Dice Valditara: promuovere i talenti per rilanciare l’economia. Ma funziona davvero così?

di Franco De Anna

Le affermazioni del Ministro che tentano di connettere funzionalmente la “promozione dei talenti” nella formazione e nella scuola, con l’eguaglianza delle opportunità offerte ai soggetti in formazione e lo sviluppo economico territoriale (facciamo il “made in Italy”?), appaiono assai impegnative.
Ma soprattutto legate da una più che discutibile “funzionalità” soprattutto se intesa in automatico. Al contrario suscitano necessità di “analisi differenziata”.
Un impegno che non ha grande successo nella dinamica politica attuale.
Provo a offrire qualche spunto proprio sul piano della “analisi differenziata”

I talenti nella formazione

Promuovere le capacità, attitudini, abilità, impegni dei soggetti in fase di formazione ed istruzione non può che richiedere un approccio di “valorizzazione soggettiva”.
Fondato dunque sulla “diversità” dei soggetti stessi.

 La “diversità” come valore

L’impresa più difficile come sa chiunque si misuri (soprattutto ma non solo da docente professionista: vale anche per le famiglie) con l’azione e la ricerca formativa.
Il rapporto e l’uso degli strumenti innovativi.
Le scuole, gli insegnanti, le famiglie sono investiti oggi dalle sollecitazioni all’uso degli strumenti collegati alle nuove Tecnologie della Informazione e Comunicazione (le TIC), e alle applicazioni della AI.
L’argomentazione in proposito non può che essere assai complessa e stratificata

L’articolazione di tali argomenti è sviluppata in diversi punti.

Le scuole e i loro riferimenti e protagonisti essenziali (docenti, studenti, organizzazione) sono oggi coinvolti in modo a volte pressante ed essenziale dalle problematiche della Intelligenza Artificiale.
Basti pensare al ruolo che può giocare ChatGPT nella stessa stesura delle relazioni e dei “compiti” assegnati agli Alunni (relazioni, temi, composizioni, autovalutazioni, copiature)

  1. Gli “strumenti materiali” attraverso i quali si afferma tale ruolo sono di “detenzione personale” dei singoli.
    Attraverso gli Smartphone, i Tablet e più raramente i PC portatili, tali processi di coinvolgimento raggiungono il singolo, la sua partecipazione e sensibilità.
    Non possono ovviamente che sollecitare la sua responsabilità.
    Congiuntamente propongono una responsabilità collettiva/collegiale, agli altri protagonisti della scuola.

    Dai docenti (singoli e collegialmente coinvolti) alla stessa organizzazione (ambienti fisici e relazioni sviluppate nei diversi ambienti di apprendimento e formazione) si tratta di definire ruoli e responsabilità operative coerenti capaci di declinare l’intero impulso innovativo che proviene dall’esterno: dalla Ricerca alla dinamica dei Social Media.
  2. Occorre focalizzare la propria attenzione su ciò che costituisce “oggetto specifico” di tale ricerca educativa: “il soggetto in sviluppo e formazione”. O se si vuole “il percorso specifico e soggettivo (che ovviamente valorizza “la diversità”  verso l’adultità”).
  3. Si rimanda, in proposito, ad un interessante e fondamentale contributo della Commissione Europea destinato ad orientare le decisioni in proposito del Consiglio stesso.
    Se ne può trovare analisi dettagliata nel mio Sito personale.
  4. Di seguito riporto Il “libro Bianco Europeo” citato
    https://www.aspera-adastra.com/wp-content/uploads/libro-bianco.pdf
    e un mio commento e approfondimento
    https://www.aspera-adastra.com/wp-content/uploads/Il-digitale-nei-processi-di-apprendimento.pdf
  5. Si noti che tale “libro Bianco” è stato fatto proprio, con pieno e deliberato consenso da parte del Nostro CNEL.
    Ma si noti anche che di tale assunzione si tace e non ne sono state investite le scuole.
    Come vi fosse una “riserva di merito”.
  6. Richiamo, di tale analisi, un costrutto fondamentale per la “integrazione sensata” del Digitale nei processi di insegnamento ed apprendimento: il ruolo dei “realia”.
    Cioè dei dispositivi che ricostruiscono il rapporto antropologico “mano cervello” come fondamento essenziale e specifico dello sviluppo umano.
    Nell’uso “personale” della strumentazione Digitale, la mano non stringe, non plasma, le dita si limitano a sfiorare e strisciare su superfici lisce.
    Non c’è un martello, uno scalpello, una pasta di creta da plasmare.
    Dunque si rischia uno sviluppo limitato non solo della manualità, ma anche della creatività e della identità personale ad essa connessa. E dunque anche della affettività e delle relazioni con altri.
    Insomma: gli elementi essenziali della crescita e dello sviluppo soggettivo che spesso costituiscono e si inseguono nella scuola con “attività specifiche mirate”, piuttosto che con una “pedagogia integrata” 

    Ultima e più che complessa articolazione.

    Tali considerazioni devono essere articolate in ogni “ambiente di apprendimento”: dall’aula scolastica, alla casa/famiglia, al giardino della scuola, alla gita scolastica, All’associazionismo (sportivo e non).
    Ciò segnala una “debolezza organica del nostro sistema scolastico”.
    Si pensi che l’Istituzione e struttura degli Organi Collegiali cui è affidata la decisionalità collettiva sono stati costituiti nel 1974 e strutturalmente rimasti tali.
    Ma anche che la ristrutturazione degli assetti del Ministero (si pensi al rapporto con le competenze regionali) risale agli anni 2000, e soprattutto non ha sviluppato adeguatamente le articolazioni territoriali, se non in una primissima e isolata fase storica (Bassanini).Il nostro sistema di istruzione e formazione soffre di una debolezza intrinseca di “Governance”. (Uso il termine con il significato originario di “Governo Misto”)
    Quanto a dire alla capacità, suddivisa tra i diversi e competenti “decisori”, di stringere adeguati accordi operativi cui delegare le proprie decisionalità e soprattutto i vincoli, criteri e misure di qualità assunte in comune responsabilità delle decisioni condivise.

    Purtroppo, una “Questione Nazionale” che interroga direttamente un “Nodo Costituzionale” di fondo. E di non semplice scioglimento.

Verrebbe da sfidare il “Ministro dichiarante” a rielaborare una strategia per l’Istruzione e la Cultura capace di esplorare, se non di rispondere a tali stratificazioni.
Ma mi parrebbe una sfida crudele per gli assetti politici attuali.




Ragionando sulla dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

La lotta alla dispersione scolastica è uno dei compiti più nobili che si possa svolgere nelle singole scuole, perchè dà respiro sociale ed educativo a tutta l’attività formativa. Nella società della conoscenza, dell’apprendimento durante tutta la vita, chi fuoriesce anticipatamente dal sistema formativo senza il possesso di adeguate e solide competenze per svolgere il ruolo di cittadino e di lavoratore è destinato all’emarginazione sociale.
E in linea di principio nessuno dovrebbe accettare un fatto del genere.

Alla scuola è stato indicato l’obiettivo di ridurre drasticamente la dispersione scolastica e nel frattempo anche quello di aumentare in modo cospicuo la percentuale dei diplomati di quanti frequentano le superiori per allinearsi alle relative medie europee.  I risultati sono in via di miglioramento, anche se non sono completamente soddisfacenti, perchè il fenomeno della dispersione è ancora consistente, per vecchi e inestirpati fattori, ma anche per nuovi, come la scolarizzazione dei figli degli immigrati, per la quale non si è sempre e dappertutto preparati.

