Uno spettro si aggira per la scuola: le Non Cognitive Skills

di Giovanni Fioravanti

La Camera ha approvato, l’11 gennaio scorso, pressoché all’unanimità, la proposta di legge relativa all’introduzione dello sviluppo delle competenze non cognitive nei percorsi scolastici.

L’organizzazione degli studi nel nostro paese resta grossomodo la stessa dai tempi di Croce e Gentile, per non dire di Casati, ma la priorità che ora scopre coralmente il nostro Parlamento, con sfoggi culturali da Dewey al Costruttivismo, sono le competenze non cognitive (NCS), vendute come scoperta anglosassone e come panacea per migliorare il successo formativo, prevenire l’analfabetismo funzionale, la povertà educativa e la dispersione scolastica.

La sindrome da bonus edilizia deve avere contagiato i membri dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà fautori della proposta, i quali evidentemente pensano che siano sufficienti alcuni ritocchi alla facciata e i problemi della nostra scuola sono risolti. Si sperimenta per qualche anno e poi si vede, allo stesso modo di come si sta procedendo con la sperimentazione dei licei quadriennali. È la scuola a due velocità, da una parte si sta fermi un giro lasciando tutto inalterato, dall’altra si prova l’ebrezza del nuovo, salvo che non si tratti invece dell’usato riciclato, com’è costume storico nella nostra scuola.

La cosa strabiliante è che la proposta di legge in questione vorrebbe sperimentare l’insegnamento delle life skills, così sono definite dagli economisti le competenze non cognitive, senza indicare in alcun modo cosa siano e quali siano.

La confusione regna sovrana. Per capirci qualcosa bisogna leggere gli ordini del giorno che accompagnano l’approvazione della proposta in Parlamento. In essi si dice che le competenze non cognitive sono le Soft Skills, quelle cioè che rappresentano una risorsa fondamentale per l’accesso al mercato del lavoro come coscienziosità, apertura mentale, autodeterminazione, mentalità dinamica e resilienza. Si evoca il premio Nobel per l’economia nell’anno 2000, James Heckman, per il quale le competenze non cognitive sono l’affidabilità, capacità di lavorare in gruppo, la perseveranza e l’impegno nel processo di apprendimento e nel lavoro.

A nessuno è dato sapere come si raggiungerà e come sarà misurata la “competenza” nelle competenze non cognitive. È comunque importante iniziare fin dalla fase prescolare e dalla prima scolarizzazione, lo suggeriscono il professor Heckman, noto per la sua ricerca empirica in economia del lavoro e, in particolare, per quanto riguarda l’efficacia dei programmi di educazione della prima infanzia. E poi c’è Martin Seligman, psicologo statunitense, fondatore della psicologia positiva, autore di molti best seller come Imparare l’Ottimismo, Come Crescere Un Bambino Ottimista e La Costruzione Della Felicità.

Quando si evocano le competenze non cognitive come un corpo a se stante, specie nella scuola, è difficile non pensare alla teoria del doppio legame della pragmatica della comunicazione e all’ingiunzione divenuta famosa: “Sii spontaneo!”. Sarà interessante verificare gli esiti dell’apprendimento: “essere spontanei”.

In definitiva non sono sufficienti le linee guida dettate dal MIUR per i PCTO, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, occorre una legge in modo che fin da subito i piccoli siano esercitati alle competenze non cognitive. Non è più una questione di competenze chiave per l’apprendimento permanente come richiesto dall’Europa, ma ne va della capacità di resilienza ed autodeterminazione dei nostri figli.

Ora, cognitivo e non cognitivo rischiano di tradursi in una sorta di dubbio amletico, di rompicapo cinese, come scindere il cognitivo dal non cognitivo, quando in realtà si vuole, almeno nelle intenzioni degli estensori della proposta, che a scuola il cognitivo si accompagni al non cognitivo, che conoscenze ed emozioni, ammesso che siano non cognitive, si intreccino durante le ore di lezione.

Noi non le chiamiamo character skills, perché non siamo anglosassoni, ma il nostro sistema scolastico, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, ha come obiettivo la formazione  della persona e del cittadino. Nelle indicazioni curricolari per le nostre scuole sta scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni  persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.

C’è un’idea di interezza della persona dello studente difficilmente scindibile in mano destra e mano sinistra, in corpo e mente, in cognitivo e non cognitivo.

Dunque non siamo una scuola prussiana che addestra alla disciplina generazioni di alunni. Quindi attenzione ad imporre per legge l’addestramento delle emozioni, delle competenze non cognitive in nome della comunità educante il cui progetto non è detto che concordi con gli “orizzonti di significato” delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei  nostri ragazzi, dei nostri adolescenti.

Mentre Mastrocola e coniuge denunciano il danno scolastico prodotto da una scuola pubblica progressista, i nostri parlamentari invece pensano che è giunto il momento di porre fine alla scuola tutta hard skills e poco soft skills, tutta abilità di calcolo, verbali, logiche, capacità di memorizzazione senza lasciare spazio a motivazione, coscienziosità, positività, estroversione, proattività, stabilità emotiva, eccetera.

Il fatto è che i dati dell’Ocse Pisa e quelli Invalsi ci dicono che le nostre scuole, da nord a sud, neppure per le hard skills brillano.

L’impressione è che intorno al capezzale del malato si agitino maghi della pioggia, improvvisatori, spesso a zero come preparazione rispetto alla cultura che sarebbe necessaria per tentare di guarire il paziente.

