Perché è difficile riformare il nostro sistema scolastico? Il futuro possibile secondo Damiano Previtali

di Stefano Stefanel

“I grandi investimenti, e con essi l’approccio economico del ricavo immediato e della sua quantificazione, richiedono risultati a breve termine, mentre l’approccio educativo, come risaputo, necessita di tempi lunghi, in alcuni casi di ricambi generazionali”.
Basterebbe questa frase, che fotografa perfettamente la difficoltà di riformare il sistema scolastico italiano, per dedicarsi alla lettura di “La scuola mediterranea” di Damiano Previtali, uscito da pochi giorni per l’editore Il Mulino.
Damiano Previtali è un dirigente scolastico attualmente in forza al Ministero dell’Istruzione dove dirige l’Ufficio Valutazione del sistema nazionale di istruzione e valutazione. È un grande conoscitore di scuola, ma è anche un grande appassionato della scuola e del suo complicato sistema organizzativo. Uno dei più grossi passi avanti fatti dalla scuola italiana nell’ultimo periodo è stato quello di dotarsi di un coerente e completo Sistema Nazionale di Valutazione, che pur generalmente osteggiato in maniera pretestuosa e poco convincente, comunque ha dato un taglio nuovo alla progettazione generale di sistema, alla valutazione, alla rendicontazione. Come a tutti noto, il Sistema Nazionale di Valutazione è stato pensato e organizzato proprio da Damiano Previtali.

Scoprire un Damiano Previtali ottimista dentro il grande pessimismo dei dati in nostro possesso aiuta a comprendere come le letture del sistema scolastico italiano possano avere molti lati e molti punti di vista. Il Sistema Nazionale di Valutazione così come l’Invalsi, così come le indagini internazionali ci trasmettono dati che sconsigliano di continuare nella strada che stiamo percorrendo. L’osservazione di quanto sta avvenendo invece dice che il sistema scolastico italiano non solo non intende cambiare, ma è fortemente orientato verso la piena restaurazione di quanto già in crisi prima della pandemia. Alla base del pensiero di Previtali c’è un’idea “mediterranea” di scuola, dentro un profondo realismo che gli fa definire come assolutamente insensata questa corsa folle ad una parificazione nazionale tra contesti diversi.
La corsa del Sud per raggiungere il Nord e quella del Nord per diventare ancora più competitivo si dimostrano chimere prive di valore, dentro obiettivi sempre irraggiungibili e sempre nascosti dentro dati letti in forma molto personale e mai condivisa.
Il concetto viene espresso in forma molto chiara da Previtali: “Le situazioni di svantaggio sociale non favoriscono i prerequisiti per l’apprendimento scolastico: proprio per questi motivi dobbiamo dotare le scuole, insediate in questi contesti, delle migliori risorse, mentre purtroppo avviene l’inverso.”
Tutto questo lo si è visto chiaramente nelle modalità con cui sono stati attuati i Progetti PON, che hanno privilegiato le scuole più forti, con segreterie efficienti, docenti motivati, mezzi a disposizione e collaborazione degli enti locali, che da “ricche” sono diventate ancora “più ricche”, mentre le scuole che più avrebbero avuto bisogni di quei fondi hanno arrancato accumulando ritardi e rinunce.
Nel libro di Previtali il rapporto tra dato noto a tutti e sua lettura costituisce la spina dorsale del ragionamento e ciò permette di smascherare quanto di falso viene fatto circolare presso l’opinione pubblica. D’altronde tutto questo è suffragato da un’evidenza molto banale: tutti dicono e tutti spiegano che il sistema scolastico italiano è in difficoltà, che abbiamo la più alta dispersione scolastica d’Europa, che due milioni di ragazzi dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano, che la scuola ha cessato di essere “ascensore sociale”, ma è impossibile trovare una scuola (dico una) che non magnifichi sé stessa e i suoi risultati.
C’è qualcosa che non va: il sistema è in crisi, ma le 8.000 autonomie scolastiche godono di ottima salute. Tutti (anche chi scrive) trasmettiamo i nostri dati e i nostri progetti all’opinione pubblica certi di fare bene e correttamente il nostro lavoro, cerchiamo prospettive di lungo periodo, ma ci accasciamo sui problemi quotidiani. Siamo tutti convinti, insomma, che, se il sistema non funziona, è colpa di qualcun altro.
Come scrive Previtali: “Ne consegue una governance paralizzata dal quotidiano senza attenzione ai processi innovativi in atto.” Dirò anche qualcosa di più: l’innovazione è vista con sospetto e interesse, come un qualcosa che si attiverà quando ci sarà tempo, ben sapendo che il tempo non ci sarà mai. Così gli innovatori vengono guardati con poca comprensione perché sono fuori da quel mondo quotidiano che fa privilegiare un mantenimento dello status quo, non per scelta, ma per necessità. Tutto questo sembrava dovesse dissolversi con la pandemia e la grande innovazione didattica, digitale ed ecologica portata dagli eventi e non dalla ricerca, ma, invece, l’uscita dalla pandemia ha solo portato un grande desiderio di riportare indietro le lancette (neppure, però al 2019, ma direi addirittura al 1999).
Dunque un disastro senza prospettiva? Niente di tutto questo: in Previtali c’è un sano realismo collegato ad un ottimismo di prospettiva molto chiaro e ben argomentato. È necessario agire su una reale revisione della didattica e degli obiettivi, per comprendere come il trasferimento dal “pieno” (la mente dell’insegnante) al “vuoto” (la testa dello studente”) non ha alcuna possibilità di produrre alcunché di utile e al passo con le esigenze dei tempi. Previtali invita a dare alle cose il loro giusto valore: le nozioni sono nozioni, le informazioni sono informazioni ma la loro trasformazione in conoscenze come base di competenze durature necessita di un processo didattico complesso, ma non complicato, quindi richiede l’uscita da schemi ormai obsoleti che producono noia e deboli risultati. Previtali indica la strada di una scuola mediterranea ed attiva, che parta dal nostro essere Italia, che conosca il mondo ma non necessariamente voglia somigliare a lui. Chiede un attivismo diverso, una progettualità calata sull’alunno, una personalizzazione fortissima, che permetta ad ognuno di raggiungere gli obiettivi che sono alla sua portata.
“Nelle scuole permane il problema del passaggio dal piano di studi generale (collegato all’indirizzo) al piano di studi personalizzato (collegato al singolo studente)” : da qui si deve partire, da una revisione del rapporto didattico per calare la progettualità sulle esigenze e le possibilità dello studente e non su quelle delle discipline così come si sono formate nel secolo scorso. Per fare questo abbiamo bisogno di nuova conoscenza di soggetti poco esplorati dalla scuola, ma ormai diventati preponderanti: la scuola come organizzazione a legami deboli di cui parlava Piero Romei, la scuola come idea di comunità su cui si è sempre speso Giancarlo Cerini, la scuola come raccordo con la realtà e luogo in cui quella realtà viene conosciuta e letta, senza alcuna disconnessione tra le cognitive skills e le non cognitive skills.
Se mi si chiedesse se “La scuola mediterranea” è un bel libro risponderei che più che bello è un libro proprio necessario. Indica quello che dobbiamo fare e indica anche da dove iniziare per capire bene qual è la strada da prendere.
“L’utilizzo dei dati rischia di avallare le rappresentazioni sociali diffuse, ma l’ignoranza sui dati rischia di non considerare le differenze dove le differenze esistono.” Dobbiamo essere realisti e capire che il nostro sistema scolastico è legato alla nostra storia, ma anche ottimisti per combattere il pessimismo aggressivo di chi invita a non farsi imbrogliare dalle idee innovative, perché il vero cambiamento è non cambiare mai nulla. Un bel libro, speriamo per un bel futuro.




Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

Una questione di coesione sociale

Personalmente credo che riconoscere queste persone come cittadini italiani sia non solo doveroso dal punto di vista etico e politico ma anche necessario dal punto di vista socio-economico. Sono questi i cittadini che terranno in piedi l’economia italiana nei prossimi anni. Sono loro che con il loro lavoro che finanzieranno l’INPS. Sono loro la linfa vitale della nostra società futura. Chi sostiene, surrettiziamente e ricorrendo alla solita tecnica del benaltrismo, che i problemi dell’Italia d’oggi sono altri, e nello specifico la crisi economica, i salari, l’inflazione il costo della vita, non si accorge che proprio a motivo di questi problemi economici sarebbe interesse dell’Italia riconoscere la cittadinanza a chi vive da anni in Italia.

La loro posizione pecca di iper-culturalismo ovvero l’opposto di quanto dicono. Appartengono a quanti farneticano attorno alle teorie della sostituzione etnica senza accorgersi che il declino della società italiana è già in atto e vede come responsabili primi proprio gli italiani stessi.
Da qui la necessità di riconoscere come nuovi italiani quanti hanno fatto un percorso scolastico in Italia: è una questione di coesione sociale. Infatti solo chi è pienamente cittadino fa parte compiutamente della società e può essere chiamato ad operare per il suo miglioramento, la sua crescita, il suo sviluppo ma anche il suo cambiamento, la rinegoziazione delle norme e delle regole del convivere sociale. Chi non è cittadino è ospite e come ospite non è tenuto a connettersi compiutamente alla rete sociale secondo logiche solidaristiche.

La centralità della scuola

La legge proposta, sin dal titolo, riconosce la centralità della scuola nella formazione di una persona e di un cittadino. Si tratta di una valorizzazione della cultura nel processo di acculturazione che conduce a condividere la lingua, le regole della convivenza, i valori di fondo che tengono assieme il tessuto sociale.
E’ il riconoscimento che la scuola forma in primo luogo cittadini e a questo scopo utilizza i saperi, le conoscenze e le competenze organizzandole dentro percorsi significativi di crescita umana, sociale, politica.
La proposta di legge riconosce alla scuola un compito e un valore spesso nascosti o negati dall’opinione pubblica che della scuola ha spesso una concezione distorta e decisamente parziale come il dibattitto di questi mesi ha più volte evidenziato con la richiesta di ritornare alla scuola di un tempo, quella che dava vere e solide conoscenze, quella che bocciava, che usava i voti come mannaia, quella che creava dispersione e abbandono Una scuola di classe tesa a sorvegliare e punire piuttosto che a formare cittadini critici e partecipi.

