E la chiamano estate … educativa

Stefaneldi Mario Maviglia

Vogliamo dare credito al Ministro Valditara e al suo Piano estate per il biennio 2023-2024 e 2024-2025. Sul sito del MIM il Ministro sostiene che l’obiettivo del Piano è quello di considerare la scuola come “punto di riferimento per gli studenti e per le famiglie anche d’estate, con sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento, ricorrendo a tutte le sinergie positive possibili, dagli enti locali alle associazioni del terzo settore. Una scuola che sia sempre più un luogo aperto, parte integrante della comunità per tutto l’anno, realizzando attività di aggregazione e formazione soprattutto per i bambini e i ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari”.
Parole assolutamente condivisibili.
Il problema è valutare se le misure proposte (e i comportamenti del Ministero stesso) sono in grado di conseguire questi obiettivi tenendo conto della specifica realtà delle scuole, che hanno tempo fino al 24 maggio 2024 per avanzare la loro candidatura (l’adesione al piano è, com’è noto, su base volontaria).

 I tempi

Questo è già un primo problema, sia nel breve che nel medio periodo. Pensare che le scuole abbiano lo spazio mentale, prim’ancora che progettuale, di condurre una progettazione adeguata delle attività estive in collaborazione con le agenzie del territorio in questa fase conclusiva dell’anno scolastica (già affollata da altri adempimenti rituali) vuol dire non conoscere le scuole e l’affanno che vivono in questo periodo dell’anno scolastico, oppure considerare l’intero Piano come un’operazione per spendere soldi perché debbono essere spesi. A prescindere.

La durata biennale del Piano, peraltro, non dà alcuna garanzia che – esaurito questo arco temporale – le attività possano proseguire. Questo limite temporale del progetto e l’adesione volontaria delle scuole potevano avere senso all’interno di una esperienza controllata in vista di una generalizzazione nel prossimo futuro. Infatti è plausibile immaginare che anche fra qualche anno si porrà il problema di dare l’opportunità a quei “bambini e ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari” di fruire delle attività previste dal Piano estate. La mancanza di una visione a medio-lungo termine (se non è dettata da verifiche empiriche che suggeriscano la necessità di abbandonare determinate scelte per gli accertati esiti negativi) rischia di trasformare queste iniziative in spot sospesi nel vuoto.

Peraltro i tempi così ristretti nella progettazione delle attività si trasformano, ancora una volta, in una sorta di tour de force per quelle scuole che intendono aderire al Piano. Un progetto di questo tipo deve essere annunciato a settembre, non nel mese di aprile. I tempi di reazione della scuola non sono quelli delle aziende private; al Ministero ciò dovrebbe essere noto.

Le scuole e i docenti

In che cosa si distinguono le attività proposte dalla scuola all’interno del Piano estate rispetto a quelle tradizionalmente realizzate dai centri ricreativi estivi gestiti dagli enti locali o da altre agenzie del territorio? O rispetto ad altre forme aggregative estive come summer camp, campi scout ecc.? La domanda non è peregrina per almeno due ordini di motivi: se non si definiscono le caratteristiche dell’offerta ministeriale rispetto alle altre proposte estive non si rischia di fare concorrenza a queste ultime?  E perché l’utenza dovrebbe scegliere le proposte della scuola, a parte gli eventuali vantaggi economici? L’altro aspetto riguarda la preparazione professionale dei docenti: essi sono “formati” per trasmettere conoscenze in modi più o meno formalizzati e attraverso percorsi più o meno strutturati, spesso privilegiando approcci comunicativi unidirezionali (la lezione); quando il Ministro parla di attività quali “sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento”, sembra alludere ad ambiti del fare e dell’agire non così presenti nella liturgia scolastica canonica. I docenti sono in grado di gestire attività di questo tipo al di fuori della ritualità consolidata che costituisce il loro normale contesto professionale?

Insomma, se i docenti affrontano queste attività da “animatori” o “educatori” evidentemente fanno riferimento ad una serie di competenze del tutto specifiche e personali, non certo istituzionali (e dunque non diffuse allo stesso modo all’interno delle scuole); se invece le gestiscono secondo le loro abituali competenze allora c’è il fondato rischio che vengano “scolasticizzate” con tutto ciò che ne consegue in termini di sostenibilità e appeal per gli studenti. Si può obiettare (giustamente) che vi sono tante scuole in cui l’approccio laboratoriale è fortemente presente e dunque non dovrebbero sorgere problemi nella gestione delle attività previste dal Piano estate; ma queste scuole aderiranno al Piano estate?

In realtà, se si va a leggere l’Avviso pubblico con il quale il MIM invita le scuole a proporre la loro candidatura per i “percorsi educativi e formativi per il potenziamento delle competenze, l’inclusione e la socialità nel periodo di sospensione estiva delle lezioni negli anni scolastici 2023-2024 e 2024-2025” (prot. 59369 del 19/04/2024) si ricava una generale impressione di impostazione fortemente “scolasticistica” e verticistica in ordine alla progettazione delle attività. E infatti vengono individuati 9 moduli di intervento: Lingua madre, Matematica, scienze e tecnologie, Lingua straniera (inglese per gli allievi della scuola primaria) Competenze in materia di cittadinanza, Competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare, Competenza imprenditoriale, Consapevolezza ed espressione culturale, Educazione motoria, Pensiero computazionale e creatività e cittadinanza digitali.
E se una scuola intende agire su altri ambiti in relazione alle specifiche esigenze della realtà in cui opera?

Per ogni modulo è prevista una durata di 30 e 60 ore, a scelta della scuola proponente, nel limite del massimale di spesa; i soli percorsi di lingua straniera possono avere durata anche di 100 ore. Viene specificato che “i moduli rappresentano l’unità minima di progettazione e sono contraddistinti da una specifica configurazione in termini di ambito disciplinare/tematico, durata e figure professionali coinvolte (alcune obbligatorie – “esperto” e “tutor” – e altre facoltative).”  Anche in questo sarebbe interessante capire se questo perimetro temporale scaturisce da un’analisi tecnico-scientifica riguardo lo sviluppo di un modulo o da ragioni amministrativo-contabili o da altre imperscrutabili ragioni. Definito un tetto di spesa (sulla base del numero di studenti iscritti ai moduli) le scuole non sono in grado di stabilire la durata dei moduli stessi? Non hanno il know how adeguato? Il MIM ce l’ha?

Più in generale, c’è da chiedersi che fine ha fatto l’autonomia delle scuole. Ma anche che fine hanno fatto quei “progetti che prevedono attività di potenziamento didattico, sportive, musicali, teatrali, ludiche e ricreative, a tema ambientale e, più in generale, tutte quelle iniziative che favoriscono la relazionalità, l’aggregazione, l’inclusione, la socialità, l’accoglienza e la vita di gruppo” richiamati dal Ministro nella nota prot. 56244 dell’11/04/2024. Sembra quasi che nel passaggio dall’ufficio politico del Ministro a quello del management amministrativo il Piano estate sia diventato un sottoprodotto della normale attività scolastica con lacci, lacciuoli e ammennicoli vari che ormai contraddistinguono la vita della scuola nell’impostazione mentale e operativa del MIM. Ma che problemi ha il Ministero con l’autonomia delle scuole? Ha paura che non siano in grado di partorire idee in autonomia? O teme che sperperino il pubblico denaro? Sembra che, parafrasando un incipit molto pericoloso, “uno spettro si aggira per viale Trastevere: lo spettro dell’autonomia scolastica.” Non sia mai!

Il territorio

Attivare “sinergie positive possibili” con gli enti locali e le associazioni del terzo settore per realizzare il Paino estate sembra costituire il mantra del Ministro. Prospettiva suggestiva, senza dubbio, e va sottolineato che non si parte da zero, anche se la situazione appare molto differenziata a livello nazionale, con punte di eccellenza e altre di grande difficoltà. Per la verità, perfidamente, si potrebbe far notare che è lo stesso Ministero a non ricercare queste “sinergie positive”. Infatti il DM 11/04/2024 n. 72 che lancia il Piano estate non sembra sia stato concordato con gli Enti locali; e d’altro canto, quasi contemporaneamente all’emanazione di questo decreto, il Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella, in un’intervista ad un giornale nazionale, rassicura le famiglie e i Comuni che i centri estivi saranno finanziati anche nel 2024 con 60 milioni di euro. Un supporto concreto, dice il Ministro per la Famiglia, che si aggiunge alle attività estive organizzate dalle scuole. Insomma, nella compagine governativa non sembra esservi quella sinergia di interventi che pure viene richiesta alle scuole. “Fate quel che dico, non quel che faccio!”