Sembra che intorno alla scuola si coagulino tutti i fallimenti a partire da quelli degli adulti nei confronti dei giovani. I comportamenti dei giovani sono sfuggiti di mano, ora bisogna recuperarli e siccome l’educazione famigliare e sociale hanno fallito non rimane che rifugiarsi nella scuola e commissionarle tempo fa l’educazione civica, ora l’educazione della personalità, plasmarne le character skills per correre ai ripari prima che sia troppo tardi, per evitare di crescere adolescenti dalle condotte socialmente destabilizzanti.

E poi il fallimento del mercato, che non sa cosa farsene delle competenze cognitive dei nostri giovani che quando possiedono le hard skills devono andarsene all’estero perché il sistema delle imprese nel nostro paese è arretrato di almeno vent’anni. Infine il fallimento della politica che non conosce la scuola che pretende di governare, che non possiede cultura della scuola e non sa progettare l’istruzione per il futuro.

Viviamo in un mondo controverso, il XXI secolo si è aperto come il secolo della conoscenza, con il tema del cognitivo ingigantito dalla crescita delle conoscenze e dallo sviluppo delle tecnologie, di fronte a questa montagna la nostra scuola ha continuato a fare la parte del topolino. Chi sta attrezzando i nostri giovani a vivere in questo mondo, ad abitare questo secolo senza sentirsi troppo piccoli, senza doversi tirare indietro?

Nel giro di pochi anni siamo passati dal secolo della conoscenza al secolo della resilienza. La preoccupazione di addestrare i nostri giovani alle competenze non cognitive fa sorgere l’inquietante  sospetto che li si voglia preparare a saper reggere l’urto di una annunciata pesante sconfitta nell’incontro con il futuro.




Verso la scuola del post-pandemia (purché non sia quella del pre-pandemia)

di Stefano Stefanel

La pandemia che non vuole finire e che ricompare sempre sotto mutate sembianze, costringendo a rincorrere le emergenze, non ha permesso di trovare soluzioni a problemi vecchi e ha messo tutti davanti ad ostacoli nuovi. Se andiamo indietro nel tempo a due anni fa credo nessuno possa sostenere che la scuola, così com’era, funzionava perfettamente e non aveva bisogno di particolari interventi. Venivamo da vent’anni di riforme incompiute e di risultati certificati come non soddisfacenti e le strade che si aprivano non mostravano, comunque, porti sicuri.
Due anni dopo ci siamo spostati da dove eravamo, ma i problemi si sono ingigantiti, senza che venisse in mente a nessuno una soluzione condivisa, un’idea chiara e distinta, una strada con un punto d’approdo certo. Il sistema scolastico italiano riesce ad individuare con chiarezza i suoi mali, ma stenta a trovare i rimedi; individua con altrettanta chiarezza i suoi punti di forza, ma non li fa diventare sistema, preferendo isolarli dentro una sorta di eguaglianza scambiata per equità.

Una delle evidenze maggiori portata allo scoperto dalla pandemia è il tentativo di affrontare con sistemi tradizionali una situazione emergenziale in costante mutamento. A due anni dalla pandemia non solo non è chiaro come ne usciamo, ma nemmeno cosa faremo o dovremmo fare per limitare i danni al sistema scolastico ed educativo che l’emergenza ha prodotto.
Anche perché il nostro sistema scolastico è in perenne affanno ed ha una sua intrinseca fragilità, dentro meccanismi come le graduatorie permanenti, i mansionari rigidi del personale ata, le difficoltà di reclutamento di docenti di valore, la facoltatività oggettiva della formazione, l’alta dispersione scolastica, l’enorme numero di giovani che non studiano e non lavorano.
Da due anni il problema maggiore, però, è quello di come rientrare a scuola tutti insieme e contemporaneamente, per poi ritrarsi davanti a bollettini terribili, a norme di complessa attuazione, a soldi che non sempre aiutano a risolvere le molte contingenze. È vero che tutti speriamo che questa sia l’ultima emergenza e che presto tutti saremo di nuovo insieme dentro le scuole senza distanziamenti, senza mascherine, senza quarantene. Ma è anche vero che in due anni non siamo riusciti a dare un contenuto didattico e formativo all’emergenza. Il primo anno sono stati promossi tutti gli studenti, il secondo anno si è tornati alle bocciature, il terzo anno (questo) sarà una grande finzione di normalità che sfocerà in esiti punitivi su studenti che sono oggettivamente rimasti indietro. Il tutto giocato sempre dentro azioni emergenziali in attesa che “passi la nottata”.

Se la cosa più importante è sempre stata il tornare a scuola non è nato alcun dibattito su cosa dentro la scuola in cui si è tornati era meglio fare. Personalmente sono tra quelli che hanno sperato (invano, temo) che questa emergenza levasse alcune pratiche del passato molto punitive per il sistema scolastico italiano, ma sono anche tra quelli che prende atto del desiderio predominante di restaurazione. Anche, però, se si è disponibili a ragionare se sia meglio l’innovazione o la restaurazione, non pare ci sia nessuno che abbia realmente voglia di farlo. Prendete tutta la questione del digitale: da un lato si tende alla sua demonizzazione collegandolo alla Didattica a distanza vista come male assoluto, dall’altro si nega alla Didattica digitale integrata una vera cittadinanza, ma dall’altro lato ancora si finanziano progetti con cifre molto consistenti proprio per la transizione digitale.
Ma anche sulla questione dell’ecosostenibilità non si va mai veramente al fondo delle cose per far uscire le materie scientifiche dal loro retaggio passato e autoreferenziale e farle entrare nel mondo del futuro (degli algoritmi, del problem solving, della complessità informatica, delle bio-tecnologie, dell’eco sostenibilità, ecc.). Se un compito in classe vale più di mille lavori di ricerca e di analisi decisamente la transizione ecologica avrà vita piuttosto combattuta in Italia, ma, soprattutto, sarà appannaggio delle multinazionali e non di un Sistema Italia che dia un futuro professionale ai suoi giovani laureati in materie scientifiche.