E’ di noi che qui si parla….

Così la discussione sulla legge è in realtà la discussione su noi stessi. Su chi siamo e su chi vogliamo essere. Sul presente e sul futuro della nostra società e della nostra scuola.
E, stando alle posizioni viste in questi giorni, l’orizzonte è abbastanza depressivo

https://www.giuseppebrescia.it/ius-scholae-ecco-il-testo-per-una-nuova-legge-sulla-cittadinanza/

 

 




La pedagogia Freinet di Marcel Thorel

Marcel Thorel  ha conosciuto la pedagogia Freinet quando nel 1970 frequentava la Scuola Normale (la scuola della formazione inziale dei futuri maestri).
Lì conobbe un maestro, François Pâques, che aveva insegnato a Vence insieme a Célestin Freinet e sua moglie Elise  negli ultimi anni di vita del maestro francese.
E’ stato lui a presentare a Marcel e ai suoi compagni i testi liberi, le ricerche matematiche, le opere d’arte. Marcel ha dunque iniziato  a lavorare con la pedagogia Freinet appena uscito dalla Scuola Normale.
Ha sempre fatto parte del gruppo di dipartimento di Pas de Calais e dell’ICEM nazionale (è stato membro del Consiglio Amministrazione dell’ICEM).

Nel 2002 Marcel e sua moglie Danielle, insieme ad altri colleghi e con il sostegno dell’Amministrazione scolastica, hanno fondato la scuola sperimentale Freinet de Mons-en-Barœul situata nella periferia di Lille.

Dopo il loro pensionamento dall’insegnamento operano in Francia, in Belgio e in Africa.

Marcel è Presidente di un’Associazione che si occupa della formazione di insegnanti in pedagogia Freinet in Togo e in Rwanda che lavora in collaborazione con il  MOUVEN (Movimento di insegnanti innovatori) e il movimento Freinet del Togo.
In Belgio Marcel e Danielle Thorel hanno contribuito a creare un’Associazione (Centro di ricerca  che promuove la pedagogia Freinet.
A questa Associazione fanno riferimento le scuole Freinet di Liegi.
Anita Ruiz è la coordinatrice del Centro di Ricerca.




Chi è causa del suo digital…

di  Marco Guastavigna

Walled garden e business network fremono di sdegno: il ministro Bianchi – con una formulazione che, se riportata fedelmente, è lesiva anche della grammatica ­– ha ancora una volta sconvolto il proprio universo di riferimento professionale: “In Italia, in 4-5 anni, dobbiamo riaddestrare 650mila insegnanti per andare incontro ad insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettato”.
Ma come si permette? Riaddestrare, ovvero addestrare un’altra volta? Approccio davvero pessimo. Per non parlare dell’obbligatorietà della formazione, vulnus ricorrente e storicamente pluri-rigettato dalla categoria.

I contenuti di questa obedience 4.0, binomio esseri umani-dispositivi digitali? La solita confusione concettuale, il solito lessico nebuloso del marketing istituzionale: “Abbiamo investito 800mln per farlo e solo ieri abbiamo lanciato un progetto da 2,5mln per dare nuova formazione a chi insegna. Dobbiamo affrontare questo percorso per introdurre nella scuola l’intelligenza artificiale, la digitalizzazione collegata alla questione etica. Non siamo all’anno zero, abbiamo già dei buoni esempi ma ora dobbiamo spalmare questi primi buoni risultati per toccare i 10mln di studenti italiani”.

Prossimo al gramelot, ma del tutto coerente con le scelte di chi lo ha immediatamente preceduto, il rapporto con le piattaforme del capitalismo cibernetico e la privatizzazione della sfera dell’istruzione pubblica: “Il problema al quale stiamo lavorando con i tecnici del ministero è come le aziende del sistema globale possono essere d’aiuto per l’Ue e per l’Italia per raggiungere il risultato di questa diversa crescita formativa interpretando in modo corretto i nuovi linguaggi che devono usare ai vari livelli gli insegnanti di matematica, materie umanistiche, lingue e via dicendo”.

Potrei proseguire l’esegesi dell’esternazione, per esempio sottolineando che espressioni come “nuovi linguaggi”, “intelligenza artificiale”, “digitalizzazione”, “futuro digitale” e “interconnessione globale” siano tutte precedute da articoli determinativi e preposizione articolate, a indicare, ridotte a gergo, unicità di significato e quindi di senso, secondo la visione deterministica tipica dell’impianto ideologico tecnocratico e liberista, che si concepisce e presenta come unica alternativa possibile.
Potrei pertanto provare a contrapporre al succitato impianto mercatista e utilitarista, che innerva un “continente digitale” in cui la gran parte dei territori è sottomessa al controllo estrattivo delle aziende del capitalismo cibernetico, una visione delle tecnologie digitali attualizzate quali risorse per lo sviluppo umano e invitare a riflettere sulle differenze tra logistica di condivisione e logistica di intermediazione.