A partire dagli anni ‘60 le porte delle scuole sono state aperte a tutti, soprattutto alle superiori. I risultati di questa necessaria scolarizzazione di massa, però, sono ancora contraddittori. A parità di “qualità umane”, infatti, non si ha tra i giovani parità di risultati, di successo formativo e di possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.

Si è intervenuto su alcuni ostacoli di natura economica, ma negli ultimi tempi con risorse sempre decrescenti, (riduzione delle tasse di iscrizione, borse di studio, gratuità dei servizi di trasporto, buoni-libro, ma rare volte con le mense scolastiche). Questi provvedimenti hanno favorito l’accesso di tantissimi giovani alle scuole, ma non sono riusciti a tenervi dentro tutti quelli che vi entravano e a farli uscire a tempo dovuto con il bagaglio necessario di preparazione per affrontare la vita.

Questo significa che gli ostacoli alla piena scolarizzazione delle nuove generazioni non erano e non sono esclusivamente di natura economica.  E’ un problema di prima grandezza il contrasto di fondo che si sviluppa tra scuola, cultura scolastica, codice interno del sistema scolastico da una parte, mondo giovanile, cultura giovanile e soprattutto nuova utenza dall’altra. Il peso delle discipline logico-linguistiche, il primato della scrittura, l’astrazione inevitabile di alcuni saperi scolastici, la subalternità e la debolezza delle attività laboratoriali nei curricoli scolastici, l’organizzazione del tempo scolastico sono congeniali ad un certo tipo di alunni :quelli predisposti e in qualche modo allenati in ambienti familiari che ne comprendono e ne accettano le ragioni, per altro genere di giovani, cioè di altre estrazioni sociali, queste caratteristiche del mondo scolastico costituiscono difficoltà da superare.

Il problema più rilevante nell’insuccesso scolastico è quello costituito dalla povertà dell’eredità culturale di cui dispongono tanti giovani che entrano nel sistema di istruzione, A scuola non sempre si riesce a contenere i disagi che ne derivano.
Si registra ancora una preoccupante correlazione tra successo scolastico e patrimonio culturale in possesso degli alunni, tra status culturale della scuola e quello delle famiglie di ceto medio. Nelle scuole, anche in quelle ad indirizzo tecnico e nelle stesse medie, vengono esaltate e premiate le forme di intelligenza che si esprimono nel rapido e più ampio possesso delle conoscenze. Poco spazio si dà al sapere fare e al sapere agire, anche se in queste finalità si devono individuare le condizioni di una vera democratizzazione del curriculum e della valutazione,

Accanto a questo primo grande problema, altri ne sono sorti, che rendono difficile per molti il successo formativo.
A) La fine della mobilità sociale che nel titolo di studio trovava alimento e giustificazione; causa fondamentale della motivazione a studiare, non sostituibile col piacere della cultura, con il diritto ad una piena cittadinanza, con la necessità di una vita continua come apprendimento. Neppure la cognizione della marginalità sociale conseguente alla povertà di cultura e alla carenza di professionalità riesce ad avere capacità di motivazione. Lo scambio sacrifici oggi per eventuali vantaggi domani non funziona e non viene praticato da molti giovani.

B) L’incapacità di dominare le nuove tecnologie per ricavarne risorse per il lavoro e per la cittadinanza.

Sono due sfide al sistema scolastico, ma solo la seconda è davvero nelle sue possibilità con i dovuti finanziamenti e con la necessaria predisposizione dell’infrastruttura materiale e professionale. La soluzione della questione fondamentale della mobilità sociale è nelle mani di chi ha la responsabilità della politica industriale e degli investimenti economici. La scuola deve soltanto non perdere battute nel preparare i giovani ad inserirsi nel modo migliore e con il dovuto bagaglio professionale e culturale nel mondo del lavoro se e quando per loro si aprono le porte

Oltre a questi problemi in Meridione se ne devono affrontare altri molto seri e che non vengono adeguatamente considerati nel nuovo e appassionante sport nazionale delle graduatorie degli istituti scolastici. . .
Problemi riassumibili nella povertà del capitale culturale del territorio (insufficienza di sedi scolastiche, grave deterioramento degli edifici scolastici, rarità di biblioteche, povertà di centri e di associazionismo culturali, disattenzione degli enti locali, casualità dei servizi alle persone, scarsa partecipazione civica alle scelte locali, vuoto e dissipazione dei mesi estivi, deprivazione culturale di molte famiglie etc) e nella disgregazione sociale del territorio di riferimento (lacerazione dei rapporti familiari, redditi familiari incerti, precarietà nel lavoro e disoccupazione di massa, illegalità e criminalità diffuse, quartieri senza servizi, degrado urbanistico, servizi dei trasporti insufficienti e sgangherati etc). Problemi che aggravano le condizioni del disagio giovanile e ostacolano il percorso di formazione di quanti provengono da questi ambienti.

Nella dispersione scolastica lavorano, quindi, a pieno regime fattori economico-sociali, fattori culturali, motivazionali e valoriali.
Per questo è una lotta difficile e dai risultati incerti. E’ una lotta che va condotta su diversi terreni, che richiede una strategia plurale e la capacità di tessere le alleanze necessarie sul territorio, perchè da sola la scuola non risolverà mai questo problema. Chiamare, allora, gli enti locali alle proprie responsabilità, le associazioni per il loro contributo, le aziende per la collaborazione, le famiglie per la partecipazione alla vita scolastica, gli insegnanti all’innovazione e alla creatività metodologica.

A scuola non dovrebbero mancare iniziative per cercare, laddove il problema si pone, di recuperare il rapporto tra generazioni; di superare ogni forma di comunicazione non dialogante all’interno della comunità scolastica; di spingere le famiglie alla riassunzione della loro responsabilità educativa, qualora come spesso succede vi avessero rinunciato; di valorizzare nello studio e nella riflessione la storia, le tradizioni, la cultura del proprio territorio per riportare criticamente i giovani alle proprie radici.

Il lavoro più importante resta sempre quello che viene quotidianamente fatto in classe; ma non al modo di sempre, perchè è quello che in parte produce la dispersione. Un lavoro che deve essere fondato sulla fiducia che viene riposta negli alunni, sulla valorizzazione del loro impegno, sull’incoraggiamento e sulla loro responsabilizzazione.
Vedi cosa sai fare? puoi farcela e in alcuni casi devi farcela.  Potrebbero essere i principi con cui regolarsi nell’attività didattica. Principi che richiamano la passione educativa dell’insegnante, la sua umanità professionale.

In situazioni in cui nell’immediato è impossibile il recupero educativo della famiglia e del territorio, con rischi incombenti di degrado e di marginalità sociale per tanti nostri giovani, le uniche risposte al problema della dispersione sono quelle che solo la scuola puo’ dare, considerando il grande patrimonio umano, culturale e professionale dei suoi insegnanti.

E se non la scuola, chi?

