La scuola secondo Valditara: la scuola come punizione

di Simonetta Fasoli

Come prevedibile, il ddl che ridisegna i contorni della scuola al tempo della destra al governo è stato approvato in via definitiva alla Camera e attende ora la pubblicazione in G.U. per entrare in vigore.
I successivi decreti attuativi ne assicureranno l’effettiva operatività.
È un provvedimento che investe diverse materie, con l’intento dichiarato di ridare credibilità e strumenti di sostegno a un’istituzione in evidente affanno. Intento lodevole…se non fosse che, a ben vedere e a mio parere, va in direzione contraria, come cercherò di argomentare.

Le analisi punto per punto sul testo (che ho ovviamente letto nella versione appena approvata) le lascio volentieri agli/alle esegeti di professione, che non mancheranno. A me interessa ragionare sullo spirito di fondo che “anima” il provvedimento (senza dargli il respiro di un disegno politico-culturale degno della posta in gioco) e che i singoli dispositivi lasciano trasparire più o meno esplicitamente.

È uno spirito, dal mio punto di vista (condiviso, a quanto leggo, dalle prime reazioni nel campo politico di opposizione) fortemente anti-educativo.
Sì, lo so che il senso comune fa esultare alcun* di fronte a quello che la norma promette (e minaccia) accogliendolo come quella stretta “liberatoria” che fa sentire sollevat* i molt*, e temo i più, al pensiero sommario “era ora!”. Ma il senso comune non è buon senso, non sempre, e in certi casi richiede una riflessione per essere smontato.
La prima considerazione è certamente quella per cui, in campo educativo, le punizioni che sanzionano i comportamenti inadeguati assai difficilmente funzionano. Potremmo spingerci ad estendere questa affermazione anche nel campo giuridico, ma su questo terreno lascio parlare voci esperte…
Parlo invece di quello che più da vicino ho sperimentato, da persona di scuola, e su cui continuo a riflettere: l’educazione e la scuola.
Per dire anzitutto che l’educazione è essenzialmente “relazione”. Ovvio? Certo, ma a quanto pare non scontato. Questo è il punto. E la domanda che ne emerge è: cosa ne è della relazione educativa in un regime che parla il linguaggio della punizione, e della “correzione” con meccanismi di automatismo sanzionatorio? Io penso che il terreno della relazione arretra a misura che avanza quello della punizione (sia pure, come dice quel falso buon senso, inferta a fini “educativi”).
Chi come me ha avuto esperienza diretta di contesti educativi sa bene che nella punizione, indipendentemente dalla consistenza del provvedimento, è implicita un’ammissione di impotenza.
La scuola che punisce è la scuola che si è arresa e ha rinunciato al suo compito.
La sanzione “sospende” non l’alunno ma il campo della relazione, dunque il terreno in cui la scuola agisce.

Questo anche quando, come nel provvedimento appena varato, ricorre all’espediente di mantenere l’alunno nelle aule scolastiche, con vari compiti da svolgere. Qui la natura delle sanzioni comminate si fa sottile nella forma quanto rudimentale nella sostanza.
È un vero e proprio paradosso pedagogico, ad esempio, prevedere per le sospensioni lievi (fino a due giorni) attività di “approfondimento” da svolgere a scuola. Per cui chi le deve eseguire è autorizzato a pensare che la scuola sia una punizione. Cosa che pensa già di suo, con tutta evidenza, e che qualunque percorso minimamente “educativo” dovrebbe invece contribuire a rivedere e in prospettiva a rimuovere.
La resa della scuola è altrettanto palese, e carica di conseguenze, nel caso di comportamenti più gravi, per i quali è previsto un percorso “rieducativo” in non meglio precisate (attendiamo elenchi e/o criteri di selezione nei decreti attuativi…) strutture convenzionate. Qui i reprobi, “finalmente” fuori dagli ambienti scolastici, dovrebbero per un prodigioso effetto di lontananza scoprirsi interessati a svolgere attività di “cittadinanza solidale”. Addirittura.

Il capolavoro pedagogico, coronamento della scuola “Valditara & C”, rifulge in sede di valutazione finale: il voto di condotta, calibrato come la bilancia di una preparazione galenica, in caso sia pari a 6, configura un “debito formativo” (che considera, udite udite, la condotta al pari di una “materia”…).
E qual è il “contrappasso” pensato dalle acute menti che allignano in Viale Trastevere? In caso si sia all’ultimo anno, prima degli esami lo studente dovrà sostenere un colloquio centrato su un elaborato di educazione civica. Argomenti di “cittadinanza attiva e solidale”, neanche a dirlo. Del resto le recenti “Linee guida” ministeriali sono state presentate come il coronamento dell’insegnamento di Educazione civica, ponendo le premesse di ogni accezione più o meno aberrante della relativa “materia”.

Non c’è bisogno di ardite dietrologie per immaginare che tipo di prestazione didattica viene richiesta nell’occasione e l’uso punitivo-repressivo riservato a chi ha “meritato” il famigerato 6 in condotta…Insomma, una piena e argomentata ritrattazione. Tutt* discepoli dello storico detto secondo cui “Parigi val bene una messa”…E con ciò la funzione dis-educativa è compiuta.

Mi fermo qui. Non c’è altro da aggiungere, se non che ci troviamo di fronte ad una norma che ha valore di legge della nostra Repubblica: dunque, piaccia o meno, cogente e produttrice di effetti.
C’è da augurarsi che si sviluppi da questo un significativo movimento di opposizione militante: non nel Parlamento, dove i numeri schiaccianti di questa legislatura lasciano pochi o nulli strumenti di agibilità. Un’opposizione nel Paese, nella società. La scuola che arretra e si arrende rispetto al proprio compito costituzionale non è affare solo degli insegnanti, degli educatori, degli studenti e delle famiglie, ma di tutt* i cittadini, di più: di tutt* coloro che vivono in questo Paese.

Intanto, auspico che nelle istituzioni scolastiche si apra un fitto dibattito sui provvedimenti e sulle strategie di contrasto che le stesse norme sull’autonomia consentono. Ma non basta. Ci vuole un soprassalto di senso civico condiviso e operante nel tessuto sociale, per sviluppare in tutte le direzioni quelle forme di “cittadinanza attiva” evocate strumentalmente nel testo. Non perchè lo dice una norma di questo governo, ma perchè è la risposta giusta a un disegno autoritario e repressivo.




L’umiliazione dei licei: secondo il Ministero sono scuole poco impegnative e facili da gestire

di Stefano Stefanel

Una delle prime cose che si insegna a tutti i docenti che vogliono diventare dirigenti scolastici è che ogni provvedimento della Pubblica Amministrazione deve rispondere a canoni di efficienza, efficacia ed economicità.

Se almeno una di queste tre caratteristiche non è soddisfatta allora è meglio lasciar perdere.
Di recente, improvvisamente e a sorpresa, il MIM ha emanato una divisione degli Istituti scolastici in fasce al fine della retribuzione dei dirigenti scolastici.
La retribuzione dei dirigenti scolastici prevede una parte fissa uguale per tutti, eventuali assegni ad personam legati a situazioni del passato transitati nella dirigenza (che residua per non tantissimi casi) e due retribuzioni variabili: una “di posizione” (la complessità della scuola che si dirige) e una “di risultato” (a seguito della valutazione obbligatoria del dirigente scolastico).