Un’altra questione di grande interesse, legata all’emergenza, è quella delle rilevazioni nazionali e dei vari monitoraggi. In questo labirinto di numeri ognuno li usa per il suo scopo, magari premettendo che sono numeri inficiati da situazioni alterate dalla pandemia o mitigati nella loro profondità da risultati acquisiti a macchia di leopardo. Ma poi tutto cade dentro il calderone dei dati trattati tutti come sondaggi, come tendenza, come classifica. Non c’è nessun senso critico nell’analisi confusa dei risultati Invalsi (resi deboli da rilevazioni avvenute in emergenza e non complete), dei dati di Eduscopio (totalmente fuorvianti), dei monitoraggi sui contagi a scuola, di quelli sull’uso dei mezzi di trasporto, di quelli sulle connettività, di quelli sugli esami di stato. E quindi ognuno di noi usa i numeri che più gli fanno comodo, si compara con chi decide di compararsi, espone teorie ed opinioni sperando che si trasformino in dati.

La pandemia ha aumentato una tendenza a mostrarsi più forti di quello che siamo, quasi che le nostre debolezze nascessero da nostre inadempienze e incapacità, e non da una situazione oggettivamente drammatica. Tutta la questione delle povertà educative in aumento sta lì a dimostrare che la situazione oggettiva è grave e lascerà strascichi anche in futuro. E allora perché non si è pensato in questi due anni a come supportare i contenuti dell’apprendimento e non solo l’ingresso a scuola? Credo perché abbiamo avuto tutti paura di dimostrarci deboli, paura che le nostre debolezze venissero scambiate per incapacità e dunque cercando di nasconderle.

Invece io credo che dobbiamo avere paura di un futuro che sembri il passato e da questa paura dobbiamo farci nascere una nuova idea di comunità che ci faccia comprendere come valorizzare le eccellenze e dare riparo e aiuto a ciò che non è eccellente. Non servono proclami ed esposizioni, non serve una costante presenza sui social a magnificare sé stessi. Serve, invece, saper dare conto di quello che si fa. Tutto questo non è aiutato dalle incombenze eccessive ed invasive che costringono ogni giorno chi lavora a scuola a sopportare il carico di inutile burocrazia che assale da ogni parte. Penso si debba cominciare ad imparare a misurare il valore aggiunto (dell’apprendimento, dell’insegnamento, della valutazione, delle risorse, delle sinergie, della formazione, dell’efficienza, dell’efficacia), ma partendo dalla reale situazione in cui ci si trova e non richiamandosi ad una passata età dell’oro che non è mai esistita. Essere severi e critici con noi stessi per capire quanto siamo deboli e quanto bisogno di aiuto abbiamo.

La scuola ha bisogno delle società, delle famiglie, della politica, delle amministrazioni locali, delle università, del mondo dello sport e del volontariato, della cultura, del mondo della comunicazione e di altri ancora. Ma anche questi mondi hanno tutti bisogno della scuola e senza la scuola non sanno come fare. Se siamo diventati soggetti formativi ma anche di supporto al welfare, se le famiglie hanno bisogno di noi non solo per l’apprendimento ma anche per avere un luogo dove lasciare i bambini e i ragazzi, se la società ha bisogno che da noi si affini il senso civico allora bisogna costruire alleanze partendo dalle nostre debolezze. Dobbiamo lavorare per una scuola che risponda alle esigenze del futuro e della società, non che ricordi tempi passati e che si condanni così ad essere lontana dai ragazzi che deve formare.




C’era una volta il (vice)preside

di Rosolino Cicero

Ho sempre chiamato PRESIDE i miei 6 capi di istituto incontrati da quando, nel lontano 2007, ho messo piede nella scuola statale.

E dall’anno scolastico 2010/2011 – individuato dal ds protempore nel ruolo di collaboratore (primo?….vicario?…) – non mi sono mai sentito pienamente un “vice”.

Già perché mentre con il preside esisteva formalmente riconosciuto il vicepreside, con l’istituzione del dirigente scolastico il legislatore non ha previsto un vicedirigente ma nessuno può negare che comunque nella realtà un “vice…qualcuno” c’è.

Nonostante la scuola abbia assunto – in forza dell’attribuzione dell’autonomia – una propria personalità giuridica, tutti i miei dirigenti hanno continuato a sentirsi presidi e nelle relazioni mi hanno riconosciuto un loro “vice”.

Il conferimento della qualifica dirigenziale al capo d’istituto è stata una innovazione giuridica monca che ha fatto emergere prepotentemente una specie di debolezza che nei fatti ha lasciato il dirigente attorniato da mura che ne circoscrivono l’azione propria.

Il legislatore ne ha connotato la natura con un peccato originale: non ha previsto per la prova concorsuale di accesso – unitamente all’anzianità di servizio nella funzione docente di almeno 5 anni – la necessità di un’esperienza di almeno pari durata nella governance scolastica. Entrambe le condizioni avrebbero potuto dare piena identità al preside transitato al ruolo dirigenziale.