 




Fissiamo un tetto alle sgrammaticature di Valditara

di Mario Maviglia

Ha ragione il Ministro Valditara a scagliarsi contro chi ha stigmatizzato i suoi errori linguistici contenuti in un tweet in cui parlava della necessità di costituire classi con la maggioranza di italiani, allineandosi alle posizioni del suo capopartito Salvini, nonché Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Questa vicenda ci fa capire tante cose interessanti:

  • Valditara dice: “Quando si detta un tweet al telefono non si compie un’operazione di rigore linguistico e si è più attenti al contenuto”. Verissimo! Però dall’altra parta del telefono ci si aspetta che chi prende la telefonata (ossia un collaboratore di Valditara, da lui stesso scelto, immaginiamo) abbia almeno la licenza di scuola media…
  • Il Ministro del Merito aggiunge che il processo di assimilazione degli alunni stranieri “avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano…”. Ecco, sarebbe opportuno che anche Valditara e l’ignoto suo collaboratore potenziassero a loro volta il loro italiano. La lingua italiana sarebbe loro grata.
  • Secondo il Valditara-pensiero (preso a prestito dal suo capopartito Salvini) questo processo di assimilazione degli studenti stranieri avverrà “se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana…” [Si noti la finezza sintattica di quel “si insegni”, una vera chicca e licenza poetica. Non è ancora licenza media, ma la strada è tracciata. Con il potenziamento di cui sopra ce la possiamo fare…].
    Ma qui il Valditara-pensiero denuncia qualche défaillance (tranquillo, sig. Ministro: vuol dire “debolezza”): infatti i risultati peggiori – almeno stando alle classifiche internazionali come OCSE-PISA – gli allievi delle scuole italiane li conseguono nelle scuole superiori dove la presenza degli alunni stranieri è più bassa. E allora come la mettiamo? Forse questa necessità di “approfondimento” non riguarda solo gli studenti stranieri, ma anche e soprattutto quelli italiani.

  • Senza nascondere una certa stizza, il Ministro (Valditara, lo dobbiamo specificare sempre sennò sembra che si voglia parlare del suo capo, Salvini…) fa notare “ai tanti critici dall’indignazione facile, che in queste ore si stanno scatenando nella caccia all’errore, che così facendo ignorano la questione da me posta…”. Per la verità il Ministro (Valditara) e il suo capo (Salvini) sono i primi ad ignorare che la questione del tetto massimo degli alunni stranieri per classe era stata già oggetto di una circolare all’epoca del IV Governo Berlusconi, Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
    Si tratta della CM n. 2 dell’8 gennaio 2010, che fissava appunto al 30% la percentuale di “alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe”. Una circolare emanata quindi da un governo di centro-destra, come quello attuale.
    Ma è comprensibile che quando si hanno tanti tweet da fare o annunci da proclamare alla Nazione non si abbia poi il tempo di documentarsi rispetto al contenuto, quel contenuto che il Ministro (Valditara) dice di aver attenzionato a scapito della forma. Non si vuole essere cavillosi, ma qui, con tutta franchezza, sembra mancare sia la forma che il contenuto. È plausibile che ciò possa succedere al Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (a proposito: da quando i Ministri di tale Dicastero si interessano in modo così insistente di politica scolastica? Il Ponte sullo Stretto non è già abbastanza impegnativo?), ma che un Ministro dell’Istruzione non sappia cosa ha prodotto il suo Dicastero in materia è abbastanza allarmante.
  • Volutamente abbiamo più volte parlato del Ministro Salvini come il “capo” del Ministro Valditara: non si tratta di una svista o di una nota polemica. Sia a proposito della vicenda della scuola di Pioltello che nel caso della percentuale di alunni stranieri nelle classi il la è stato dato da Salvini a cui si è accodato, come un mansueto cagnolino, o se volete come un coscienzioso corista, il Ministro Valditara.
    Insomma, sembra di capire che il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture detta la linea della politica scolastica e il Ministro Valditara la mette in atto con sottomessa dedizione.
  • Sempre a proposito di contenuti, è facile prevedere che una norma sulla percentuale massima di alunni stranieri per classe (20 o 30% che sia) non troverà mai attuazione perché richiederebbe una concertazione di azioni tra più soggetti istituzionali, come d’altro canto ben specificava la CM 2/2010 che sottolineava l’importanza di “realizzare le conseguenti intese tra soggetti disponibili sul territorio per una gestione coordinata delle iscrizioni dei minori stranieri fra l’Amministrazione scolastica, le Prefetture, le Province e i Comuni”. Difficile pensare che oggi sia possibile un’azione di tale complessità.
  • D’altro canto, sempre citando la CM 2/2010, “non va dimenticato che a influire sulla presenza più o meno significativa di minori stranieri in un determinato territorio contribuiscono sì le capacità attrattive delle scuole che in esso insistono, ma pure – e in termini non certo irrilevanti – le disponibilità di alloggio e le offerte di lavoro in esso presenti. Il che fa immediatamente emergere il ruolo cruciale che le prassi degli accordi e delle alleanze territoriali possono svolgere per affrontare i problemi suddetti.”

Di questi problemi non vi è traccia negli interventi dei due Ministri dell’Istruzione (Valditara) e del Merito (Salvini). E allora facciamo una facile e cassandrica previsione: qualora questa coppia di Ministri dovesse partorire una norma su questa materia, la responsabilità di accogliere o non accogliere gli alunni stranieri, rispettando la quota percentuale stabilità formalmente, ricadrà interamente sulle istituzioni scolastiche e i dirigenti scolastici resteranno, ancora una volta, col cerino in mano. Parafrasando Brecht, possiamo dire che si siederanno nella parte più disagevole perché gli altri posti saranno occupati.




La pedagogia per amica

di Raimondo Giunta

Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perchè pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.

Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico, che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica. Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia. La sostituii con filosofia della religione.

L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione. Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi.
Mi ponevo queste domande ogni volta che mi scontravo con una difficoltà o con un problema imprevisto. Erano i ragazzi senza prerequisiti; erano i ragazzi stanchi per il lavoro fatto nei campi; erano i ragazzi che non volevano starci a scuola; erano i ragazzi che non avevano a casa tempo, spazi e modi per imparare; erano i ragazzi di famiglie numerose che non ci credevano; erano i ragazzi che si distraevano e quelli che provavano vergogna per come si sentivano, per come erano vestiti e per come erano giudicati.

Da tutti mi dovevo fare capire; da tutti mi dovevo fare accettare e da tutti qualcosa dovevo ottenere.
Ero senza mestiere e ho capito che dovevo costruirmelo subito e da solo, ma avevo passione e fantasia da vendere nel lavoro e i ragazzi venivano a scuola perchè gli leggevo e raccontavo storie interessanti, perchè comprendevo i loro errori, perchè rispettavo i loro tempi, perchè per ognuno avevo un gesto di attenzione, un sorriso, una battuta. Andavo per tentativi e poi ci ragionavo.

Penso che il compito della pedagogia sia quello di accompagnare, sostenere, illuminare la fatica di fare crescere le nuove generazioni. Credo che la pedagogia si ponga come aiuto alla definizione delle finalità educative e come sapere critico che interroga la congruenza tra fini proclamati e mezzi utilizzati nelle esperienze formative. Non so se sia molto, nè se con questi convincimenti abbia superato la mia giovanile diffidenza; ma poco o tanto che sia questa specificità andrebbe difesa e richiesta, perchè senza la buona pedagogia il lavoro a scuola diventa una faticosa routine senza orientamento.
Si diceva con convinta superficialità “rem tene, verba sequentur”, che bastasse, cioè, una solida preparazione disciplinare per fare bene a scuola.