La verità è che i rapporti con il territorio rappresentano un rebus molto complicato e le “sinergie” non si creano in un mese. Non è un caso che lo stesso Ministero è ondivago al riguardo. Infatti, mentre nelle dichiarazioni ufficiali (sito web MIM) si dice “nell’ambito dell’autonomia organizzativa di cui dispongono, le istituzioni scolastiche potranno ulteriormente arricchire l’offerta del Piano Estate, singolarmente o in rete tra loro, grazie alle alleanze tra la scuola e il territorio, gli enti locali, le comunità locali, le Università, le associazioni sportive, le organizzazioni di volontariato e del terzo settore, nonché attraverso il coinvolgimento attivo delle famiglie e delle loro associazioni”, nell’Avviso pubblico richiamato sopra si afferma, in maniera più lasca e indefinita, che “è favorita la collaborazione con gli enti locali, le associazioni del Terzo settore, le organizzazioni e i centri di volontariato, le associazioni sportive, gli attori del territorio, le comunità locali, gli enti, le università e i centri di ricerca, nonché il coinvolgimento attivo di studenti universitari e delle famiglie e delle loro associazioni”. Anche in questo caso troviamo una progressiva diminutio nel passaggio dalle enunciazioni di principio alle istruzioni operative.

Probabilmente il Piano estate produrrà buoni risultati grazie all’impegno e alla competenza delle scuole che vi vorranno aderire. Ma quanta fatica e quanto merito ci vuole per educare un Ministero dell’Istruzione e del Merito!

 

 

 

 




Discutiamo di competenze: cosa sono e come possono “indirizzare” il modo di fare scuola?

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

L’assalto costante alla natura del sapere scolastico e alle sue tradizioni e la sottovalutazione non sempre motivata dei suoi risultati e delle procedure di lavoro che ad essi conducono sono riusciti nell’intento di proporre e di favorire nelle scuole europee nuovi curricoli, improntati all’approccio per competenze.
Le competenze, ormai, sono diventate la fonte della legittimazione del lavoro scolastico e la loro ascesa irresistibile nel mondo della scuola non incontra più ostacoli; intimidisce chi tenta di opporvisi.

Niente succede a caso. La nozione di competenza ha fatto irruzione nel mondo della scuola per le sue difficoltà e i suoi impacci nel rispondere alle richieste della società e di quelle soprattutto del mondo del lavoro.
Ci ricorda, però, autorevolmente Le Boterf che non esiste un solo approccio per competenze. E noi dovremmo chiederci di un concetto così diffuso non solo quali siano le ragioni del suo successo, ma anche e soprattutto quali cambiamenti pedagogici rivela e pretende.

Ma che cosa sono le competenze?

Di definizioni delle competenze si possono fare consistenti dossier senza arrivare a quella che dirime le controversie e accredita la possibilità di poterci costruire serenamente e con sicurezza un curriculum di formazione.   Qualcuno si è chiesto se sia solo una nozione mediatica o un concetto-slogan dalla semantica debole e qualche altro come M.  Crahay ha perentoriamente affermato che “il concetto di competenza è un’illusione semplificatrice che non è sostenuta da una teoria scientificamente fondata. E’ una caverna d’Alì Babà concettuale in cui è possibile incontrare giustapposte tutte le correnti teoriche di psicologia, anche se sono nei fatti contrapposte in “Café Pedagogique” dell’1/6/2009).

Per Ph. Perrenoud la competenza è un costrutto sociale e in quanto tale è un concetto necessariamente provvisorio, il cui valore è il valore d’uso.
Lo si misura dalla sua fecondità, non dalla sua verità assoluta.  Opinione questa condivisa da G. Di Francesco.  A suo parere ci sono processi che stanno costruendo il valore d’uso del concetto di competenza e ne verificano in questo modo la possibilità di essere funzionale come modello di riferimento.
La costitutiva polivalenza del concetto di competenza non impedirebbe che si formino comunità di pratiche che lo utilizzano con efficacia rispetto alle diverse finalità.
Si tratterebbe di una soluzione pragmatica che consiste nell’accettare la provvisorietà e l’ambivalenza teorica e nel distinguere tra definibilità teorica ed utilizzabilità pratica del concetto di competenza.  (cfr “Il laboratorio della riforma-Annali P.I.  1999).
S. Monchatre con esemplare semplicità: “La nozione di competenza rende dei servizi, se si mettono in secondo piano i suoi limiti teorici”.
”Gli usi che sono stati fatti della nozione di competenza non aiutano alla sua definizione e la difficoltà di definirla cresce col bisogno di utilizzarla”(J.  Dolz-E.  Ollagnier).

E’ proprio questo il problema: un concetto polisemico e non ancora stabilizzato come può diventare un principio sicuro ed affidabile di regolazione e di organizzazione dei curricoli?
Perché proporre curricoli per competenze se le difficoltà d’uso del concetto sono non solo di ordine epistemologico e teorico, ma anche pratico?

Per Jonnaert -Barrette-Masciotra-Yaya la competenza “è la messa in opera di una persona in situazione, in un contesto determinato, di un insieme diversificato ma coordinato di risorse.  Questa messa in opera riposa sulla scelta, sulla mobilitazione e sull’organizzazione di queste risorse e sulle azioni pertinenti che esse permettono per un trattamento riuscito di questa situazione” (2006-Ginevra IBE-UNESCO).
Non è per nulla facile redigere un curriculum di studi sulla base di questa idea di competenza, innanzi tutto perché nemmeno si parla del ruolo e della funzione delle conoscenze e poi perché con tutta la buona volontà di questo mondo e con buona pace di tutti la scuola non è il luogo delle situazioni concrete, dove si esercita e si rivela una competenza, ma quello dove si apprendono saperi che sono alcune delle sue risorse e dove con propri mezzi si cerca di capire (stage/simulazioni/attività laboratoriali) l’effetto che fanno.
”Una persona o un collettivo di persone non possono essere dichiarati competenti, se non dopo avere trattato con successo la situazione con la quale si sono confrontati, non prima”(Ph.  Jonnaert).
Lo studioso canadese non si è mai scostato da questa concezione della competenza.

LE COMPETENZE E LE CONOSCENZE

Che il sapere, di cui istituzionalmente tutte le scuole del mondo dovrebbero ancora essere luoghi di trasmissione e di rielaborazione, possa finire per contare poco in orientamenti di questo genere si desume anche da ciò che viene detto in altri parti del documento citato (un documento con l’imprimatur dell’Unesco).
“L’agire competente in situazione si appoggia su una pluralità di risorse e non soltanto su dei saperi disciplinari” e altrove “Il riferimento unico e costante ai programmi disciplinari tradizionali della scuola è un vero ostacolo epistemologico in senso bachelardiano per lo sviluppo situato delle competenze”.
E’ una posizione estremistica dell’approccio per competenze, ma che non è estranea alla sua logica e che apre all’idea sciagurata di opporre conoscenze e competenze.  Per lavorare bene con le competenze si deve dar prova, come dice Perrenoud, che con esse non si voltano le spalle ai saperi.

Si riportano di seguito due definizioni che costituiscono un ragionevole fondamento per l’approccio per competenze e che legano in modo persuasivo le conoscenze e le competenze.
La prima delle due è stata rifatta, dopo 10 anni, con modifiche non del tutto soddisfacenti
(1*cfr.  nota a piè di pagina).

A)  ”Una competenza è la comprovata capacità di UTILIZZARE CONOSCENZE, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale personale.  Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia” (Allegato 1 alla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23-4-2008).

B)  ”La competenza è la capacità di METTERE IN MOTO e di COORDINARE le risorse interne possedute(CONOSCENZE, abilità, disposizioni interne stabili) e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti o di situazioni sfidanti”(M. Pellerey-2008).