Poiché anche i dirigenti scolastici non vogliono farsi valutare a fini stipendiali (come del resto in Italia praticamente tutti ad eccezione degli studenti) e in questo vengono spalleggiati sia dai sindacati generalisti (per intenderci CGIL, CISL, UIL, Snals, ecc.) sia da quelli di categoria (citerei solo ANP) dalla nascita della dirigenza scolastica (1999) nessuno è stato valutato a fini stipendiali.
Praticamente tutti i dirigenti e tutti i sindacati si dicono, a voce alta, favorevoli alla valutazione dei dirigenti (che è prevista per legge), ma poi nei fatti sostengono anche che deve essere “seria” dicendo al contempo che quelle proposte dal Ministero negli anni passati “serie” non lo sono state, determinando di fatto un’assenza di valutazione e che, quindi,  agganciando la retribuzione di risultato a quella di posizione.
Nel passato ci sono state varie tornare di valutazione dei dirigenti, ma nessuna ha avuto ricaduta stipendiale. D’altronde se il valutato può decidere cosa è serio e cosa non lo è nell’ambito della sua valutazione non esiste nessuno così geniale da escogitare qualcosa che venga accettato senza proteste da tutti (tipo il cappone che organizza il cenone di Natale).
In questa situazione, dunque, la retribuzione di posizione/risultato incide sullo stipendio del dirigente e sulla sua situazione pensionistica. Quindi le fasce di livello delle scuole hanno solo un’incidenza sulla categoria dirigenziale e sulle sue retribuzioni. Perciò le fasce di livello interessano solo i dirigenti scolastici e non la scuola e la sua organizzazione. Per circa quindici anni sono rimaste in vigore le vecchie quattro fasce e nessuno parlava dell’argomento, contestava, problematizzava. Dunque di fatto tutti accettavano la situazione così come si era cristallizzata.

Improvvisamente il MIM ha deciso di diminuire i dirigenti (generando degli accorpamenti con modalità bizzarre e ragionieristiche e senza tenere conto di situazioni locali specifiche) e di rivedere le fasce diminuendole da quattro a tre. Il primo provvedimento ha evidenti motivi di economicità (molti meno, direi nessuno, sui versanti dell’efficienza e dell’efficacia), mentre il secondo ha solo creato polemiche perché non rispetta nessuno dei tre requisiti.
Infatti la divisione delle fasce ha mandato, attraverso parametri pensati in modo arcaico e confuso, tutti i Licei non inseriti in un Istituto complesso (gli ISIS) nella fascia più bassa, cioè in quella in cui si prendono meno soldi.
Il messaggio mandato dal MIM è semplice: i Licei danno prestigio, ma sono facili da dirigere, quindi chi vuole più soldi deve andare a dirigere un Istituto comprensivo.
Il messaggio però declassa i Licei che sono, nel bene e spesso nel male, la cartina di tornasole dal sistema scolastico italiano. Il contorto e inefficiente sistema italiano di orientamento (su questo sono intervenute le Linee guida sull’orientamento che finora non hanno molto inciso sul problema, anche perché coniugate con meccanismi attuativi “bizantini” che hanno finanziato l’orientamento verso l’Università, quindi dei trienni delle Scuole superiori, e per niente quello delle Scuole secondarie di primo grado che invitano i bravi a fare i Licei e i meno bravi a fare i Tecnici o i Professionali) produce da anni una concentrazione degli studenti migliori nei Licei e quindi l’efficacia generale dell’Italia in termini di società della conoscenza è ancora delegata soprattutto ai Licei.

Questa è una verità che tutti conoscono, che produce discorsi mediatici prossimi ad un vero e proprio delirio sulla scuola, perché hanno solo i Licei come centro del discorso. Tutta la comunicazione sulla scuola è influenzata dai Licei, visto che gli intellettuali di spicco e che hanno accesso ai grandi canali di comunicazione hanno tutti fatto da giovani il Liceo e, quando parlano della scuola, si riferiscono solo al Liceo in cui hanno studiato (Cacciari, Panebianco, Galli della Loggia, Crepet, Galimberti e via declinando) o in cui hanno insegnato (Mastrocola, Ardone e via enumerando).

Quello che mi permetto di chiedere è: perché si è fatta questa operazione di declassamento? A cosa serve umiliare e declassare il punto alto del sistema scolastico italiano, quello che accoglie gli studenti migliori? Che messaggio viene dato alla categoria dirigenziale? Che idea c’è di scuola?
E – soprattutto – se “chiunque” può dirigere un Liceo, considerato scuola semplice, vuol dire che la professione non deve occuparsi delle sue eccellenze. Perché il problema sta anche qui: cosa si vuole dal dirigente scolastico oggi? Che si occupi degli alunni o dello SPID?
Che abbia a cuore il miglioramento degli apprendimenti o corra dietro alle multe che INPS e INAlL danno a destra e a manca per mancanze tutte loro, ma che nessuno gli contesta?
Che analizzi i percorsi didattici, formativi e di orientamento o consulti graduatorie? Che organizzi percorsi personalizzati per tutti gli studenti in difficoltà o dedichi le sue giornate a compilare piattaforme e graduatorie? Che usi i soldi del PNRR per migliorare il sistema scolastico o per comprare “macchinette” colorate per far salire la spesa del PNRR?  Che si occupi di disabilità, inclusione dispersione o della ricostruzione delle carriere e degli acquisti sotto soglia?

Quando un provvedimento non è efficiente (i Licei nella fascia più bassa sono il massimo dell’inefficienza organizzativa perché si mettono sullo stesso piano Liceo di 500 studenti e Licei di 1500 studenti), non è efficace (perché si comunica che i Licei sono tutti facili da gestire e gli Istituti comprensivi tutti difficili, il che non è un errore ma proprio una stupidaggine), non è economico ( i soldi sono sempre quelli, qui si parla solo di retribuzione dei dirigenti dentro uno schema contabile rigido) l’unico motivo per cui viene emanato è che è punitivo.
Niente di nuovo sotto il sole: il sistema scolastico italiano pare deciso ad andare nel baratro degli adempimenti e dei bassi risultati.
Con i Licei retrocessi in serie C, ma solo perché la D non è stata attivata.

 




Sanzioni disciplinari agli studenti per salvare il prestigio dei docenti. Il Governo ci crede davvero

di Raimondo Giunta

Mai avrei pensato che per difendere l’autorevolezza degli insegnanti si dovesse pensare di aggravare nei confronti degli studenti indisciplinati e irrispettosi le sanzioni disciplinari esistenti. E’ facilmente comprensibile ai più che l’autorevolezza degli insegnanti è stata gravemente incrinata dall’incuria delle condizioni del lavoro, dall’erosione continua della loro libertà, dalla modestia del loro stipendio, dalle aggressioni dei genitori e dalle continue campagne di diffamazione dei media e non dall’indisciplina degli studenti.

Vediamole allora queste nuove sanzioni disciplinari!

1) Nelle scuole secondarie di I grado, se il disegno di legge del ministro Valditara sarà approvato definitivamente, sarà ripristinata la valutazione del comportamento, che dovrà essere espressa in decimi e avrà un impatto sulla media generale dello studente, modificando così la riforma del 2017. La valutazione del comportamento influenzerà anche i crediti per l’ammissione all’Esame di Stato conclusivo della scuola secondaria di secondo grado e per avere diritto al punteggio più alto bisognerà avere al meno nove decimi in condotta.
Si torna, quindi, all’indigeribile commistione tra profitto scolastico e comportamento dell’alunno, che invece andrebbero rigorosamente e laicamente separati. Un provvedimento questo che avrà come effetto certo la crescita della dissimulazione e dell’ipocrisia degli alunni, ma non dell’adesione convinta alle regole che tutelano la convivenza in una scuola.

