Il principio di laicità non esclude la necessità di una “formazione religiosa”

di Antonella Mongiardo

Una domanda semplice, in apparenza, che negli anni ha attraversato correnti di pensiero diverse e, talora, contrapposte, fino a giungere, in tempi recenti, ad interpretazioni restrittive e fuorvianti che identificano la laicità con assenza di religione nelle scuole. Cos ‘è, ad ogni modo, la laicità? Qual è il suo significato nella scuola?

La risposta, nel significato letterale, la troviamo nei dizionari. Secondo la Treccani, laico è chi non fa parte del mondo clericale. Lo stato laico è quello che riconosce l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, senza concedere particolari privilegi o riconoscimenti ad alcuna di esse, e che riafferma la propria autonomia rispetto al potere ecclesiastico”.

Il laicismo, quindi, si identifica con una concezione più ampia e complessiva della cultura e della vita civile, basata sulla tolleranza comprensiva delle credenze altrui, sul rifiuto del dogmatismo in ogni settore della vita associata, anche al di là dell’influenza diretta dell’istituzione religiosa dominante.

In una realtà sociale come quella di oggi, dove il cedimento dei valori etici e l’affermazione di nuovi stili educativi, talvolta discutibili, interferiscono spesso con l’azione formativa della scuola, è sempre più arduo realizzare quell’auspicata corresponsabilità educativa tra scuola e famiglia, che dovrebbe essere la base dello sviluppo identitario dei giovani. Le nuove generazioni stanno crescendo in un’epoca in cui si fa sempre più sfocato il confine tra i ruoli e le responsabilità, con una conseguente perdita di autorevolezza, sia della scuola sia della famiglia, che devono essere, invece, i due più importanti avamposti pedagogici della società.

E’ proprio nella prospettiva di un recupero di valori e di una più forte alleanza tra scuola e famiglia che si inserisce la dimensione sociale dell’elemento religioso nella scuola.

Condivido le acute osservazioni del matematico Piero Del Bene, quando sostiene che, se laicità significasse assenza di religione, allora nella scuola laica non dovrebbero trovare posto il cattolicesimo di Manzoni e di numerosi altri autori della letteratura italiana, non si dovrebbe studiare la divina commedia di Dante e non si dovrebbero visitare chiese, né ammirare le rappresentazioni sacre attraverso i libri di storia dell’arte o durante le gite scolastiche.

 

Invece, sappiamo bene che le discipline umanistiche traboccano di cultura cattolica; l’arte, la filosofia, la musica, sono ambiti in cui il cattolicesimo ha lasciato la sua impronta indelebile. La cultura religiosa fa parte, a pieno titolo, della formazione scolastica. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che essa permea tutta la nostra tradizione culturale, la nostra società, i nostri valori e i nostri linguaggi.

D’altro canto, basti dire su tutto una sola cosa: l’insegnamento della Religione cattolica è una disciplina istituzionale, presente nella scuola pubblica e affidata spesso a religiosi approvati dall’autorità ecclesiastica.

Un insegnamento che, pur nell’avvicendarsi di governi e diverse forme di Stato, non è mai venuto meno. Dall’unità d’Italia ad oggi, questa particolare disciplina è sempre stata parte integrante del progetto educativo dell’istruzione nazionale.

E’ evidente, peraltro, il senso della sua presenza nella scuola. Nell’ambito della sfera prettamente didattica, eliminare la religione cattolica significherebbe svuotare la nostra cultura, dal momento che il patrimonio culturale e artistico del nostro Paese custodisce tesori inestimabili in gran parte a tema cattolico-cristiano; e significherebbe snaturare la nostra stessa identità storica, che si è forgiata, nel corso dei secoli, a stretto contatto con la dottrina cattolica.

 

Come viene specificato anche nella normativa scolastica, la conoscenza delle radici storiche della religione cattolica “svolge un ruolo fondamentale e costruttivo per la convivenza civile, in quanto permette di cogliere importanti aspetti dell’identità culturale di appartenenza e aiuta le relazioni e i rapporti tra persone di culture e religioni differenti”.

 

E che dire, poi, della valenza educativa dell’insegnamento religioso? I principi ispiratori della religione cattolica, improntati al rispetto del prossimo, alla solidarietà e alla pace, rappresentano un faro nell’azione educativa della scuola, la quale, andando oltre i traguardi cognitivi connessi all’acquisizione di saperi disciplinari, tende alla formazione globale dello studente, alla sua crescita personale e sociale.

 

Come scrive la Congregazione per l’educazione cattolica nella lettera n°520/2009: “Ai fanciulli e ai giovani va garantita la possibilità di sviluppare armonicamente le proprie doti fisiche, morali e intellettuali; essi vanno anche aiutati a perfezionare il senso di responsabilità, ad imparare il retto uso della libertà, e a partecipare attivamente alla vita sociale (cfr c. 795 Codice di Diritto Canonico [CIC]; c. 629 Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [CCEO]). Un insegnamento che disconoscesse o emarginasse la dimensione morale e religiosa della persona opporrebbe un ostacolo insormontabile per una educazione completa, perché «i fanciulli e i giovani hanno il diritto di essere aiutati a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali”.

In definitiva, si pur dire che Laicità non significa assenza di religione. E non potrebbe del resto significare assenza di religione nella scuola, se l’insegnamento della religione cattolica viene istituito dallo Stato come garanzia di laicità. A riprova di ciò, difatti, nella normativa scolastica, l’unico riferimento esplicito alla laicità della scuola lo si rinviene nelle Indicazioni Nazionali del curricolo, laddove si parla dell’Insegnamento della Religione Cattolica, ma non per limitarla, bensì per salvaguardare il diritto dell’alunno a non avvalersene, facendo risaltare così l’effettivo significato della laicità nella scuola. Una laicità che non si adagia nell’indifferenza verso i valori religiosi, ma che, al contrario, rafforza la funzione educativa della scuola, rivolta anche al rispetto delle scelte e all’integrazione di differenti culture.

 

“La Scuola Italiana – si legge nelle Integrazioni alle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione – si avvale della collaborazione della Chiesa cattolica per far conoscere i principi del cattolicesimo a tutti gli studenti che vogliano avvalersi di questa opportunità. L’insegnamento della religione cattolica (Irc), mentre offre una prima conoscenza dei dati storico-positivi della Rivelazione cristiana, favorisce e accompagna lo sviluppo intellettuale e di tutti gli altri aspetti della persona, mediante l’approfondimento critico delle questioni di fondo poste dalla vita. Per tale motivo, come espressione della laicità dello Stato, l’Irc è offerto a tutti in quanto opportunità preziosa per la conoscenza del cristianesimo, come radice di tanta parte della cultura italiana ed europea. Stanti le disposizioni concordatarie, nel rispetto della libertà di coscienza, è data agli studenti la possibilità di avvalersi o meno dell’Irc”.

 

Dal punto di vista pedagogico, dunque, la presenza della Religione cattolica nella scuola va vista come un contributo, in coordinamento con le altre discipline, alla formazione complessiva dell’identità di ciascuno.

 

Ma il significato “laico” dell’insegnamento religioso nella scuola ha anche un fondamento giuridico. Il principio di laicità dello Stato, così come delineato nella giurisprudenza costituzionale, è la sintesi di più disposizioni costituzionali, ossia degli artt. 2-3, 7-8, 19 e 20 Cost., ove assume un ruolo centrale “la salvaguardia della libertà religiosa in regimedi pluralismo religioso e culturale” (Corte cost., sent. n. 203 del 1989).

L’Irc è presente nella scuola italiana in virtù dell’art.7 della Costituzione, sorto dall’accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, per garantire, in regime di pluralismo religioso (art.8), l’insegnamento della cultura religiosa nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. E’ da questa norma  che discende  il fondamentale principio di laicità: lo Stato, senza essere indifferente rispetto alle religioni, deve garantire a tutte pari libertà.

L’Irc si inserisce così, a pieno titolo, “nel quadro delle finalità della scuola”. Lo Stato italiano riconosce “il valore della cultura religiosa”, dichiarando di tener conto del fatto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (art. 9.2). La finalità principale della scuola, che l’Irc assume come propria, non può essere altra da quella desumibile dalla Costituzione e dalla legislazione scolastica, cioè lo sviluppo della persona umana, senza distinzioni di sorta, neanche di carattere religioso (art. 3 Cost.).

 

E, in seguito, con l’Accordo del 1984 viene aggiunto che l’accesso all’Irc avviene sulla base di una libera scelta, che ognuno è chiamato ad operare.

Il principio della libertà di scelta viene richiamato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n°203/1989: “Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene, l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.

 

E, a proposito della non obbligatorietà di seguire corsi alternativi all’insegnamento della religione cattolica, viene puntualizzato nella sentenza della Corte costituzionale n°13/1991: “Alla stregua dell’attuale organizzazione scolastica è innegabile che lo “stato di non-obbligo” può comprendere, tra le altre possibili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall’edificio della scuola”.

 

 

Orbene, alla prima domanda, posta come incipit di questo articolo, ne segue inevitabilmente un’altra. Si può pregare o celebrare atti di culto nelle scuole?

La risposta arriva dal Consiglio di Stato, che, con sentenza n.1388 del 27 marzo 2017, riconosce la possibilità delle benedizioni religiose a scuola in orario extrascolastico. Nel contempo, però, il CdS pone dei limiti ben precisi all’attività di culto nella scuola, conciliando il principio di laicità della scuola con la libertà di partecipazione ad iniziative culturali o di espressione religiosa e garantendo l’autorevolezza dell’esercizio dell’autonomia scolastica.

La vicenda vede protagonista il Consiglio di Istituto di un I.C. di Bologna che, nel febbraio del 2015, concedeva i locali scolastici a tre parroci per le benedizioni pasquali in orario extrascolastico. L’iniziativa era rivolta agli alunni, i quali liberamente potevano parteciparvi, accompagnati da un adulto per la vigilanza.  La parte ricorrente adduceva che tale misura non preservava la laicità della scuola pubblica.

