa, ma ne va della capacità di resilienza ed autodeterminazione dei nostri figli.

Ora, cognitivo e non cognitivo rischiano di tradursi in una sorta di dubbio amletico, di rompicapo cinese, come scindere il cognitivo dal non cognitivo, quando in realtà si vuole, almeno nelle intenzioni degli estensori della proposta, che a scuola il cognitivo si accompagni al non cognitivo, che conoscenze ed emozioni, ammesso che siano non cognitive, si intreccino durante le ore di lezione.

Noi non le chiamiamo character skills, perché non siamo anglosassoni, ma il nostro sistema scolastico, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, ha come obiettivo la formazione  della persona e del cittadino. Nelle indicazioni curricolari per le nostre scuole sta scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni  persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.

C’è un’idea di interezza della persona dello studente difficilmente scindibile in mano destra e mano sinistra, in corpo e mente, in cognitivo e non cognitivo.

Dunque non siamo una scuola prussiana che addestra alla disciplina generazioni di alunni. Quindi attenzione ad imporre per legge l’addestramento delle emozioni, delle competenze non cognitive in nome della comunità educante il cui progetto non è detto che concordi con gli “orizzonti di significato” delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei  nostri ragazzi, dei nostri adolescenti.

Mentre Mastrocola e coniuge denunciano il danno scolastico prodotto da una scuola pubblica progressista, i nostri parlamentari invece pensano che è giunto il momento di porre fine alla scuola tutta hard skills e poco soft skills, tutta abilità di calcolo, verbali, logiche, capacità di memorizzazione senza lasciare spazio a motivazione, coscienziosità, positività, estroversione, proattività, stabilità emotiva, eccetera.

Il fatto è che i dati dell’Ocse Pisa e quelli Invalsi ci dicono che le nostre scuole, da nord a sud, neppure per le hard skills brillano.

L’impressione è che intorno al capezzale del malato si agitino maghi della pioggia, improvvisatori, spesso a zero come preparazione rispetto alla cultura che sarebbe necessaria per tentare di guarire il paziente.

Sembra che intorno alla scuola si coagulino tutti i fallimenti a partire da quelli degli adulti nei confronti dei giovani. I comportamenti dei giovani sono sfuggiti di mano, ora bisogna recuperarli e siccome l’educazione famigliare e sociale hanno fallito non rimane che rifugiarsi nella scuola e commissionarle tempo fa l’educazione civica, ora l’educazione della personalità, plasmarne le character skills per correre ai ripari prima che sia troppo tardi, per evitare di crescere adolescenti dalle condotte socialmente destabilizzanti.

E poi il fallimento del mercato, che non sa cosa farsene delle competenze cognitive dei nostri giovani che quando possiedono le hard skills devono andarsene all’estero perché il sistema delle imprese nel nostro paese è arretrato di almeno vent’anni. Infine il fallimento della politica che non conosce la scuola che pretende di governare, che non possiede cultura della scuola e non sa progettare l’istruzione per il futuro.

Viviamo in un mondo controverso, il XXI secolo si è aperto come il secolo della conoscenza, con il tema del cognitivo ingigantito dalla crescita delle conoscenze e dallo sviluppo delle tecnologie, di fronte a questa montagna la nostra scuola ha continuato a fare la parte del topolino. Chi sta attrezzando i nostri giovani a vivere in questo mondo, ad abitare questo secolo senza sentirsi troppo piccoli, senza doversi tirare indietro?

Nel giro di pochi anni siamo passati dal secolo della conoscenza al secolo della resilienza. La preoccupazione di addestrare i nostri giovani alle competenze non cognitive fa sorgere l’inquietante  sospetto che li si voglia preparare a saper reggere l’urto di una annunciata pesante sconfitta nell’incontro con il futuro.