E’ il caso di ricordare che l’incipit di questa funzione lo si trova nel comma 16 art. 21 della Legge 59/1997 dove si legge “Nel rispetto del principio della libertà di insegnamento e in connessione con l’individuazione di nuove figure professionali del personale docente, ferma restando l’unicità della funzione, ai capi d’istituto è conferita la qualifica dirigenziale contestualmente all’acquisto della personalità giuridica e dell’autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche……”. Il legislatore, dunque, ha inteso disegnare un quadro giuridico chiaro che però è rimasto in questi 25 anni incompleto proprio perché si è voluto mantenere un vulnus giuridico che per ragioni ideologiche e per indiscutibile sottomissione alla cultura dell’egualitarismo professionale di matrice sindacale ha di fatto reso il dirigente scolastico una “monade disconnessa” con la sua comunità scolastica.

L’assenza di un anello intermedio nella comunità scolastica, capace di mediare e fare sintesi, giuridicamente riconosciuto e contrattualmente definito, ha ingenerato l’idea del dirigente scolastico quale figura autocratica spesso detestata e incompresa, temuta per la sua autorità ma non apprezzata per la sua autorevolezza, quale burocrate giudicante piuttosto che un “capo” necessario e riconosciuto per una leadership funzionale alla crescita e allo sviluppo della comunità scolastica.

E in questa relazione alterata tra dirigente e operatori scolastici – in una via di mezzo – si ritrovano dei docenti, privilegiati a detta di tanti, che operano in un territorio accidentato senza confini definiti, con una funzione dall’identità offuscata, che vivono e lavorano in una “precarizzazione” di sistema che ogni anno scolastico rischia di far disperdere risorse professionali, competenze acquisite, formazione specifica conseguita.

Al dirigente scolastico manca quanto il legislatore ha previsto nel lontano 1997: la connessione con le nuove figure professionali di sistema, con una propria identità che ne avrebbero completato la funzione e dato senso alla visione (utopica?) dell’autonomia scolastica.

Nella scuola dell’autonomia abbiamo un dirigente scolastico con “oneri speciali” e “responsabilità severe” e dei docenti diversamente impegnati che, nella reciproca condizione di precarietà cui si aggiunge per i secondi un riconosciuto spirito di collaborazione e di servizio, portano avanti il progetto pedagogico, il piano didattico, il funzionamento organizzativo e – ove necessario – anche l’azione amministrativa.

Il dirigente scolastico della scuola dell’autonomia ha, dunque, sempre fruito di una governance efficiente ma precaria, non formalmente riconosciuta che ha retto però da subito l’impatto storico del cambio di identità.

Cosa fare allora?

Occorre dare al dirigente scolastico piena identità professionale, completare il quadro della governance scolastica liberandola dalla condizione di strutturale precarietà, affrontare la complessità della scuola con strumenti giuridici e contrattuali moderni ed efficaci che possano ricompensare il lavoro che ben conosciamo, duro ma entusiasmante.

Sì, è vero, occorre riportare fiducia e forti motivazioni in chi si fa carico di guidare una comunità scolastica; occorre altresì riconoscere valore secondo regole condivise alla funzione docente e alle professionalità a diverso titolo espresse.

Occorre rigenerare un “comune interesse” per risvegliare la consapevolezza che si parla della nostra scuola, non come un luogo di lavoro ma quale realtà complessa e dinamica nella quale essere un bravo docente e riconoscersi in un competente docente diversamente impegnato non è una contraddizione di ruoli ma una proficua e intelligente integrazione di professionalità.

Pienamente riconosciute, a cominciare dal…vice!




C’era una volta il preside

di Raimondo Giunta

Ho fatto sempre una grande fatica a immedesimarmi nel mestiere di preside e siccome non me l’ha prescritto il medico, ho cercato di farlo nel modo migliore possibile.
L’ho praticato con dedizione e sempre l’ho vissuto con un certo distacco. Il mio disagio è cresciuto in modo esponenziale con la dirigenza scolastica, che tra i pochi non desideravo per vari motivi che cercherò di esporre. In nessun modo, poi, avrei cambiato un nome così bello e pregnante di significato, come quello di preside (prae-sedes, prae-sidium=chi sta davanti, chi è presidio etc) per uno dei tanti participi presenti che pretendono di diventare sostantivi…

La dirigenza, peraltro, di tipo prevalentemente amministrativo, seppur colorata con tutte le forme di retorica aziendalistica, era l’espediente che si era trovato per sfuggire al contratto unico della scuola e dare ai presidi l’agognato, meritato e giustificato riconoscimento economico per le responsabilità che erano e sono in capo al ruolo di chi dirige e rappresenta una scuola.


C’erano altre vie? Se c’erano non si è tentato di trovarle. Nello stato giuridico del dirigente scolastico il ruolo è duraturo, ma l’incarico è temporaneo, soggetto a rotazione secondo criteri che, se non vengono ben definiti, potrebbero lasciare molta discrezionalità alle scelte del Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale.
In qualche modo ne ho fatto le spese e sono stato costretto alle dimissioni.
Il preside inamovibile (salvo incapacità o negligenza nella gestione), gli organi collegiali e la libertà di insegnamento hanno garantito decenni di civiltà dentro la scuola: il pluralismo, il confronto, la libertà di movimento.
Si è voluto sottovalutare questo evidente risultato della storia della scuola italiana, come un prodotto secondario di fronte ai problemi dell’efficienza, della rispondenza alle richieste immediate e pressanti della società e del mercato.
Se dovesse entrare a pieno regime e nel suo vero e costitutivo significato “la temporaneità” dell’incarico di dirigenza, alle singole scuole non verrebbe alcun beneficio. Potrebbe determinare nel dirigente scolastico un eccesso di interventismo, di zelo, di attivismo, a prescindere dalla ragionevolezza delle singole azioni, o innescare processi fittizi di adesione alle iniziative dell’amministrazione o del poter politico locale.
La scuola perderebbe di fatto la sua autonomia e il controllo e la gestione del curricolo. Sicuramente nessun dirigente potrebbe operare con il respiro e la serenità di cui poteva godere il preside che sceglieva volontariamente e definitivamente una sede di lavoro come luogo ideale per l’espletamento delle proprie responsabilità e per l’espressione della propria professionalità.