L’insegnante, però, non deve sapere solo cosa deve insegnare, ma anche come si deve insegnare; deve sapere chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che genere di famiglia e ambiente vivono. La cura degli allievi, l’attenzione ai loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti dovuti. Senza di essi non si genera formazione, non si genera crescita umana.
Per molto tempo con superbia intellettuale questi aspetti della funzione docente sono stati giudicati inessenziali, non pertinenti come il possesso di un sapere specialistico. Si è espunto come superflua la dimensione affettiva e valoriale. Si è insistito e si insiste ancora nella scelta di formalizzare un processo dinamico, complesso, emotivo, ricco come quello del rapporto educativo. Con l’ausilio della sola professionalità e della propria competenza disciplinare, anche se irrorate da un forte senso del dovere e dall’etica del conoscere, nei nostri giorni l’insegnamento rischia di essere sterile o di conseguire risultati modesti. Non si va molto lontano quando la persona dell’alunno non è al centro dell’attenzione e il principio-guida dell’attività formativa. Se anche il sapere, la disciplina scolastica fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, lo scopo della formazione non è quello di sottomettere la natura indocile dell’alunno al sapere, ma quello di fare diventare “sapiente” l’alunno indocile.

A poco a poco mi sono convinto che è opportuno liberarsi dal fastidio e dalla diffidenza nei confronti della pedagogia e di tornare a familiarizzare con i suoi richiami ai temi etici e alla responsabilità educativa del docente. Mi sono convinto che tutto ciò può convivere col modello di professionalità proposto negli ultimi decenni e che questo è l’unico modo per non farsi sfuggire di mano il controllo del mondo, su cui gli insegnanti sono chiamati a intervenire.
C’è stato molto lavoro sulle tecniche, sull’organizzazione didattica, sulla metodologia; ce n’è stato poco sui valori fondanti e condivisi dell’educazione dei giovani. La pedagogia aiuta a riflettere sulle relazioni tra docenti, alunni e sapere; mette sotto osservazione le relazioni umane e anche l’enciclopedia dei saperi di un curriculum scolastico, perchè anche con l’esperienza dei saperi si costituiscono gli orientamenti delle proprie condotte e la visione della vita.

Non penso che della pedagogia si possa fare scienza, come si pretende di fare ogni volta che ci si imbatte con una disciplina umanistica, pensando di conferirle una maggiore dignità epistemologica.
Ci sono modi e modi di essere critici, di non sprofondare nel dogmatismo. Provvisorietà e fluidità sono i caratteri intrinseci di tutte le discipline umanistiche. Fluidità vuol dire problematicità; la stabilità dei concetti inconfutabili non viene reclamata nemmeno   nelle scienze cosiddette esatte. Nelle discipline umanistiche la stabilità è quella costituita dalle convenzioni, dall’accordo più ampio possibile. Bruner ne “La mente a più dimensioni” esalta la natura negoziale, euristica, transazionale dei concetti delle scienze sociali e umane. ”Se qualcuno si chiede dove risiede il significato dei concetti sociali, nel mondo, nella mente di chi li pensa o nella negoziazione interpersonale, non potrà rispondere se non che la risposta giusta è quest’ultima. Il significato è ciò su cui possiamo convenire o perlomeno ciò che possiamo accettare come base di lavoro per la ricerca di un accordo sui concetti in questione”. E ancora sempre nello stesso testo: ”Il linguaggio dell’educazione se vuole essere uno stimolo alla riflessione e alla creazione di cultura non puo’ essere il cosiddetto linguaggio incontaminato dei fatti e dell’oggettività”.

Si fa spesso della buona pedagogia raccontando esperienze più che elaborando teoremi. Esperienze che possono essere di successo, ma anche esperienze di fallimenti.  Si impara molto, andando a scrutare il senso delle scelte fatte, analizzando la logica dei comportamenti messi in atto dai protagonisti, valutando la natura dei mezzi adoperati e quella dei risultati ottenuti. ”La lettera ad una professoressa” della SCUOLA DI BARBIANA, diretta e ispirata da Don Lorenzo Milani, appartiene a questo genere di letteratura e non casualmente ha affascinato e trascinato la generazione di nuovi docenti che si affacciava sulla scena della scuola italiana alla fine degli anni 60 e negli anni ‘70.

Vedo la pedagogia come sapere autonomo che si avvale di molteplici apporti interdisciplinari; nè ancilla della filosofia quanto ai fini, nè delle varie sezioni della psicologia quanto ai mezzi, nè madre autoritaria di ogni metodo didattico, ma capacità di riflessione sulle pratiche educative sulla base di criteri che non possono non essere che finalità di sviluppo umano e sociale. E se l’ordine dei fini ai quali attinge la pedagogia è collocato fuori dalle scienze, non per questo puo’ essere discreditata, perchè non può fare a meno di servirsene.

La pedagogia come Pratica-teoria o Teoria-pratica dell’azione educativa. Non ha bisogno di dissolversi in psicologia applicata, nè allontanandosi dal fatto educativo trasformarsi in antropologia o in filosofia morale. E in questo rapporto teoria-pratica che scaturiscono le invenzioni, le creazioni, che si rinnova l’insegnamento. Dopo tanti teorici dell’educazione per fare bene a scuola si può ragionevolmente attingere anche al sapere di chi ha fatto lunga esperienza di educazione. . .

La buona educazione scaturisce dall’azione sensata, alla cui origine si trova la fronesis di aristotelica memoria, il discernimento, non la scienza. Il rigore dell’azione educativa non deriva dal rigore del sapere dell’azione e questo dal rigore della scienza. Il come fare trova la sua verità nella coerenza dello stesso fare e non in saperi esterni che si proclamano scientifici. Non serve a molto perdere tempo per stabilire se la pedagogia debba essere una scienza. E se per caso non lo possa essere, perchè mai non dovrebbe essere utile? La pedagogia è una bella ed utile disciplina se i suoi concetti non pretendono di valere per sempre e in ogni situazione, se si convince che ogni sua congettura vale fino a prova contraria e le prove contrarie in educazione purtroppo si presentano anche quando nessuno se le aspetta.  Le buone idee si devono misurare con le ristrettezze della realtà e con i limiti che essa impone.

La buona pedagogia prima o poi si mette di traverso rispetto alle scelte amministrative e dell’organizzazione scolastica, perchè è insita in essa un seme di utopia e di ribellione. Il destino pensato per gli alunni può essere, infatti, molto diverso da quello predisposto dagli assetti economico-sociali e dalle scelte politiche ad essi congruenti. E nella scuola dove non mancano i loro cantori, la buona pedagogia fa la guardia all’autonomia del pensiero, cerca di mettere in salvo l’umanità e i diritti degli alunni, soprattutto se sfavoriti, combatte la sua quotidiana battaglia per difendere la missione liberatrice della conoscenza e per mettere a nudo le mistificazioni di tante celebrate innovazioni.  Senza pedagogia è difficile cambiare ciò che l’educazione conserva e conservare ciò che con tanto impegno si è riusciti a cambiare.

“La pedagogia non è soltanto un’arte, una scienza e una filosofia. E’ una forma di vita, un mezzo di essere felice mediante la gioia di fare crescere i fanciulli, i figli degli altri” (M. Debesse).