2) A seguito di un voto insufficiente in condotta non solo per casi di violenza o di commissione di reati, ma anche per comportamenti che costituiscono gravi e reiterate violazioni del Regolamento di Istituto non si è promossi alla classe successiva e non si è ammessi agli esami di Stato.

3) Per gli studenti che abbiano riportato una valutazione pari a sei decimi nel comportamento il Consiglio di classe, in sede di scrutinio finale, sospende il giudizio di promozione e assegna loro un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale.
La mancata presentazione dell’elaborato prima dell’inizio dell’anno successivo o una sua valutazione insufficiente, da parte del consiglio di classe,  determinano la non ammissione degli studenti all’anno scolastico successivo.

4) L’insufficienza in condotta in fase di valutazione periodica comporterà il coinvolgimento degli studenti in attività di approfondimento in materia di cittadinanza attiva e solidale, finalizzate alla comprensione delle ragioni e delle conseguenze dei comportamenti che hanno determinato tale voto.

5) Cambia il regime delle sospensioni, coniugando come da manuale autoritarismo e benevolenza; sanzione, penitenza e redenzione. Le sospensioni fino a 2 giorni richiederanno più impegno scolastico e coinvolgeranno lo studente sospeso in attività di riflessione e di approfondimento sui comportamenti che hanno condotto alla sanzione disciplinare.
Tali attività saranno assegnate dal consiglio di classe e culmineranno nella produzione di un elaborato critico da parte dello studente,  che sarà poi oggetto di valutazione da parte del consiglio di classe.
L’alunno indisciplinato avrà, quindi, un compito scritto in più rispetto ai propri compagni, stabilendo in questo modo il principio che scrivere è proprio una penitenza…In caso di sospensioni superiori ai 2 giorni,  lo studente sarà chiamato a svolgere attività di cittadinanza solidale presso strutture convenzionate,  ammesso che esistano e siano disposte a svolgere questo compito di rieducazione.
Sempre nel caso di sospensione superiore ai 2 giorni,  se verrà ritenuto opportuno dal consiglio di classe, l’attività di cittadinanza solidale potrà proseguire oltre la durata della sospensione,  e dunque anche dopo il rientro in classe dello studente,  secondo principi di temporaneità, gradualità e proporzionalità.
Ciò al fine di stimolare ulteriormente e verificare l’effettiva maturazione e responsabilizzazione del giovane rispetto all’accaduto.
Se quindi, una volta l’indisciplina di un alunno era un fatto interno alla scuola, con questi rimedi diventa un fatto di pubblica risonanza, con tanti saluti al diritto alla privacy.

6) Tralascio di parlare sul ripristino del giudizio sintetico finale nella scuola primaria e delle motivazioni che sono state portate.
Lo hanno fatto in tanti in nome e per conto della buona pedagogia, che come pare non sta di casa in Viale Trastevere.

In proposito ho i miei dubbi. Se la memoria non mi inganna, credo che le scuole abbiano vissuto momenti più turbolenti rispetto a quelli odierni. Basta risalire agli anni 60/70, quando non c’era scuola media superiore che non procedesse ad occupazioni e ad autogestioni studentesche, con relativo corredo di violenze e di danni agli edifici, sebbene fossero in vigore sanzioni disciplinari estreme, che avrebbero dovuto dissuadere gli studenti dal farle.
Era prevista, allora, l’espulsione dell’alunno dal proprio istituto e anche quella da tutti gli istituti dell’Italia, se le infrazioni al regolamento interno erano di una certa gravità.
Non sarà il rigore delle sanzioni, quindi, a spingere gli studenti indisciplinati a migliore consiglio, se hanno intenzione di non volerlo fare.

Le norme disciplinari che entreranno in funzione in nome e per conto del ritorno alla serietà e della rispettabilità del personale della scuola hanno, tra l’altro, più di qualche legame con quelle sancite negli articoli che vanno dal 19 al 25 del capo III del R.D.653/1925 “Delle punizioni disciplinari”.
Quelle proposte dal ministro Valditara possono a tutti gli effetti essere considerate una loro moderna riscrittura …Mancano i decreti di espulsione dagli istituti, ma le motivazioni per stabilire le nuove norme disciplinari sono pressoché identiche a quelle indicate nel Regio Decreto del ventennio.
Una novità degna di rilievo, ma congruente con l’egemonia del denaro nella nostra società, sono le sanzioni pecuniarie (multe che vanno dai 500 ai 10 mila euro) per reati commessi ai danni del dirigente scolastico e del personale della scuola a causa o nell’esercizio delle proprie funzioni.

C’è da meravigliarsi per questo legame? Non è proprio il caso. Dopotutto questo è un governo di destra con evidenti tendenze autoritarie ed evidenti radici neofasciste.
Rifugge dalla complessità della natura e delle cause di un problema, nel nostro caso il ribellismo giovanile, perché non ha gli strumenti per la loro comprensione e ricorre alle sole misure che riesce a concepire: quelle securitarie delle pene e dei castighi.
Ma se non hanno funzionato nel passato, perché dovrebbero funzionare nel presente?

 




Ragionando sulla dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

La lotta alla dispersione scolastica è uno dei compiti più nobili che si possa svolgere nelle singole scuole, perchè dà respiro sociale ed educativo a tutta l’attività formativa. Nella società della conoscenza, dell’apprendimento durante tutta la vita, chi fuoriesce anticipatamente dal sistema formativo senza il possesso di adeguate e solide competenze per svolgere il ruolo di cittadino e di lavoratore è destinato all’emarginazione sociale.
E in linea di principio nessuno dovrebbe accettare un fatto del genere.

Alla scuola è stato indicato l’obiettivo di ridurre drasticamente la dispersione scolastica e nel frattempo anche quello di aumentare in modo cospicuo la percentuale dei diplomati di quanti frequentano le superiori per allinearsi alle relative medie europee.  I risultati sono in via di miglioramento, anche se non sono completamente soddisfacenti, perchè il fenomeno della dispersione è ancora consistente, per vecchi e inestirpati fattori, ma anche per nuovi, come la scolarizzazione dei figli degli immigrati, per la quale non si è sempre e dappertutto preparati.

A partire dagli anni ‘60 le porte delle scuole sono state aperte a tutti, soprattutto alle superiori. I risultati di questa necessaria scolarizzazione di massa, però, sono ancora contraddittori. A parità di “qualità umane”, infatti, non si ha tra i giovani parità di risultati, di successo formativo e di possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.

Si è intervenuto su alcuni ostacoli di natura economica, ma negli ultimi tempi con risorse sempre decrescenti, (riduzione delle tasse di iscrizione, borse di studio, gratuità dei servizi di trasporto, buoni-libro, ma rare volte con le mense scolastiche). Questi provvedimenti hanno favorito l’accesso di tantissimi giovani alle scuole, ma non sono riusciti a tenervi dentro tutti quelli che vi entravano e a farli uscire a tempo dovuto con il bagaglio necessario di preparazione per affrontare la vita.