Verso la scuola del post-pandemia (purché non sia quella del pre-pandemia)

di Stefano Stefanel

La pandemia che non vuole finire e che ricompare sempre sotto mutate sembianze, costringendo a rincorrere le emergenze, non ha permesso di trovare soluzioni a problemi vecchi e ha messo tutti davanti ad ostacoli nuovi. Se andiamo indietro nel tempo a due anni fa credo nessuno possa sostenere che la scuola, così com’era, funzionava perfettamente e non aveva bisogno di particolari interventi. Venivamo da vent’anni di riforme incompiute e di risultati certificati come non soddisfacenti e le strade che si aprivano non mostravano, comunque, porti sicuri.
Due anni dopo ci siamo spostati da dove eravamo, ma i problemi si sono ingigantiti, senza che venisse in mente a nessuno una soluzione condivisa, un’idea chiara e distinta, una strada con un punto d’approdo certo. Il sistema scolastico italiano riesce ad individuare con chiarezza i suoi mali, ma stenta a trovare i rimedi; individua con altrettanta chiarezza i suoi punti di forza, ma non li fa diventare sistema, preferendo isolarli dentro una sorta di eguaglianza scambiata per equità.

Una delle evidenze maggiori portata allo scoperto dalla pandemia è il tentativo di affrontare con sistemi tradizionali una situazione emergenziale in costante mutamento. A due anni dalla pandemia non solo non è chiaro come ne usciamo, ma nemmeno cosa faremo o dovremmo fare per limitare i danni al sistema scolastico ed educativo che l’emergenza ha prodotto.
Anche perché il nostro sistema scolastico è in perenne affanno ed ha una sua intrinseca fragilità, dentro meccanismi come le graduatorie permanenti, i mansionari rigidi del personale ata, le difficoltà di reclutamento di docenti di valore, la facoltatività oggettiva della formazione, l’alta dispersione scolastica, l’enorme numero di giovani che non studiano e non lavorano.
Da due anni il problema maggiore, però, è quello di come rientrare a scuola tutti insieme e contemporaneamente, per poi ritrarsi davanti a bollettini terribili, a norme di complessa attuazione, a soldi che non sempre aiutano a risolvere le molte contingenze. È vero che tutti speriamo che questa sia l’ultima emergenza e che presto tutti saremo di nuovo insieme dentro le scuole senza distanziamenti, senza mascherine, senza quarantene. Ma è anche vero che in due anni non siamo riusciti a dare un contenuto didattico e formativo all’emergenza. Il primo anno sono stati promossi tutti gli studenti, il secondo anno si è tornati alle bocciature, il terzo anno (questo) sarà una grande finzione di normalità che sfocerà in esiti punitivi su studenti che sono oggettivamente rimasti indietro. Il tutto giocato sempre dentro azioni emergenziali in attesa che “passi la nottata”.

Se la cosa più importante è sempre stata il tornare a scuola non è nato alcun dibattito su cosa dentro la scuola in cui si è tornati era meglio fare. Personalmente sono tra quelli che hanno sperato (invano, temo) che questa emergenza levasse alcune pratiche del passato molto punitive per il sistema scolastico italiano, ma sono anche tra quelli che prende atto del desiderio predominante di restaurazione. Anche, però, se si è disponibili a ragionare se sia meglio l’innovazione o la restaurazione, non pare ci sia nessuno che abbia realmente voglia di farlo. Prendete tutta la questione del digitale: da un lato si tende alla sua demonizzazione collegandolo alla Didattica a distanza vista come male assoluto, dall’altro si nega alla Didattica digitale integrata una vera cittadinanza, ma dall’altro lato ancora si finanziano progetti con cifre molto consistenti proprio per la transizione digitale.
Ma anche sulla questione dell’ecosostenibilità non si va mai veramente al fondo delle cose per far uscire le materie scientifiche dal loro retaggio passato e autoreferenziale e farle entrare nel mondo del futuro (degli algoritmi, del problem solving, della complessità informatica, delle bio-tecnologie, dell’eco sostenibilità, ecc.). Se un compito in classe vale più di mille lavori di ricerca e di analisi decisamente la transizione ecologica avrà vita piuttosto combattuta in Italia, ma, soprattutto, sarà appannaggio delle multinazionali e non di un Sistema Italia che dia un futuro professionale ai suoi giovani laureati in materie scientifiche.