 




Il caso Pioltello, ultima ora: cosa si dice davvero nel “palazzo”

di Aristarco Ammazzacaffé

I fatti, in primo luogo, come per ogni cronaca che si rispetti.
Il Collegio Docenti e il Consiglio dell’Istituto Comprensivo di Pioltello (Mi) – intitolata ad un ragazzo straniero, per giunta musulmano, Iqbad Masih – decidono, in perfetta complicità, lo stop alle lezioni il 10 aprile p.v.. E ciò per permettere alla comunità musulmana (quindi non solo non cattolica, ma neanche cristiana), di partecipare alla loro festività religiosa, il Ramadan. Senza minimamente pensare al rischio ben forte di cadere addirittura nell’apostasia.

Il ministro Valditara prontamente informato da Radio Maria e dai catto-leghisti lombardi, giustamente interviene con queste parole ascoltate e registrate personalmente: “Questa chiusura no, non s’ha da fare né il 10 aprile, né mai. Le delibere del Collegio docenti e del Consiglio di Istituto – scandisce, pacatamente alterato, che lo sentono anche a Piazzale Trilussa – sono irregolari, almeno per tutta questa legislatura. E questo perché – e qui diventa lapidario – una scuola seria non chiude, ma apre; anche a Natale, Pasqua ed Epifania, che tutte le feste si porta via; comprese quelle comandate ed estive (sulla frase in rima però ho qualche dubbio, che con onestà doverosamente dichiaro. Noi, di una certa parte, siamo fatti così.  Quelli dell’altra, se ne facciano una ragione).

“E questa scuola – tra l’altro intestata a uno che io neanche conosco (un vero insulto alle nostre passate glorie nazionali, conosciute in tutto il mondo: vere e proprie eccellenze del Made in Italy che tutti ci invidiano); questa scuola – dicevo vuole chiudere per la festa del Ramadan, pur essendo la peggiore in Lombardia.  Ben sappiamo, senza fare sociologismi di bassa lega, come funzionano questi Istituti con tutti questi immigrati, soprattutto musulmani.
Fossero almeno un po’ cristiani, se non proprio cattolici!”
Così l’equilibrata dichiarazione del Ministro.

Ma, tornando ai fatti più recenti, fino a quelli dell’ultima ora, va registrato purtroppo che, in quasi tutto il Paese, associazioni, intere scuole, centri culturali, maestri e studenti e dirigenti, eccetera eccetera, si sono schierati senza ritegno con una scuola incriminata, difendendo l’indifendibile delibera adottata.

Chiederete in base a quale principio.  Risposta univoca: in base a un presunto diritto all’accoglienza e al rispetto per le altrui identità. Cioè all’acqua fresca. E tirando in ballo, tra l’altro – l’ho sentito con queste mie stesse orecchie – anche l’autonomia scolastica e addirittura la Costituzione. Costituzione che in tanti, e tutti di una certa parte, se non la tirano in ballo anche quando si parla di zucchine e catalogne, non si sentono à la page.
Questa è l’umanità che sta facendo guerra al nostro Ministro: per dei musulmani che vogliono chiudere la scuola per il loro Ramadan!

Finanche la Curia ambrosiana – e questi sono fatti documentati – ha voluto dire la sua, anche se nessuno gliela ha chiesto; addirittura con parole di rispetto e di condivisione per la scelta della scuola fuori legge. Capite a cosa si arriva? E il Papa? Interviene o no? No, non interviene. Anche questa è cronaca vera e dolorosa. (Ma forse forse, a pensarci, se non interviene è anche meglio; sapendo già in partenza cosa potrebbe dire. E questo, un Papa…).

Interviene Mattarella e Valditara sbotta con i suoi fedelissimi: “Non c’è più religione”.

A tale pantomima si è accodato anche – ed è la vera notizia del giorno – anche il Presidente della Repubblica; al quale dobbiamo rispetto per l’età avanzata, ma che non può comunque permettersi di schierarsi con la delibera eversiva di questa scuola; e addirittura inviare un abbraccio – sì, un abbraccio! – a quelli che tale delibera hanno scritto e votato all’unanimità; e dichiarare addirittura, apertis verbis: “Apprezzo il vostro lavoro”. Inaudito! Anche questo abbiamo letto nella giornata di ieri.
No, Presidente. Queste son cose che non si dicono e non si fanno. Un Presidente della Repubblica italiana – mi permetta questa pacata considerazione comunque personale – non può, ricorrendo alla più penosa retorica sessantottina, parteggiare per chi – come la Vicepreside della scuola al centro della polemica –  osa affermare, senza vergognarsi, che all’Istituto Iqmad … (non riesco a pronunciarne il nome neanche sforzandomi. Vorrà pure dire qualcosa!) “non ci sono né italiani, né immigrati, ma solo bambini e ragazzi da istruire ed educare”. Un’autentica menzogna! Ma anche questo ho sentito e lo posso fedelmente testimoniare.

Meno male che, a far da muro contro questa cecità generalizzata, ci sono personaggi come il Governatore della Lombardia: mica un pisquano qualsiasi, come qualcuno potrebbe pensare. Parlo di Attilio Fontana che, a proposito della decisione della scuola, parla coraggiosamente di “una decisione fuori luogo”; o anche personalità come Riccardo De Corato, nientemeno deputato di Fratelli d’Italia e amico personale di Matteo Salvini (e non so se mi spiego). Il quale De Corato annuncia, senza essere imbeccato da nessuno, un’interrogazione al Ministro “per capire quali azioni intenda intraprendere a fronte di una scelta così inaccettabile” (della scuola incriminata). Testuale, perché non si dica.
Questo sì che è parlare franco, schietto e come Dio comanda.

Ma il Ministro, assediato com’è, che può dire – povero! – di fronte a tanto sfaldamento educativo, etico e religioso? Se non chiedere a persone amiche e fidate di esternare loro al suo posto, ma sempre con obiettività, a cui lui tiene molto, anche di domenica?

Questa cronaca, corretta e doverosa, vuole essere proprio una modesta ma sentita risposta al suo tacito appello.

 

 




Ma esiste ancora la laicità della scuola?


di Cinzia Mion

Il testo che segue non è recente, anzi è datato. L’aspetto sconvolgente però è che è ancora di estrema attualità.
Non ho cambiato una virgola. Potrebbe essere stato scritto stamattina dopo i fatti di Pioltello o di Altavilla (messa pasquale in orario scolastico) in cui ancora una volta è sotto assedio un dirigente scolastico che cerca solo di far rispettare la Legge.

 

 

 

Diceva Guido Calogero, in tempi non sospetti, e precisamente nel 1955, che la fondamentale legittimità della difesa della laicità della scuola consiste nel fatto che un’educazione condotta, comunque, in base a certi orientamenti dottrinali presupposti come indiscussi, o discussi in maniera insufficiente, crea uomini moralmente e civicamente meno solidi di un’educazione la quale non presupponga alcun tabù ed alleni continuamente i giovani all’attenta e rispettosa discussione di qualunque idea e fede, propria ed altrui. D’altro, canto aggiunge sempre Calogero, il laicismo (parola che non ha un’accezione dispregiativa come si vuol far credere ultimamente) consiste nel fatto di non accettare mai, in nessun caso, l’organizzazione e l’esercizio di strumenti di pressione religiosa o politica o sociale o morale o economica o finanziaria al fine della diffusione di certe idee, e di procurare invece, sempre più, l’equilibrio della loro possibilità di dialogo individuale (G.Calogero “Che cosa vuol dire scuola laica?,in “Mondo”, dicembre 1955).