Questo significa che gli ostacoli alla piena scolarizzazione delle nuove generazioni non erano e non sono esclusivamente di natura economica.  E’ un problema di prima grandezza il contrasto di fondo che si sviluppa tra scuola, cultura scolastica, codice interno del sistema scolastico da una parte, mondo giovanile, cultura giovanile e soprattutto nuova utenza dall’altra. Il peso delle discipline logico-linguistiche, il primato della scrittura, l’astrazione inevitabile di alcuni saperi scolastici, la subalternità e la debolezza delle attività laboratoriali nei curricoli scolastici, l’organizzazione del tempo scolastico sono congeniali ad un certo tipo di alunni :quelli predisposti e in qualche modo allenati in ambienti familiari che ne comprendono e ne accettano le ragioni, per altro genere di giovani, cioè di altre estrazioni sociali, queste caratteristiche del mondo scolastico costituiscono difficoltà da superare.

Il problema più rilevante nell’insuccesso scolastico è quello costituito dalla povertà dell’eredità culturale di cui dispongono tanti giovani che entrano nel sistema di istruzione, A scuola non sempre si riesce a contenere i disagi che ne derivano.
Si registra ancora una preoccupante correlazione tra successo scolastico e patrimonio culturale in possesso degli alunni, tra status culturale della scuola e quello delle famiglie di ceto medio. Nelle scuole, anche in quelle ad indirizzo tecnico e nelle stesse medie, vengono esaltate e premiate le forme di intelligenza che si esprimono nel rapido e più ampio possesso delle conoscenze. Poco spazio si dà al sapere fare e al sapere agire, anche se in queste finalità si devono individuare le condizioni di una vera democratizzazione del curriculum e della valutazione,

Accanto a questo primo grande problema, altri ne sono sorti, che rendono difficile per molti il successo formativo.
A) La fine della mobilità sociale che nel titolo di studio trovava alimento e giustificazione; causa fondamentale della motivazione a studiare, non sostituibile col piacere della cultura, con il diritto ad una piena cittadinanza, con la necessità di una vita continua come apprendimento. Neppure la cognizione della marginalità sociale conseguente alla povertà di cultura e alla carenza di professionalità riesce ad avere capacità di motivazione. Lo scambio sacrifici oggi per eventuali vantaggi domani non funziona e non viene praticato da molti giovani.

B) L’incapacità di dominare le nuove tecnologie per ricavarne risorse per il lavoro e per la cittadinanza.

Sono due sfide al sistema scolastico, ma solo la seconda è davvero nelle sue possibilità con i dovuti finanziamenti e con la necessaria predisposizione dell’infrastruttura materiale e professionale. La soluzione della questione fondamentale della mobilità sociale è nelle mani di chi ha la responsabilità della politica industriale e degli investimenti economici. La scuola deve soltanto non perdere battute nel preparare i giovani ad inserirsi nel modo migliore e con il dovuto bagaglio professionale e culturale nel mondo del lavoro se e quando per loro si aprono le porte

Oltre a questi problemi in Meridione se ne devono affrontare altri molto seri e che non vengono adeguatamente considerati nel nuovo e appassionante sport nazionale delle graduatorie degli istituti scolastici. . .
Problemi riassumibili nella povertà del capitale culturale del territorio (insufficienza di sedi scolastiche, grave deterioramento degli edifici scolastici, rarità di biblioteche, povertà di centri e di associazionismo culturali, disattenzione degli enti locali, casualità dei servizi alle persone, scarsa partecipazione civica alle scelte locali, vuoto e dissipazione dei mesi estivi, deprivazione culturale di molte famiglie etc) e nella disgregazione sociale del territorio di riferimento (lacerazione dei rapporti familiari, redditi familiari incerti, precarietà nel lavoro e disoccupazione di massa, illegalità e criminalità diffuse, quartieri senza servizi, degrado urbanistico, servizi dei trasporti insufficienti e sgangherati etc). Problemi che aggravano le condizioni del disagio giovanile e ostacolano il percorso di formazione di quanti provengono da questi ambienti.

Nella dispersione scolastica lavorano, quindi, a pieno regime fattori economico-sociali, fattori culturali, motivazionali e valoriali.
Per questo è una lotta difficile e dai risultati incerti. E’ una lotta che va condotta su diversi terreni, che richiede una strategia plurale e la capacità di tessere le alleanze necessarie sul territorio, perchè da sola la scuola non risolverà mai questo problema. Chiamare, allora, gli enti locali alle proprie responsabilità, le associazioni per il loro contributo, le aziende per la collaborazione, le famiglie per la partecipazione alla vita scolastica, gli insegnanti all’innovazione e alla creatività metodologica.

A scuola non dovrebbero mancare iniziative per cercare, laddove il problema si pone, di recuperare il rapporto tra generazioni; di superare ogni forma di comunicazione non dialogante all’interno della comunità scolastica; di spingere le famiglie alla riassunzione della loro responsabilità educativa, qualora come spesso succede vi avessero rinunciato; di valorizzare nello studio e nella riflessione la storia, le tradizioni, la cultura del proprio territorio per riportare criticamente i giovani alle proprie radici.

Il lavoro più importante resta sempre quello che viene quotidianamente fatto in classe; ma non al modo di sempre, perchè è quello che in parte produce la dispersione. Un lavoro che deve essere fondato sulla fiducia che viene riposta negli alunni, sulla valorizzazione del loro impegno, sull’incoraggiamento e sulla loro responsabilizzazione.
Vedi cosa sai fare? puoi farcela e in alcuni casi devi farcela.  Potrebbero essere i principi con cui regolarsi nell’attività didattica. Principi che richiamano la passione educativa dell’insegnante, la sua umanità professionale.

In situazioni in cui nell’immediato è impossibile il recupero educativo della famiglia e del territorio, con rischi incombenti di degrado e di marginalità sociale per tanti nostri giovani, le uniche risposte al problema della dispersione sono quelle che solo la scuola puo’ dare, considerando il grande patrimonio umano, culturale e professionale dei suoi insegnanti.

E se non la scuola, chi?

 




Fissiamo un tetto alle sgrammaticature di Valditara

di Mario Maviglia

Ha ragione il Ministro Valditara a scagliarsi contro chi ha stigmatizzato i suoi errori linguistici contenuti in un tweet in cui parlava della necessità di costituire classi con la maggioranza di italiani, allineandosi alle posizioni del suo capopartito Salvini, nonché Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Questa vicenda ci fa capire tante cose interessanti:

  • Valditara dice: “Quando si detta un tweet al telefono non si compie un’operazione di rigore linguistico e si è più attenti al contenuto”. Verissimo! Però dall’altra parta del telefono ci si aspetta che chi prende la telefonata (ossia un collaboratore di Valditara, da lui stesso scelto, immaginiamo) abbia almeno la licenza di scuola media…
  • Il Ministro del Merito aggiunge che il processo di assimilazione degli alunni stranieri “avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano…”. Ecco, sarebbe opportuno che anche Valditara e l’ignoto suo collaboratore potenziassero a loro volta il loro italiano. La lingua italiana sarebbe loro grata.
  • Secondo il Valditara-pensiero (preso a prestito dal suo capopartito Salvini) questo processo di assimilazione degli studenti stranieri avverrà “se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana…” [Si noti la finezza sintattica di quel “si insegni”, una vera chicca e licenza poetica. Non è ancora licenza media, ma la strada è tracciata. Con il potenziamento di cui sopra ce la possiamo fare…].
    Ma qui il Valditara-pensiero denuncia qualche défaillance (tranquillo, sig. Ministro: vuol dire “debolezza”): infatti i risultati peggiori – almeno stando alle classifiche internazionali come OCSE-PISA – gli allievi delle scuole italiane li conseguono nelle scuole superiori dove la presenza degli alunni stranieri è più bassa. E allora come la mettiamo? Forse questa necessità di “approfondimento” non riguarda solo gli studenti stranieri, ma anche e soprattutto quelli italiani.