Queste due definizioni, molto autorevoli, ci dicono che le competenze non sono esse stesse dei saperi, ma che li UTLIZZANO,  li MOBILITANO e li COORDINANO insieme ad altre risorse personali; ci dicono anche che utilizzazione e mobilitazione sono pertinenti soprattutto in situazione.  Se le competenze funzionano così è evidente che si pongono due seri e grandi problemi: il primo è quello dei contenuti e il secondo è quello delle metodologie.  Non tutti i contenuti, infatti, (o tutte le discipline o tutti i saperi) si piegano ad alcune particolari logiche di utilizzazione, anche se universalmente sono parte imprescindibile dei curricoli.
Le metodologie, poi, devono innestarsi sulle “situazioni” o riproporne il modello per essere idonee ad esercitare gli alunni alla mobilitazione, all’integrazione, al coordinamento delle risorse interne possedute e a quelle esterne disponibili.

DAL MONDO DEL LAVORO ALLA SCUOLA

La competenza entra con forza nel mondo della scuola, perchè è diventata la parola d’ordine degli accadimenti e delle relazioni sociali dei nostri giorni, ma ha cambiato molto dell’antico significato che aveva nelle attività formative.  Il nuovo senso della nozione di competenza nasce nelle profonde trasformazioni del mondo del lavoro, dove è diventata strumento di analisi della professionalità, modalità di classificazione dei lavori, categoria giuridica per la definizione dei rapporti di lavoro, modello di riferimento per la formazione, assumendo un significato socio-professionale, contrattuale e formativo (D.  Nicoli).
Il possesso di competenze pregiate, direbbe la Di Francesco, che il sistema di istruzione si dovrebbe preoccupare di formare, viene ritenuto la condizione per affrontare le molteplici sfide della complessità della nostra società.

E’ indubitabile il rapporto tra l’emergenza del concetto di competenza e le esigenze attuali del mondo economico-aziendale.  La nozione di competenza, infatti, esalta la disposizione all’adattabilità, alla mobilità e al senso dell’iniziativa, qualità umane non solo richieste, ma quasi prescritte oggi dal mercato del lavoro.  Non c’è, però, da sciogliere inni e canti di gioia.  Nel mondo del lavoro il ricorso alle competenze fa parte di un’offensiva contro i diplomi e le qualifiche, per indebolirli più che per sostituirli per inefficacia (M. Stroobants).

”La logica delle competenze è innanzitutto una tecnica manageriale di gestione che mira a sostituire con nuove regole le antiche.
Una logica di risultato che sostituisce la logica del posto; il riconoscimento del merito individuale che sostituisce la progressione sistematica per anzianità; la retribuzione delle competenze che sostituisce la remunerazione del livello” (A.  Dietrich).

Nei posti di lavoro la gestione delle competenze è una tecnica al servizio di obiettivi di razionalizzazione.
”Il concetto di competenza permette di fare dell’uomo un oggetto di gestione.  Se Taylor scomponeva il lavoro in gesti elementari per impiantare la misura dei tempi e dei movimenti e ottimizzare il rendimento, la nozione di competenza identifica e scompone le capacità e le attitudini di un individuo per mobilizzarle e ottimizzarle in un contesto dove la reattività organizzativa diventa essenziale.  Ciascuna di queste capacità puo’ essere misurata, sviluppata con l’apprendimento, accresciuta con la formazione, trasferita con la mobilità o il tutorato” (D.Cazal-A.Dietrich).

L’azienda con le competenze si appropria della dimensione personale interna e soggettiva del lavoratore.
Il giudizio di competenza, funzionale alla carriera interna e alla progressione economica, rischia di essere a differenza di quello inerente alla qualifica un giudizio su una persona in quanto persona e non in quanto lavoratore.
C’è di più.  Mobilità, flessibilità e competenze, tratti strutturali dell’attuale organizzazione del lavoro, cambiano le relazioni sociali e rendono transitori e fragili i legami tra i lavoratori.
La gestione delle risorse umane attraverso le competenze può facilmente diventare funzionale alla strategia di disfare ogni forma di solidarietà di categoria nel posto di lavoro.
Le competenze possono essere utilizzate, inoltre, per sottrarre potere contrattuale al lavoratore, il cui patrimonio cognitivo-professionale potrà essere riconosciuto e valorizzato non in sede di contrattazione, ma in quello del giudizio non sempre sindacabile della controparte.

LA SFIDA DELLE COMPETENZE

Se nella sociologia del lavoro si incominciano a intravedere i rischi della gestione delle competenze, nel mondo della scuola si continuano, a prescindere, a celebrarne le magnifiche sorti progressive.
E questo non è un fatto positivo.  La mancanza di senso critico può condurre ad esiti negativi nel processo di formazione.
Se è corretto contrastare il rifiuto pregiudiziale dell’approccio per competenze, è anche necessario guardarsi bene dall’assunzione dogmatica delle indicazioni istituzionali e dalle suggestioni economicistiche del modello aziendale-economico.

Il sistema di istruzione svolge la sua funzione, se è in grado di progettare curricoli che formano le competenze richieste, in una data fase storica, dalla società nel suo insieme.  La formazione dovrebbe garantire alle nuove generazioni gli strumenti che consentono l’adattamento al proprio ambiente, al proprio tempo, al proprio mondo del lavoro.  La scuola è servizio alla società; ma è anche servizio alla persona: due compiti che devono armonizzarsi senza il bisogno di doverne sacrificare uno dei due.
”L’istruzione e la formazione hanno sempre come funzione essenziale l’integrazione sociale e lo sviluppo personale mediante la condivisione di valori comuni, la trasmissione di un patrimonio culturale e l’apprendimento dell’autonomia.  Ma oggi questa funzione essenziale è minacciata, se non è accompagnata dall’apertura di una prospettiva in materia di occupazione” (Libro Bianco ‘95).

Per dare a scuola un orientamento corretto all’approccio per competenze bisogna tenere sempre presente che “La competenza è una nozione di frontiera tra economia ed educazione” (S.  Monchatre) e che a scuola il lato proprio della competenza è quello dell’educazione, anche se questo non autorizza nessuno a chiuderla in un anacronistico isolamento autoreferenziale.  L’aspetto più significativo dell’approccio per competenze è la forte sollecitazione a scoprire il senso dei saperi, a renderli in prospettiva utili e significativi per lo sviluppo personale e quello della società.  L’approccio per competenze esige il protagonismo della persona in contesti di esperienza variabili per impegno cognitivo e relazionale.  ”La nozione di competenza si inscrive nel quadro di una pedagogia decisamente centrata sull’allievo” (B.  Rey).

Il rischio più grave che bisogna evitare è quello di circoscrivere le ambizioni del sistema di istruzione e formazione, appiattendolo e costringendolo in una prospettiva utilitaristica di saperi immediatamente spendibili.  Se l’aria dei tempi esalta l’uomo d’azione efficace, che sa risolvere i problemi che gli si presentano, la scuola per responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni non può inchinarsi agli idoli del momento e deve lavorare per le altre dimensioni della persona umana, per il suo integrale sviluppo, in modo da renderla capace di comprendere il mondo, la società, l’altro e se stesso e di esercitare i diritti e i doveri di cittadinanza attiva.  La cultura è plurale e nessuna componente (scientifica, umanistica, professionale etc) può essere trascurata.  E’ la cultura nel suo insieme che ci fornisce gli strumenti per organizzare e per capire il nostro mondo in forme comunicabili.  (J.  Bruner).

Nell’approccio per competenze è insita una logica di adattamento che può mortificare o cancellare la funzione emancipatrice della conoscenza e rendere residuale il mondo dei valori; una logica che finisce, se viene acriticamente sposata, per esaltare l’addestramento a svantaggio della trasmissione dei saperi e della cultura.
“Per sviluppare competenze occorre lavorare perchè l’alunno possegga in modo significativo, stabile e fruibile concetti e quadri concettuali, saperi e conoscenze desunti dalle discipline e raggiunga adeguate abilità intellettuali e pratiche sapendo come, quando e perchè utilizzarle” (M.  Pellerey).