Un’altra questione di grande interesse, legata all’emergenza, è quella delle rilevazioni nazionali e dei vari monitoraggi. In questo labirinto di numeri ognuno li usa per il suo scopo, magari premettendo che sono numeri inficiati da situazioni alterate dalla pandemia o mitigati nella loro profondità da risultati acquisiti a macchia di leopardo. Ma poi tutto cade dentro il calderone dei dati trattati tutti come sondaggi, come tendenza, come classifica. Non c’è nessun senso critico nell’analisi confusa dei risultati Invalsi (resi deboli da rilevazioni avvenute in emergenza e non complete), dei dati di Eduscopio (totalmente fuorvianti), dei monitoraggi sui contagi a scuola, di quelli sull’uso dei mezzi di trasporto, di quelli sulle connettività, di quelli sugli esami di stato. E quindi ognuno di noi usa i numeri che più gli fanno comodo, si compara con chi decide di compararsi, espone teorie ed opinioni sperando che si trasformino in dati.

La pandemia ha aumentato una tendenza a mostrarsi più forti di quello che siamo, quasi che le nostre debolezze nascessero da nostre inadempienze e incapacità, e non da una situazione oggettivamente drammatica. Tutta la questione delle povertà educative in aumento sta lì a dimostrare che la situazione oggettiva è grave e lascerà strascichi anche in futuro. E allora perché non si è pensato in questi due anni a come supportare i contenuti dell’apprendimento e non solo l’ingresso a scuola? Credo perché abbiamo avuto tutti paura di dimostrarci deboli, paura che le nostre debolezze venissero scambiate per incapacità e dunque cercando di nasconderle.

Invece io credo che dobbiamo avere paura di un futuro che sembri il passato e da questa paura dobbiamo farci nascere una nuova idea di comunità che ci faccia comprendere come valorizzare le eccellenze e dare riparo e aiuto a ciò che non è eccellente. Non servono proclami ed esposizioni, non serve una costante presenza sui social a magnificare sé stessi. Serve, invece, saper dare conto di quello che si fa. Tutto questo non è aiutato dalle incombenze eccessive ed invasive che costringono ogni giorno chi lavora a scuola a sopportare il carico di inutile burocrazia che assale da ogni parte. Penso si debba cominciare ad imparare a misurare il valore aggiunto (dell’apprendimento, dell’insegnamento, della valutazione, delle risorse, delle sinergie, della formazione, dell’efficienza, dell’efficacia), ma partendo dalla reale situazione in cui ci si trova e non richiamandosi ad una passata età dell’oro che non è mai esistita. Essere severi e critici con noi stessi per capire quanto siamo deboli e quanto bisogno di aiuto abbiamo.

La scuola ha bisogno delle società, delle famiglie, della politica, delle amministrazioni locali, delle università, del mondo dello sport e del volontariato, della cultura, del mondo della comunicazione e di altri ancora. Ma anche questi mondi hanno tutti bisogno della scuola e senza la scuola non sanno come fare. Se siamo diventati soggetti formativi ma anche di supporto al welfare, se le famiglie hanno bisogno di noi non solo per l’apprendimento ma anche per avere un luogo dove lasciare i bambini e i ragazzi, se la società ha bisogno che da noi si affini il senso civico allora bisogna costruire alleanze partendo dalle nostre debolezze. Dobbiamo lavorare per una scuola che risponda alle esigenze del futuro e della società, non che ricordi tempi passati e che si condanni così ad essere lontana dai ragazzi che deve formare.




C’era una volta il (vice)preside

di Rosolino Cicero

Ho sempre chiamato PRESIDE i miei 6 capi di istituto incontrati da quando, nel lontano 2007, ho messo piede nella scuola statale.

E dall’anno scolastico 2010/2011 – individuato dal ds protempore nel ruolo di collaboratore (primo?….vicario?…) – non mi sono mai sentito pienamente un “vice”.