Preferisco invece tentare di far comprendere che le responsabilità culturali ed etiche – a proposito! – non hanno una sola matrice.

È da tempo evidente che le accademie italiane sono in larga misura e tacitamente asservite ai grandi player del capitalismo digitale.

Più in generale, però, vi sono alcuni aspetti culturali “istitutivi” di orizzonti antropologico-culturali subordinati e subordinanti, che vanno smascherati e analiticamente demistificati.

Il primo è aver accettato l’uso dell’aggettivo “digitale” preceduto dall’articolo “il”  come definizione del contesto, delle caratteristiche operative, cognitive e culturali e delle implicazioni dell’impiego dei dispositivi elettronici nelle pratiche di mediazione didattica. Una parola-ombrello, un significante quasi vuoto, che ciascuno ha potuto, può e potrà intendere come più gli aggrada, con il risultato di rendere il dibattito confuso e confusivo, in quanto variabile dipendente di bias e interpretazioni soggettive, intessuta di pseudocondivisioni.

Il secondo è aver consentito la contaminazione della pedagogia dell’emancipazione da parte della prospettiva dell’innovazione e dei suoi sempre più allucinanti e allucinati derivati (didattica innovativa, strumenti innovativi, ambienti innovativi, insegnanti innovativi). Aver trasformato il rinnovamento da strumento a scopo, ha reso accettabili competizione, distruzione creatrice, sensazionalismo didattico, acquisizione di competenze individuali e adattive a un modello socioeconomico unico e indiscutibile.

Il terzo è essere caduti nella scorciatoia cognitiva che ha ridotto, riduce e ridurrà i dispositivi digitali attuali con intenzione estrattiva e capitalistica a “strumenti”, attivabili e governabili come tali: questo modo di affrontare il problema – miope, anzi accecante e quindi del tutto funzionale al progetto di dominio operativo e di egemonia culturale di GAFAM, NATU, BATX

– ha avuto particolare risonanza, perché rassicurante, nel periodo del distanziamento delle pratiche didattiche, ma è una forma di banalizzazione ricorrente anche nelle roventi discussioni di questi giorni.

Il quarto è costringere – anche per opportunismo personale – la riflessione, il pensiero critico e il dibattito collettivo all’interno delle piattaforme e delle applicazioni mainstream, finalizzate alla profilazione per il profitto, rinunciando a qualsiasi battaglia politico-culturale e sindacale per la costruzione, il finanziamento, la manutenzione di infrastrutture digitali “repubblicane”, aperte al controllo democratico, progettate e gestite sulla base dell’interesse generale, anche per quanto riguarda gli aspetti più tecnici del loro governo.

La resistenza culturale, professionale e operativa alla diffusione dei dispositivi digitali si attesta invece al più su una sorta di rifiuto tra l’intuitivo, l’olistico e lo snobistico, a volte sconfinante nel grottesco – per esempio quando arriva a sostenere che la scrittura carta-e-penna è la sola strategia cognitiva e la sola pratica operativa utile per la redazione di testi complessi, contraddicendo pareri espliciti di intellettuali insospettabili, opinioni per altro probabilmente ignote ai più.

Mancano insomma un’analisi attenta e soprattutto un’elaborazione alternativa, indipendente dall’agenda e dal lessico dell’avversario, che sia capace di – e, prima ancora, intenzionata a – costruire le basi e i riferimenti per una torsione delle potenzialità dei dispositivi digitali liberati dall’intenzione capitalistico-estrattiva nella direzione dell’emancipazione e del contrasto all’oppressione.

Del resto, abbiamo avuto una testimonianza recentissima: innumerevoli le segnalazioni indignate sull’errore a proposito di Verga nella prova di italiano dell’esame di Stato, quasi inesistenti quelle sulla consegna in merito all’iperconnessione, che rendeva invece evidenti la subalternità culturale e l’assenza di autentiche capacità critiche sia degli autori del testo citato sia dei selettori del medesimo.

 




L’esame di stato: valutare le “varie ed eventuali

di Stefano Stefanel

L’accoglienza che questo 2022 sta dando al ritorno dell’esame di stato conclusivo dei due cicli in presenza e con i compiti scritti dimostra come nell’immaginario collettivo nazionale questo sia comunque un momento di passaggio ritenuto fondamentale. Il fatto che sia un esame stressante, contenutistico, ma privo di qualsivoglia selettività, non lo sminuisce nella sua portata sociale e culturale. Dunque facciamo i conti con questo esame, che la pandemia non è riuscita a seppellire, insieme al suo nozionismo, ai suoi stanchi rituali, al suo essere totalmente inutile nel definire orientamenti ormai a tutti già noti.