Il Tar accoglieva il ricorso facendo leva sul “principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato”, e dell’ “equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose”. Si legge nella sentenza del Tar: “Non v’è spazio per riti religiosi riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati, mentre ben possono esservi occasioni di incontro che su temi anche religiosi consentano confronti e riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale, culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la libertà religiosa o limitare le relative scelte”.

Il primo Giudice affermava, inoltre, che “un’invalicabile linea di confine sia a tali fini costituita dalla circostanza che si tratti o meno di un atto di culto religioso”, e che nel caso in esame, al contrario, sarebbe stato «autorizzato un vero e proprio rito religioso da compiersi nei locali della scuola e alla presenza della comunità scolastica, sì che non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 96, comma 4, del d.lgs. n. 297 del 1994, e neppure quella di cui al successivo comma 6, riferito al ben diverso ambito di iniziative di socializzazione e stimolo della maturazione degli studenti per “fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”.

Il Consiglio di Stato, invece, riformando la sentenza di primo grado, precisa nel dispositivo che “tale rito – avvenuto a scuola ma in orario non scolastico – va accolto al pari di un’attività parascolastica e che la natura religiosa dell’evento non può ritenersi un elemento discriminatorio”.

Si riporta il passaggio conclusivo della sentenza del CdS, la cui pronuncia assumeva ormai carattere soltanto morale, il cui unico effetto, ora per allora, avrebbe potuto avere il solo effetto di costituire anche un precedente.

“Com’è noto, la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi.

Il fine di tale rito, per chi ne condivida l’intimo significato e ne accetti la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano.

Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.

Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove; e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento, non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.

Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale” nelle scuole non possa in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.

  1. È appena il caso di rilevare che non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.

Ed ancora, c’è da chiedersi come sia possibile che un (minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie attività scolastiche, sia del tutto legittimo o tollerabile se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti ad attività “parascolastiche” diverse da quella di cui trattasi, ad esempio di natura culturale o sportiva, o anche semplicemente ricreativa, mentre si trasformi, invece, in un non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori dell’orario scolastico.

Va aggiunto che, per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un’attività, una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima.

Del resto, la stessa Costituzione, all’art. 20, nello stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…) per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività», pone un divieto di un trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali.

Ovviamente, la partecipazione ad una qualsiasi manifestazione o rito religiosi (sia nella scuola che altrove) non può che essere facoltativa e libera, non potendo non godere, solo perché tale, di minori spazi di libertà e di minore rispetto di quelli che sono riconosciuti a manifestazioni di altro genere, nonché tollerante nei confronti di chi esprime sentimenti e fedi diverse, ovvero di chi non esprime o manifesta alcuna fede.

Negli atti impugnati i parametri ora indicati sono tutti rigorosamente rispettati, essendo garantita la libertà di partecipare all’evento in orario non scolastico, senz’alcuna forma di contrapposizione con altri credo religiosi o con qualsivoglia diversa ideologia.

  1. Resta da verificare se i provvedimenti impugnati siano espressione di una determinata potestà, riconducibile ad una categoria rispondente al normale principio di tipicità degli atti amministrativi.

Al riguardo può richiamarsi l’art. 96, quarto comma, del D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, secondo cui gli edifici scolastici possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile.

Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del servizio scolastico e previa delibera dell’organo competente, ai sensi del precedente art.10 del D.Lgs. del 1994, n. 297 cit., ivi indicato nel Consiglio di Circolo o di Istituto.

Ed è appena il caso di ricordare che, nella prassi oggi invalsa, le competenze di tali organi scolastici sono intese in senso non certamente restrittivo, bensì estensivo o comunque elastico e flessibile, quanto alla tipologia ed alla natura delle attività “parascolastiche”, “extrascolastiche”, o comunque “complementari”, che gli stessi organi possono liberamente ed autonomamente programmare o autorizzare.

Del resto, il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 (regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59), all’art. 4, relativo all’autonomia didattica, dispone: «Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali organi, ed ammettendo esplicitamente, con l’espressione «riconoscono e valorizzano le diversità», tutte quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione”.

 

 

 

 

Nelle aule di giustizia è stata affrontata anche un’altra questione assai controversa: l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è in contrasto con il principio di laicità?

Secondo la Suprema Corte di Cassazione, l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo, non crea divisioni o contrapposizioni ma è espressione di un sentire comune e simbolo di una tradizione culturale millenaria. Alla luce di questa epocale sentenza, si coglie appieno il senso delle parole del segretario generale della Cei: “È innegabile che quell’uomo sofferente sulla croce non possa che essere simbolo di dialogo perché nessuna esperienza è più universale della compassione verso il prossimo e della speranza di salvezza. Il cristianesimo di cui è permeata la nostra cultura, anche laica, ha contribuito a costruire e ad accrescere nel corso dei secoli una serie di valori condivisi che si esplicitano nell’accoglienza, nella cura, nell’inclusione, nell’aspirazione alla fraternità”.

Una funzione di indirizzo morale, che richiama valori civilmente rilevanti. E’ questa la chiave di lettura che si desume anche dalla sentenza n°556 del 2006, in cui il Consiglio di Stato chiarisce il senso del simbolo religioso nella scuola: “È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto. In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana.  In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni. Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana.  Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i “Principi fondamentali” e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano.  Il richiamo, attraverso il crocifisso dell’origine religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia (non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica “laicità”, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato italiano. Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere “laicamente” sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza alla religione che li ha ispirati e propugnati. Come ad ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere imposti o attribuiti significati diversi e contrastanti, oppure ne può venire negato il valore simbolico per trasformarlo in suppellettile, che può al massimo presentare un valore artistico. Non si può però pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato. Nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare un altro simbolo, in verità, che si presti, più di esso, a farlo(…). La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano”.




Francesco De Bartolomeis, un maestro della pedagogia contemporanea, e di molti di noi

di Gianni Giardiello

 Vi racconto di Francesco De Bartolomeis, un importante maestro della pedagogia contemporanea, docente emerito della Università di Torino, insignito del titolo d’onore dell’Accademia Albertina delle Arti di Torino per i suoi meriti di critico d’arte.

Christian Raimo nel gennaio del 2020, in un articolo sulla rivista “Internazionale” pubblicato in occasione del 102esimo compleanno del prof., lo presentava così:

“E’ nato a Salerno mentre finiva la prima guerra mondiale e aveva 21 anni quando scoppiava la seconda. A 26 anni ha pubblicato –per intercessione di Benedetto Croce-  il suo primo saggio “Idealismo e Esistenzialismo”, attraverso cui faceva già i conti con l’eredità idealogica del fascismo. E’ un antifascista convinto.  …. Da molti anni vive a Torino e la sua storia è la storia della migliore classe intellettuale che questo Paese abbia avuto. … Delle persone anziane come lui in genere si dice che siano lucide per fargli un complimento; ma De Bartolomeis è molto più che lucido: è analitico, puntualissimo, idiosincratico, aggiornato, combattivo.”

Il racconto che mi accingo a fare riguarda un paio di decenni della sua, mia /nostra vita, quelli in cui noi ci siamo formati umanamente e professionalmente che vanno grosso modo dalla seconda metà degli anni   ’50 o giù di lì, ai primi anni ’70. Uso il noi plurale con un po’ di supponenza, ma senza timore di sbagliare, poiché sono certo che in questa storia non ci sono solo Francesco ed io, ma anche molti di voi, colleghi e amici e miei contemporanei, che mi state leggendo. Poi ci stanno molte altre cose, le nostre scuole, le idee sociali, i principi per una nuova educazione, le teorie pedagogiche, le vicende di un Paese che cercava di rimettersi in sesto e rilanciarsi dopo gli anni orribili del ventennio fascista e le conseguenze di una guerra rovinosa.

Francesco De Bartolomeis è stato uomo di grande cultura, esponente della migliore classe di intellettuali che abbia avuto il nostro Paese “Quella classe –come dice Raimo nella già citata sua presentazione – che negli anni dell’immediato dopoguerra s’inventa una cultura democratica per una società che ancora non esiste”.

De Bartolomeis è stato maestro per molti di noi, soprattutto in quegli anni giovanili, quelli della nostra formazione umana e professionale, e anche in questi ultimi tempi, alla veneranda età di 105 anni, sembrava non avere nessuna intenzione di mollarci, anzi. Erano molti di noi ad avere il fiatone a volergli stare dietro. Ogni tanto lo incontravamo in un convegno sulla scuola, alla presentazione di un suo ennesimo libro, dietro la cattedra dell’Accademia Albertina a dialogare con pittori, scultori o giovani di street art., sempre attivo, sempre un po’insofferente verso i propri malanni, sempre critico e pungente con i molti altri, anzi con quasi tutti. Un giorno lui aveva già 104 anni, con la posta elettronica, gli chiesi cosa pensava del nuovo ministro dell’Istruzione Valditara. Mi rispose come sempre con poche parole perché, diceva, aveva gravi difficoltà di vista: “E’ una disgrazia, una delle tante disgrazie di questo governo”. E in un intervista rilasciata al quotidiano Domani precisava: “Mi sembra assolutamente inadeguato, farebbe bene a stare zitto, dice delle autentiche sciocchezze. Lei si sentirebbe di umiliare una persona e poi dire che l’ha migliorata? E’ una frase molto significativa per la sua mancanza di senso”.

Sempre in movimento e, come lui stesso amava dire, sempre un po’ smodato, nel senso di fuori moda, continuava imperterrito il suo percorso di ricerca fra pedagogia, problematiche dell’educazione e della scuola, critica d’arte, estetica, creatività, e un sacco di scrittura e, negli ultimi anni soprattutto, anche di pittura.