Già perché mentre con il preside esisteva formalmente riconosciuto il vicepreside, con l’istituzione del dirigente scolastico il legislatore non ha previsto un vicedirigente ma nessuno può negare che comunque nella realtà un “vice…qualcuno” c’è.

Nonostante la scuola abbia assunto – in forza dell’attribuzione dell’autonomia – una propria personalità giuridica, tutti i miei dirigenti hanno continuato a sentirsi presidi e nelle relazioni mi hanno riconosciuto un loro “vice”.

Il conferimento della qualifica dirigenziale al capo d’istituto è stata una innovazione giuridica monca che ha fatto emergere prepotentemente una specie di debolezza che nei fatti ha lasciato il dirigente attorniato da mura che ne circoscrivono l’azione propria.

Il legislatore ne ha connotato la natura con un peccato originale: non ha previsto per la prova concorsuale di accesso – unitamente all’anzianità di servizio nella funzione docente di almeno 5 anni – la necessità di un’esperienza di almeno pari durata nella governance scolastica. Entrambe le condizioni avrebbero potuto dare piena identità al preside transitato al ruolo dirigenziale.

E’ il caso di ricordare che l’incipit di questa funzione lo si trova nel comma 16 art. 21 della Legge 59/1997 dove si legge “Nel rispetto del principio della libertà di insegnamento e in connessione con l’individuazione di nuove figure professionali del personale docente, ferma restando l’unicità della funzione, ai capi d’istituto è conferita la qualifica dirigenziale contestualmente all’acquisto della personalità giuridica e dell’autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche……”. Il legislatore, dunque, ha inteso disegnare un quadro giuridico chiaro che però è rimasto in questi 25 anni incompleto proprio perché si è voluto mantenere un vulnus giuridico che per ragioni ideologiche e per indiscutibile sottomissione alla cultura dell’egualitarismo professionale di matrice sindacale ha di fatto reso il dirigente scolastico una “monade disconnessa” con la sua comunità scolastica.

L’assenza di un anello intermedio nella comunità scolastica, capace di mediare e fare sintesi, giuridicamente riconosciuto e contrattualmente definito, ha ingenerato l’idea del dirigente scolastico quale figura autocratica spesso detestata e incompresa, temuta per la sua autorità ma non apprezzata per la sua autorevolezza, quale burocrate giudicante piuttosto che un “capo” necessario e riconosciuto per una leadership funzionale alla crescita e allo sviluppo della comunità scolastica.

E in questa relazione alterata tra dirigente e operatori scolastici – in una via di mezzo – si ritrovano dei docenti, privilegiati a detta di tanti, che operano in un territorio accidentato senza confini definiti, con una funzione dall’identità offuscata, che vivono e lavorano in una “precarizzazione” di sistema che ogni anno scolastico rischia di far disperdere risorse professionali, competenze acquisite, formazione specifica conseguita.

Al dirigente scolastico manca quanto il legislatore ha previsto nel lontano 1997: la connessione con le nuove figure professionali di sistema, con una propria identità che ne avrebbero completato la funzione e dato senso alla visione (utopica?) dell’autonomia scolastica.

Nella scuola dell’autonomia abbiamo un dirigente scolastico con “oneri speciali” e “responsabilità severe” e dei docenti diversamente impegnati che, nella reciproca condizione di precarietà cui si aggiunge per i secondi un riconosciuto spirito di collaborazione e di servizio, portano avanti il progetto pedagogico, il piano didattico, il funzionamento organizzativo e – ove necessario – anche l’azione amministrativa.

Il dirigente scolastico della scuola dell’autonomia ha, dunque, sempre fruito di una governance efficiente ma precaria, non formalmente riconosciuta che ha retto però da subito l’impatto storico del cambio di identità.

Cosa fare allora?

Occorre dare al dirigente scolastico piena identità professionale, completare il quadro della governance scolastica liberandola dalla condizione di strutturale precarietà, affrontare la complessità della scuola con strumenti giuridici e contrattuali moderni ed efficaci che possano ricompensare il lavoro che ben conosciamo, duro ma entusiasmante.