C’è qualcos’altro che va detto. Il preside era consunstanziale ad un preciso ordine e grado di istruzione nel quale aveva prestato servizio e per il quale doveva avere perlomeno l’abilitazione all’insegnamento, in caso di passaggio di presidenza.
Per alcuni istituti era necessaria addirittura la titolarità di un insegnamento delle discipline professionali. Principi organizzativi di elementare razionalità ed efficacia, che davano(..e darebbero ancora) per scontato il fatto che il preside debba avere la padronanza culturale del curriculum, della cui gestione deve essere il responsabile e che questa padronanza non possa venire se non dall’esperienza vissuta in rebus e da specifiche competenze professionali.
Si pensava, forse ingenuamente(?), che un istituto agrario con tanto di azienda agricola sarebbe stato governato bene da un agronomo; un tecnico industriale con tanto di reparto di lavorazione (non semplice laboratorio) da un ingegnere e che gli eventuali uffici tecnici non sarebbero sufficienti a surrogare le competenze che deve avere chi dev e dirigere quel tipo particolare di scuola.
Un dirigente che non sa di filosofia, di greco e di latino che ci fa in un liceo classico? Un laureato in pedagogia, ex-maestro, che ci fa in un istituto agrario o in un istituto industriale? E quando c’è da fare qualche grosso investimento “aziendale”, si affiderà ai responsi della Provvidenza?
Se il vecchio preside era legato ad una specifica tipologia di scuola, il dirigente scolastico è stato, invece, inventato universale; va bene per le elementari(primaria) e per i professionali; per i commerciali e per i classici: può non esserci mai entrato in quell’istituto, né da alunno, né da insegnante, ma sapendo di gestione, di management, di diritto scolastico, di comunicazione e soprattutto di reperimento di risorse finanziarie..sicuramente condurrà quella scuola verso traguardi inimmaginabili di profitto e di risultati educativi.
Si trascura, però, un fatto elementare; la scuola è una comunità di pratiche professionali che si costituiscono e si sviluppano nel tempo per l’intreccio di dialoghi, scambi, assimilazioni delle competenze ed esperienze in essa presenti, e se non si possiede la logica che le tiene in vita è molto facile portarle al dissolvimento. Se uno si fa un giro per le scuole si rende conto che i fatti non stiano dando ragione a chi ha voluto questo tipo di dirigenza scolastica.
Connessa a questa vicenda è la rideterminazione della rete scolastica.
C’è dirigenza se c’è autonomia e c’è autonomia se l’istituzione scolastica supera determinati parametri numerici.
Conseguenza: istituzioni scolastiche a volte con una decina di sedi.
Di fatto e per necessità lasciate al proprio destino. Saranno bravissimi i dirigenti scolastici, ma non ubiqui ..come i santi o il Padreterno. Sedi di diversa tipologia e di diverso grado di istruzione: un coacervo di curricoli, di collegi, di aspettative che nessuna logica può condurre ad unità.
E anche in questo caso si è fatto strame dell’esperienza del passato e in modo particolare di quella degli istituti professionali, che una volta erano costituiti da una pluralità di sedi territoriali, ma dello stesso indirizzo, affidate alle cure del Direttore della sede coordinata.

Oggi, al netto delle chiacchiere, per ridurre i costi di gestione si elemosinano gli esoneri o i semi-esonero al collaboratore vicario del dirigente o ai responsabili di una sede coordinata di un’istituzione scolastica con più di 1000 alunni.
Non ci vuole molta fantasia per immaginarne facilmente tutte le conseguenze .
Basta avere un’idea approssimativa di come si svolga una giornata scolastica: assenze, ritardi, giustificazioni, sostituzioni, permessi etc ,etc.
Credo che ci sia da ripensare tutta la questione della dirigenza scolastica e dell’autonomia per eliminare i guasti che sono davanti agli occhi di tutti e non è un problema solo di risorse.
E’ anche un problema di democrazia interna alle singole scuole, di stato giuridico e di carriera degli insegnanti.
Tornare al preside non ha senso anche perché fra qualche anno a scuola gli insegnanti non sapranno nemmeno che siano esistiti.
Ci sono diversi modi di intendere la direzione di una scuola, di renderla efficace; diversi modi di aggregare le istituzioni scolastiche e di farle funzionare.
Ma non con le regole, l’organizzazione e le risorse disponibili oggi.
Per più di un decennio si è fatto della dirigenza il problema principale tra i problemi della scuola. Ma non era e non è vero.
Il problema è quello di definire ruolo e funzione della scuola nella società, il suo rapporto con le nuove generazioni e con i saperi. Se non si viene a capo di queste vere emergenze, non ci sarà nessuna soluzione di tipo organizzativo e gestionale che possa trarre la scuola dalla sua condizione evidente di crisi.
E poi da sempre una scuola funziona, se quelli che la fanno funzionare in ogni singola classe sono messi in condizione di farlo serenamente.
Parlo degli insegnanti …