Un “viaggiatore” smodato o non piuttosto, come distingueva Umberto Galimberti sulla pagina culturale de La Stampa di qualche settimana fa , un “viandante”, cioè uno che, a differenza del viaggiatore, rinuncia a dominare il tempo, viaggia per viaggiare e non per arrivare; è un nomade che trova il senso della vita nella ricerca

Una definizione, quella di viandante, che calza a pennello con molti aspetti della personalità e della maniera di vivere di Francesco De Bartolomeis. Intervistato in occasione del suo 102 esimo compleanno diceva: “La mia carriera continua, non spetta a me valutarne i risultati recenti, ho sempre cercato di fare cultura e nella cultura non ci sono i master come nelle attività sportive. Spero che quello che continuo a dire e a fare nelle mie conferenze, nei miei libri, sia giudicato attuale. Il mio viaggio continua…”.

In effetti non si è mai fermato. Ha continuato a percorre i sentieri della ricerca e della cultura, della filosofia e della pedagogia, scoprendosi financo artista dopo essere stato importante critico d’arte, creativo sempre. In uno dei miei ultimi incontri con lui nel suo studio di corso Vittorio Emanuele, notai che sul suo computer si stavano allineando le pagine di un nuovo, ennesimo libro. Riuscì anche in quella occasione a sorprendermi ricordando i miei precedenti interessi per la didattica della storia e della geografia e chiedendomi di poter consultare un volumetto edito da Loescher nella collana “Scienze dell’educazione” (1976), che conteneva una sua ampia relazione sul metodo della ricerca nello studio della geografia svolta nell’ambito delle Giornate di studio su “Scuola e trasformazione sociale: il ruolo della geografia” organizzate dall’associazione AIIG insieme alla Università di Torino, volumetto che non riusciva a trovare nella sua biblioteca. In effetti quel testo io possedevo e fui ben lieto di far gli avere.  Mi resi conto che, con tutta evidenza la sua ricerca continuava, inarrestabile e vitale, a dispetto dei limiti fisici che inevitabilmente stavano sopravvenendo: “non riesco più a fare le 20 vasche in piscina che pure nuotavo giornalmente fino a pochi mesi fa …”.

E’ stato protagonista intellettuale fin da subito.

A Firenze scriveva saggi di filosofia e pedagogia per la rivista Il Ponte di Piero Calamandrei e collaborava alla rivista Comunità di Adriano Olivetti, seguendo da vicino il lavoro della Montessori, e la sperimentazione pedagogica del gruppo accademico guidato da Ernesto Codignola con Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi e altri ma, soprattutto collaborando alla nascita del Movimento di Cooperazione educativa insieme a giovani insegnanti elementari come Bruno Ciari, Giuseppe Tamagnini, Giovanna Legatti, Mario Lodi, che cominciavano ad applicare nelle loro classi le tecniche di Celestine Freinet.  Studiava soprattutto il funzionamento delle cosiddette nuove scuole italiane e europee, occupandosi in particolare della prima infanzia con Margherita Zoebel fondatrice dell’Asilo italo svizzero di Rimini, e, successivamente, delle scuole dell’infanzia messe in piedi da Adriano Olivetti.

E’ il periodo in cui De Ba esplora e approfondisce le nuove pedagogie e didattiche antigentiliane sviluppatesi in Europa sull’onda del pragmatismo americano di Dewey. Di questo filosofo e pedagogista statunitense, il De Bartolomeis in collaborazione con quel gruppo di intellettuali e docenti fiorentini guidati da Ernesto Codignola traduce e propone alcune opere. La Nuova Italia, ne pubblica alcune, a cominciare da “Il mio credo pedagogico” (tit. it. “L’educazione di oggi” 1950) introducendo nella pedagogia italiana, una ventata culturale decisamente nuova e stimolante.

Io credo che … ogni vera educazione derivi dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie …, la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale …. Io credo che .. l’educazione sia perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro…io credo che …” ecc.

In poco più di una decina di pagine Dewey già alla fine dell’800, diceva agli americani del  valore decisivo dell’educazione, del rilievo sociale e civile della scuola e del lavoro degli insegnanti, chiarendo con forza che i processi di acquisizione delle conoscenze erano determinati principalmente dalle esperienze e dagli interessi di chi impara, e che di questi va tenuto gran conto nell’insegnamento, dal suo rapporto con la società  e con la natura, sottolineando l’importanza delle attività e in particolare delle attività cooperative, e del linguaggio come strumento per comunicare e interagire con gli altri.

In una delle sue opere successive più interessanti : “Scuola e società”, Dewey affermava una sorta di circolarità fra educazione e società dicendo che “l’educazione deve essere concepita come ricostruzione continua dell’esperienza” e quindi: “… se tutto quello che si fa a scuola non ha una ricaduta sulla società è del tutto inutile”: e il giovane De Bartolomeis, fresco vincitore di una libera docenza e un paio di anni dopo in cattedra a Torino, di quel credo fa una sua personale lezione nella vita e anche nell’insegnamento accademico.

 Che “accademico” non fu mai: “Non faccio lezioni sul lavoro di gruppo, ma faccio lavorare in gruppo”.

In effetti con lui non facemmo quasi mai lezioni di tipo accademico. In quei primi anni ’60 ci portò molto in giro per l’Italia. Osservando, e ragionandoci insieme, scoprimmo e documentammo molte cose interessanti sull’organizzazione e i metodi di insegnamento di alcune scuole sperimentali italiane come Città- Pestalozzi di Firenze, l’Umanitaria di Milano, o l”Asilo Italo /Svizzero” di Rimini. Con lo stesso spirito di ricerca con lui facemmo seminari residenziali e frequentammo alcuni laboratori di pittori torinesi confrontandoci direttamente con i problemi e le difficoltà dell’operare in campo espressivo e creativo. La creatività è stato sicuramente il campo della personalità infantile più studiato e più valorizzato nella ricerca psicopedagogica di De Bartolomeis.

Contestualmente Francesco De Bartolomeis andava raccogliendo in alcune pubblicazioni la sua lezione pedagogica antigentiliana. Ne ricordo soprattutto tre importanti, soprattutto perché furono i testi che portai al mio primo esame di pedagogia.

Il corposo volume de “La Pedagogia come scienza”, editrice “Nuova Italia”, e i due volumetti: “Cos’è la scuola attiva” e “I metodi della pedagogia contemporanea” per le edizioni universitarie Giannasso e successivamente per le edizioni Loescher, rappresentano la documentazione più completa e approfondita di quella rivoluzione copernicana che aveva investito la pedagogia e la didattica in quel decennio. Una combinazione esplosiva fra le nuove idee sull’educazione, le teorie pedagogiche capaci di finalizzarle e sostenerle, e i metodi didattici attivi per dar loro corpo nel concreto processo di insegnamento e apprendimento. Per gli insegnanti che lo lessero significò, non solo l’acquisizione di un orientamento scientifico nei confronti del proprio mestiere, quanto soprattutto la capacità di “non volgere le spalle ai fatti” che ogni insegnante ha sempre di fronte.

Diceva De Bartolomeis, a dire il vero anche con una certa brutalità, in una sua prefazione: “Non esitiamo ad affermare che la incapacità educativa della maggioranza degli insegnanti, dipende dalla mancanza non meno di idee chiare sulla scuola attiva che di metodi efficienti per realizzarla (…) A che serve riempirsi la bocca della “libertà”, della “spontaneità”, della “creatività” del fanciullo, quando non sappiamo che cosa esse esattamente comportano dal punto di vista di esperienze concrete, quali problemi implicano, in quali forme si esprimono, quali sono le condizioni favorevoli o sfavorevoli del loro operare?”.

Uno dei principi più importanti che appresi dai quei testi che raccontavano di una educazione nuova possibile, è che il buon insegnamento riconosce, rispetta, e soprattutto cerca di “liberare” i bisogni di fondo degli allievi, I bisogni di conoscere, di esplorare il mondo, di esprimersi, di muoversi e di comunicare, di costruire relazioni affettive. ecc. Per questo era decisivo il ricorso ad un metodo di insegnamento e di apprendimento basato sulle attività, sul fare, sullo scoprire insieme sia sul campo che sui libri. Il compito dell’insegnante diventa quindi quello di predisporre le condizioni culturali, ambientali, materiali e strumentali perché questo processo di autoorganizzazione del sapere possa avvenire.

Ma le conoscenze e gli stimoli culturali pur acquisite nell’originale percorso di ricerca predisposto e proposto dai suoi libri, non sarebbero certo bastate se non ci fosse stato l’aiuto di quel magnifico gruppo di insegnanti del Movimento torinese di Cooperazione Educativa (con F.Alfieri, M.T.Fontana, D.Ridolfi, S. Mosca, M.Dina, B.Chiesa  e molti altri) con il quale ho costruito dopo la laurea, poco alla volta, le mie competenze di insegnante nella scuola elementare prima e nella scuola media, poi, imparando ad affrontare e a superare l’ansia e i timori di un lavoro professionalmente e umanamente complesso. Imparando soprattutto quanto fosse importante il potersi confrontare e cooperare fra pari, il poter costruire insieme e poi sperimentare in classe, strumenti, schede e percorsi didattici, e l’imparare dalle buone esperienze altrui. In altre parole utilizzare le metodologie laboratoriali fra adulti, per costruire e sperimentare condizioni laboratoriali per l’apprendimento degli alunni.

A Torino De Bartolomeis incontra il mondo del lavoro, la fabbrica, gli operai e accetta anche una consulenza alla Olivetti.