Le competenze non si insegnano direttamente: si creano le condizioni del loro sviluppo grazie a situazioni d’apprendimento, a dispositivi di esercitazioni e di riflessione sulle esperienze fatte.  L’approccio per competenze richiede l’ancoraggio all’esperienza, alle pratiche sociali, alla realtà.  Formare competenze significa richiedere prestazioni complesse e sfidanti basate sulla produzione di soluzioni a problemi tratti dal mondo reale.  Per garantire, però, un percorso strutturato e sequenziale di formazione i problemi, i casi concreti, i contesti lavorativi devono essere sistemati in una successione razionale ed organica, altrimenti rischia di far saltare il curriculum, frantumandolo in una raccolta casuale di iniziative, di progetti, di attività.
Fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire” le conoscenze comporta un lavoro di innovazione serio e rigoroso.  Bisogna saperlo che il cantiere per raggiungere questo obiettivo è aperto da molto tempo, ma che i risultati nella pratica quotidiana possono ancora modesti o limitati

L’approccio per competenze pone nuovi problemi e suscita perplessità in alcuni settori del mondo degli insegnanti, perchè confligge con le tradizioni più accreditate e seguite del sistema scolastico e con le consuetudini professionali.  Richiede, infatti, un cambiamento significativo nelle procedure didattiche e nel modo di pensare e agire nei processi formativi.
La preparazione delle attività, il processo formativo e il coordinamento didattico in un curriculum per competenze esigono tempo di lavoro molto più ampio di quello attualmente contrattualizzato e soprattutto insegnanti stabili, provetti, con notevoli capacità progettuali.  L’approccio per competenze mette in crisi l’individualismo magistrale, ma non può svilupparsi in un contesto di precarietà e di sudditanza professionale.




Il dirigente scolastico oggi

di Stefano Stefanel 

La preparazione del dirigente scolastico, prima di essere assunto come tale tramite concorso ordinario o tramite straordinarietà varie o sentenze giudiziarie, verte su due elementi che si contrappongono:

  1. la conoscenza teorica e manualistica delle norme del sistema scolastico italiano e la loro declinazione in una struttura perfettamente funzionante dove doveri, obblighi, progetti, controlli e poteri organizzativi si armonizzano in un’idea di scuola come comunità educante coesa e ben inserita nel contesto territoriale;
  2. l’esperienza personale fatta come docente quasi sempre impegnato nella gestione della propria scuola, nello sviluppo di progetti, nella organizzazione del microcosmo autonomo che si colloca dentro il proprio istituto.

Appena assunto in ruolo il dirigente scolastico si accorge, invece, di due cose diverse:

  1. la teoria non coincide con la pratica, perché l’autonomia scolastica ha reso il sistema, in quanto tale, illeggibile e dunque ogni scuola ha una sua chiave di lettura;
  2. l’esperienza pregressa si manifesta subito come un elemento negativo, perché le procedure di una scuola difficilmente si adattano ad un’altra scuola, magari di ordine diverso.

Anche le attività formative in atto per la dirigenza non permettono di supportare l’ordinario, perché si riferiscono comunque a modelli coerenti e generali, mentre la coerenza e la generalità di ogni istituzione scolastica vanno verificate sui fatti. E, infatti, il “fatto” è l’elemento che caratterizza la dirigenza scolastica oggi: quando, come, dove, perché e se avviene un dato “fatto” è, però, del tutto imprevedibile.

Dentro questa incertezza si insinua anche la confusione nata dalla contemporanea presenza nell’organizzazione scolastica di un dirigente scolastico dotato di poteri e responsabilità del servizio e di organi collegiali dotati di competenze. I concetti di “poteri”, “responsabilità” e “competenze” non sono sinonimi e ingenerano tutta una serie di complicazioni nella pratica quotidiana, dove l’equilibrio organizzativo della scuola non passa attraverso uno stato teorico, ma solo attraverso una situazione reale. In alcune scuole l’organo collegiale prevale sulla dirigenza, in altre la dirigenza tende a soffocare l’organo collegiale, in altre ancora l’equilibrio è perfetto: chi ha ragione? Impossibile dirlo, perché bisogna analizzare caso per caso.

C’è poi il rapporto con l’Amministrazione dello Stato, laddove gli Uffici Scolastici Regionali vengono percepiti come uffici locali, quando invece sono uffici ministeriali decentrati: mentre gli Uffici provinciali in alcune parti d’Italia vengono chiamati ancora Provveditorati, in altre Uffici scolastici provinciali, in altre Ambiti Territoriali. Il tutto confonde molti dirigenti scolastici, che sperano in aiuti e consulenze da strutture che invece sono di controllo, e che cercano di ottenere, per le vie brevi, quello che per le vie ordinarie non sono riusciti ad ottenere (per lo più docenti e collaboratori scolastici in organico).

Davanti a questa problematicità, che ha spostato la professione dirigenziale da un’azione collegiale delle scuole in accordo con lo stato alla gestione di “fatti” quotidiani o periodici, le strade, che stanno scegliendo la gran parte dei dirigenti scolastici, sono quelle dell’appartenenza, nella speranza che l’appartenenza possa attutire le problematiche. Dunque, la dirigenza scolastica non pare essere interessata alla costruzione di pratiche condivise, ma semmai a quella di raccordi con chi sembra il più forte, quindi il più in grado di dare aiuto. Il problema è che per i dirigenti scolastici le appartenenze sono plurime: vanno dai sindacati di categoria ai sindacati generalisti, dalle associazioni professionali alle associazioni miste, dalle chat chiuse ai gruppi Facebook, dalle conoscenze personali alle appartenenze ideologiche. Tutto questo fa prevalere lo schieramento alla riflessione e, dunque, la categoria si trova esposta a variazioni che generano incertezza e insicurezza quotidiana, dentro l’oscillazione delle collocazioni dell’appartenenza scelta.

Nella gestione odierna la progettualità delle scuole dovrebbe avere più forza dell’ordinarietà e, infatti, le risorse sono riversate sul PNRR, che è una struttura progettuale che non considera l’ordinario come inamovibile. Invece il tentativo di far entrare il vecchio nel nuovo sta creando malessere nella categoria, che si sente oberata dai progetti dello Stato e non tutelata nell’ordinario. Anche perché un po’ tutte le organizzazioni che agiscono nei confronti delle scuole (sindacati, associazioni, uffici) e l’opinione pubblica danno per scontato che il dirigente scolastico si doti di una governance interna di tipo piramidale, funzionale oggi solo alla gestione di un potere fittizio, perché nella realtà attuale non è più possibile gestire in forma ordinata una scuola attraverso strutture piramidali vicarie.

L’idea che il controllo sulla scuola nasca dalla nomina di due collaboratori del dirigente è un’idea che non sta più in piedi e che costringe quest’ultimo a lunghe riunioni con staff riottosi e spesso non in sintonia con il resto del personale. Inoltre, la distanza per lo più irraggiungibile tra le competenze del Dirigente scolastico e quelle del DSGA ha scavato un solco tra quello che un dirigente vorrebbe fare e quello che il DSGA gli permette di fare, chiavi del “tesoro di famiglia” in mano.

La strada della dirigenza scolastica non può essere l’apparente e allettante scorciatoia dell’appartenenza, perché l’unica strada percorribile è quella della competenza: se i dirigenti scolastici delegassero alcuni momenti di rappresentanza a chi ha più esperienza e competenza forse anche dai soggetti terzi (ministero, enti locali, altre scuole, studenti, famiglie, università) potrebbero venire risposte più sensate. Se invece tutto è demandato all’appartenenza e alla domanda fattuale (“oggi mi è successo questo, cosa faccio?”) vedo una strada futura della dirigenza in grande salita, in cui chi sa prima le cose le usa per fregare gli altri, dove le lamentale prevalgono sulla gestione delle criticità, dove le accuse a agli uffici di segreteria e ai docenti sopravanzano le autocritiche personali. Per delegare a chi ne sa di più bisogna però avere il coraggio di riconoscere che ne sa di più e questo è un passaggio molto difficile per un dirigente scolastico, che si vive troppo spesso come un’enciclopedia senza confini. Davanti ad una realtà che cambia anche la dirigenza deve cambiare, mentre vedo in giro tentativi di far finta che non sia cambiato nulla dall’avvento dell’autonomia scolastica: così diventa tutto una prova di forza, che però non interessa a nessuno (chi ha provato a smuovere l’opinione pubblica a favore della dirigenza scolastica, ad esempio sul tema della sicurezza, ha fatto solo un buco nell’acqua). Una dirigenza scolastica non compresa e non aiutata e che non sa creare le sue strutture di competenza e non di appartenenza viene sommersa da ogni notizia imbarazzante che la riguarda. O si lascia l’appartenenza da parte o il destino sarà quello di una dirigenza scolastica di tipo impiegatizio con un basso stipendio e troppi rischi.