  • Senza nascondere una certa stizza, il Ministro (Valditara, lo dobbiamo specificare sempre sennò sembra che si voglia parlare del suo capo, Salvini…) fa notare “ai tanti critici dall’indignazione facile, che in queste ore si stanno scatenando nella caccia all’errore, che così facendo ignorano la questione da me posta…”. Per la verità il Ministro (Valditara) e il suo capo (Salvini) sono i primi ad ignorare che la questione del tetto massimo degli alunni stranieri per classe era stata già oggetto di una circolare all’epoca del IV Governo Berlusconi, Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
    Si tratta della CM n. 2 dell’8 gennaio 2010, che fissava appunto al 30% la percentuale di “alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe”. Una circolare emanata quindi da un governo di centro-destra, come quello attuale.
    Ma è comprensibile che quando si hanno tanti tweet da fare o annunci da proclamare alla Nazione non si abbia poi il tempo di documentarsi rispetto al contenuto, quel contenuto che il Ministro (Valditara) dice di aver attenzionato a scapito della forma. Non si vuole essere cavillosi, ma qui, con tutta franchezza, sembra mancare sia la forma che il contenuto. È plausibile che ciò possa succedere al Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (a proposito: da quando i Ministri di tale Dicastero si interessano in modo così insistente di politica scolastica? Il Ponte sullo Stretto non è già abbastanza impegnativo?), ma che un Ministro dell’Istruzione non sappia cosa ha prodotto il suo Dicastero in materia è abbastanza allarmante.
  • Volutamente abbiamo più volte parlato del Ministro Salvini come il “capo” del Ministro Valditara: non si tratta di una svista o di una nota polemica. Sia a proposito della vicenda della scuola di Pioltello che nel caso della percentuale di alunni stranieri nelle classi il la è stato dato da Salvini a cui si è accodato, come un mansueto cagnolino, o se volete come un coscienzioso corista, il Ministro Valditara.
    Insomma, sembra di capire che il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture detta la linea della politica scolastica e il Ministro Valditara la mette in atto con sottomessa dedizione.
  • Sempre a proposito di contenuti, è facile prevedere che una norma sulla percentuale massima di alunni stranieri per classe (20 o 30% che sia) non troverà mai attuazione perché richiederebbe una concertazione di azioni tra più soggetti istituzionali, come d’altro canto ben specificava la CM 2/2010 che sottolineava l’importanza di “realizzare le conseguenti intese tra soggetti disponibili sul territorio per una gestione coordinata delle iscrizioni dei minori stranieri fra l’Amministrazione scolastica, le Prefetture, le Province e i Comuni”. Difficile pensare che oggi sia possibile un’azione di tale complessità.
  • D’altro canto, sempre citando la CM 2/2010, “non va dimenticato che a influire sulla presenza più o meno significativa di minori stranieri in un determinato territorio contribuiscono sì le capacità attrattive delle scuole che in esso insistono, ma pure – e in termini non certo irrilevanti – le disponibilità di alloggio e le offerte di lavoro in esso presenti. Il che fa immediatamente emergere il ruolo cruciale che le prassi degli accordi e delle alleanze territoriali possono svolgere per affrontare i problemi suddetti.”

Di questi problemi non vi è traccia negli interventi dei due Ministri dell’Istruzione (Valditara) e del Merito (Salvini). E allora facciamo una facile e cassandrica previsione: qualora questa coppia di Ministri dovesse partorire una norma su questa materia, la responsabilità di accogliere o non accogliere gli alunni stranieri, rispettando la quota percentuale stabilità formalmente, ricadrà interamente sulle istituzioni scolastiche e i dirigenti scolastici resteranno, ancora una volta, col cerino in mano. Parafrasando Brecht, possiamo dire che si siederanno nella parte più disagevole perché gli altri posti saranno occupati.




Il caso Pioltello, ultima ora: cosa si dice davvero nel “palazzo”

di Aristarco Ammazzacaffé

I fatti, in primo luogo, come per ogni cronaca che si rispetti.
Il Collegio Docenti e il Consiglio dell’Istituto Comprensivo di Pioltello (Mi) – intitolata ad un ragazzo straniero, per giunta musulmano, Iqbad Masih – decidono, in perfetta complicità, lo stop alle lezioni il 10 aprile p.v.. E ciò per permettere alla comunità musulmana (quindi non solo non cattolica, ma neanche cristiana), di partecipare alla loro festività religiosa, il Ramadan. Senza minimamente pensare al rischio ben forte di cadere addirittura nell’apostasia.

Il ministro Valditara prontamente informato da Radio Maria e dai catto-leghisti lombardi, giustamente interviene con queste parole ascoltate e registrate personalmente: “Questa chiusura no, non s’ha da fare né il 10 aprile, né mai. Le delibere del Collegio docenti e del Consiglio di Istituto – scandisce, pacatamente alterato, che lo sentono anche a Piazzale Trilussa – sono irregolari, almeno per tutta questa legislatura. E questo perché – e qui diventa lapidario – una scuola seria non chiude, ma apre; anche a Natale, Pasqua ed Epifania, che tutte le feste si porta via; comprese quelle comandate ed estive (sulla frase in rima però ho qualche dubbio, che con onestà doverosamente dichiaro. Noi, di una certa parte, siamo fatti così.  Quelli dell’altra, se ne facciano una ragione).

“E questa scuola – tra l’altro intestata a uno che io neanche conosco (un vero insulto alle nostre passate glorie nazionali, conosciute in tutto il mondo: vere e proprie eccellenze del Made in Italy che tutti ci invidiano); questa scuola – dicevo vuole chiudere per la festa del Ramadan, pur essendo la peggiore in Lombardia.  Ben sappiamo, senza fare sociologismi di bassa lega, come funzionano questi Istituti con tutti questi immigrati, soprattutto musulmani.
Fossero almeno un po’ cristiani, se non proprio cattolici!”
Così l’equilibrata dichiarazione del Ministro.

Ma, tornando ai fatti più recenti, fino a quelli dell’ultima ora, va registrato purtroppo che, in quasi tutto il Paese, associazioni, intere scuole, centri culturali, maestri e studenti e dirigenti, eccetera eccetera, si sono schierati senza ritegno con una scuola incriminata, difendendo l’indifendibile delibera adottata.

Chiederete in base a quale principio.  Risposta univoca: in base a un presunto diritto all’accoglienza e al rispetto per le altrui identità. Cioè all’acqua fresca. E tirando in ballo, tra l’altro – l’ho sentito con queste mie stesse orecchie – anche l’autonomia scolastica e addirittura la Costituzione. Costituzione che in tanti, e tutti di una certa parte, se non la tirano in ballo anche quando si parla di zucchine e catalogne, non si sentono à la page.
Questa è l’umanità che sta facendo guerra al nostro Ministro: per dei musulmani che vogliono chiudere la scuola per il loro Ramadan!

Finanche la Curia ambrosiana – e questi sono fatti documentati – ha voluto dire la sua, anche se nessuno gliela ha chiesto; addirittura con parole di rispetto e di condivisione per la scelta della scuola fuori legge. Capite a cosa si arriva? E il Papa? Interviene o no? No, non interviene. Anche questa è cronaca vera e dolorosa. (Ma forse forse, a pensarci, se non interviene è anche meglio; sapendo già in partenza cosa potrebbe dire. E questo, un Papa…).

Interviene Mattarella e Valditara sbotta con i suoi fedelissimi: “Non c’è più religione”.