A Firenze mi mancava il rapporto con la realtà del lavoro, la conoscenza da vicino delle tecnologie produttive, della condizione dei lavoratori, della cultura del lavoro. A Torino invece c’era la Fiat: mi è sempre interessata questa città e questa realtà che esprimeva molto della condizione sociale e culturale italiana di quegli anni. Ed è questa la ragione per cui finii di accettare un ruolo di consulente alla Olivetti di Ivrea.”

Ne è testimonianza concreta il volume “Cultura, lavoro e tempo libero” pubblicato nel ’65 dalle Edizioni di Comunità in cui De Bartolomeis compie un primo tentativo di definire i caratteri di una nuova cultura pedagogica, necessari ad affrontare i mutamenti, sociali, educativi e formativi, posti dal profilarsi di una civiltà in cui è compresente il lavoro e il cosiddetto tempo libero, il tempo del non-lavoro.

Era un ulteriore tratto del suo percorso di “viandante” pedagogico “smodato”, “capace di comprendere e far convivere la scienza, l’arte, la musica, la pittura, la psicologia clinica “non a livelli patologici”.

Intanto per fare la mia tesi di laurea mi toccò di lavorare in fabbrica. Il Professore mi invitò a compiere una vera e propria esperienza lavorativa nella fabbrica Olivetti di Ivrea, di cui lui era nel frattempo diventato consulente pedagogico. Per questo, con una buona dose di presunzione e faccia tosta, posso dire di aver “contribuito” a costruire l’ipotesi di una nascente branca della pedagogia, la pedagogia industriale. Nell’arco di tre mesi ho potuto frequentare e “mettere concretamente le mani” nelle lavorazioni dei principali settori di quella che allora era la più importante industria italiana per la produzione delle macchine per scrivere: dalle linee di montaggio dei vari segmenti di prodotto, alla costruzione degli stampi e degli attrezzi per poterli produrre, alla produzione degli stessi, fino ai sacri luoghi della loro progettazione e della loro sperimentazione. Inserendomi direttamente nelle “giostre” di montaggio (almeno per quanto riguarda le procedure più semplici) e lavorando insieme a operaie e operai, oppure accontentandomi di restare loro accanto come aiuto (poco esperto, ma volenteroso), potei raccogliere molte informazioni e qualche pensiero, intorno al tema che avevo scelto per sviluppare la mia tesi: quello relativo all’analisi dei linguaggi che caratterizzavano le interazioni fra i diversi attori del processo produttivo e degli stessi con i diversi tipi di  produzione. In un secondo momento anche con l’aiuto di alcuni docenti ed esperti di notevole qualità scientifica e culturale (a Ivrea conobbi personalità come Luciano Gallino sociologo del lavoro, Tilde Giani Gallino psicologa e psicoterapeuta, Francesco Novara psicologo del lavoro,) che insieme allo stesso De Bartolomeis svolgevano compiti di consulenza nei vari servizi funzionali alla organizzazione del lavoro della fabbrica (reclutamento, mobilità, formazione, ecc.),potei mettere in relazione quei  dati con le problematiche della formazione professionale e con la realtà socioculturale del territorio e della comunità locale.

Il mio incerto tentativo pre-accademico, la tesi di laurea, si poneva all’interno della elaborazione teorica di De Bartolomeis per il quale la pedagogia doveva acquisire una propria specifica autonomia nell’ambito delle scienze sociali. Già nel 1953 con la già citata opera “La pedagogia come scienza” il De Ba, sostenendo che le politiche dell’educazione non avevano a che fare solo con la scuola, ma con la società tutta, si propone di rompere gli steccati che confinano la pedagogia al solo ambito scolastico, auspicando un passaggio dal sistema educativo a quello formativo, ponendo cosi la base concettuale  per una seria innovazione  della questione riguardante la natura e il ruolo della formazione professionale.

Per quanto mi riguardava, che non mi si chiedesse più di tanto! De Bartolomeis ci provò, ma io preferii tornare alla pedagogia e alla didattica della scuola attiva e alla mia prima prova da insegnante elementare del MCE, abbandonando al suo destino la, almeno per me, mai veramente nata “pedagogia dell’industria” una ipotesi epistemologica che in verità, forse oggi in tempi di così intense e continue novità tecnologiche e digitali, dovrebbe e potrebbe essere ripresa in considerazione.

Erano anni politicamente e socialmente e culturalmente molto intensi e molto interessanti.

Alla lezione critica di Don Milani ad una scuola vecchia, incapace di affrontare i problemi posti dalle diseguaglianze sociali, economiche e culturali del Paese, e dalle  nuove sfide poste, a grandi e piccini, da uno sviluppo economico e sociale impetuoso e scoordinato, si univa la contestazione studentesca e operaia del ‘68/69 sulla necessità di una cultura nuova capace di contrastare il carattere selettivo e non inclusivo di quella che veniva definita la scuola “di classe” o la “scuola dei padroni”. La cultura e i modelli pedagogici della vecchia scuola gentiliana, a cominciare da quella che De Bartolomeis segnalava come la “triade malefica” (lezione – studio a casa – interrogazione) continuavano, ostinatamente, ad essere proposti come base dei programmi, degli orari scolastici e dei metodi di insegnamento, di ogni livello di scuola, dall’elementare fino all’Università.

In risposta ad una scuola di base, che attraverso voti e pagelle continuava nella sua opera selezionatrice, escludendo, allontanando, discriminando soprattutto i più deboli, molti insegnanti elementari e della media inferiore, a cominciare da quelli del MCE decisero per protesta di rinunciare a classificare gli alunni con i voti numerici e di dare sulle pagelle i voti uguali per tutti. Alle famiglie un po’ sconcertate, veniva proposto un colloquio per chiarire il significato di questa forma singolare di protesta proponendo agli alunni un tipo di valutazione non basata sui numeri, ma su indicazioni e consigli di carattere formativo. Con un documento “ciclostilato”, sottoscritto anche da pedagogisti, come lo stesso Francesco De Bartolomeis, e da alcuni presidi e docenti di scuola media, e inviato alle autorità scolastiche, i maestri del MCE e non solo, rivendicavano la necessità di una pedagogia non selettiva, capace di accogliere e includere tutti ragazzi, insieme  alla richiesta di una scuola più ricca di tempo, di spazi attrezzati, di libri e di sussidi didattici. Un documento che pur nella sua fragilità rivendicativa poneva però le basi per la proposta di una scuola elementare che abolendo il vecchio doposcuola frequentato solo da quelli del “patronato scolastico”, promuovesse una scuola a Tempo Pieno, per tutti gli allievi, e con due docenti per ogni classe. Un modello che si sviluppò a partire dalle zone più periferiche di Torino in cui erano presenti soprattutto ragazzi provenienti dalle fasce di popolazione meno culturalizzate, con genitori impossibilitati perché impegnati entrambi nelle attività di lavoro a occuparsi dei figli. Ma questa è una parte della storia che merita un capitolo a parte.

In quegli anni a cavallo del 1970 trovarono nuovamente terreno fertile nell’elaborazione critica della pedagogia di De Bartolomeis le questioni della innovazione dei contenuti programmatici e dei metodi di lavoro attraverso cui processarli nei percorsi di insegnamento / apprendimento. E’ del 1969 la pubblicazione de “La ricerca come antipedagogia”, il libro che segna in qualche modo il punto terminale del suo itinerarrio di elaborazione e proposta nel campo della educazione e della formazione.

Il titolo “La ricerca come antipedagogia” ne qualifica la caratura e gli intendimenti programmatici in maniera del tutto evidente, suscitando grande interesse nel mondo dell’educazione. Il libro ebbe anche il merito di confrontarsi con le idee e le speranze del movimento studentesco del ’68, che ne apprezzò soprattutto l’intento innovatore dei vecchi sistemi di educazione scolastica e universitaria, e la rivendicazione di una nuova cultura come condizione essenziale per giungere ad un vero rinnovamento sociale.

In quegli stessi anni il prof. De Bartolomeis, inimicandosi quasi tutto il Senato accademico, propone e realizza il suo “sistema dei laboratori” che sostituiscono totalmente il sistema delle lezioni e degli esami basati su una cultura puramente libresca, garantendo agli studenti di pedagogia una serie di occasioni di progettazione, di operatività diretta sui materiali, di creatività e, soprattutto, di ricerca e sperimentazione attraverso cui apprendere. Qualità degli apprendimenti che solo l’utilizzo di spazi laboratoriali attrezzati (e non certo delle vetuste aule a gradoni di Palazzo Campana) poteva garantire.

Il mio racconto per ora si ferma qui: ma molto resta da raccontare!

Il tanto che ho raccontato della sua vita e delle sue opere copre, in verità, solo un arco biografico temporalmente ristretto (dagli anni 50 agli anni 70) e riguarda solo alcuni aspetti del suo pensiero, dei suoi scritti e dei suoi interventi nel mondo della educazione e della scuola. Sono tra l’altro quegli aspetti del suo lavoro che più hanno avuto a che fare con i miei primi passi nel mondo della scuola come insegnante nella scuola elementare e media e successivamente come direttore didattico.

D’altra parte il suo contributo più importante alla Pedagogia l’aveva già dato, liberandola dall’univoco riferimento alla scuola e alla didattica, per indicarne invece una funzione indispensabile per affrontare la complessità del sistema formativo.

Negli anni 80 continua però a occuparsi di scuola affrontando le molteplici implicazioni del rapporto fra scuola e territorio, (“fare scuola fuori della scuola” è il titolo di una pubblicazione Stampatori del 1980), riprendendo e approfondendo soprattutto le questioni riguardanti la conduzione delle sempre più numerose scuole a Tempo Pieno che egli ritiene indispensabile come tempo necessario per apprendere.

Questa è quindi ben lontana dall’essere la sua biografia. Piuttosto è il racconto di quegli aspetti del suo pensiero e della sua azione culturale e professionale che più hanno avuto a che fare con un tratto significativo della mia vita.