Il fatto, poi, che sia un rito necessario dice, una volta di più, che deve essere preso sul serio e analizzato come fonte pedagogica primaria almeno degli anni conclusivi del ciclo di studi. Se l’esame finale del primo ciclo è enciclopedico e inutile e condiziona probabilmente solo la parte conclusiva del terzo anno, l’esame di stato nel secondo ciclo invade tutto il triennio e produce una sorta di cappa pedagogica da cui praticamente nessuno vuole uscire o nessuno nemmeno fa finta di voler uscire. Pagati, pertanto, i dovuti debiti ad un rito popolare che costituisce uno degli elementi distintivi del passaggio di età, va, però, considerata, la sua lateralità rispetto a quello che si fa normalmente nelle scuole. Sembra, infatti, che gli studenti studino una cosa e poi nell’esame di stato vengano verificati su altro. L’impressione è che sarebbe come se una squadra si allenasse durante la settimana a giocare a pallacanestro, ma poi la domenica partecipasse al campionato di calcio.

Molta passione nell’opinione pubblica la determinano le tracce della prima prova di italiano, uguale per tutti. E’ una prova che costituisce in prima battuta uno sfoggio di cultura di coloro che la predispongono, dato che producono un’antologia di proposte con molte tracce di difficile lettura. Questo esercizio di lettura di un’antologia di testi, di scelta del testo da analizzare/commentare, di redazione scritta costituisce un unicum nella vita dello studente. Dal punto di vista pedagogico è interessante notare, però, come lo studente nel suo percorso normale venga “interrogato” su contenuti e metodi legati alla disciplina, e come, nel frattempo, si costituisca una sua struttura di pensiero attraverso l’informale e poi debba farci sopra un tema (o un saggio breve). Poiché non conosco uno studente che durante l’anno sia stato invitato a colloquiare su un argomento di attualità e poi ne abbia ricevuto un voto, mi sembra che qui si raggiunga l’apice della pedagogia creativa, valutando qualcosa su cui la scuola non ha nulla da dire, relegando l’attualità ai compiti in classe di italiano o al compito dell’esame di stato.

Questo rapporto tra una scuola che insegna il formale e che poi valuta l’informale è molto interessante, anche se forse pedagogicamente scollegato dall’idea di fondo per cui l’apprendimento comunque tende a passare, per lo più, dall’insegnamento. Fa dunque stupore questa tenerezza italiana per le “varie ed eventuali” che servono a valutare uno studente che ha studiato ed è stato interrogato su altro.
Qualche tempo fa, all’inizio delle pandemia, avevo suggerito di trasformare, anche con l’uso del digitale, l’interrogazione (a domanda risponde o anche “fatti la domanda da solo e risponditi”) in un colloquio colto tra due soggetti non equo-ordinati (l’insegnante e lo studente), che però condividono le basi qualificanti del discorso. Vedo che si è andati nella direzione opposta e che le interrogazioni sono tornate prepotentemente alla ribalta anche con distanziamenti e mascherine. Rimane però questo scarto tra ciò che viene insegnato di ogni disciplina e la richiesta che lo studente si eserciti con senso critico e autonomo, che però nessuno tiene in grande considerazione se non durante questi famosi scritti. Trasformati in articolisti di fondo o saggisti da elzeviro gli studenti dimostrano di apprendere altrove anche ciò che non viene loro insegnato a scuola (l’argomento musicale, che ha fatto felici tutti, non ha prodotto mai un voto durante l’anno).

L’opinione pubblica è simpaticamente colpita da questi testi di giugno, salvo poi disinteressarsi di una scuola che insegna e verifica – per tutto il resto del tempo – su contenuti, ma alla fine valuta lo studente su altro che, evidentemente, lo studente ha imparato da sé. Pensare però di trasformare degli studenti in saggisti con qualche compito in classe è ritenere che tutto ciò che non è direttamente insegnato sta nelle “varie ed eventuali” in cui ognuno può dire quello che gli pare attingendo dove ritiene più opportuno.
Pascoli e Verga antologicizzati sono dunque la foglia di fico dell’operazione di superficializzazione del sapere, laddove lo studente deve prepararsi  su un argomento, ma poi viene valutato su opinioni, anche non supporate da adeguate citazioni. Il fatto, poi, di affrontare un argomento con le sole carta e penna, senza poter accedere direttamente alle fonti per citarle, dice soltanto che si vuole insegnare ad essere “saggisti” nel modo sbagliato, perché quello giusto è scrivere con le fonti sott’occhio, non andando a ricordo (unici casi in cui perdoniamo il “ricordo” sono quelli di Gramsci e Pirenne, che hanno scritto dal carcere e quindi, non avendo le fonti sott’occhio, sono dovuti andare a memoria).

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Il colloquio su cui si chiude l’esame di stato è un altro esempio di “varie ed eventuali” fatte sistema. Nel corso dell’anno lo studente non viene mai interrogato nell’ambito di un colloquio interdisciplinare. Si fanno delle simulazioni, ma giusto per scriverlo nel documento programmatorio finale. In realtà le discipline rimangono sempre ben distinte, per cui quando improvvidamente nell’esame appaiono in forma multidisciplinare o interdisciplinare si assiste al via vai dei collegamenti, alle strane sinergie, alle affinità elettive mai venute in mente a nessuno. Anche in questo caso la scuola verifica in un modo, l’esame finale in un altro. Ciò vale anche per i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) di cui lo studente non parla mai in classe o con i suoi docenti, salvo che all’esame di stato.