Calogero, noto come il filosofo del dialogo, fondatore con Aldo Capitini del movimento liberal-socialista è stato tra i protagonisti della cultura laica nel dopoguerra. Norberto Bobbio lo ha ricordato poco tempo prima di morire come suo maestro su la “Stampa” (21 dicembre 2001).

Oggi il laico, che voglia intraprendere tale dialogo con le gerarchie ecclesiastiche, si accorge subito che non è possibile perché queste si professano attualmente i custodi dell’ortodossia della ragione non solo filosofica, come è stato per secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali.
Scrive Gustavo Zagrebelsky, a tal proposito, che il dialogo tra la Chiesa e un non cattolico è impossibile perché quest’ultimo interlocutore, per le gerarchie, è “uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno” (da Repubblica 10 gennaio 2007: G.Zagrebelsky , Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?)

Di tale convinzione potrei portare testimonianza personale attraverso alcuni aneddoti significativi, che non è però il caso di trattare in questa sede, ma in cui espressamente mi è stato detto che una persona che crede ”vale” di più di una che non crede. L’altro giorno il vescovo di Terni ha affermato che un cattolico “è un laico con una marcia in più”!

Di fronte poi al sempre più accentuato e diretto atteggiamento interventista della Chiesa nelle vicende politiche italiane, tanto da far scrivere a Miriam Mafai, sei anni prima della sua scomparsa, un articolo allarmato dal titolo” L’assedio allo stato laico”(in Repubblica, 6 gennaio 2006): “…si sta offrendo da parte di politici particolarmente sensibili alla laicità (non ne sono rimasti molti per la verità) la questione se siano ancora presenti le condizioni concrete di vigenza del Concordato, minato nelle sue basi di legittimità”

La revisione infatti di quest’ultimo, correva l’anno 1984, ricordava solennemente nel preambolo, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla Costituzione (tra cui la laicità dello Stato), e da parte della Santa Sede le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti tra la Chiesa e la comunità politica.

Scrive Zagrebelsky che un mutamento d’identità dell’uno o dell’altro contraente, contro la Costituzione o contro la dottrina del Concilio, travolgerebbe il Concordato, corrodendone le basi di legittimità.

Laicità della scuola statale

Per chi dovesse nutrire ancora dei dubbi sulla laicità dello stato, e di conseguenza della scuola statale, ricordo la sentenza della Corte Costituzionale del ’11 e 12 aprile 1989 che, interrogata proprio in materia scolastica, si pronuncia in modo incontrovertibile affermando: “I valori richiamati (att.2, 3, 19) concorrono con altri ( art.7, 8, 20 della Costituzione) a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma dello Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica.

Nessuno pensa o afferma che la Chiesa non possa pronunciarsi in qualsiasi materia per enunciare i suoi principi cristiani ma queste pronunce sono destinate alla coscienza dei credenti. Allorquando queste abbiano la pretesa di condizionare i comportamenti dei politici dello Stato italiano siamo di fronte ad una ingerenza che viola i principi del Concordato. C’è da chiedersi semmai di quale tempra siano quei politici che ostentando opportunismo sono pronti ad asservirsi, facendo finta di non rendersi conto che insieme ai molti privilegi riconosciuti dal Concordato alla Chiesa, si permette a questa una ingerenza arrogante anche all’interno della scuola..

Da parte infatti delle gerarchie ecclesiastiche viene richiesto l’appoggio politico per tali comportamenti, approfittando della sudditanza morale di alcuni nostri rappresentanti che non sanno più riconoscere l’orgoglio della cittadinanza e da tempo non assaporano la fierezza che dona il “tener la schiena dritta”.  Quasi sempre tale prassi si accompagna alla strumentalizzazione dei genitori che ignorano la normativa e ci si scandalizza di fronte alla resistenza di qualche dirigente scolastico che non si lascia manipolare e si oppone alle ingerenze.

Mi riferisco ai recenti fatti accaduti in Italia su cui la stampa si è fiondata, dimostrando una ignoranza colpevole, a proposito della richiesta di alcuni parroci o vescovi di venire in orario scolastico nelle nostre classi ad elargire atti di culto (benedizioni, recitazione di preghiere, messe d’inizio anno o di fine anno, visite pastorali camuffate da incontri neutri, ecc)

Ora noi persone di scuola sappiamo benissimo, ed ancora meglio lo sanno i Vicari Diocesani, che però ci mettono alla prova per saggiare la nostra tempra, che con la revisione del Concordato questi atti di culto sono stati banditi dalla scuola che invece ospita le famose ore facoltative di “cultura religiosa”.
Io penso che sia grave violare una legge pattizia.
Penso anche che se viene fatto, cercando di circuire le persone dotate di un fragile senso dello Stato o di una indifferenza che privilegia il quieto vivere, come minimo ciò deve avere un prezzo.

Si vuole non riconoscere più il Concordato? Lo si faccia, tanto è ormai svuotato del suo significato da ambo le parti. Il mio timore è che con l’aria che tira possa venire legittimata ancora di più la cosiddetta potestas indirecta del tempo della Controriforma, introdotta dall’allora cardinale Bellarmino, che rendeva lecita l’ingerenza della Chiesa sulla competenza dello Stato, ogni volta che questa ravvisasse una ragione religiosa .

Mi sbaglio o queste affermazioni le abbiamo ri-sentite di recente?
Riuscirà il nuovo papa, già noto per il suo anticonformismo, ad invertire la rotta?

L’etica del limite

Io credo che alcuni dei conflitti di tipo politico-religioso, oppure scaturenti da contrapposizione tra schieramenti politici, caratterizzati oggi da alcuni rigurgiti volgari e chiaramente esorbitanti dalla comune modalità di un dialogo civile, anche se acceso, siano tutte situazioni che continuano ad avvitarsi su se stesse perchè è venuta a mancare l’etica del limite.
L’etica del limite intesa nel senso sia dell’autocontenimento ma anche della categoria dei confini.

 Il neonato evolve verso il riconoscimento di sé nella misura in cui impara a separarsi dalla madre. Nella misura in cui, attraverso un processo di separazione-individuazione, comincia a percepire se stesso ed i suoi confini, che all’inizio saranno solo corporei, poi un po’ alla volta saranno sempre più riconducibili al sé vero e proprio, tale perché diverso dall’altro da sé.

Tutte le relazioni interpersonali dovranno poi, pena il rischio della simbiosi, deleteria e minacciosa per il sè, essere contraddistinte da questi famosi confini tra sé e l’altro.
Confini che non dovranno essere impermeabili o troppo rigidi altrimenti è in agguato una qualche forma di autismo o l’indifferenza verso l’altro oppure, speciale malattia dei nostri tempi, il narcisismo patologico.

Mi riferisco al sé grandioso che si autoesalta e perde di vista non solo l’altro ma anche la realtà (come sta accadendo a livello apicale della politica…)
Siamo di fronte pur sempre ad un problema di mancanza di confini o di assenza di limiti.
Questo per quanto attiene l’aspetto soggettivo, individuale.

Accennavo prima all’ autocontenimento, mi riferisco a quello mentale.
Per esempio anche  l’adolescente che non rileva i limiti della  sua trasgressione, (quale trasgressione può essere accettabile quale invece va oltre i limiti) non è in grado di attivare un autocontenimento mentale il più delle volte perché i genitori, a loro volta, non lo hanno contenuto mentalmente quando, nella fase dell’opposizione (dai 18 mesi in poi) , incapaci di offrire un solido e valido contenimento mentale alla rabbia del piccolo sono andati in tilt  temendo il conflitto con un bambino di meno di due anni.