Il danno scolastico. Appunti per una possibile recensione

di Marco Campione

Ho finito Il danno scolastico di Ricolfi e Mastrocola. Confermo quanto detto dopo le prime pagine: trasuda disprezzo per chiunque non sia simile agli autori (per percorso di vita, letture, frequentazioni…) e per chi ha provato, fallendo come dirò sotto, a costruire una scuola veramente democratica negli ultimi sessant’anni (dalla scuola media unica in poi, per darsi un riferimento temporale).
Inoltre (e questa è la cosa più grave di tutte) si auto definisce ‘ricerca’, ma di scientifico non ha nulla. È un libro difficile, ma per confutare (scientificamente) i dati buttati lì a caso e spacciati per ricerca si veda ‘Equità e merito nella scuola’ recentemente pubblicato per Franco Angeli da Benadusi e Giancola.
Insomma, un pessimo libro – Il danno scolastico – che spero verrà dimenticato presto.
Ciò detto, leggendo alcune reazioni nella mia bolla, mi vedo costretto a dire una cosa impopolare: la toppa che propongono è peggiore del buco che descrivono, ma alcuni dei loro critici (soprattutto se ‘interni’ alla scuola) negano l’esistenza stessa del buco, che invece non solo esiste, ma è una voragine.
La risposta ai problemi della scuola non può essere quella di Mastrocola e Ricolfi, ma nemmeno la negazione del fatto che la scuola ha molti problemi è una risposta. Il principale? Abbiamo realizzato in cinquant’anni la scuola di massa (oggi si iscrive ahttps://www.amazon.it/Liberare-scuola-M-Campione/dp/8815284419/lle superiori la quasi totalità dei quattordicenni, solo trent’anni fa era il 70%, cinquant’anni fa il 50%), ma non riusciamo a ancora a renderla pienamente democratica, appunto (ogni riferimento a abbandoni, ripetenze e dispersione implicita non è casuale). Anche qui un rimando, che è quello all’introduzione che Berlinguer ha scritto per il libro che ho curato, Liberare la scuola.


I problemi della scuola sono questi, non quelli che molti detrattori del volume di Mastrocola e Ricolfi accampano. In questo sono anche io in sintonia con Roberto Maragliano, per come ne riporta il pensiero Vanessa Roghi in un pezzo (molto condivisibile) scritto a quattro mani con Raimo per Minima et moralia: “questo libro dà voce alla parte più oscura dell’inconscio scolastico, alla frustrazione senza ragionamento che colpisce chi, da sempre, si sente svalutato, messo in discussione socialmente, bistrattato e come lo fa? prendendola con le riforme, attribuendo a un elemento esterno le ragioni del proprio fallimento didattico”.

Aggiungo però che questo sentimento è presente non solo in chi, nella scuola, concorda più o meno in silenzio con le tesi reazionarie di Mastrocola e Ricolfi.
È anche in molti di quelli che li criticano. Ma che te frega? L’importante è che non concordino con loro. Me ne frega perché questo ambito è uno di quelli dove non vale la regola che basta che il gatto acchiappi il topo.
Trovo, in sintesi, che le tesi del libro e quelle di un certo tipo di detrattori siano in qualche modo speculari: la responsabilità per i problemi della scuola sono per entrambi di tutti e tutto tranne che per responsabilità della scuola stessa (il legislatore, lo spirito del tempo, la scuola democratica per Mastrocola e Ricolfi; il legislatore, lo stipendio basso, l’efficientismo tecnocratico, per gli altri).
E mentre i due gruppi continuano a darsele di santa ragione incolpando il mondo intero tranne loro stessi del fallimento (scolastico) di Martina, Martina subisce le conseguenze dei loro fallimenti (professionali).




Lo strano caso degli istituti comprensivi, la crisi infinita della scuola media e l’ignavia della politica

Stefaneldi Nicola Puttilli

Nel bel convegno organizzato da ANDIS a Jesolo lo scorso 29 ottobre il presidente di INVALSI Roberto Ricci ha ancora una volta ricordato come la scuola primaria italiana non sfiguri affatto nei confronti internazionali, mentre si registra una caduta verticale non appena il riferimento ricade sui dati relativi alla scuola secondaria di primo grado. Nell’intervento immediatamente successivo la prof.ssa Barbara Romano di Fondazione Agnelli (entrambe le relazioni sono visibili nell’area riservata del sito dell’associazione) ha illustrato in modo dettagliato numeri, condizioni e caratteristiche di questa crisi ormai più che ventennale, esito di una ricerca recentemente pubblicata.

Così come più che ventennale è l’istituzione dei primi istituti comprensivi, nati a metà degli anni ’90 come risposta al progressivo spopolamento di alcune specifiche e circoscritte aree del Paese (comuni montani, piccole isole, ecc.).
In poco più di un ventennio quella che era un’esperienza di nicchia legata a condizioni del tutto particolari è diventata la forma organizzativa largamente prevalente nella scuola di base, verosimilmente destinata ad ulteriori incrementi, fino a rendere di fatto residuali direzioni didattiche e scuole medie autonome.

Il tutto senza riferimenti normativi particolarmente significativi se si considera che quello più rilevante può essere considerato il DL 98 del 6.7.2011 dall’eloquente titolo “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” (neanche successivamente confermato dal Parlamento), scritto in tutta fretta dal governo Berlusconi in risposta alla famosa lettera a firma congiunta Commissione Europea – BCE, nel tentativo disperato di frenare la crisi economica dilagante.