Sì, è vero, occorre riportare fiducia e forti motivazioni in chi si fa carico di guidare una comunità scolastica; occorre altresì riconoscere valore secondo regole condivise alla funzione docente e alle professionalità a diverso titolo espresse.

Occorre rigenerare un “comune interesse” per risvegliare la consapevolezza che si parla della nostra scuola, non come un luogo di lavoro ma quale realtà complessa e dinamica nella quale essere un bravo docente e riconoscersi in un competente docente diversamente impegnato non è una contraddizione di ruoli ma una proficua e intelligente integrazione di professionalità.

Pienamente riconosciute, a cominciare dal…vice!




C’era una volta il preside

di Raimondo Giunta

Ho fatto sempre una grande fatica a immedesimarmi nel mestiere di preside e siccome non me l’ha prescritto il medico, ho cercato di farlo nel modo migliore possibile.
L’ho praticato con dedizione e sempre l’ho vissuto con un certo distacco. Il mio disagio è cresciuto in modo esponenziale con la dirigenza scolastica, che tra i pochi non desideravo per vari motivi che cercherò di esporre. In nessun modo, poi, avrei cambiato un nome così bello e pregnante di significato, come quello di preside (prae-sedes, prae-sidium=chi sta davanti, chi è presidio etc) per uno dei tanti participi presenti che pretendono di diventare sostantivi…

La dirigenza, peraltro, di tipo prevalentemente amministrativo, seppur colorata con tutte le forme di retorica aziendalistica, era l’espediente che si era trovato per sfuggire al contratto unico della scuola e dare ai presidi l’agognato, meritato e giustificato riconoscimento economico per le responsabilità che erano e sono in capo al ruolo di chi dirige e rappresenta una scuola.


C’erano altre vie? Se c’erano non si è tentato di trovarle. Nello stato giuridico del dirigente scolastico il ruolo è duraturo, ma l’incarico è temporaneo, soggetto a rotazione secondo criteri che, se non vengono ben definiti, potrebbero lasciare molta discrezionalità alle scelte del Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale.
In qualche modo ne ho fatto le spese e sono stato costretto alle dimissioni.
Il preside inamovibile (salvo incapacità o negligenza nella gestione), gli organi collegiali e la libertà di insegnamento hanno garantito decenni di civiltà dentro la scuola: il pluralismo, il confronto, la libertà di movimento.
Si è voluto sottovalutare questo evidente risultato della storia della scuola italiana, come un prodotto secondario di fronte ai problemi dell’efficienza, della rispondenza alle richieste immediate e pressanti della società e del mercato.
Se dovesse entrare a pieno regime e nel suo vero e costitutivo significato “la temporaneità” dell’incarico di dirigenza, alle singole scuole non verrebbe alcun beneficio. Potrebbe determinare nel dirigente scolastico un eccesso di interventismo, di zelo, di attivismo, a prescindere dalla ragionevolezza delle singole azioni, o innescare processi fittizi di adesione alle iniziative dell’amministrazione o del poter politico locale.
La scuola perderebbe di fatto la sua autonomia e il controllo e la gestione del curricolo. Sicuramente nessun dirigente potrebbe operare con il respiro e la serenità di cui poteva godere il preside che sceglieva volontariamente e definitivamente una sede di lavoro come luogo ideale per l’espletamento delle proprie responsabilità e per l’espressione della propria professionalità.