A tale pantomima si è accodato anche – ed è la vera notizia del giorno – anche il Presidente della Repubblica; al quale dobbiamo rispetto per l’età avanzata, ma che non può comunque permettersi di schierarsi con la delibera eversiva di questa scuola; e addirittura inviare un abbraccio – sì, un abbraccio! – a quelli che tale delibera hanno scritto e votato all’unanimità; e dichiarare addirittura, apertis verbis: “Apprezzo il vostro lavoro”. Inaudito! Anche questo abbiamo letto nella giornata di ieri.
No, Presidente. Queste son cose che non si dicono e non si fanno. Un Presidente della Repubblica italiana – mi permetta questa pacata considerazione comunque personale – non può, ricorrendo alla più penosa retorica sessantottina, parteggiare per chi – come la Vicepreside della scuola al centro della polemica –  osa affermare, senza vergognarsi, che all’Istituto Iqmad … (non riesco a pronunciarne il nome neanche sforzandomi. Vorrà pure dire qualcosa!) “non ci sono né italiani, né immigrati, ma solo bambini e ragazzi da istruire ed educare”. Un’autentica menzogna! Ma anche questo ho sentito e lo posso fedelmente testimoniare.

Meno male che, a far da muro contro questa cecità generalizzata, ci sono personaggi come il Governatore della Lombardia: mica un pisquano qualsiasi, come qualcuno potrebbe pensare. Parlo di Attilio Fontana che, a proposito della decisione della scuola, parla coraggiosamente di “una decisione fuori luogo”; o anche personalità come Riccardo De Corato, nientemeno deputato di Fratelli d’Italia e amico personale di Matteo Salvini (e non so se mi spiego). Il quale De Corato annuncia, senza essere imbeccato da nessuno, un’interrogazione al Ministro “per capire quali azioni intenda intraprendere a fronte di una scelta così inaccettabile” (della scuola incriminata). Testuale, perché non si dica.
Questo sì che è parlare franco, schietto e come Dio comanda.

Ma il Ministro, assediato com’è, che può dire – povero! – di fronte a tanto sfaldamento educativo, etico e religioso? Se non chiedere a persone amiche e fidate di esternare loro al suo posto, ma sempre con obiettività, a cui lui tiene molto, anche di domenica?

Questa cronaca, corretta e doverosa, vuole essere proprio una modesta ma sentita risposta al suo tacito appello.

 

 




Ma esiste ancora la laicità della scuola?


di Cinzia Mion

Il testo che segue non è recente, anzi è datato. L’aspetto sconvolgente però è che è ancora di estrema attualità.
Non ho cambiato una virgola. Potrebbe essere stato scritto stamattina dopo i fatti di Pioltello o di Altavilla (messa pasquale in orario scolastico) in cui ancora una volta è sotto assedio un dirigente scolastico che cerca solo di far rispettare la Legge.

 

 

 

Diceva Guido Calogero, in tempi non sospetti, e precisamente nel 1955, che la fondamentale legittimità della difesa della laicità della scuola consiste nel fatto che un’educazione condotta, comunque, in base a certi orientamenti dottrinali presupposti come indiscussi, o discussi in maniera insufficiente, crea uomini moralmente e civicamente meno solidi di un’educazione la quale non presupponga alcun tabù ed alleni continuamente i giovani all’attenta e rispettosa discussione di qualunque idea e fede, propria ed altrui. D’altro, canto aggiunge sempre Calogero, il laicismo (parola che non ha un’accezione dispregiativa come si vuol far credere ultimamente) consiste nel fatto di non accettare mai, in nessun caso, l’organizzazione e l’esercizio di strumenti di pressione religiosa o politica o sociale o morale o economica o finanziaria al fine della diffusione di certe idee, e di procurare invece, sempre più, l’equilibrio della loro possibilità di dialogo individuale (G.Calogero “Che cosa vuol dire scuola laica?,in “Mondo”, dicembre 1955).

Calogero, noto come il filosofo del dialogo, fondatore con Aldo Capitini del movimento liberal-socialista è stato tra i protagonisti della cultura laica nel dopoguerra. Norberto Bobbio lo ha ricordato poco tempo prima di morire come suo maestro su la “Stampa” (21 dicembre 2001).

Oggi il laico, che voglia intraprendere tale dialogo con le gerarchie ecclesiastiche, si accorge subito che non è possibile perché queste si professano attualmente i custodi dell’ortodossia della ragione non solo filosofica, come è stato per secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali.
Scrive Gustavo Zagrebelsky, a tal proposito, che il dialogo tra la Chiesa e un non cattolico è impossibile perché quest’ultimo interlocutore, per le gerarchie, è “uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno” (da Repubblica 10 gennaio 2007: G.Zagrebelsky , Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?)

Di tale convinzione potrei portare testimonianza personale attraverso alcuni aneddoti significativi, che non è però il caso di trattare in questa sede, ma in cui espressamente mi è stato detto che una persona che crede ”vale” di più di una che non crede. L’altro giorno il vescovo di Terni ha affermato che un cattolico “è un laico con una marcia in più”!

Di fronte poi al sempre più accentuato e diretto atteggiamento interventista della Chiesa nelle vicende politiche italiane, tanto da far scrivere a Miriam Mafai, sei anni prima della sua scomparsa, un articolo allarmato dal titolo” L’assedio allo stato laico”(in Repubblica, 6 gennaio 2006): “…si sta offrendo da parte di politici particolarmente sensibili alla laicità (non ne sono rimasti molti per la verità) la questione se siano ancora presenti le condizioni concrete di vigenza del Concordato, minato nelle sue basi di legittimità”

La revisione infatti di quest’ultimo, correva l’anno 1984, ricordava solennemente nel preambolo, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla Costituzione (tra cui la laicità dello Stato), e da parte della Santa Sede le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti tra la Chiesa e la comunità politica.

Scrive Zagrebelsky che un mutamento d’identità dell’uno o dell’altro contraente, contro la Costituzione o contro la dottrina del Concilio, travolgerebbe il Concordato, corrodendone le basi di legittimità.

Laicità della scuola statale

Per chi dovesse nutrire ancora dei dubbi sulla laicità dello stato, e di conseguenza della scuola statale, ricordo la sentenza della Corte Costituzionale del ’11 e 12 aprile 1989 che, interrogata proprio in materia scolastica, si pronuncia in modo incontrovertibile affermando: “I valori richiamati (att.2, 3, 19) concorrono con altri ( art.7, 8, 20 della Costituzione) a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma dello Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica.

Nessuno pensa o afferma che la Chiesa non possa pronunciarsi in qualsiasi materia per enunciare i suoi principi cristiani ma queste pronunce sono destinate alla coscienza dei credenti. Allorquando queste abbiano la pretesa di condizionare i comportamenti dei politici dello Stato italiano siamo di fronte ad una ingerenza che viola i principi del Concordato. C’è da chiedersi semmai di quale tempra siano quei politici che ostentando opportunismo sono pronti ad asservirsi, facendo finta di non rendersi conto che insieme ai molti privilegi riconosciuti dal Concordato alla Chiesa, si permette a questa una ingerenza arrogante anche all’interno della scuola..

Da parte infatti delle gerarchie ecclesiastiche viene richiesto l’appoggio politico per tali comportamenti, approfittando della sudditanza morale di alcuni nostri rappresentanti che non sanno più riconoscere l’orgoglio della cittadinanza e da tempo non assaporano la fierezza che dona il “tener la schiena dritta”.  Quasi sempre tale prassi si accompagna alla strumentalizzazione dei genitori che ignorano la normativa e ci si scandalizza di fronte alla resistenza di qualche dirigente scolastico che non si lascia manipolare e si oppone alle ingerenze.