 




Sanzioni disciplinari agli studenti per salvare il prestigio dei docenti. Il Governo ci crede davvero

di Raimondo Giunta

Mai avrei pensato che per difendere l’autorevolezza degli insegnanti si dovesse pensare di aggravare nei confronti degli studenti indisciplinati e irrispettosi le sanzioni disciplinari esistenti. E’ facilmente comprensibile ai più che l’autorevolezza degli insegnanti è stata gravemente incrinata dall’incuria delle condizioni del lavoro, dall’erosione continua della loro libertà, dalla modestia del loro stipendio, dalle aggressioni dei genitori e dalle continue campagne di diffamazione dei media e non dall’indisciplina degli studenti.

Vediamole allora queste nuove sanzioni disciplinari!

1) Nelle scuole secondarie di I grado, se il disegno di legge del ministro Valditara sarà approvato definitivamente, sarà ripristinata la valutazione del comportamento, che dovrà essere espressa in decimi e avrà un impatto sulla media generale dello studente, modificando così la riforma del 2017. La valutazione del comportamento influenzerà anche i crediti per l’ammissione all’Esame di Stato conclusivo della scuola secondaria di secondo grado e per avere diritto al punteggio più alto bisognerà avere al meno nove decimi in condotta.
Si torna, quindi, all’indigeribile commistione tra profitto scolastico e comportamento dell’alunno, che invece andrebbero rigorosamente e laicamente separati. Un provvedimento questo che avrà come effetto certo la crescita della dissimulazione e dell’ipocrisia degli alunni, ma non dell’adesione convinta alle regole che tutelano la convivenza in una scuola.

2) A seguito di un voto insufficiente in condotta non solo per casi di violenza o di commissione di reati, ma anche per comportamenti che costituiscono gravi e reiterate violazioni del Regolamento di Istituto non si è promossi alla classe successiva e non si è ammessi agli esami di Stato.

3) Per gli studenti che abbiano riportato una valutazione pari a sei decimi nel comportamento il Consiglio di classe, in sede di scrutinio finale, sospende il giudizio di promozione e assegna loro un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale.
La mancata presentazione dell’elaborato prima dell’inizio dell’anno successivo o una sua valutazione insufficiente, da parte del consiglio di classe,  determinano la non ammissione degli studenti all’anno scolastico successivo.

4) L’insufficienza in condotta in fase di valutazione periodica comporterà il coinvolgimento degli studenti in attività di approfondimento in materia di cittadinanza attiva e solidale, finalizzate alla comprensione delle ragioni e delle conseguenze dei comportamenti che hanno determinato tale voto.

5) Cambia il regime delle sospensioni, coniugando come da manuale autoritarismo e benevolenza; sanzione, penitenza e redenzione. Le sospensioni fino a 2 giorni richiederanno più impegno scolastico e coinvolgeranno lo studente sospeso in attività di riflessione e di approfondimento sui comportamenti che hanno condotto alla sanzione disciplinare.
Tali attività saranno assegnate dal consiglio di classe e culmineranno nella produzione di un elaborato critico da parte dello studente,  che sarà poi oggetto di valutazione da parte del consiglio di classe.
L’alunno indisciplinato avrà, quindi, un compito scritto in più rispetto ai propri compagni, stabilendo in questo modo il principio che scrivere è proprio una penitenza…In caso di sospensioni superiori ai 2 giorni,  lo studente sarà chiamato a svolgere attività di cittadinanza solidale presso strutture convenzionate,  ammesso che esistano e siano disposte a svolgere questo compito di rieducazione.
Sempre nel caso di sospensione superiore ai 2 giorni,  se verrà ritenuto opportuno dal consiglio di classe, l’attività di cittadinanza solidale potrà proseguire oltre la durata della sospensione,  e dunque anche dopo il rientro in classe dello studente,  secondo principi di temporaneità, gradualità e proporzionalità.
Ciò al fine di stimolare ulteriormente e verificare l’effettiva maturazione e responsabilizzazione del giovane rispetto all’accaduto.
Se quindi, una volta l’indisciplina di un alunno era un fatto interno alla scuola, con questi rimedi diventa un fatto di pubblica risonanza, con tanti saluti al diritto alla privacy.

6) Tralascio di parlare sul ripristino del giudizio sintetico finale nella scuola primaria e delle motivazioni che sono state portate.
Lo hanno fatto in tanti in nome e per conto della buona pedagogia, che come pare non sta di casa in Viale Trastevere.

In proposito ho i miei dubbi. Se la memoria non mi inganna, credo che le scuole abbiano vissuto momenti più turbolenti rispetto a quelli odierni. Basta risalire agli anni 60/70, quando non c’era scuola media superiore che non procedesse ad occupazioni e ad autogestioni studentesche, con relativo corredo di violenze e di danni agli edifici, sebbene fossero in vigore sanzioni disciplinari estreme, che avrebbero dovuto dissuadere gli studenti dal farle.
Era prevista, allora, l’espulsione dell’alunno dal proprio istituto e anche quella da tutti gli istituti dell’Italia, se le infrazioni al regolamento interno erano di una certa gravità.
Non sarà il rigore delle sanzioni, quindi, a spingere gli studenti indisciplinati a migliore consiglio, se hanno intenzione di non volerlo fare.

Le norme disciplinari che entreranno in funzione in nome e per conto del ritorno alla serietà e della rispettabilità del personale della scuola hanno, tra l’altro, più di qualche legame con quelle sancite negli articoli che vanno dal 19 al 25 del capo III del R.D.653/1925 “Delle punizioni disciplinari”.
Quelle proposte dal ministro Valditara possono a tutti gli effetti essere considerate una loro moderna riscrittura …Mancano i decreti di espulsione dagli istituti, ma le motivazioni per stabilire le nuove norme disciplinari sono pressoché identiche a quelle indicate nel Regio Decreto del ventennio.
Una novità degna di rilievo, ma congruente con l’egemonia del denaro nella nostra società, sono le sanzioni pecuniarie (multe che vanno dai 500 ai 10 mila euro) per reati commessi ai danni del dirigente scolastico e del personale della scuola a causa o nell’esercizio delle proprie funzioni.

C’è da meravigliarsi per questo legame? Non è proprio il caso. Dopotutto questo è un governo di destra con evidenti tendenze autoritarie ed evidenti radici neofasciste.
Rifugge dalla complessità della natura e delle cause di un problema, nel nostro caso il ribellismo giovanile, perché non ha gli strumenti per la loro comprensione e ricorre alle sole misure che riesce a concepire: quelle securitarie delle pene e dei castighi.
Ma se non hanno funzionato nel passato, perché dovrebbero funzionare nel presente?

 




Excursus nel mercato della scrittura digitale, probabilmente incompleto

di Marco Guastavigna

Sono di nuovo in modalità “pippone”.

A ripristinarmi la logorrea è stata una lettura: “Potremmo chiamare mestiere il tipo di attività in cui il tempo non è sotto controllo, e riservare il termine lavoro ai compiti regolati da vincoli di tempo. Nel mestiere, il tempo non è centrale. L’uomo di esperienza lascia che la sua temporalità sia dettata dalla situazione che incontra e dal modo in cui potrà intervenire. Il medico sa che alcuni pazienti richiederanno trattamenti lunghi e spiegazioni dettagliate, mentre altri risponderanno e capiranno rapidamente. Allo stesso modo, uno scrittore di solito non si costringe a scrivere una pagina sotto pressione oraria. Tutto dipende dal soggetto, dalla sua forma, dalla sua meditazione preliminare.” (P. Chabot, “Avere tempo. Saggio di cronosofia”, Treccani. 2024).