C’è qualcos’altro che va detto. Il preside era consunstanziale ad un preciso ordine e grado di istruzione nel quale aveva prestato servizio e per il quale doveva avere perlomeno l’abilitazione all’insegnamento, in caso di passaggio di presidenza.
Per alcuni istituti era necessaria addirittura la titolarità di un insegnamento delle discipline professionali. Principi organizzativi di elementare razionalità ed efficacia, che davano(..e darebbero ancora) per scontato il fatto che il preside debba avere la padronanza culturale del curriculum, della cui gestione deve essere il responsabile e che questa padronanza non possa venire se non dall’esperienza vissuta in rebus e da specifiche competenze professionali.
Si pensava, forse ingenuamente(?), che un istituto agrario con tanto di azienda agricola sarebbe stato governato bene da un agronomo; un tecnico industriale con tanto di reparto di lavorazione (non semplice laboratorio) da un ingegnere e che gli eventuali uffici tecnici non sarebbero sufficienti a surrogare le competenze che deve avere chi dev e dirigere quel tipo particolare di scuola.
Un dirigente che non sa di filosofia, di greco e di latino che ci fa in un liceo classico? Un laureato in pedagogia, ex-maestro, che ci fa in un istituto agrario o in un istituto industriale? E quando c’è da fare qualche grosso investimento “aziendale”, si affiderà ai responsi della Provvidenza?
Se il vecchio preside era legato ad una specifica tipologia di scuola, il dirigente scolastico è stato, invece, inventato universale; va bene per le elementari(primaria) e per i professionali; per i commerciali e per i classici: può non esserci mai entrato in quell’istituto, né da alunno, né da insegnante, ma sapendo di gestione, di management, di diritto scolastico, di comunicazione e soprattutto di reperimento di risorse finanziarie..sicuramente condurrà quella scuola verso traguardi inimmaginabili di profitto e di risultati educativi.
Si trascura, però, un fatto elementare; la scuola è una comunità di pratiche professionali che si costituiscono e si sviluppano nel tempo per l’intreccio di dialoghi, scambi, assimilazioni delle competenze ed esperienze in essa presenti, e se non si possiede la logica che le tiene in vita è molto facile portarle al dissolvimento. Se uno si fa un giro per le scuole si rende conto che i fatti non stiano dando ragione a chi ha voluto questo tipo di dirigenza scolastica.
Connessa a questa vicenda è la rideterminazione della rete scolastica.
C’è dirigenza se c’è autonomia e c’è autonomia se l’istituzione scolastica supera determinati parametri numerici.
Conseguenza: istituzioni scolastiche a volte con una decina di sedi.
Di fatto e per necessità lasciate al proprio destino. Saranno bravissimi i dirigenti scolastici, ma non ubiqui ..come i santi o il Padreterno. Sedi di diversa tipologia e di diverso grado di istruzione: un coacervo di curricoli, di collegi, di aspettative che nessuna logica può condurre ad unità.
E anche in questo caso si è fatto strame dell’esperienza del passato e in modo particolare di quella degli istituti professionali, che una volta erano costituiti da una pluralità di sedi territoriali, ma dello stesso indirizzo, affidate alle cure del Direttore della sede coordinata.

Oggi, al netto delle chiacchiere, per ridurre i costi di gestione si elemosinano gli esoneri o i semi-esonero al collaboratore vicario del dirigente o ai responsabili di una sede coordinata di un’istituzione scolastica con più di 1000 alunni.
Non ci vuole molta fantasia per immaginarne facilmente tutte le conseguenze .
Basta avere un’idea approssimativa di come si svolga una giornata scolastica: assenze, ritardi, giustificazioni, sostituzioni, permessi etc ,etc.
Credo che ci sia da ripensare tutta la questione della dirigenza scolastica e dell’autonomia per eliminare i guasti che sono davanti agli occhi di tutti e non è un problema solo di risorse.
E’ anche un problema di democrazia interna alle singole scuole, di stato giuridico e di carriera degli insegnanti.
Tornare al preside non ha senso anche perché fra qualche anno a scuola gli insegnanti non sapranno nemmeno che siano esistiti.
Ci sono diversi modi di intendere la direzione di una scuola, di renderla efficace; diversi modi di aggregare le istituzioni scolastiche e di farle funzionare.
Ma non con le regole, l’organizzazione e le risorse disponibili oggi.
Per più di un decennio si è fatto della dirigenza il problema principale tra i problemi della scuola. Ma non era e non è vero.
Il problema è quello di definire ruolo e funzione della scuola nella società, il suo rapporto con le nuove generazioni e con i saperi. Se non si viene a capo di queste vere emergenze, non ci sarà nessuna soluzione di tipo organizzativo e gestionale che possa trarre la scuola dalla sua condizione evidente di crisi.
E poi da sempre una scuola funziona, se quelli che la fanno funzionare in ogni singola classe sono messi in condizione di farlo serenamente.
Parlo degli insegnanti …