In sintesi mi pare che la gioia per il ritorno dell’esame di stato in presenza e degli scritti sia un’ineludibile richiesta restaurativa di qualcosa che costituisce un vero e proprio tratto distintivo dell’italianità, laddove questo rito di passaggio è una sorta di iniziazione necessaria. Nel generale entusiasmo anche mediatico per l’esame mi pare stia sfuggendo la pedagogia e la sua richiesta di un certo rigore processuale. Personalmente toglierei le interrogazioni dalla scuola e le lascerei solo alla loro ineludibile trasformazione in interrogatorio nei tribunali e sposterei tutto sul concetto di colloquio: ma sempre, non solo all’esame. Trovo molto utile che gli studenti dialoghino sull’attualità, sui problemi, sulla cultura, su Pascoli e Verga (o Caproni), ma vorrei che questo fosse il sistema, non il lampo di giugno. Trovo plausibile che le materie di indirizzo vengano testate in rapporto alle reali competenze acquisite. Ma vorrei qualcosa di più strutturato e organico di un esame sulle “varie de eventuali” alla fine di una scuola legata a rigidi ordini del giorno (le materie) così come le ha codificate Gentile al tempo del fascismo. La pandemia e la risposta della scuola a quella tragedia mi avevano fatto sperare nella ricerca di una nuova linea pedagogica. Il flusso mediatico dei pensieri (oramai tutti resi pubblici, questo incluso) mi fa ritenere che si continuerà ad essere valutati durante l’anno sulla battaglia del grano e nell’esame di stato su qualcos’altro di cui in classe non si è riusciti a parlare mai perché si doveva ascoltare la lezione sulla battaglia del grano. Non ho grande passione per le nozioni e il nozionismo testato da domandine, ma non credo si possano eliminare i problemi della pedagogia e dell’apprendimento con esami finali fatti sulle “varie ed eventuali”.




Istruzione: un nuovo contratto sociale

di Giovanni Fioravanti

La vulnerabilità era un sentimento privato frutto delle nostre fragilità biografiche, ora, dopo la pandemia e con la guerra alle porte di casa, è divenuto un sentimento collettivo che insieme all’incertezza per il futuro ha investito sempre più il nostro presente.

L’UNESCO ne ha fatto il tema dominante del suo ultimo rapporto: Reimagining our futures together: A new social contract for education”.
Reimmaginare il futuro e per questo è necessario un nuovo contratto sociale per l’istruzione, un’istruzione che è ancora troppo fragile come ha dimostrato la pandemia, durante la quale 1,6 miliardi di studenti in tutto il mondo è stato privato della scuola.

Sono 75 anni, da quando è stata fondata, che l’UNESCO produce i suoi rapporti per ripensare il ruolo dell’istruzione nei momenti chiave della trasformazione della società.
Dal rapporto della Commissione Faure del 1972 Learning to Be: The World of Education Today and Tomorrow, al rapporto della Commissione Delors nel 1996, Learning: The Treasure Within.
Di fronte a gruppi di insegnanti e associazioni che ancora sfornano manifesti per rivendicare il passato anziché il futuro, per difendere cattedre e discipline, viene da chiedersi quanto i professionisti dell’istruzione nel nostro paese possano essere culturalmente sensibili agli stimoli che il nuovo rapporto dell’Unesco fornisce, siano disponibili a ridiscutere le presunte certezze fin qui accumulate.

Il sistema va rivisto, ed è urgente, perché l’istruzione è questione che non riguarda più solo la nostra classe, il nostro paese, è questione mondiale e quando saliamo in cattedra non è che la porta dell’aula si chiude al mondo, al contrario si apre al mondo e di questo come insegnanti portiamo la responsabilità. Ma non sembra esserci sintonia tra tanta parte degli insegnanti delle nostre scuole e la necessità per il futuro che le nostre aule e le nostre scuole non solo siano costruite, ma soprattutto vissute in modo diverso.

Si parla di istruzione come se i paradigmi non fossero cambiati, come se l’istruzione permanente praticata come richiesto dai documenti dell’Unesco non avesse dovuto rimettere  in discussione tutto l’assetto dei nostri sistemi formativi e il ruolo professionale dei docenti.
Ora l’Unesco suggerisce di fondare l’istruzione su un nuovo contratto sociale il cui punto di partenza sia una visione condivisa degli scopi pubblici dell’educazione a partire dai principi fondamentali e organizzativi che strutturano i sistemi formativi, il lavoro per costruirli, mantenerli e perfezionarli.