Oggi i protagonisti dei conflitti alla ribalta sono però tutti adulti, vaccinati e responsabili più della gente comune perché quasi sempre ricoprono cariche pubbliche.
Il problema, come dicevamo, è anche quello che osserviamo nello scenario della politica dove le gerarchie ecclesiastiche  esorbitano  dai loro confini, non con messaggi spirituali, sempre ben accetti,  ma come ingerenza vera e propria,  condizionando le decisioni  politico-civili,  forzando le scelte attraverso lo spauracchio della sottrazione del consenso (problema questo, ahimè, che denota un tasto debole oggi della democrazia), e  scendendo  in campo invadendo i confini dettati dalle norme concordatarie che  regolano l’espressione della religione nelle istituzioni pubbliche.

Come già ripreso all’inizio del presente contributo, mi riferisco soprattutto alla scuola e alle polemiche sull’ora di religione, sui crocifissi, sulle funzioni religiose e benedizioni in orario scolastico, ecc.
La via che si segue è quella della strumentalizzazione del senso comune della gente che può non sapere che la Costituzione ha trasformato uno stato confessionale in una Repubblica democratica laica- e la Scuola è una istituzione della Repubblica- che può non sapere che la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa ha rivisto le norme che regolano la religione a scuola, che può non sapere quali sono i confini tra religioso e culturale, tra sacro e non sacro, tra tradizione e consuetudine, tra innovazione e cambiamento.

 C’è però chi questa distinzione la conosce e sono i soggetti che ricoprono una carica pubblica (altrimenti chi ha permesso loro di accedere a ricoprirla?) e se queste persone non intervengono a spiegare ai portatori di “senso comune “ – che non sono tenute ad avere le idee chiare,  ma hanno il diritto ad  avere qualcuno che gliele chiarisca – quale confine esista tra i termini del problema, significa che manca l’etica pubblica in generale,  in questo caso l’etica del limite.

L’etica del limite che dovrebbe impedire che si strombazzino tali macroscopiche falsità,  (Mario Pirani  parla della “Perdita della verità”) che si sobilli impunemente la gente, che si permetta, anzi si faccia in modo, che questa  rimanga nell’ignoranza (nel senso dell’ignorare) pur di cavalcare umori discutibili,  che si attivino trasmissioni televisive nell’orario di maggiore ascolto,  come il primo pomeriggio della domenica (sia tv pubblica che privata…) invitando i più sciamannati (incrocio tra sciamano e scalmanato…!)  che in questo momento si rendono disponibili a parlare (pardon ad urlare) a favore, per esempio del crocifisso, con un pubblico che accompagna il tutto con un tifo da stadio.

La questione che ancora qualche sindaco leghista sta cavalcando, nell’ignoranza generale purtroppo, anzi nell’indifferenza generale, è quella appunto del crocefisso.

Non si ascoltano i teologi che si affannano a spiegare che il crocifisso non può essere definito semplice simbolo culturale ma che per la religione cristiana (la croce) e per la religione cattolica (il Cristo in croce) non sono solo simbolo religioso ma la quintessenza delle religioni cristiane.
Questi sono i confini che andrebbero rispettati se si avesse l’etica del limite.

Ha ragione U.Galimberti  che afferma che oggi  abbiamo de-sacralizzato il sacro?
E che dire delle stesse gerarchie ecclesiastiche che permettono, e qualche volta si fanno veicolo, di questa de-sacralizzazione come quando appoggiano chi dice, a proposito della benedizione a scuola, che in fondo “dura solitamente pochissimi minuti e non richiede particolari preparativi, né lascia tracce visibili”? (vedi sentenza del TAR Umbria 677 del 30 dicembre 2005).
Se si toglie alla religione il senso del “rito” e del “simbolo” cosa rimane di essa?

Il problema è proprio questo: che pur di “marcare” il territorio, pur di farne una questione di potere (anche qui varcare i confini per affermare se stessi attraverso un simbolo usato spesso come una vera e propria  clava) molti sono disponibili a declassare il crocifisso a simbolo culturale o peggio ad annoverarlo tra gli arredi oppure ad affermare “c’è sempre stato, che male c’è, svalutando talmente la sua presenza tanto da non farlo emergere dallo sfondo: geroglifico sul muro ormai dimenticato.
Mi chiedo se chi crede veramente sia così disponibile a tollerare tutta questa pesante strumentalizzazione in nome del crocifisso, senza sentirsi dolorosamente un po’ ferito come quell’uomo in croce.
Cosa dovrà ancora succedere in nome del potere e del consenso, carpito sulla buona fede della gente semplice, perché possa farsi sentire con voce forte l’etica del limite?

Differenza tra identità e identificazione

La cultura religiosa, che viene collocata nell’ambito della scuola, si presume che venga patrocinata per realizzare unidentità forte e coesa ispirata ai valori religiosi della religione della maggioranza del Paese.
Per quanto attiene tale obiettivo bisogna però individuare la differenza tra “identificazione” ed “Identità” facendo ricorso alla psicologia che individua l’identificazione come un percorso che sostiene il primo nucleo della crescita personale che poggia sulla somiglianza, ed un secondo momento che poggia invece sulla differenza, ineludibile per il passaggio autentico all’identità.
Anche l’identità sessuale obbedisce a questo processo: identificazione con lo stesso sesso e differenziazione dal sesso opposto.

E.Erikson afferma che l’acquisizione di un’identità, sia sociale che psicologica, sia un processo complesso che comporta una definizione per somiglianza con certuni e per differenza con altri.
L’identificazione è invece un processo più debole perché dettato dalla dipendenza e dalla ricerca dell’assimilazione; l’identità invece implica una maturazione più solida e consapevole, in grado di argomentare i motivi della posizione assunta.
Vogliamo un risultato solido, in grado di reggere agli urti della cultura post-moderna oppure una assimilazione identificatoria, prodotto inconsapevole dell’etnocentrismo culturale?
Se questa è la base della maturazione dell’identità nessuno dovrebbe opporsi alla inclusione, tra le materie obbligatorie per tutti, di una disciplina che solleciti la conoscenza delle principali religioni (le tre grandi monoteiste ma anche quelle principali del mondo indiano e cinese) che potrebbe andare sotto la denominazione di “conoscenza dei fatti religiosi”, come aveva previsto in un primo tempo la commissione incaricata di realizzare i Nuovi Programmi per la scuola elementare (1982-84), ma che dopo la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” ha dovuto, a maggioranza, cedere il passo a ”religione” ineludibilmente solo cattolica, con i conflitti successivi che tutti conosciamo.
La nostra ignoranza per quanto attiene le altre religioni è abissale ed in una società multietnica, multiculturale e multi religiosa, sottovalutare questo aspetto è colpevole oltreché stupido, perché sottrae occasioni di autentico confronto riducendo tutto soltanto alla sollecitazione del consenso.

Questo depotenziamento delle occasioni di dialogo interreligioso appare inoltre rischioso nei confronti della creazione di un terreno facilmente occupabile da vecchi e nuovi fondamentalismi.
Soltanto chi persegue il proselitismo può temere il confronto ma allora non si parli di identità ma soltanto di identificazione.
Questa posizione è anche di chi crede di essere aperto e democratico se propone l’ora di religione musulmana, fra l’altro garantendo in questo modo che non venga toccato il peso che ha oggi la religione cattolica nella scuola italiana.