Poi a partire dagli 80 anni me lo sono perso. O meglio è stato lui che ha svoltato con decisione verso nuovi territori da esplorare, preferendo dedicarsi prioritariamente alla ricerca e alla approfondimento delle questioni riguardanti la creatività, l’estetica e la produzione artistica, attraverso quella che giustamente Claudio Strinati definisce nell’introduzione dell’ultimo libro scritto e pubblicato nel 2022 a 103 anni dal nostro prof, intitolato “La realtà dell’Arte” (edito da Rosemberg &Sellier), una “vastissima meditazione sull’arte contemporanea”.




IC Iqbal Masih di Pioltello: lode all’autonomia scolastica ed altre storie

di Aluisi Tosolini

In questi giorni divampa la polemica sull’Istituto Comprensivo di Pioltello che ha “adattato” il proprio calendario scolastico inserendo un giorno di chiusura in concomitanza la conclusione del Ramadan, anche in considerazione che circa il 40% degli studenti del comprensivo festeggia tale giornata.
Il ministro, come ha scritto Tecnica della scuola, ha accusato il comprensivo di aver stabilito una nuova festività, cosa non legittima.
Ma cerchiamo di capire come funziona il tutto partendo dalle norme e poi raccontando la prassi derivante da 20 anni di esperienza da dirigente scolastico.

La normativa: autonomia scolastica e calendario scolastico regionale

Il calendario scolastico viene annualmente deliberato dalle singole Regioni. Nel caso dell’anno 2023/24 la regione Lombardia ha pubblicato il 20 aprile 2023 la delibera Prot. N.R1.2023.5812 che così scrive: “come definito con la DGR 3318/2012, permangono stabilite le festività fissate dalla normativa nazionale ed i tradizionali periodi di chiusura natalizi, pasquali e di carnevale, come di seguito specificato (segue elenco)”.

In chiusura la delibera ricorda che “le Istituzioni scolastiche e formative, nel rispetto del monte ore annuale previsto per le singole discipline ed attività obbligatorie, possono disporre gli opportuni adattamenti del Calendario Scolastico d’Istituto – debitamente motivati e deliberati – comunicandoli tempestivamente alle famiglie entro l’avvio delle lezioni”.

Il DPR 275/99 ( Autonomia Scolastica) all’articolo 5 (autonomia organizzativa), comma 2 e 3 al riguardo scrive:

  1. Gli adattamenti del calendario scolastico sono stabiliti dalle istituzioni scolastiche in relazione alle esigenze derivanti dal Piano dell’offerta formativa nel rispetto delle funzioni in materia di determinazione del calendario scolastico esercitate dalle Regioni a norma dell’articolo 138, comma 1, lettera d) del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
  2. L’orario complessivo del curricolo e quello destinato alle singole discipline e attività sono organizzati in modo flessibile, anche sulla base di una programmazione plurisettimanale, fermi restando l’articolazione delle lezioni in non meno di cinque giorni settimanali e il rispetto del monte ore annuale, pluriennale o di ciclo previsto per le singole discipline e attività obbligatorie.

Come si può vedere è del tutto evidente che il Consiglio di Istituto si è mosso dentro i binari fissati dalla normativa.

Infatti

  1. La singola scuola, dice la norma, può, rispettando le prerogative della Regione, adattare il calendario scolastico in relazione alle esigenze del PTOF;
  2. Le prerogative regionali sono state rispettate perché viene rispettata sia la data di avvio che di chiusura dell’ano scolastico e di certo nella delibera dell’IC Pioltello sarà stato previsto sia il rispetto del monte ore annuale che la tempestiva comunicazione alle famiglie.

Per quanto riguarda le esigenze del PTOF di un comprensivo che è intitolato a Iqbal Masih (bambino operaio e attivista pakistano, simbolo della lotta contro il lavoro infantile) non vi è dubbio che esistano e che siano anche significative e pregnanti.

Per chi lo volesse verificare di persona consiglio la lettura del PTOF dell’Istituto. Se proprio non lo si vuole leggere tutto basta andare a pagina 19 dell’estratto grafico dove leggo: “L’ Istituto da sempre pone attenzione al contesto multiculturale in cui opera, promuovendo azioni intenzionali e sistematiche che riguardano la promozione della formazione di conoscenze e atteggiamenti che favoriscono rapporti dinamici tra le culture; predispone un clima relazionale positivo nella classe, nella scuola e in spazi extrascolastici, favorevole al dialogo, alla comprensione e alla convivenza civile. La Scuola si avvale del nuovo Protocollo di Accoglienza, documento che definisce le azioni con cui attuare e sostenere l’inserimento scolastico degli alunni stranieri, sia di quelli che si iscrivono prima dell’inizio delle lezioni sia di quelli che si iscrivono ad anno scolastico iniziato. Tiene conto del quadro legislativo di riferimento. Esso è il risultato del lavoro della Commissione Intercultura ed è parte integrante del PTOF dell’Istituto comprensivo

Insomma, nessuna festività religiosa o nazionale inventata dal nulla ma corretto esercizio dell’autonomia scolastica entro i parametri definiti dalla normativa in vigore.
Ed è per questo che l’attacco che il Ministro ha rivolto all’istituto è particolarmente preoccupante: perché è ideologico e ottusamente chiuso nei confronti delle nuove realtà sociali e culturali che caratterizzano l’Italia contemporanea e perché dimostra di non conoscere la normativa (cosa questa abbastanza preoccupante se si è ministri dell’istruzione !!).

Breve ed ironica narrazione di come si costruisce la delibera annuale sull’adattamento del calendario scolastico

Ma come viene fatta annualmente la delibera sul calendario scolastico da parte delle singole scuole?
Beh…. 20 anni di esperienza da dirigente scolastico mi permettono di fare qualche esempio ironico (ma mica tanto).
In primo luogo occorre capire in che regione si vive. Ad esempio la Regione Emilia Romagna ha pensato di fare, anni fa, una delibera permanente (neanche fosse il calendario gregoriano) che poi annualmente è costretta a integrare perché succede sempre qualcosa che fa saltare i piani scolpiti nella roccia dai legislatori di Bologna.
Comunque sia, a differenza della delibera della Lombardia, i singoli istituti non possono, in Emilia Romagna, cambiare la data di inizio delle lezioni. Così chi lo ha fatto (la scuola che ho diretto, ad esempio) ha sempre dovuto inventarsi delle ragioni più o meno plausibili per farlo (ad esempio per il PCTO, oppure solo per il quadriennale, oppure ecc) in una sorta di gara alla creatività ermeneutica.

In secondo luogo appena si sa com’è il calendario fissato dalla regione sia i docenti che i genitori si scatenano nell’analisi del calendario dell’anno successivo (ad esempio del 2025 oltre che dell’autunno 2024 per l’anno scolastico 24/25) alla ricerca di tutti i ponti possibili e immaginabili così da proporre chiusure della scuola in concomitanza dei ponti stessi.

In alcuni casi la cosa è proprio sensata, in altri molto tirata. Una volta identificati i possibili ponti da fare (quindi i corrispondenti giorni di sospensione delle lezioni) occorre capire come recuperare le ore di lezione di quei giorni. Non è infatti pensabile di saltarle a più pari: su questo la normativa  di cui sopra è chiarissima. Ovviamente anche qui si va di fantasia: chi già ha il calendario su 5 giorni alla settimana ha gioco facile inserendo ad esempio qualche rientro al sabato per attività di tipo campionati studenteschi, giochi di qualcosa, festa dell’istituto ecc.  Chi invece lavora su 6  gironi è costretti ad un di più di creatività: chi ragiona di viaggi di istruzione che durando giorni interi occupano comunque molte ore e quindi costituiscono un recupero dei giorni di ponte, chi giurando che ci saranno dei rientri pomeridiani in più (tanto poi magari nessuno controlla e amen…. ) e così via…

In altre situazioni sono gli stessi enti locali che supplicano perché siano attuate determinate chiusure. Ad esempio per evitare in pieno inverno l’accensione del riscaldamento in un giorno infrafestivi.

E’ persino accaduto che la provincia dove io vivo abbia insistito per diversi anni per convincere tutte le scuole superiori a chiudere il sabato adottando il calendario scolastico su 5 giorni così da risparmiare in riscaldamento e costi di trasporto. Che poi la cosa risulti complessa per ragazzi e ragazze che frequentano istituti con più di 30 ore settimanali obbligando a prevedere persino 3 rientri pomeridiani (in assenza spesso di mensa e spazi adeguati) non pareva essere di interesse di qualcuno. Come se l’apprendimento non fosse propriamente al centro degli interessi di chi ragiona di scuola….

C’è poi il caso del Carnevale. In alcune regioni si fa vacanza perché cos’ ha deciso la determina regionale (ad esempio Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia, Calabria, Basilicata), in altre proprio no. Ad esempio a Viareggio le scuole sono aperte durante il carnevale.

Poi ci sono i casi dei comuni che hanno il santo patrono (ps: santo patrono !! giusto per stare nella laicità !) che ricorre in piena estate e quindi la festa/chiusura della scuola salta. Oppure i comprensivi che si stendono su 4 o 5 comuni (ne ho diretto uno su 5 comuni di montagna, una intera valle, un feudo!) con 4 o 5 diverse festività del patrono e conseguenti complessità organizzative.

Insomma, come si può vedere, per fortuna che c’è l’autonomia scolastica che, ben regolata e mitigata entro gli argini della legge che assegna alle regioni la potestà sui calendari scolastici che tuttavia permettono adattamenti a cura delle singole scuole.
Nel caso dell’IC Iqbal Masih poi le ragioni sono davvero significative, apprezzabili e degne di lode!
Di certo più inclusive che una sospensione delle lezioni per permettere la settimana bianca o il week end lungo al mare a chi se lo può permettere !
Altro che invenzione di festività !

 




Libertà vo’ cercando, ch’è sì cara!