Nel corso del XX secolo, l’istruzione pubblica è stata essenzialmente finalizzata a sostenere la cittadinanza nazionale e lo sviluppo della scolarizzazione di massa attraverso l’istituzione della scuola dell’obbligo. Oggi, tuttavia, mentre affrontiamo gravi rischi per il futuro dell’umanità e per lo stesso pianeta, dobbiamo reinventare urgentemente l’istruzione per poter affrontare le sfide comuni. Il diritto all’istruzione, come sancito dall’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non è più sufficiente. Deve continuare ad essere il fondamento del nuovo contratto sociale per l’istruzione ma occorre arricchirlo, ampliarlo al diritto all’informazione, alla cultura e alla scienza, nonché al diritto di accedere  alla conoscenza, alle risorse del patrimonio di conoscenza collettiva dell’umanità accumulato nel corso delle generazioni che si sta trasformando continuamente.

Sostenibilità, conoscenza, apprendimento, insegnanti e insegnamento, lavoro, abilità e competenze, cittadinanza, democrazia e inclusione sociale, istruzione pubblica, istruzione superiore, ricerca e innovazione costituiscono le voci vertiginose della lista, i temi critici che richiedono di essere profondamente ripensati per il futuro.

Il rapporto dell’Unesco guarda al 2050 ponendo tre domande essenziali relative all’istruzione: Cosa continuare a fare? Cosa abbandonare? Cosa inventare di nuovo in modo creativo?

Non dà risposte, ma fornisce le coordinate per pensare in modo diverso all’apprendimento, alle relazioni tra studenti e insegnanti, alla conoscenza e al mondo.
Didattica, curricoli, valutazione, insegnanti e insegnamento, scuole, opportunità educative, ricerca e innovazione.
Nulla di nuovo, ma dovremmo metterli nero su bianco, dare loro la consistenza di un nuovo contratto sociale, un riconoscimento normativo da cui non è possibile prescindere per chi mette piede nelle nostre scuole, nelle scuole di un nuovo contratto per l’istruzione.
Deve essere prescritto che a scuola istruzione e apprendimento si praticano attraverso la cooperazione, la collaborazione e la solidarietà, attraverso la compassione e l’empatia, la capacità di lavorare insieme, di immaginare e di trasformare il mondo, la cultura e il sapere per promuovere le capacità intellettuali, morali e sociali di ragazze e ragazzi. Deve essere prescritto che a scuola si va anche per disimparare, disimparare pregiudizi e divisioni, disimparare le lezioni ex cattedra, i compiti e i voti, per apprendere invece a valutare come promuovere la crescita  e l’apprendimento significativo per ogni studente.

Curricoli per contrastare la diffusione della disinformazione attraverso alfabetizzazioni scientifiche, digitali e umanistiche che sviluppino la capacità di distinguere la falsità dalla verità. Enfatizzare l’apprendimento ecologico, interculturale e interdisciplinare in modo da supportare gli studenti nell’accedere e nel produrre conoscenza, sviluppando allo stesso tempo la loro capacità di critica e di applicazione. I programmi di studio devono abbracciare una comprensione ecologica dell’umanità (già Edgar Morin ci invitava a questo) che riequilibri il modo in cui ci relazioniamo con la Terra come pianeta vivente e nostra casa. Cittadinanza attiva e partecipazione democratica devono essere promossi e praticati nei contenuti, nei metodi e nelle politiche educative.

Reimagining our futures dell’Unesco propone un profilo professionale dell’insegnante come produttore di conoscenza e figura chiave della trasformazione educativa e sociale.
Ma l’insegnante reimmaginato per il futuro non è quello che siede in cattedra e chiude la porta dell’aula. Al contrario la collaborazione e il lavoro di squadra devono caratterizzare la professione docente, la riflessione, la ricerca e la creazione di conoscenze e nuove pratiche pedagogiche debbono diventare parte integrante dell’insegnamento.

Occorre valorizzare pienamente l’autonomia e la libertà dei professionisti dell’istruzione,  che non possono continuare ad essere muti spettatori, ma farsi attori pienamente protagonisti partecipando al dibattito pubblico e al dialogo per il futuro dell’istruzione.
Le architetture scolastiche, gli spazi, gli orari, i gruppi di studenti devono essere riprogettati per incoraggiare e consentire alle persone di lavorare insieme, per affrontare sfide ed esperienze non possibili altrove, le tecnologie digitali devono mirare a supportare e non sostituire le scuole.

Scuole come siti educativi protetti, grazie all’inclusione, all’equità e al benessere individuale e collettivo che ne costituiscono la ragione d’essere. Scuole reinventate per promuovere al meglio la trasformazione del mondo verso un futuro più giusto, equo e sostenibile.
Il diritto all’istruzione deve essere ampliato per durare tutta la vita e comprendere il diritto all’informazione, alla cultura, alla scienza e alla connettività.

Un invito alla ricerca e all’innovazione. Le università e gli istituti di istruzione superiore devono essere attivi in ​​ogni aspetto della costruzione del nuovo contratto sociale per l’istruzione nelle loro comunità e in tutto il mondo. Università creative, innovative, impegnate a rafforzare l’istruzione come bene comune hanno un ruolo chiave da svolgere nel futuro dell’istruzione, dal sostegno alla ricerca, al progresso della scienza, all’essere  partner che contribuiscono all’arricchimento e all’aggiornamento dei programmi educativi nelle loro comunità.