Il danno scolastico. Appunti per una possibile recensione

di Marco Campione

Ho finito Il danno scolastico di Ricolfi e Mastrocola. Confermo quanto detto dopo le prime pagine: trasuda disprezzo per chiunque non sia simile agli autori (per percorso di vita, letture, frequentazioni…) e per chi ha provato, fallendo come dirò sotto, a costruire una scuola veramente democratica negli ultimi sessant’anni (dalla scuola media unica in poi, per darsi un riferimento temporale).
Inoltre (e questa è la cosa più grave di tutte) si auto definisce ‘ricerca’, ma di scientifico non ha nulla. È un libro difficile, ma per confutare (scientificamente) i dati buttati lì a caso e spacciati per ricerca si veda ‘Equità e merito nella scuola’ recentemente pubblicato per Franco Angeli da Benadusi e Giancola.
Insomma, un pessimo libro – Il danno scolastico – che spero verrà dimenticato presto.
Ciò detto, leggendo alcune reazioni nella mia bolla, mi vedo costretto a dire una cosa impopolare: la toppa che propongono è peggiore del buco che descrivono, ma alcuni dei loro critici (soprattutto se ‘interni’ alla scuola) negano l’esistenza stessa del buco, che invece non solo esiste, ma è una voragine.
La risposta ai problemi della scuola non può essere quella di Mastrocola e Ricolfi, ma nemmeno la negazione del fatto che la scuola ha molti problemi è una risposta. Il principale? Abbiamo realizzato in cinquant’anni la scuola di massa (oggi si iscrive ahttps://www.amazon.it/Liberare-scuola-M-Campione/dp/8815284419/lle superiori la quasi totalità dei quattordicenni, solo trent’anni fa era il 70%, cinquant’anni fa il 50%), ma non riusciamo a ancora a renderla pienamente democratica, appunto (ogni riferimento a abbandoni, ripetenze e dispersione implicita non è casuale). Anche qui un rimando, che è quello all’introduzione che Berlinguer ha scritto per il libro che ho curato, Liberare la scuola.


I problemi della scuola sono questi, non quelli che molti detrattori del volume di Mastrocola e Ricolfi accampano. In questo sono anche io in sintonia con Roberto Maragliano, per come ne riporta il pensiero Vanessa Roghi in un pezzo (molto condivisibile) scritto a quattro mani con Raimo per Minima et moralia: “questo libro dà voce alla parte più oscura dell’inconscio scolastico, alla frustrazione senza ragionamento che colpisce chi, da sempre, si sente svalutato, messo in discussione socialmente, bistrattato e come lo fa? prendendola con le riforme, attribuendo a un elemento esterno le ragioni del proprio fallimento didattico”.

Aggiungo però che questo sentimento è presente non solo in chi, nella scuola, concorda più o meno in silenzio con le tesi reazionarie di Mastrocola e Ricolfi.
È anche in molti di quelli che li criticano. Ma che te frega? L’importante è che non concordino con loro. Me ne frega perché questo ambito è uno di quelli dove non vale la regola che basta che il gatto acchiappi il topo.
Trovo, in sintesi, che le tesi del libro e quelle di un certo tipo di detrattori siano in qualche modo speculari: la responsabilità per i problemi della scuola sono per entrambi di tutti e tutto tranne che per responsabilità della scuola stessa (il legislatore, lo spirito del tempo, la scuola democratica per Mastrocola e Ricolfi; il legislatore, lo stipendio basso, l’efficientismo tecnocratico, per gli altri).
E mentre i due gruppi continuano a darsele di santa ragione incolpando il mondo intero tranne loro stessi del fallimento (scolastico) di Martina, Martina subisce le conseguenze dei loro fallimenti (professionali).