Stefaneldi Carlo Baiocco

(Punti e spunti di riflessione, espressi in modo disordinato, conciso ed essenziale, proposti per l’attuazione di un programma di interventi, pratici e concreti, che possa contribuire a restituire funzione, dignità, benessere e libertà alla scuola e agli insegnanti)

 

–  Recupero dell’immagine sociale ed economica della professione attraverso il riconoscimento di un ruolo unico professionale pubblico con stato giuridico non impiegatizio;
– equiparazione dei contratti a quelli dei professori universitari;
– stipula di contratti annuali pubblici ed autonomi, specifici per la scuola;
– recupero pieno e vero dell’autonomia scolastica;
– eliminazione delle reti di ambito nonché delle scuole “capofila”:
– diritto all’obbligo scolastico elevato a diciotto anni;
– cancellazione della sperimentazione della scuola secondaria di secondo grado ridotta a quattro anni;
– investimenti annuali, seri e ponderosi sulla scuola e soprattutto sulle scuole presenti in aree disagiate;
– eliminazione dell’autonomia differenziata regionale e delle “gabbie salariali” per gli insegnanti;
– aumenti salariali equiparati almeno alla media delle retribuzioni degli altri paesi europei e svincolati dal livello dell’inflazione programmata;
– introduzione della quattordicesima mensilità per tutti gli insegnanti;
– utilizzo delle risorse e dei fondi del PNRR per la messa in sicurezza ed a norma antincendio ed antisismica delle scuole e per l’eliminazione delle barriere strutturali, per il miglioramento del trasporto scolastico, della disinfestazione da topi, blatte e zanzare e la riqualificazione, anche quella eco-sostenibile, degli spazi interni ed esterni (cortili, aree verdi …), delle mense, palestre, laboratori, biblioteche, “teatri”, degli ausili didattici per alunni disabili e con disturbi specifici, delle aule e suppellettili, dei presidi igienico-sanitari, magari anche dell’acqua calda, e, soprattutto, dei bagni, ormai quasi sempre ridotti a cessi orripilanti;
– cancellazione del nuovo piano di dimensionamento scolastico;
– revisione di tutti gli “accorpamenti” e “dimensionamenti” fin qui fatti;
– eliminazione dei contributi, elargiti a piene mani, assegnati alle scuole private e confessionali;
– non riconoscimento dei diplomi rilasciati dalle scuole private e confessionali;
– turnazione ed assegnazione, ogni cinque anni, di ciascun alto funzionario e burocrate del ministero e degli uffici scolastici provinciali, che pontificano, normano e decidono sulla scuola, allo svolgimento di attività lavorative, d’insegnamento e di segreteria, presso le scuole periferiche maggiormente disagiate;
– restituire centralità, forza, pluralità e democrazia ai collegi docenti, sottraendoli allo strapotere dei dirigenti autocrati e delle loro ristrette, “aristocratiche”, prone corti;
– reintroduzione dei consigli di disciplina elettivi;
– ricostruzione dei consigli scolastici provinciali;
– estensione ed equiparazione di uguali diritti democratici, di rappresentanza, di voto, d’espressione e d’assemblea per tutti i sindacati;
– estensione del tempo prolungato;
– implementazione, estensione e riqualificazione delle mense scolastiche interne agli istituti;
– apertura delle scuole nei pomeriggi e soprattutto nell’intero periodo estivo e durante i periodi di interruzione delle lezioni, finalizzata anche all’organizzazione di molteplici attività formative, istruttive, teatrali, sportive e ludico-ricreative (corsi, laboratori, …) in collegamento con le libere, pubbliche associazioni operanti nei territori, con massicci investimenti, adeguamenti ed assunzioni di altro personale docente ed ATA;
– rispetto della normativa che disciplina il numero degli alunni per classe a 20 in presenza di un solo alunno disabile;
– individuazione e riconoscimento degli alunni BES (con bisogni educativi speciali) solo in presenza di certificazione rilasciata dalle ASL;
– eliminazione delle classi “pollaio” e creazione di classi con non più di 21 alunni;
– nel caso siano presenti più alunni DSA e BES, la classe non potrà avere più di 16 alunni;
– eliminazione del contributo (in)volontario richiesto ai genitori;
– recupero del “furto” dell’anno 2013 ai fini della progressione di carriera e dell’aumento stipendiale;
– eliminazione dell’inutile, fuorviante e dispendioso “carrozzone” dell’INVALSI e di tutte le relative, demenziali, ambigue prove, che, fra gli innumerevoli danni che cagionano, non solo distorcono, monopolizzano, appiattiscono e standardizzano l’azione didattico-formativa e penalizzano gli alunni DA, DSA e BES, ma favoriscono anche, direttamente, la gerarchizzazione delle scuole e la concorrenza fra le stesse e, indirettamente, la valutazione della professionalità degli insegnanti;
– eliminazione delle prove INVALSI, quali requisito per l’ammissione all’esame di maturità;
– eliminazione degli accordi fra le scuole ed i privati;
– eliminazione delle classifiche delle scuole (superiori) elaborate da fondazioni riconducibili a privati;
– eliminazione, nella scuola secondaria di secondo grado, dei PCTO ovvero dei “percorsi per le competenze trasversali” dell’alternanza scuola-lavoro che ormai, generalmente, si fondano solo sull’orientamento basato sugli accordi di mercato con le Università migliori offerenti e, ancor peggio, sugli accordi di “sfruttamento”, a volte risultato anche letale, con gli enti pubblici e le imprese private;
– riconoscimento dell’intera professione insegnante quale usurante e creazione di forme di pensionamento agevolato e non penalizzato;
– eliminazione della decurtazione nella retribuzione in caso di dieci giorni di malattia;
– eliminazione del “fondo d’istituto” e/o sua ripartizione stipendiale/tabellare fra tutti gli insegnanti;
– approvazione finale della contrattazione d’istituto da parte dei collegi;
– lavoro nelle varie, diverse commissioni svincolato dalla retribuzione per mezzo del fondo d’istituto;
– eliminazione dei soli collegi finalizzati all’approvazione dei progetti per il PTOF;
– eliminazione della “Carta docente” ed utilizzo dei fondi stanziati e legati alla stessa per implementare gli stipendi tabellari;
– libri di testo gratuiti anche per le famiglie “disagiate” degli alunni della scuola secondaria di primo grado;
– implementazione dell’auto-produzione di manuali e libri di testo, allestiti ed editi dagli istituti scolastici stessi, da passare in comodato d’uso agli alunni;
– eliminazione della deleteria, dannosa e rovinosa didattica per “competenze” e dei relativi, insensati, frettolosi, impropri giudizi finali espressi per “competenze”;
– recupero del diritto al trasferimento annuo;
– elezione diretta e democratica del dirigente scolastico, dei suoi collaboratori e dei referenti di plesso da parte del collegio a scrutinio segreto;
– eliminazione della valutazione degli insegnanti da parte dei dirigenti scolastici;
– introduzione della valutazione del dirigente scolastico da parte del collegio docenti, affinché quest’ultimo possa tornare davvero ad essere un “primus inter pares”;
– scioglimento dei contingenti ispettivi ed eliminazione della pseudo-valutazione, insensata, gerarchizzante e mortificante, elaborata dai NIV (nuclei interni di valutazione), dai NEV (nuclei di valutazione esterna) e dal SNV (sistema nazionale di valutazione);
– eliminazione della cosiddetta RC ovvero della “rendicontazione sociale”;
– eliminazione del “bonus premiale”;
– eliminazione del RAV ovvero del rapporto di autovalutazione;
– eliminazione dei PDM ovvero dei cosiddetti piani di miglioramento;
–  eliminazione degli open-day, generalmente ridotti ad un’ipocrita, demagogica, competitiva, umiliante ostentazione ed offerta del “niente o del poco” ed allestiti e presentati in un autentico, ridicolo super-mercato da “cento-vetrine”;
– revisione delle leggi e delle norme che regolano i procedimenti disciplinari a carico degli insegnanti;
– stipula di un’assicurazione gratuita per coprire gli insegnanti ed il personale ATA nell’eventuale colpa “in vigilando”;
– rispetto della titolarità d’istituto e della continuità didattica;
– impossibilità di utilizzare gli insegnanti di “potenziamento” e di “sostegno” per le supplenze;
– riconoscimento della titolarità su classe per tutti i docenti;
– assegnazione di tutti gli insegnanti alle classi prima dell’inizio delle lezioni;
– nell’anno di prova, introduzione dell’obbligatorietà per i neo-assunti di un lungo tirocinio di affiancamento da svolgersi unicamente nelle classi, in sostituzione dell’obbligatorietà a partecipare ad insensate ore di pseudo-aggiornamento online ed a riempire ulteriori, inutili cartacce (relazioni…);
– rivalutazione dell’insostituibile valore della lezione frontale strutturata e dell’efficacia della spiegazione trasmissiva, della lettura ad alta voce e della scrittura eseguita a mano;
– eliminazione di tutta la tassonomia delle “griglie” valutative e delle cosiddette “prove oggettive” (iniziali, in itinere e finali) utilizzate per la valutazione degli alunni, per i RAV e per i PDM;
– attuazione di seri programmi finalizzati al potenziamento delle abilità e delle conoscenze e non solo e non sempre al recupero delle stesse;
– creazione di premi in ausili didattici per alunni meritevoli ovvero che fanno notevoli progressi rispetto ai livelli iniziali;
– eliminazione dell’esame di licenza media o, almeno, eliminazione delle cosiddette “tesine”;
– rivalutazione di una valutazione espressa a livello formativo/discorsivo, che sempre più sia preferibile alla votazione espressa in decimi e che sempre, quanto meno, l’accompagni;
– “Educazione civica” resa disciplina a sé con assunzione di personale dedicato e specifico, magari afferente alla graduatoria di Diritto;
– eliminazione della compilazione e stesura di tutte le innumerevoli, onerose, inutili, stupide pratiche burocratiche a carico degli insegnanti proprie di un mero, mortificante, ripetitivo mansionario impiegatizio;
– eliminazione delle programmazioni disciplinari d’inizio e fine anno, (da nessuno mai lette ed ormai ridotte generalmente ad un copia-incolla!);
– aggiornamento obbligatorio e retribuito, focalizzato solo sulle discipline insegnate e sulla pedagogia;
– fruizione di un anno sabatico ogni cinque di insegnamento, finalizzato alla ripresa degli studi inerenti esclusivamente alle discipline insegnate;
– assunzione sul “Sostegno” di soli insegnanti appositamente formati e specificatamente abilitati;
– rispetto assoluto della continuità didattica sul Sostegno;
– chiamata del personale supplente, in sostituzione del personale assente, anche per brevissimi periodi;
– riapertura di un “doppio canale” per l’immissione e la messa in ruolo del personale precario “storico”;
– svolgimento dei GLHO unicamente in presenza degli operatori medici delle ASL che seguono ed hanno in carico gli alunni;
– creazione in ogni scuola di “sportelli” di mutuo auto-aiuto sul benessere psicologico gestiti da psicologi laureati e formati, il cui lavoro deve restare autonomo e comunque svincolato da quello degli insegnanti;
– revisione dei “Decreti delegati” in funzione di una notevole riduzione della presenza dei genitori, generalmente fattasi, vieppiù ed ormai, sempre meno collaborativa e sempre più invasiva, intrusiva, pretenziosa, oppositiva e, a volte, finanche molto aggressiva;
– sostituzione dell’ora di IRC ovvero di Religione cattolica con un’ora di Educazione civica;
–  approvazione del patto di corresponsabilità, del regolamento d’istituto, del regolamento dei viaggi d’istruzione e delle norme di comportamento, nella scuola primaria e secondaria di primo grado, da parte del collegio docenti e rispetto degli stessi;
– utilizzo del registro elettronico solo per l’indicazione dei “compiti” assegnati;
– eliminazione dei colloqui mattutini con i genitori;
– limitare per quanto più possibile e ridurre al minimo l’esposizione degli alunni ai flussi dei campi elettromagnetici indotti dalla presenza sempre più pervasiva delle reti digitali negli istituti;
– recupero, soprattutto nella scuola primaria, della scrittura a mano sulle classiche lavagne di ardesia, che, fra le altre cose, sono assai meno costose, non hanno bisogno delle “reti” ed il cui smaltimento è ancora ecosostenibile;
– eliminazione, nella scuola primaria e secondaria di primo grado, dell’uso di “device” digitali per l’interazione alunno/insegnante (a meno che non siano necessari in presenza di disabilità…) e precedenza assoluta all’uso di diari, di quaderni e della scrittura minuscola in corsivo su carta;
– divieto assoluto dell’uso dei cellulari all’interno della scuola, che assai contribuiscono a trasformare i cosiddetti “nativi digitali” in ignoranti sostanziali;
– chiusura di tutti i “gruppi social” degli insegnanti (creati con o senza il dirigente scolastico) e diritto assoluto alla “disconnessione” da parte di quest’ultimi;
– divieto per gli insegnanti di creare e/o partecipare a “gruppi social” con i genitori e tanto più con gli alunni che, secondo la normativa vigente sull’uso del trattamento dei dati personali e sulle “condizioni d’uso”, sotto ai tredici/sedici anni non potrebbero neanche crearsi un proprio “account” ed accedere all’uso degli stessi;
– recupero urgente, pieno ed immediato della completezza e “leggerezza” delle posizioni, pedagogiche e culturali che facciano capo e riferimento ad una visione fondata sulla “paideia” socratica, costituita dal circolo luminoso e fecondo di “agalma” ovvero l’attrazione verso il sapere, come vuoto da non riempire, come vuoto da produrre, come vuoto da aprire, come luogo di una mancanza da preservare e come circolarità di e fra “eromenoi” (maestri che amano il sapere), “erastes” (amante del sapere) ed “eromenos” (ciò che è degno di essere amato) e basata su una tradizione umanistica che esalti l’epistemologia delle discipline e la scuola come percorso di costruzione culturale ed educazione all’esercizio del sapere critico e del libero pensiero;
– eliminazione del “fatal, letal trittico” di abilità, conoscenze e competenze che non è solo falso, demagogico,  inutile e fuorviante, ma che conduce a risultati disastrosi, perché codifica una separazione ed una scomposizione del sapere, della formazione e dell’apprendimento in tre livelli distinti, incomunicabili ed addirittura reciprocamente subordinati e poiché conduce all’adesione acritica a visioni aziendaliste, ispirate alla totale subordinazione della formazione culturale ad esigenze di carattere esecutivo, produttivo e compet…itivo, a quelle esigenze, sempre più etero-indotte ed etero-dirette, che concepiscono la scuola come luogo chiuso di addestramento di addetti, manovalanze e competenze per il mercato, aziende ed imprese e non come comunità educante, come spazio aperto di formazione di cittadini che sulla cultura fondano la loro crescita, la loro consapevolezza e la loro capacità di non competere, bensì di essere, di conoscere, di sapere e, perciò, di agire e vivere in libertà!