Per il resto la L 97/94 ne decreta la nascita nell’ambito, come già detto, delle misure sulla “tutela delle zone di montagna”, mentre la crescita esponenziale di questo modello organizzativo è dovuta sostanzialmente al DPR 233/98 relativo a norme sul dimensionamento delle istituzioni scolastiche. Nessuna analisi né motivazione di ordine pedagogico nelle norme citate. Eppure, laddove nulla ha potuto la L 30/00 con il suo disegno complessivo di riforma è stato l’intervento fin troppo determinato di comuni e regioni (comunque ben assecondato dai vari governi in carica) a modificare sostanzialmente in pochi anni il panorama organizzativo (e non solo) della nostra scuola di base.

In realtà le prime esperienze di comprensivo erano nate in condizioni quasi sperimentali, in contesti fortemente motivati e protetti, con attenzione prioritaria alle variabili di ordine pedagogico, a partire dalla non semplice costruzione di un curricolo verticale, come base e premessa dei cambiamenti organizzativi.

I due ordini di scuola venivano del resto da storie e vissuti molto diversi: oltre un ventennio di riforme nate dal basso e in buona misura metabolizzate dalla scuola primaria (L 820 sul tempo pieno, L 517 sulla valutazione formativa, nuovi programmi dell’85, buona attitudine alla formazione in servizio), mentre la scuola media era sostanzialmente rimasta quella delle “vestali della classe media” così ben descritte da Barbagli e Dei nel loro saggio degli anni ’70, con riforme che pur ci sono state in analogia con quelle della scuola primaria (tempo prolungato, programmi del ’79) ma che non hanno inciso in modo sostanziale sul reale modo di essere di questo ordine di scuola.

Nonostante tutto ciò il messaggio lanciato dal comprensivo è risultato suggestivo e accattivante: come rispondere alle sacrosante esigenze di continuità e alla crisi, già nettamente percepita, della scuola media senza intervenire formalmente sugli ordinamenti, materia sempre scottante anche sul piano ideologico e soprattutto senza toccare lo stato giuridico, e i conseguenti aspetti retributivi, del personale docente. Una volta scongiurato il “pericolo” della L 30 il personale (e i sindacati) della scuola hanno accettato come male minore le proposte (a volte folli più che stravaganti) degli enti locali sul dimensionamento, purtroppo entusiasticamente sostenuti (non sempre per fortuna) da dirigenti scolastici in vena di manie di grandezza.

E’ del tutto ovvio e generalmente condiviso che una reale continuità didattica, curricolare, organizzativa possa essere di grande giovamento ai due ordini di scuola e in particolare a quello che si trova in maggiore difficoltà e il modello originale di comprensivo offriva per intero questa potenzialità. Il fatto di nascere “dal basso” ne costituiva, inoltre, un ulteriore punto di forza. La continuità, tuttavia, non si ottiene magicamente mettendo semplicisticamente  insieme due pezzi di scuola che, tra l’altro, per decenni non si sono parlati, guardandosi  spesso con sospetto e diffidenza.

Chi ha effettivamente lavorato su una vera continuità sa che si tratta di un percorso lungo, faticoso e delicato che deve essere costantemente guidato e supportato e che richiede, per avere successo, alcune condizioni di contesto e di fattibilità. Almeno su alcune di queste si sarebbe dovuto intervenire prima di procedere (o al limite contestualmente) ai massicci processi di accorpamento ai quali abbiamo assistito e alla quasi generalizzazione degli istituti comprensivi:

la continuità tra i flussi di alunni e la dimensione delle autonomie scolastiche.
Viene meno la continuità del progetto educativo elaborato congiuntamente se gli alunni della scuola primaria, per ragioni di vicinanza ad esempio, vanno a frequentare la scuola media di un’altra autonomia scolastica. La dimensione dell’autonomia è inoltre un fattore cruciale: i parametri delineati dal DPR 233/98 (tutt’ora in vigore, di norma tra 500 e 900 alunni) consentono un confronto non solo formale nell’ambito del Collegio dei docenti e al dirigente scolastico l’esercizio di quella leadership educativa e relazionale che tante ricerche hanno dimostrato essere elemento centrale nel buon funzionamento della scuola e nei relativi esiti.
Nella gran parte dei dimensionamenti realizzati che hanno portato alla formazione degli istituti comprensivi non si è assolutamente tenuto conto di questi fattori. Nei contesti a forte urbanizzazione in particolare, sovente non è rispettata la continuità dei flussi e l’accorpamento si è spesso verificato mettendo semplicemente insieme una direzione didattica e una scuola media, a volte neanche la più vicina. Altre volte si è proceduto alla scomposizione della direzione didattica assegnando i relativi plessi a diverse scuole medie. In ogni caso l’esito conclusivo è stato quasi sempre il raddoppio della popolazione scolastica, con medie intorno ai 1500 alunni, delle singole autonomie (peraltro in molti casi, come in Piemonte, già perfettamente dimensionate ai sensi di legge) quasi fosse vanto dell’assessore di turno procedere al maggior numero di accorpamenti possibile (nelle superiori è andata anche peggio con la creazione di mostri di 2500/700 alunni, per i dirigenti scolastici è un altro lavoro).