Mi riferisco ai recenti fatti accaduti in Italia su cui la stampa si è fiondata, dimostrando una ignoranza colpevole, a proposito della richiesta di alcuni parroci o vescovi di venire in orario scolastico nelle nostre classi ad elargire atti di culto (benedizioni, recitazione di preghiere, messe d’inizio anno o di fine anno, visite pastorali camuffate da incontri neutri, ecc)

Ora noi persone di scuola sappiamo benissimo, ed ancora meglio lo sanno i Vicari Diocesani, che però ci mettono alla prova per saggiare la nostra tempra, che con la revisione del Concordato questi atti di culto sono stati banditi dalla scuola che invece ospita le famose ore facoltative di “cultura religiosa”.
Io penso che sia grave violare una legge pattizia.
Penso anche che se viene fatto, cercando di circuire le persone dotate di un fragile senso dello Stato o di una indifferenza che privilegia il quieto vivere, come minimo ciò deve avere un prezzo.

Si vuole non riconoscere più il Concordato? Lo si faccia, tanto è ormai svuotato del suo significato da ambo le parti. Il mio timore è che con l’aria che tira possa venire legittimata ancora di più la cosiddetta potestas indirecta del tempo della Controriforma, introdotta dall’allora cardinale Bellarmino, che rendeva lecita l’ingerenza della Chiesa sulla competenza dello Stato, ogni volta che questa ravvisasse una ragione religiosa .

Mi sbaglio o queste affermazioni le abbiamo ri-sentite di recente?
Riuscirà il nuovo papa, già noto per il suo anticonformismo, ad invertire la rotta?

L’etica del limite

Io credo che alcuni dei conflitti di tipo politico-religioso, oppure scaturenti da contrapposizione tra schieramenti politici, caratterizzati oggi da alcuni rigurgiti volgari e chiaramente esorbitanti dalla comune modalità di un dialogo civile, anche se acceso, siano tutte situazioni che continuano ad avvitarsi su se stesse perchè è venuta a mancare l’etica del limite.
L’etica del limite intesa nel senso sia dell’autocontenimento ma anche della categoria dei confini.

 Il neonato evolve verso il riconoscimento di sé nella misura in cui impara a separarsi dalla madre. Nella misura in cui, attraverso un processo di separazione-individuazione, comincia a percepire se stesso ed i suoi confini, che all’inizio saranno solo corporei, poi un po’ alla volta saranno sempre più riconducibili al sé vero e proprio, tale perché diverso dall’altro da sé.

Tutte le relazioni interpersonali dovranno poi, pena il rischio della simbiosi, deleteria e minacciosa per il sè, essere contraddistinte da questi famosi confini tra sé e l’altro.
Confini che non dovranno essere impermeabili o troppo rigidi altrimenti è in agguato una qualche forma di autismo o l’indifferenza verso l’altro oppure, speciale malattia dei nostri tempi, il narcisismo patologico.

Mi riferisco al sé grandioso che si autoesalta e perde di vista non solo l’altro ma anche la realtà (come sta accadendo a livello apicale della politica…)
Siamo di fronte pur sempre ad un problema di mancanza di confini o di assenza di limiti.
Questo per quanto attiene l’aspetto soggettivo, individuale.

Accennavo prima all’ autocontenimento, mi riferisco a quello mentale.
Per esempio anche  l’adolescente che non rileva i limiti della  sua trasgressione, (quale trasgressione può essere accettabile quale invece va oltre i limiti) non è in grado di attivare un autocontenimento mentale il più delle volte perché i genitori, a loro volta, non lo hanno contenuto mentalmente quando, nella fase dell’opposizione (dai 18 mesi in poi) , incapaci di offrire un solido e valido contenimento mentale alla rabbia del piccolo sono andati in tilt  temendo il conflitto con un bambino di meno di due anni.

Oggi i protagonisti dei conflitti alla ribalta sono però tutti adulti, vaccinati e responsabili più della gente comune perché quasi sempre ricoprono cariche pubbliche.
Il problema, come dicevamo, è anche quello che osserviamo nello scenario della politica dove le gerarchie ecclesiastiche  esorbitano  dai loro confini, non con messaggi spirituali, sempre ben accetti,  ma come ingerenza vera e propria,  condizionando le decisioni  politico-civili,  forzando le scelte attraverso lo spauracchio della sottrazione del consenso (problema questo, ahimè, che denota un tasto debole oggi della democrazia), e  scendendo  in campo invadendo i confini dettati dalle norme concordatarie che  regolano l’espressione della religione nelle istituzioni pubbliche.

Come già ripreso all’inizio del presente contributo, mi riferisco soprattutto alla scuola e alle polemiche sull’ora di religione, sui crocifissi, sulle funzioni religiose e benedizioni in orario scolastico, ecc.
La via che si segue è quella della strumentalizzazione del senso comune della gente che può non sapere che la Costituzione ha trasformato uno stato confessionale in una Repubblica democratica laica- e la Scuola è una istituzione della Repubblica- che può non sapere che la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa ha rivisto le norme che regolano la religione a scuola, che può non sapere quali sono i confini tra religioso e culturale, tra sacro e non sacro, tra tradizione e consuetudine, tra innovazione e cambiamento.

 C’è però chi questa distinzione la conosce e sono i soggetti che ricoprono una carica pubblica (altrimenti chi ha permesso loro di accedere a ricoprirla?) e se queste persone non intervengono a spiegare ai portatori di “senso comune “ – che non sono tenute ad avere le idee chiare,  ma hanno il diritto ad  avere qualcuno che gliele chiarisca – quale confine esista tra i termini del problema, significa che manca l’etica pubblica in generale,  in questo caso l’etica del limite.

L’etica del limite che dovrebbe impedire che si strombazzino tali macroscopiche falsità,  (Mario Pirani  parla della “Perdita della verità”) che si sobilli impunemente la gente, che si permetta, anzi si faccia in modo, che questa  rimanga nell’ignoranza (nel senso dell’ignorare) pur di cavalcare umori discutibili,  che si attivino trasmissioni televisive nell’orario di maggiore ascolto,  come il primo pomeriggio della domenica (sia tv pubblica che privata…) invitando i più sciamannati (incrocio tra sciamano e scalmanato…!)  che in questo momento si rendono disponibili a parlare (pardon ad urlare) a favore, per esempio del crocifisso, con un pubblico che accompagna il tutto con un tifo da stadio.

La questione che ancora qualche sindaco leghista sta cavalcando, nell’ignoranza generale purtroppo, anzi nell’indifferenza generale, è quella appunto del crocefisso.

Non si ascoltano i teologi che si affannano a spiegare che il crocifisso non può essere definito semplice simbolo culturale ma che per la religione cristiana (la croce) e per la religione cattolica (il Cristo in croce) non sono solo simbolo religioso ma la quintessenza delle religioni cristiane.
Questi sono i confini che andrebbero rispettati se si avesse l’etica del limite.

Ha ragione U.Galimberti  che afferma che oggi  abbiamo de-sacralizzato il sacro?
E che dire delle stesse gerarchie ecclesiastiche che permettono, e qualche volta si fanno veicolo, di questa de-sacralizzazione come quando appoggiano chi dice, a proposito della benedizione a scuola, che in fondo “dura solitamente pochissimi minuti e non richiede particolari preparativi, né lascia tracce visibili”? (vedi sentenza del TAR Umbria 677 del 30 dicembre 2005).
Se si toglie alla religione il senso del “rito” e del “simbolo” cosa rimane di essa?