Orario della lezione di religione

Sulla questione dell’orario è presto detto: come si fa a sostenere che una disciplina facoltativa, i cui programmi sono realizzati non dallo Stato italiano, ma dalla Cei, che quindi non riguarda, come tutti i programmi scolastici, l’ambito della conoscenza, ma quello delle scelte confessionali, e quindi attiene ai dati sensibili, venga lasciata dentro all’orario obbligatorio delle lezioni?
Non mi si venga a dire che si tratta solo di cultura religiosa aconfessionale (perché allora i docenti devono avere l’approvazione del vicario diocesano?)
Nessuno si è posto la questione della disparità di trattamento nei confronti di chi non si avvale?

E non mi si venga a dire che ci sono le attività alternative, attività quasi subito svalorizzate, ridotte a qualcosa di insignificante o addirittura sparite senza che nessuno invochi più la par condicio come è avvenuto, nel senso contrario però  all’inizio (vedi la circolare ministeriale che negli anni successivi alla revisione del concordato diffidava dall’assegnare queste attività a docenti della classe per timore che gli studenti che le sceglievano venissero avvantaggiati rispetto a quelli che avevano invece optato per la religione cattolica, dimenticando che alla scuola elementare spesso erano gli stessi insegnanti di classe che con il benestare della Curia potevano farlo, senza che nessuno gridasse che non c’era par condicio!!!)

Il problema notevole consiste nel fatto che è stato addirittura il Consiglio di Stato, con una decisione come spesso avviene prona ai voleri del governo di turno, a sua volta timoroso del Vaticano, (nessuno si salva!), a legittimare la scelta di tenere dentro all’orario obbligatorio questa disciplina facoltativa. Secondo me sta qui il bubbone ma si capisce che ciò tocca interessi macroscopici di potere economico e di consenso politico.

Se fin dall’inizio si fosse presa la decisione onesta: conoscenza dei fatti religiosi, obbligatoria per tutti nell’orario curricolare, e scelta invece facoltativa sui relativi programmi confessionali fuori dall’orario obbligatorio, oggi potremmo parlare con più serenità dell’opportunità o meno di garantire anche altre confessioni religiose, all’interno della scuola pubblica statale.
Ricordiamo che la garanzia di mantenere l’opportunità dell’insegnamento della religione cattolica,  facoltativa  nelle scuole statali italiane è nei Patti Lateranensi, revisionati nel 1984,  dove però non si parla di collocazione oraria..

L’ultima riflessione riguarda l’alibi dell’integrazione.
Chi, per avvalorare la bontà di creare un’ulteriore separatezza a scuola (cattolici da una parte, musulmani da un’altra, agnostici o altre religioni nei corridoi), invoca l’integrazione o è in malafede oppure ignora appunto cosa avviene a scuola. Noi sappiamo che l’integrazione avviene solo attraverso l’interazione (v.Premessa Nuove Indicazioni) che offre l’opportunità della conoscenza reciproca per mezzo del confronto, che rivela aspetti che accomunano e aspetti che differenziano.
Solo la conoscenza dissipa il pregiudizio e il timore: i veri nemici dell’integrazione.

Se, invece di far capire all’interno della comunità di apprendimento che la spinta religiosa accomuna l’uomo nel tempo e nello spazio,  sia pur approdando a fedi diverse oppure ad agnosticismi diversi, si separano i ragazzi togliendo loro tutte le opportunità di interazione in questo campo-  che sembra ancora una volta nel mondo il maggiore argomento di inconciliabile divisione e scontro- che avvenire prepariamo ai nostri ragazzi che abiteranno un futuro, che almeno io auspico,  diverso e migliore del nostro?




Nativi e migranti artificiali

di Marco Guastavigna

Avendo dato poco più di un’occhiata a  ChatGPT e avendovi identificato non solo l’intelligenza artificiale generativa, ma l’intera intelligenza artificiale, vi è già chi pontifica senza pudore sulla assoluta necessità di modificare i compiti a casa: “è la fine delle assegnazioni compilative!”. Compito degli insegnanti? Prendere atto e adeguarsi.

L’arrogante superficialità di queste affermazioni è nella fattispecie davvero grottesca, perché una più approfondita esplorazione dei dispositivi esistenti avrebbe rivelato la disponibilità di almeno uno spazio di lavoro destinato – udite, udite! – a fornire agli insegnanti suggerimenti su come rendere le assegnazioni di compiti “resistenti all’IA”. Siamo di fronte a uno dei molti moduli compresi in MagicSchool, a cui abbiamo per altro già accennato.
Non è affatto scontato che realizzi quel che promette, ma è bene provarlo e riprovarlo prima di esprimere un giudizio.

La logica complessiva dell’ambiente – dichiarata – è fornire ai docenti dispositivi per ridurre il carico di lavoro professionale. Testimoniano questa impostazione moduli comePiano di lezione secondo il modello 5E”, “Domande personalizzate di lettura SAT” , “Test di pratica di lettura SAT e vari altri, anche se connotati in modo più generico. L’insieme è palesemente destinato all’istruzione con logistica statunitense.

Da qualche settimana la piattaforma ha aperto uno spazio destinato agli studenti, MagicStudent, a sua volta composto di moduli.
La schermata seguente non li riporta tutti, ma è sufficiente a farsi un’idea:

MagicSchool prevede periodi di prova free e acquisizioni di licenze individuali o istituzionali.
Lo schema operativo attualmente attivo è il seguente:

  • Il docente ha una sua zona dove definisce uno spazio-classe (room) e sceglie i moduli di assistenza mediante AI che gli studenti saranno chiamati a utilizzarvi;
  • La piattaforma indica in più modi l’indirizzo di accesso allo spazio così definito;
  • Il docente fornisce l’indirizzo di accesso agli studenti;
  • Contestualmente, o in altri momenti, precedenti o successivi, il docente assegna agli studenti attività più o meno guidate da svolgere una volta entrati nello spazio;
  • Il docente dispone di un accesso particolare, che gli consente di visualizzare sia l’insieme delle attività del gruppo, sia il lavoro di ciascun singolo studente.

Lo schema di lavoro è per altro molto simile a quello di altre piattaforme con vocazione didattica, come per esempio Edpuzzle. In particolare, l’ingresso degli studenti è autorizzato con il codice ricevuto dall’insegnante e prevede che ciascuno si identifichi con precisione, ma non richiede alcuna acquisizione di nome utente e password. Da questo punto di vista, prefigura una situazione ben definita e gestibile con semplicità.

Restano però varie perplessità. Trascurando – per ora  – i dubbi di carattere generale, ne voglio esplicitare due molto specifici.

Il primo riguarda il fatto che il singolo studente può vedere solo il proprio lavoro, ed è quindi sollecitato e spinto a una fruizione individuale e individualistica dei percorsi di apprendimento.
Il secondo riguarda i compiti da svolgere con l’aiuto dell’IA: non sono per nulla certo che sia possibile assegnare attività davvero significative sul piano dell’apprendimento, nonostante il docente possa, come detto prima, venir aiutato a resistere alle chatbot e disporre inoltre nel proprio spazio di un modulo il cui compito è fornire “idee su come utilizzare gli strumenti MagicStudent nelle attività e nei compiti degli studenti”.