Le condizioni di lavoro, lo stato giuridico e il trattamento retributivo del personale docente.
A oltre un ventennio dall’istituzione dei primi comprensivi continuiamo ad assistere al paradosso dell’insegnante che lavora di più pagato meno di tutti. Sempre da un ventennio circa per tutti i docenti è prevista la formazione universitaria, ma un’insegnante di scuola dell’infanzia con 25 ore settimanali di insegnamento (certo non meno impegnativo degli altri ordini di scuola) guadagna meno dell’insegnante di scuola primaria che di ore ne ha 22+2 di programmazione e ancora meno dell’insegnante di scuola media il cui orario di cattedra è di 18 ore (senza programmazione, evidentemente serve solo nella primaria, mentre nella costruzione di una realtà così complessa e innovativa sarebbe una condizione irrinunciabile).

– Il piano strategico della formazione.
La situazione generale della nostra scuola per come emerge dai confronti internazionali e per le forti disparità che la caratterizzano, richiederebbe un’azione di formazione qualificata e permanente in tutti gli ordini di scuola e in particolare nella secondaria per quanto concerne gli aspetti pedagogici, psicologici e relazionali. La costituzione degli istituti comprensivi avrebbe a sua volta richiesto un parallelo percorso di formazione particolarmente centrato sulla continuità curricolare.

L’idea di istituto comprensivo, per quanto nata per e in contesti specifici e particolari, si è ben presto rivelata un’idea di successo apprezzata dal personale della scuola, contrariamente a leggi di sistema che intervenivano in modo più completo e organico sugli ordinamenti e le prime esperienze lasciavano intravvedere interessanti sviluppi sia sul piano organizzativo che sul piano pedagogico e didattico. L’aver praticamente identificato il percorso del comprensivo con quello del dimensionamento, senza minimamente curarne le condizioni di fattibilità (corretta dimensione e rispetto dei flussi di continuità, omogeneizzazione delle condizioni di lavoro e di stato giuridico del personale, congruo tempo per la progettazione e la programmazione comune tra ordini di scuola, formazione mirata e qualificata) rischia di bruciare nel caos e nella frustrazione un’esperienza che avrebbe potuto essere vincente (si aggiunga, non ultimo per chi lo deve gestire, il caos generato dai processi amministrativi diventati molto più complessi senza alcun adeguamento del personale).

Quanto ai dimensionamenti è impossibile tornare indietro, ma è doveroso considerare con attenzione estrema quelli futuri e correggere le distorsioni più evidenti e insostenibili, per il resto le risorse ci sarebbero anche, quello che manca è un po’ di visione e di volontà politica, anche nel contrastare le resistenze “a prescindere” di parte del personale.

Cura, accompagnamento, supporto e qualche solido finanziamento per un serio percorso di formazione e per l’adeguamento e l’omogeneizzazione dello stato giuridico e del trattamento economico del personale. Invece si è colta l’occasione di ulteriori risparmi con la soppressione, senza condizioni, di centinaia di autonomie scolastiche, con l’alibi più o meno consapevole della continuità didattica. A quanto pare la scuola media non è migliorata, speriamo non peggiori la scuola primaria.




Contratto scuola: “adeguamento” e “aumento” non sono sinonimi

di Gianfranco Scialpi

Quando si parla del cntratto scuola, “adeguamenti” e “aumenti” sono spesso utilizzati come sinonimi.
Facendo chiarezza, si comprende la realtà sconsolante nella quale si trova il docente italiano

Contratto scuola, facciamo chiarezza sui termini

Contratto scuola. Riguarda la categoria più numerosa del pubblico impiego. Purtroppo, il patto è regolato dal D. Lvo 29/93 che purtroppo impedisce di sognare cifre esagerate. Le dichiarazioni e il dibattito pre-contrattuale è viziato da una certa confusione sulla terminologia usata. In altri termini si presentano come sinonimi adeguamenti e aumenti. Il primo ha un riferimento molto preciso: il tasso d’inflazione programmata (D.Lvo29/93) da non confondere con quella reale, sempre maggiore. Il secondo invece fa riferimento a risorse superiori al costo della vita reale. Pertanto, per il pubblico impiego e quindi anche per la scuola, non parliamo di mancati aumenti, bensì di graduale perdita d’acquisto. Il concetto rimanda alla possibilità di acquistare un determinato numero di beni e servizi con un certo reddito. Il potere d’acquisto è correlato all’inflazione. Se i prezzi aumentano (inflazione reale) e il reddito rimane inalterato, allora la nostra possibilità di acquistare gli stessi beni si riduce. Da qui si comprende il graduale impoverimento dei docenti che purtroppo dura da quasi trent’anni. Si comprendono i confronti impietosi
Un lavoro condotto dal Centro Studi Nazionale della Gilda, spazza via ogni alibi. Abbiamo perso tanto. Si legge “In 10 anni gli stipendi dei docenti italiani sono calati mediamente del 7% rispetto all’andamento dell’inflazione. Tradotto in altri termini, significa che dal 2007 a oggi le buste paga mensili si sono alleggerite di circa 170 euro lordi.”
Impietoso diventa il confronto con i paesi europei. Si legge sul sito del sindacato Anief: “In Germania e in Francia le cose sono andate ben diversamene. Il lavoratore dipendente tedesco nel 2010 godeva già in media di una retribuzione lorda più alta di quello italiano, collocandosi a quota 35.621 e nel 2017 è salito di ben 3.825 euro quota 39.446 euro. Anche il lavoratore francese nel 2010 guadagnava di più del nostro – era a quota 35.724 – e nel 2017 porta a casa il 5,3 per cento in più collocandosi a 37.622 euro”.