Da una parte il mestiere di scrivere, insomma, dall’altra il lavoro di scrittura.
Nella tabella il modo in cui Copilot Pro di Microsoft rappresenta le due situazioni.

Scrittore senza tempo
Scrittore vincolato dal tempo

Se possiamo far corrispondere la prima tipologia a scrittori e scrittrici di fama, giornaliste e giornalisti affermati, accademici e accademiche in carriera e vari intellettuali laureati, per immaginare appartenenti della seconda categoria dobbiamo probabilmente addentrarci nel mondo dei produttori di contenuti (testuali) per la mercificazione culturale, quotidianamente attivi nell’universo digitale.

Il loro scopo è creare e conservare – in proprio o più frequentemente in conto terzi e in posizione precaria – un pubblico sul mercato dell’attenzione con flussi di dati in continua circolazione, il cui unico requisito “culturale” è sembrare a chi ne fruisce validi e pertinenti. Per questo tipo di autorialità, la scrittura non è sublimazione, realizzazione, affermazione di sé, ma più probabilmente stress, costrizione, competizione continua con altro cognitariato.

Prima di approfondire ulteriormente questa faccia della medaglia, un’altra citazione: “non senza esitazioni e sforzi su me stesso, mi sono comperato un elaboratore di testi, e adesso scrivo esclusivamente con questo. Al principio è stata molto dura: ero totalmente ignaro della terminologia in uso, ero terrificato dalla paura che il testo scritto finisse cancellato per qualche manovra sbagliata, e le spiegazioni dei manuali mi parevano indecifrabili. Poi, a poco a poco, ho capito alcune cose fondamentali. In primo luogo, che bisogna reprimere il desiderio umanistico di capire «quello che c’è dentro»: forse che non usiamo il telefono da quasi un secolo, e la Tv da 30 anni, senza sapere come funzionano? E sappiamo forse come funzionano i nostri reni e il nostro fegato, che usiamo da sempre? È una pura questione di assuefazione; del resto, mi si dice che, salvo gli specialisti, neppure i fisici ed i matematici si curano di approfondire; hanno addomesticato il mostro meraviglioso, e se ne servono senza patemi. In secondo luogo, ho capito che è insensato sperare di imparare a usare l’aggeggio studiando i manuali; (…). Bisogna imparare sul campo, sbagliando e correggendosi. Sono ancora un neofita: ho ancora una quantità di manovre da imparare, ma già adesso mi costerebbe fatica tornare alla macchina per scrivere, o peggio a biro, forbici e colla. Non escludo che il nuovo strumento eserciti una sottile influenza sullo stile; un tempo, il dover incidere le lettere ad una ad una con martello e scalpello costringeva alla concisione, allo stile «lapidario»; la fatica si è via via ridotta, ed ora è quasi annullata: un testo si compila, corregge, ritocca, taglia, inserisce, con facilità irrisoria; si è insomma all’estremo opposto. A me pare che questa facilità tenda a rendere prolissi: dovrò starci attento”.

A parlare è Primo Levi, in dialogo con Tullio Regge: in quanto scrittore di mestiere elenca le ragioni positive per utilizzare un dispositivo digitale dedicato all’interno di una propria attività cognitiva e culturale molto significativa. Nonostante i software con intelaiatura iconica ed esplorativa attualmente in uso (Microsoft Word, LibreOffice, OpenOffice, Apple Pages e così via) siano ancora da concepire, egli trova infatti evidenti – e rasserenanti – i vantaggi di un ambiente di assistenza operativa e procedurale, fondato sulla flessibilità del supporto di scrittura. Le successive trasformazioni aggiungeranno a questo aspetto, tra le varie implementazioni funzionali, una sempre migliore gestione degli aspetti tipografici, l’interoperabilità tra gli apparecchi di elaborazione, l’estendibilità ipermediale del testo vero e proprio, dettatura a voce e trascrizione di file sonori.

Torniamo però alla scrittura come job.

Avendola definita come compito ingrato, a volte ostico, spesso incalzante, possiamo comprendere meglio a chi si rivolgano principalmente i software di assistenza cognitiva, processuale e perfino tematica che si appoggiano sull’intelligenza artificiale e che travalicano le funzionalità operative precedenti assumendosi in forma diretta il compito della strutturazione, della stesura e della revisione. Ma anche della sintesi, della semplificazione, dell’ampliamento, dell’approccio, dello stile e così via. Mi riferisco per esempio al già citato Copilot Pro, che agisce anche come estensione operativa di Microsoft Word e PowerPoint, a Shakespeare AI ToolBar per Google Chrome, alla funzione Composizione di Microsoft Bing, oltre che alle note modalità di interazione con ChatGPT e Google Gemini, e ad altre numerosissime produzioni dell’industria digitale.

Una particolare attenzione merita però Aithor.com, che fornisce agli utenti premium – va infatti detto che nella gran parte dei casi le funzioni di assistenza complete sono riservate agli utenti a pagamento – la possibilità di “nascondere l’uso dell’intelligenza artificiale”, mediante apposito mascheramento.  L’insieme di questi dispositivi sembra così sempre più definire una area di mercato specifica, rappresentata nello schema.  Il lettore avveduto coglierà il fatto che lo studentato non è compreso, salvo rubricarlo potenzialmente in eventuali situazioni di stress prestazionale.

Vi è comunque un rischio di fondo, ovvero la trivializzazione, di cui ci siamo già occupati e che nel contesto della mercificazione della scrittura è rappresentabile come segue:




Valutazione formativa, questa sconosciuta

di Cinzia Mion

 Recentemente è stata ripresa con enfasi la discussione intorno alla tematica della valutazione scolastica. Infatti ultimamente il Ministro Valditara ha fatto approvare un emendamento che sta modificando profondamente il “senso” dell’Ordinanza n° 172, datata 4-12-2020, riguardante le Linee Guida per l’applicazione della L. n. 41/2020 che prevedevano alla scuola primaria, e ancora prevedono finché non ne verranno varate di nuove, l’introduzione dei LIVELLI al posto dei voti numerici.

I livelli sono stati modificati con questo intervento in “giudizi sintetici”. Il giudizio “insufficiente” ha soppiantato il raffinato” in via di prima acquisizione”.
Tale operazione ha rievocato dei giudizi chiaramente non solo “sommativi”, perché sommativi erano anche quelli descrittivi, ma i giudizi cosiddetti “sintetici” sono tali per cui non possono non riattivare nella mente dei docenti, ma anche dei genitori, i voti numerici la cui abolizione nel 2020 si era configurata come la vittoria di “un” primo traguardo.

Da parte delle Associazioni professionali che da tempo chiedevano invece a gran voce l’estensione della 172 a tutto il primo ciclo, tale provvedimento di “restaurazione” è stato affrontato e denunciato immediatamente come altamente dannoso per tutti gli allievi, con argomentazioni molto convincenti e condivisibili.

La leggenda metropolitana per cui i voti sono più “chiari”, rispetto ad altri sistemi, ha spadroneggiato dal tempo della riforma Gelmini che con il suo Regolamento li aveva ripristinati al posto dei giudizi. È risaputo invece che un numero, così come un giudizio sintetico, che andrà a soppiantare ora l’espressione dei recenti livelli, è molto più opaco e ciò che trasmette è soltanto la classifica tra gli alunni. Nemmeno gli stessi docenti, ritrovandoselo poi nel registro elettronico, sanno più quali siano i punti di eccellenza o le lacune sottostanti il numero assegnato, se non usando una legenda sotto la verifica. Figuriamoci i genitori.

Fermiamoci però un attimo a considerare il fatto rivoluzionario che a partire dal 1977, per la prima volta con la Legge 517, ha fatto la sua comparsa la valutazione formativa.  A quel tempo abbiamo assistito all’abolizione della pagella con i voti e alla sua sostituzione con una scheda di valutazione con dei giudizi che poi nel tempo hanno assunto diverse conformazioni.