N.B.:

dello stesso autore si veda anche l’articolo/saggio del 15-5-‘20, scritto insieme ad Alessandra Fantauzzi: “Contro la didattica e la valutazione per competenze”, qui pubblicato e di cui segue il “link” utile per la lettura:
https://www.gessetticolorati.it/dibattito/2020/05/15/contro-la-didattica-e-la-valutazione-per-competenze/

dello stesso autore si veda, fra l’altro, anche l’articolo/saggio del 21-5-‘20: “E noi, insegnanti, nonostante tutto…”, qui pubblicato e di cui segue il “link” per la lettura:
https://www.gessetticolorati.it/dibattito/2020/05/21/e-noi-insegnanti-nonostante-tutto/




Far amare agli allievi il sapere che devono possedere


di Raimondo Giunta 

A scuola il dogmatismo metodologico dovrebbe restare fuori dalle sue mura, perché non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche; ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema di sapere quale pratica adottare nell’insegnamento è subordinato a quello di stabilire quali apprendimenti debbano essere conseguiti dagli alunni, resi necessariamente consapevoli della loro importanza e del loro valore. Su questi obiettivi si misura la pertinenza dei mezzi e delle procedure da usare. Si raggiungono i risultati sperati, se l’alunno riesce a sentire come scoperta personale il possesso del sapere e a “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
Per questi obiettivi sarebbe auspicabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento con il modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra. “Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).

Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problema, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta, però, un considerevole cambiamento del modo di insegnare.

E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).

Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione “delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, e di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.

Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.
Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.
Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante, risorse di apprendimento per i propri pari. Il docente favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità  e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.

Il docente è presenza fondamentale nei momenti preliminari e soprattutto durante l’attività didattica.
E’ un ruolo di guida, ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche.
Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità.
Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere .

Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca. Deve far vedere che ha in sè il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.




La scuola del merito di Valditara: per gli studenti prove Invalsi difficili, per i docenti test di concorso facili e imbarazzanti

di Aluisi Tosolini

In questi giorni si stanno svolgendo le prove scritte (test computer based) dei concorsi docenti di ogni ordine e grado.
E, sempre in queste settimane, si discute moltissimo di valutazione accusando spesso la scuola di non essere abbastanza difficile, di non pretendere abbastanza dagli studenti e di essere preda di un rammollitismo ideologico le cui origini sono ritrovate dal Ministro, stando al suo ultimo libro sulla scuola, nell’ideologica sinistra e sinistroide del 1968. Insomma la scuola del merito e dei talenti deve essere più difficile, deve alzare l’asticella.
Se dunque la scuola è accusata di essere troppo facile – mi sono detto – chissà come saranno le prove scritte (test) dei concorsi per docenti. Sarà una strage.

La stessa preoccupazione è stata espressa, ad esempio, da La Repubblica che l’11 marzo 2024 così scrive:  “Concorsi al via. È la settimana delle prove a quiz per chi sogna una cattedra di ruolo. Hanno fatto domanda in 372.804 per 44.654 posti di cui 15.588 sul sostegno. Entreranno poco più di uno su dieci. Al netto della disomogeneità dei posti disponibili rispetto alle domande e soprattutto delle bocciature che nel test selettivo da 50 quesiti hanno tassi sempre molto elevati

Ma è davvero così?
Siamo andati a vedere. Ma prima di darvi l’esito della nostra ricerca facciamo il punto sulla prova scritta.

In cosa consiste la prova scritta?

La prova consiste in un test computer based di 50 quesiti a risposta multipla (4 risposte, una sola corretta). La prova ha una durata di 100 minuti.
I 50 quesiti sono organizzati per aree o ambiti 

Ambito pedagogico, psicopedagogico e didattico-metodologico

  • 10 quesiti di ambito pedagogico
  • 15 quesiti di ambito psicopedagogico (inclusione inclusa)
  • 15 quesiti di ambito metodologico didattico (valutazione inclusa)

Lingua inglese: 5 quesiti a risposta multipla, livello B2.

Competenze digitali: 5 quesiti sull’uso didattico delle tecnologie e dispositivi elettronici multimediali

I quesiti si basano sui programmi dell’allegato A al DM n. 206 del 26 ottobre 2023 e allegato A al dm n. 205 del 26 ottobre 2023 rispettivamente per infanzia primaria e secondaria.

Come si supera la prova

Il punteggio massimo per la prova scritta è di 100 punti. Ogni risposta esatta vale 2 punti. La risposta errata o non fornita vale zero. La prova è superata con il punteggio complessivo non inferiore a 70 punti, ovvero con 35 risposte esatte su 50. Il punteggio del test (prova scritta) è conteggiato nel punteggio complessivo che è costituito da punteggio prova scritta, punteggio prova orale (max 100) e punteggio titoli (max50) per un totale massimo di 250 punti.