Il problema è proprio questo: che pur di “marcare” il territorio, pur di farne una questione di potere (anche qui varcare i confini per affermare se stessi attraverso un simbolo usato spesso come una vera e propria  clava) molti sono disponibili a declassare il crocifisso a simbolo culturale o peggio ad annoverarlo tra gli arredi oppure ad affermare “c’è sempre stato, che male c’è, svalutando talmente la sua presenza tanto da non farlo emergere dallo sfondo: geroglifico sul muro ormai dimenticato.
Mi chiedo se chi crede veramente sia così disponibile a tollerare tutta questa pesante strumentalizzazione in nome del crocifisso, senza sentirsi dolorosamente un po’ ferito come quell’uomo in croce.
Cosa dovrà ancora succedere in nome del potere e del consenso, carpito sulla buona fede della gente semplice, perché possa farsi sentire con voce forte l’etica del limite?

Differenza tra identità e identificazione

La cultura religiosa, che viene collocata nell’ambito della scuola, si presume che venga patrocinata per realizzare unidentità forte e coesa ispirata ai valori religiosi della religione della maggioranza del Paese.
Per quanto attiene tale obiettivo bisogna però individuare la differenza tra “identificazione” ed “Identità” facendo ricorso alla psicologia che individua l’identificazione come un percorso che sostiene il primo nucleo della crescita personale che poggia sulla somiglianza, ed un secondo momento che poggia invece sulla differenza, ineludibile per il passaggio autentico all’identità.
Anche l’identità sessuale obbedisce a questo processo: identificazione con lo stesso sesso e differenziazione dal sesso opposto.

E.Erikson afferma che l’acquisizione di un’identità, sia sociale che psicologica, sia un processo complesso che comporta una definizione per somiglianza con certuni e per differenza con altri.
L’identificazione è invece un processo più debole perché dettato dalla dipendenza e dalla ricerca dell’assimilazione; l’identità invece implica una maturazione più solida e consapevole, in grado di argomentare i motivi della posizione assunta.
Vogliamo un risultato solido, in grado di reggere agli urti della cultura post-moderna oppure una assimilazione identificatoria, prodotto inconsapevole dell’etnocentrismo culturale?
Se questa è la base della maturazione dell’identità nessuno dovrebbe opporsi alla inclusione, tra le materie obbligatorie per tutti, di una disciplina che solleciti la conoscenza delle principali religioni (le tre grandi monoteiste ma anche quelle principali del mondo indiano e cinese) che potrebbe andare sotto la denominazione di “conoscenza dei fatti religiosi”, come aveva previsto in un primo tempo la commissione incaricata di realizzare i Nuovi Programmi per la scuola elementare (1982-84), ma che dopo la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” ha dovuto, a maggioranza, cedere il passo a ”religione” ineludibilmente solo cattolica, con i conflitti successivi che tutti conosciamo.
La nostra ignoranza per quanto attiene le altre religioni è abissale ed in una società multietnica, multiculturale e multi religiosa, sottovalutare questo aspetto è colpevole oltreché stupido, perché sottrae occasioni di autentico confronto riducendo tutto soltanto alla sollecitazione del consenso.

Questo depotenziamento delle occasioni di dialogo interreligioso appare inoltre rischioso nei confronti della creazione di un terreno facilmente occupabile da vecchi e nuovi fondamentalismi.
Soltanto chi persegue il proselitismo può temere il confronto ma allora non si parli di identità ma soltanto di identificazione.
Questa posizione è anche di chi crede di essere aperto e democratico se propone l’ora di religione musulmana, fra l’altro garantendo in questo modo che non venga toccato il peso che ha oggi la religione cattolica nella scuola italiana.

Orario della lezione di religione

Sulla questione dell’orario è presto detto: come si fa a sostenere che una disciplina facoltativa, i cui programmi sono realizzati non dallo Stato italiano, ma dalla Cei, che quindi non riguarda, come tutti i programmi scolastici, l’ambito della conoscenza, ma quello delle scelte confessionali, e quindi attiene ai dati sensibili, venga lasciata dentro all’orario obbligatorio delle lezioni?
Non mi si venga a dire che si tratta solo di cultura religiosa aconfessionale (perché allora i docenti devono avere l’approvazione del vicario diocesano?)
Nessuno si è posto la questione della disparità di trattamento nei confronti di chi non si avvale?

E non mi si venga a dire che ci sono le attività alternative, attività quasi subito svalorizzate, ridotte a qualcosa di insignificante o addirittura sparite senza che nessuno invochi più la par condicio come è avvenuto, nel senso contrario però  all’inizio (vedi la circolare ministeriale che negli anni successivi alla revisione del concordato diffidava dall’assegnare queste attività a docenti della classe per timore che gli studenti che le sceglievano venissero avvantaggiati rispetto a quelli che avevano invece optato per la religione cattolica, dimenticando che alla scuola elementare spesso erano gli stessi insegnanti di classe che con il benestare della Curia potevano farlo, senza che nessuno gridasse che non c’era par condicio!!!)

Il problema notevole consiste nel fatto che è stato addirittura il Consiglio di Stato, con una decisione come spesso avviene prona ai voleri del governo di turno, a sua volta timoroso del Vaticano, (nessuno si salva!), a legittimare la scelta di tenere dentro all’orario obbligatorio questa disciplina facoltativa. Secondo me sta qui il bubbone ma si capisce che ciò tocca interessi macroscopici di potere economico e di consenso politico.

Se fin dall’inizio si fosse presa la decisione onesta: conoscenza dei fatti religiosi, obbligatoria per tutti nell’orario curricolare, e scelta invece facoltativa sui relativi programmi confessionali fuori dall’orario obbligatorio, oggi potremmo parlare con più serenità dell’opportunità o meno di garantire anche altre confessioni religiose, all’interno della scuola pubblica statale.
Ricordiamo che la garanzia di mantenere l’opportunità dell’insegnamento della religione cattolica,  facoltativa  nelle scuole statali italiane è nei Patti Lateranensi, revisionati nel 1984,  dove però non si parla di collocazione oraria..

L’ultima riflessione riguarda l’alibi dell’integrazione.
Chi, per avvalorare la bontà di creare un’ulteriore separatezza a scuola (cattolici da una parte, musulmani da un’altra, agnostici o altre religioni nei corridoi), invoca l’integrazione o è in malafede oppure ignora appunto cosa avviene a scuola. Noi sappiamo che l’integrazione avviene solo attraverso l’interazione (v.Premessa Nuove Indicazioni) che offre l’opportunità della conoscenza reciproca per mezzo del confronto, che rivela aspetti che accomunano e aspetti che differenziano.
Solo la conoscenza dissipa il pregiudizio e il timore: i veri nemici dell’integrazione.

Se, invece di far capire all’interno della comunità di apprendimento che la spinta religiosa accomuna l’uomo nel tempo e nello spazio,  sia pur approdando a fedi diverse oppure ad agnosticismi diversi, si separano i ragazzi togliendo loro tutte le opportunità di interazione in questo campo-  che sembra ancora una volta nel mondo il maggiore argomento di inconciliabile divisione e scontro- che avvenire prepariamo ai nostri ragazzi che abiteranno un futuro, che almeno io auspico,  diverso e migliore del nostro?