Immediatamente è apparso però un fenomeno destinato a ripetersi: è stata costruita sempre una equazione fittizia tra voti e giudizi stessi, di qualsiasi formulazione essi fossero. Il voto numerico è talmente “imbullonato” nella nostra mente, per averlo noi tutti subito nel tempo scolastico e universitario, che facciamo fatica a superarlo come paradigma di riferimento. Ciò ci richiama alla mente la sperimentazione dei “neuroni specchio”, e la simulazione incarnata di cui parlano i neuro scienziati Rizzolatti e V. Gallese.
Questa osservazione molto importante mi induce a tornare indietro e a tracciare per sommi capi l’evoluzione dell’idea di scuola da cui scaturiscono le modalità valutative.

Cenni storici

 All’interno della cosiddetta scuola elitaria, delineata dalla riforma Gentile del 1923, i voti numerici erano funzionali al carattere selettivo della scuola stessa, (vedi esame di ammissione) idonea a formare i quadri dirigenti. La svolta è avvenuta al tempo del referendum sulla Repubblica, e la Costituzione nel 1948 ha introdotto sia l’articolo n° 3 sull’Uguaglianza di tutti i cittadini che il n° 34 che stabilisce che l’istruzione obbligatoria e gratuita dura 8 anni. Non ci soffermeremo a delineare la trasformazione basilare che è avvenuta, almeno negli intenti, verso un regime repubblicano-democratico.

Diremo soltanto che il primo atto legislativo varato per scolarizzare tutta la popolazione, per almeno 8 anni come dettava l’articolo 34, fu la legge istitutiva della Scuola media unica, del 1962. Si attesta con questa il passaggio dalla scuola elitaria a quella di massa, avviata per tutti i bambini ma soprattutto per i figli degli operai e dei contadini, che generalmente abbandonavano precocemente il percorso di scolarizzazione. Fu verso costoro però che i docenti di allora – non adeguatamente riorientati con un’opportuna formazione al cambio di utenza, precedentemente selezionata dall’esame di ammissione – infierirono con valutazioni negative e bocciature plurime.

Su questa ecatombe scolastica si levò la famosa protesta sociopolitica di don Milani e del Movimento studentesco, che fece a questa da cassa di risonanza, e poi quella successiva docimologico-scientifica che segnalò l’aberrazione della media aritmetica e predicò la differenza tra misurazione e valutazione, giustamente rappresentata dalla necessaria presenza di “criteri”, esplicitati pubblicamente.

La critica docimologica e psicologica

La docimologia (M.Gattullo: Didattica e docimologia, 1968).[1], in quanto scienza della misurazione, ha fatto piazza pulita di alcuni equivoci che cercherò di riassumere.
La “misurazione” precede la “valutazione” e non va confusa con essa, coincidenza invece resa possibile a lungo in Italia dal codice numerico dell’espressione della valutazione. I voti vengono considerati vere e proprie unità di misura di una scala perfetta, con intervalli tra loro perfettamente uguali: aspetto che Gattullo sottolinea essere impossibile. Gli stimoli creati dai docenti per le verifiche quasi sempre sono approssimativi per cui vengono proposte le cosiddette “prove oggettive”. Tale dispositivo però non risolve il problema sollevato da don Milani. Le prove devono essere considerate nel loro valore diagnostico: la cura delle difficoltà emerse sarà affidata all’insegnamento individualizzato.

La valutazione inoltre deve adottare dei criteri espliciti, non confusi tra loro, ed ospitati nel PTOF. Mi soffermerò soltanto a segnalare come il criterio di valutazione che si rifà al giudizio assoluto viene definito da Gattullo illecito (ecco il significato dell’espressione: io non sono un voto!). Criteri accettabili possono essere quelli scaturiti dal confronto con le misurazioni riferite agli altri studenti o ai progressi ottenuti dal soggetto considerato.
Dobbiamo poi aggiungere gli effetti della critica psicologica, che non hanno bisogno di spiegazione, perché o già molto noti o facilmente comprensibili, che sono: l’effetto alone, l’effetto stereotipo e l’effetto Pigmalione, ecc.

Tutte queste critiche sottolineano come la valutazione numerica sia SOGGETTIVA E ARBITRARIA.
Alla fine siamo arrivati alla opportuna critica pedagogica che permise il varo della legge 517/77, come ricordavamo prima, che inaugurò una valutazione completamente innovativa, chiamata appunto formativa. Ora si dà il caso che Le Linee Guida del 2020, nella Introduzione, contengano dei dati salienti riguardo alla psicologia dell’apprendimento, dati che andrebbero considerati una bussola dell’intera operazione, come in genere accade nell’Articolo 1 delle leggi. Il primo articolo infatti traccia sempre la cornice in cui verranno poi iscritte le operazioni successive ed esprime i principi ispiratori.
Il primo di questi principi nelle succitate Linee Guida è proprio la valutazione formativa.
Se Valditara dovesse perciò cancellare anche queste rimane pur sempre il decreto legislativo 62/2017 che continua a sottolineare l’importanza di questo tipo di valutazione.

Il cambio di passo

Il concetto di valutazione formativa, così rivoluzionario fin dal suo apparire, segna oltre che il passaggio alla scuola di massa anche a quella della integrazione, perché la stessa legge, contemporaneamente all’abolizione della pagella con i voti, ha aperto le porte della scuola statale ai soggetti con disabilità. Abbiamo già accennato alla consuetudine invalsa subito, e continuata purtroppo nel tempo, di tramutare d’emblée i voti in giudizi, vanificando così la caratteristica fondamentale e nuova della valutazione. Quello che temiamo adesso è  che questa perda nel tempo il suo smalto innovativo radicale e che si verifichi il medesimo meccanismo semplificatorio e sbrigativo.

Più volte infatti, da allora, il concetto è stato ripreso e citato, in modo prestigioso e autorevole, anche dalle “Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo” del 2012, senza però che nessuno si sia mai preoccupato di vigilare se venisse applicato o se i docenti conoscessero la differenza tra valutazione sommativa e valutazione formativa. L’attenzione si è concentrata subito sulle competenze e i docenti spesso hanno bypassato la premessa e la sua pregnanza, andando a rifugiarsi sulla disciplina di loro competenza.

Nel lontano 1977 il corpo docente non è stato formato a questo cambio di passo e così è avvenuto dopo il 2012. Non ci siamo chiesti se fosse possibile, senza adeguata formazione, cogliere e poi applicare questa modalità nuova di valutazione. Ma allora – come se fosse un giallo – in che cosa consiste questa auspicata e tanto nominata modalità di valutare gli alunni e liquidata troppo spesso da tutti anche da formatori eccezionali? Cominciamo intanto con alcune citazioni indispensabili. Nell’anno 1967 uno psicologo americano M.[2] Scriven aveva pubblicato un articolo dal titolo “Differenza tra valutazione sommativa e valutazione formativa”, ripreso poi da B.Vertecchi in Italia nel 1976 all’interno del suo testo La valutazione formativa[3]. Non è un caso che appena un anno dopo fu varata la Legge 517, successivamente alla sua critica pedagogica che denunciava una scuola che perpetuava stratificazioni sociali di massa.

La valutazione formativa

Per capire profondamente questa espressione bisogna innanzitutto comprendere senza ombra di dubbio che l’aggettivo formativa, posto accanto al sostantivo valutazione  (es: il valore “formativo” della valutazione) non è un abbellimento, una sfumatura che smorza l’eventuale durezza che può connotare il concetto di valutazione tradizionale. No, “valutazione formativa”consiste in una valutazione vera e propria, complessa, che coniuga la attenta considerazione del livello di insegnamento con quello di apprendimento.