La prova scritta: difficilissima, difficile, facile, facilissima, …… o imbarazzante ?

Una gentilissima dirigente amica mi ha recapitato i 50 test cui sono stati sottoposti i docenti delle scuole secondarie (di primo e secondo grado) in uno dei giorni scorsi. Ricordo che in quella giornata la stessa prova è stata somministrata a tutti i concorrenti in tutta Italia (l’unica variazione è infatti nella disposizione random dei quesiti)

I 50 quesiti sono scaricabili qui.

Invito tutti prima a mettersi mentalmente alla prova e poi a rispondere ad un’unica domanda al seguente link https://forms.gle/c7Vxd4FTravxXKPQ6  dove esprimere il proprio parere sulla complessità della prova.

Una valutazione dei quesiti

In realtà gli argomenti di molti quesiti sarebbero anche interessanti e si presterebbero a quella ipotizzata strage di cui parla Repubblica. Il problema è che tra le 4 risposte possibili tre sono proprio sbagliatissime ed in sostanza è impossibile non azzeccare la risposta giusta.
Ad esempio la domanda 50 chiede quale tra i seguenti NON è un organo collegiale di cui al Dlgs 297/1994. E fornisce le seguenti opzioni

  • Piano triennale dell’offerta formativa
  • Collegio dei docenti
  • Consiglio di interclasse
  • Consiglio di intersezione

Ora, anche se una viene da Marte (ma conosce la lingua italiana) non può che rispondere correttamente spuntando PTOF che, essendo un Piano triennale, è difficile sia un organo collegiale.
E lo stesso si può dire per quasi tutti (se non tutti ! ) i quesiti. Alcuni poi sono di una semplicità imbarazzante, come quello della domanda 7. Altri gridano vendetta al cospetto di Dio, e penso al quesito sulla pedagogia della cura dove anche mio nipotino di 2 anni e mezzo risponderebbe correttamente.
Taciamo poi, per carità di patria sui quesiti riferiti a pedagogisti e affini (Piaget, Dewey, Bloom,..).

Insomma, una persona che conosca la lingua italiana e legga con attenzione le domande, difficilmente riesce a sbagliare più di 15 risposte e quindi a non accedere all’orale, dove barcamenarsi pronti ad andare in cattedra negli anni successivi.
Ignorantissimi o preparatissimi non è dato sapere, visto che certo questa prova scritta non ci permette di capirlo.
Ma certo pronti ad essere cattivissimi con gli studenti e le studentesse che, secondo moltissimi Catoni contemporanei, non sanno niente e che non hanno voglia di imparare nulla.

Una modesta proposta

Magari – modestissima proposta da parte mia – potremmo chiedere agli studenti di quinta superiore di svolgere il test che vi ho proposto (invece che il test invalsi) così da verificare quanti prendono più di 70 ed abbuonare a questi l‘esame di stato. Tanto, ne sanno come i futuri docenti.
E magari ai docenti facciamo fare il test invalsi….. e allora forse sarà davvero una strage !

 

 

 

 




Il disastro della finta inclusione: bambini cattivi e note disciplinari

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raffaele Iosa

 Riprendo e copio qui  queste due lettere di aiuto su brutte esperienza scolastiche di alunni e studenti con disabilità, riprese da un sito FB molto frequentato da insegnanti e genitori.
Sui siti specializzati in consulenza sull’inclusione scolastica ne arrivano di questo tipo continuamente.

 

Lettera 1
“….. Vorrei chiedervi se è normale che l’insegnante di sostegno di mio  figlio gli faccia  ogni giorno  note disciplinari, piuttosto che seguire la tecnica  di gestione dei comportamenti-problema.   Mio figlio è art. 3 comma 3 Legge 104, ADHD+ DOP + disregolazione emotiva, situazione familiare difficile.  Esiste una normativa in merito?”

Lettera 2
“ Buon giorno, sono una docente di sostegno, il mio collega curricolare mette diverse note disciplinari al mio alunno ADHD e DOP. Io lo trovo controproducente in quanto dopo ogni nota lui smette di lavorare. Cosa devo fare?”

A proposito di questo mio breve commento sull’argomento ADHD e DOP,  i quotidiani di oggi raccontano di una sospensione di ben 15 giorni a Ladispoli  per un ragazzino con queste disabilità,  che è stata soppressa dal TAR Lazio e con una scuola che riceverà da Roma “una visita ispettiva”. Servirà a qualcosa? Mah.

Dunque. Nel forte aumento  certificativo in corso da 20 anni, in cui gli studenti con disabilità sono triplicati, tre disabilità sono esplose nel panorama clinico: l’autismo (un terzo dei certificati 104), l’ ADHD (disturbo dell’attenzione e iperattività , e il DOP (disturbo oppositivo provocatorio).
Si tratta di sindromi certo complesse e molto discusse  (anche criticamente) sul piano scientifico,  emerse con forza negli ultimi anni, e a volte compresenti nella stessa persona. Tutte con una caratteristica  precipua: la presenza di diffusi “comportamenti problema” cui spesso si lega la “querelle disciplinare”, intesa non come materia scolastica, ovviamente, ma come modi umani dell’agire “anomali, spesso aggressivi e fortemente reattivi”. Che creano nelle classi situazioni sofferenti anche per gli altri alunni e studenti.

L’esplosione ha seguito la diffusione del DSM V, il classico manuale statunitense di psichiatria del 2012  che viene seguito dalle pratiche diagnostiche dei paesi europei.
Autismo, ADHD, DOP sono da questo manuale particolarmente “medicalizzati”, ed hanno ottenuto un gradimento diagnostico prima del tutto assente.

Meriterebbe, prima di analizzare le due lettere qui presentate, chiedersi  se questa esplosione segnali una “epidemia inedita prima”,  oppure una diversa attenzione e lettura dei comportamenti dei bambini e dei ragazzi a scuola, oppure una nuova epidemia psichiatrica a largo spettro. Oppure una qualche “crisi ideale e sociale”  che tocca l’educazione e la  terapeutica.
Ho chiamato quest’epoca  della “medicalizzazione” e  una specie di “grande malattia” sta pervadendo le nostre scuole e mette in crisi l’esperienza inclusiva italiana.

Il fatto è che anche le basi scientifiche di queste diagnosi sono  discusse. Non esiste una certezza genetica, ad esempio, se non alcune tracce e alcune spinte epigenetiche. Non esistono “cure” farmacologiche particolarmente condivise,  i farmaci  psichiatrici  sono ancora  osteggiati per il rischio di “intontimento”. Piuttosto è curioso che nella letteratura clinica  di queste tre disabilità manchino del tutto alcune parole classiche della psicologia quali “carattere, personalità, relazione”.
Siamo invece oggi nell’epoca del comportamentismo spinto, prevalentemente di base skinneriana, ed  è esplosa parallelamente una neo-clinica (con molte strutture private agguerrite nel mercato della cura) con “tecnici terapeutiche” e “tecniche comportamentiste” che hanno una discreta efficacia nei comportamenti problemi, ma anche queste oggetto di discussione. E soprattutto un costo pesante per le famiglie.

E’ soprattutto su queste tre disabilità che si sta giocando, in Italia come in Europa, la possibilità di proseguire e qualificare l’inclusione nella normalità come noi abbiamo fatto fin dagli anni 70. Il rischio è invece la tendenza ad “isolare” questi bambini e ragazzi anche perché “pericolosi” per i compagni di classe. Si tenga conto che per loro in genere domina la cd “copertura totale” (docente di sostegno + educatore comunale) in modo che mai siano lasciati “soli”  in mezzo alla classe e ai docenti (diciamo così) “normali”. Siamo cioè già verso un declino separativo, in cui si diffondono aule ha e spazi separati.
Ma il dibattito scientifico e pedagogico è scarso, e quando si prova a farlo spesso accadono scontri.

E qui veniamo alle due lettere pubblicate all’inizio. In entrambe è in discussione se la “nota disciplinare” per un qualche comportamento non “corretto” sia utile o se, invece, non peggiori il quadro comportamentale del nostro studente con disabilità ADH, DOP o autistico. D’altra parte le “note disciplinari” possono avere in gran parte lo stesso effetto anche nei ragazzi diciamo così non disabili: e cioè piuttosto che “aiutare a comprendere” il sé alunno/studente ed essere stimolato  per  comportamenti virtuosi, produrre uno stigma che aumenta le crisi e con questo più difficile l’inclusione personale. Disgraziatamente per una pedagogia del merito di destra strisciante che entra dalle fessure delle nostre aule “punire non è mai curare”.

Ebbene: queste due lettere riguardano i comportamenti “punitivi” che adottano sia docenti di cattedra che docenti di sostegno, che dovrebbero secondo il dire comune avere invece “competenze” ben diverse.
Dunque  un tema centrale per l’epoca presente: la necessità di sviluppare competenze più raffinate e serie di capacità inclusive per tutti i docenti coinvolti, sia per quelli di sostegno che per i curricolari.
Non per nulla, come già anticipato in altri mei scritti, sto lavorando  con amici e colleghi sensibili  al tema a proporre quella che abbiamo chiamato “cattedra inclusiva”, che nasce dalla necessità di formare intensamente tutti i docenti italiani anche e soprattutto a fronte dalle nuove sfide che la profonda mutazione socio-culturale e scientifica delle disabilità sta producendo nelle nostre scuole. La questione delle “note disciplinari” è un piccolo cattivo esempio prodotto sia da docenti curricolari che di sostegno.
Non c’è alternativa: è necessario un cambio di passo con competenze diffuse ben diverse da quelle di oggi. Altrimenti meglio le scuole speciali: quelle non imbrogliano nelle finalità.