Da allora sarebbe dovuto risultare chiaro che la valutazione sommativa, considerata per eccellenza quella tradizionale, generalmente ascrive la responsabilità del  mancato apprendimento all’allievo (poco studioso, per niente diligente, carente intellettualmente, svogliato, indisciplinato e poco attento, ecc) . Quella formativa, invece, dovrebbe attivare un cambiamento di prospettiva di 180 gradi. Ascrive infatti la responsabilità del mancato apprendimento o dell’insuccesso formativo, all’insegnante e alle sue pratiche didattiche. Dal punto di vista operativo significa che il docente allora, all’interno di questa nuova ottica, innanzi tutto dovrebbe attivare la propria osservazione, professionale e curante, durante il processo dell’insegnamento-apprendimento e non precipitarsi sul prodotto-risultato come succederebbe con quella tradizionale. Attraverso molte microverifiche informali, soprattutto utilizzando il linguaggio del corpo, le interazioni verbali tra gli allievi – opportunamente sollecitate – e le espressioni libere tra loro, si renderà conto subito della lacune, delle smagliature che i bambini più fragili rivelano e cercherà in tempo reale, di modificare la propria strategia didattica, visto che quella utilizzata non ha dato i risultati sperati. Oggi infatti la scuola, anche per dettato esplicito, è diventata inclusiva perciò, parafrasando il bellissimo titolo di un film cinese “Non uno di meno”, nessuno può essere lasciato indietro. Questo cambio di strategia, sicuramente più laboratoriale, più operativa, ascrivibile spesso alla didattica del fare individualizzato, richiede al docente l’umiltà di una autointerrogazione: ho io a disposizione una strategia adatta? Cui seguirà l’autovalutazione che si concretizzerà nella risposta positiva oppure nella ricerca di una soluzione adeguata, per una opportuna autoregolazione.

Si tratterà di rivolgersi prima di tutto ai colleghi, all’interno della “comunità professionale di docenti”, poi di fare una ricognizione su Internet, o nelle librerie specializzate. Richiedere formazione specifica al proprio DS, e poi al collegio per l’approvazione, potrebbe essere una soluzione valida per tutti.

E pensare che addirittura nei programmi del 1985, quindi all’interno del testo legislativo, emanato dopo la Legge 517, all’ultimo capoverso del paragrafo intitolato “Valutazione” si trova scritto: “L’attività di programmazione e verifica deve consentire agli insegnanti di valutare l’approfondimento della loro preparazione psicologica, culturale e didattica anche nella prospettiva della formazione continua.” Il riferimento alla formazione continua sfonderebbe una porta aperta se qualcuno inevitabilmente ogni volta non si mettesse di traverso.  

Processi non solo prodotti

Per poter affrontare la questione in modo efficace bisogna imparare ovviamente a focalizzare il processo per cogliere i passaggi cruciali, senza il superamento dei quali l’insuccesso diventa purtroppo inevitabile. Si è reso possibile questo cambio di prospettiva perché – crediamo sia opportuno ricordarlo – durante gli anni 60/70 in America il neo-comportamentismo skinneriano era stato soppiantato dal cognitivismo, il cui padre simbolico era stato Bruner. Il cognitivismo aveva posto il focus delle sue ricerche sui processi cognitivi.

Insieme alla ricerca sui processi cognitivi e metacognitivi, sarebbe molto utile anche dare un’occhiata agli stili di apprendimento, ugualmente citati nelle Linee Guida. Gli stili di apprendimento sono diversi da quelli cognitivi, ascrivibili anche a tratti di personalità, che consistono in modalità diverse di categorizzare la realtà.

Gli stili di apprendimento invece sono delle tecniche preferite o prevalenti di funzionamento della nostra mente quando si trova ad affrontare nuove informazioni per nuovi apprendimenti. Ci possono offrire delle indicazioni utili perché esistono stili più visivi o più uditivi oppure cinestetici. Mi pare degna di nota questa ultima modalità perché offre spunti interessanti in quanto ci informa che chi è portatore di questo stile ha bisogno di “toccare“ oggetti e di muoversi, modalità attuabili con attività strategiche laboratoriali. Lo stile potrebbe includere modalità alternate o comunque multiple. Per garantire l’aspetto inclusivo della didattica bisognerebbe scoprire di quale stile di apprendimento sono portatori i soggetti più fragili ed inserire nella propria prassi dei sussidi adeguati.

Speriamo che prima o poi si riesca nell’impresa di realizzare un vero e proprio apprendimento trasformativo da parte di tutti i docenti della scuola primaria, augurandoci poi che questi possano contaminare tutti gli altri.

Chi riuscirà però a far accettare dalla mente dei docenti che una valutazione negativa, comunque, per quanto attiene il primo termine del binomio insegnamento-apprendimento, è da ascrivere alla propria responsabilità? Per come imposto la didattica; per quanto stempero le difficoltà per renderle affrontabili; per quanto mi sono formato sentendomi sempre moderatamente inadeguato ed ho quindi apprezzato la zona  dello sviluppo prossimale di vigotskiana memoria, applicandola sempre quando possibile; per quanto coinvolgo i ragazzi attraverso una relazione suggestiva con il sapere; per quanto io docente possiedo una motivazione alla “padronanza” nel mio lavoro e non solo alla “prestazione” per cui, dopo aver fatto le mie ore di lezione non mi sento a posto ma desidero sempre migliorare.
Per quanto attiene poi l’apprendimento dell’allievo è ovvio che emergono anche le sue responsabilità e le sue motivazioni e nello sfondo quelle della famiglia.
In altri termini, come si fa a non capire che la professione dell’insegnante, in quanto formatore, è una professione che non può smettere mai di mettersi in discussione e di adottare per questo una raffinata continua riflessività?

Ultima raccomandazione ai docenti della scuola secondaria

I voti numerici assegnati in calce alle varie verifiche, scritte od orali, vengono ricevuti dagli allievi ed utilizzati subito per anticipare quella famigerata “media aritmetica”, con cui viene prevista da parte loro la promozione o la bocciatura. La consuetudine di applicare questo tipo di media da parte dei docenti, dal punto di vista docimologico, è un obbrobrio. D’altro canto l’esperienza registra che di conseguenza nessuna attenzione viene riservata dagli allievi all’azione importante e basilare del recupero dell’errore. L’argomento del recupero dell’errore introduce la differenza tra “sbaglio” ed “errore” e la rispettiva differenza tra “esercizio” e “problema”.

Questa tematica apre il fronte interessantissimo, anticipato da H. Gardner[4] e ripreso più recentemente da Wiggins, della necessità urgente che la scuola abbandoni la strada della ricerca affannosa solo delle risposte esatte (comode per l’assegnazione dei voti numerici), ma astratta, disincarnata, scolastica, fine a se stessa, ed intraprenda quella della comprensione profonda considerata da Wiggins[5] la “competenza essenziale”.

Egli infatti dice: “Se una conoscenza o un’abilità non diventa lettura e comprensione della realtà, difficilmente si trasformerà in significativa o flessibile o in comprensione profonda. Per comprensione si intende una conoscenza pregnante, posseduta ed integrata in modo da poter essere facilmente utilizzata in contesti diversi, nei quali essa serva a chiarire una situazione o un problema.”
A tale proposito già H. Gardner aveva affermato”La scuola invece persegue il compromesso delle risposte esatte ed usa i voti come moneta falsa, come il denaro dei Monopoli!”
Se i “giudizi sintetici” possono essere facilmente assimilabili ai voti credo che la deduzione sia già pronta e scodellata.

Un’ultima ma utile raccomandazione: qualunque sia la decisione finale del Ministro Valditara e dei suoi consiglieri, carissimi docenti della scuola dell’obbligo, ricordatevi che l’unica àncora di salvezza è la valutazione formativa, giustificata per legge, invocata dalla psicologia dell’apprendimento di matrice socioculturale vigotskiana, utilizzata per sostenere e incoraggiare tutti gli alunni.
Come atto “intermedio” e “finale” concedete pure il contentino del giudizio sintetico.

Intanto però la scuola autenticamente inclusiva è salva.

[1] Gattullo M.,Didattica e docimologia-misurazione e valutazione nella scuola,Armando Armando editore,Roma,1968
[2] M.S.,The Methodology of Evaluation, in R.Tyler,R.Gagnè,M.Scriven,Perspedtives of curriculum Evaluation, Chicago,Rand McNally & Co.,1967
[3] Vertecchi B.,Valutazione formativa,Loescher,Torino,1976
[4] Gardner H. Educare al comprendere, Feltrinelli,2002, Milano
[5] Wiggins G.,McTighe J., Fare progettazione. La teoria di un percorso per la comprensione significativa.LAS-Roma,2004




Flashmob

Esattamente, esattamente, esattamente…quali sono le differenze epistemologiche, ontologiche e deontologiche tra le tre situazioni di seguito rappresentate?