È essenziale che tutti possano partecipare alla costruzione del futuro dell’istruzione: bambini, giovani, genitori, insegnanti, ricercatori, attivisti, datori di lavoro, leader culturali e religiosi. Abbiamo tradizioni culturali profonde, ricche e diversificate su cui costruire. Gli esseri umani hanno una grande capacità di azione collettiva, intelligenza e creatività da spendere. Ora ci troviamo di fronte a una scelta seria: continuare su una strada insostenibile o cambiare radicalmente rotta.

Tornando alla scuola di casa nostra, ce n’è quanto basta per reimmaginare il nostro futuro e scrivere un nuovo contratto sociale per l’istruzione, ma a guardarci attorno mancano le parti che sembrano guardare altrove o comunque incapaci di trovare la rotta da seguire. L’Unesco ce ne offre una. La speranza è che da qualche parte non ci si limiti a procacciarsi l’etichetta di patrimonio dell’umanità, ma si leggano anche i rapporti dell’Unesco che suggeriscono come far crescere per il futuro il patrimonio umano di cui portiamo la responsabilità.




La luna e il dito (lettera aperta ai ministri Bianchi e Messa)

di Cinzia Mion

Recentemente è scoppiata una grande polemica a proposito di dati divulgati da “Save the children” intorno alla percentuale dei ragazzini che alle prove Invalsi, e non solo, risulta non siano in grado di comprendere il senso di quello che leggono.
Sembra si tratti di una notizia falsa, gonfiata nei numeri. La polemica all’inizio è divampata su queste presunte fake news.
Poi, più giustamente, si è sviluppata intorno alle conseguenze che potrebbero avere queste notizie se rapportate alla interpretazione conseguente: se da tempo la scuola pubblica non riesce a colmare queste lacune che, ai fini del raggiungimento del senso completo di “cittadinanza” sono basilari, allora bisogna sostenerla dall’esterno…
Se la causa è la cosiddetta “povertà educativa” ecco pronto a farsi avanti il terzo settore, visto che ci sono in vista degli stanziamenti considerevoli del PNRR . La vecchia volpe di Andreotti diceva “a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca…!”

Un ottimo pezzo di Missaglia nel sito di Proteo illumina questa possibile deriva insistendo giustamente sul fatto che non si tratta di “povertà educativa” ma si tratta di necessario ed impellente cambiamento della scuola ma non “aggiungendo” qualcosa dall’esterno bensì “costruendo ponti e alleanze virtuose con chi è interessato davvero al cambiamento della scuola e soprattutto modificando in profondità l’assetto, il funzionamento, l’organizzazione e i contenuti della didattica”
Allora io aggiungo: carissimo Dario Missaglia , carissimi Ministri dell’Istruzione Bianchi e dell’Università e della Ricerca M.C. Messa, cominciamo dalla base. A me hanno insegnato che se qualcosa non va, il percorso va rivisto dall’inizio.

a) Sappiamo tutti che il sistema universitario frettolosamente definito “3+2” non funziona.
Interrogati singolarmente i docenti universitari lo ammettono, salvo poi ammutolire come pesci di fronte al rischio di un cambiamento “che non si sa mai se può comportare qualche rischio che non vogliono correre”.
Il primo modulo dei tre anni per la cosiddetta laurea breve fa acqua da tutte le parti. I corsi universitari con la denominazione infelice di “numeri ascrivibili a crediti” ( sarò vecchia ma questa terminologia mi fa rabbrividire) hanno ridotto le università ad esamifici. Diciamolo una volta per tutte fuori dai denti. Le dispense su cui si studia e le tesine con cui ci si laurea sono ridicole. Sono i ragazzi stessi e i loro genitori ad ammetterlo. Cosa aspettiamo a riformare questo scempio?

b)  Cosa aspettiamo ad includere nel corso di studi per la formazione iniziale la vecchia psicopedagogia, chiamata oggi “ Psicologia dell’apprendimento”, che è l’unica fonte scientifica che ci offre la padronanza della metodologia e della didattica che userò perché mi permette di acquisire le chiavi di lettura per interpretarne l’incisività, rispetto alla finalità che intendo raggiungere: è la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, c’è un saggio fondamentale di tale disciplina più recente dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio. Vi dicono qualcosa questi nomi, ascrivibili al periodo che Dario Missaglia nomina come ricco di “energia sociale” , quello degli anni 70? (anche se il saggio in questione è del 1995).
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per capire il SENSO di ciò che si legge!

c) Moltiplichiamo perciò al più presto le cattedre di psicologia dell’apprendimento prima che perdiamo “il testimone” e riformuliamo i piani di studio. Apriamo il cantiere della formazione iniziale per tutti i docenti: solo così possiamo sperare di salvare la scuola. Credo che una volta assaporato il vero “senso” di cosa significa l’insegnamento, per poter sollecitare l’apprendimento autentico per “tutti”, non sarà necessario escogitare premi e specchietti per le allodole per sollecitare il bisogno di formazione. Saranno i docenti a chiederla e senza voler essere remunerati per questo, (naturalmente potendo allora godere di uno stipendio adeguato e non di uno residuale tipico di un lavoro di seconda scelta) recuperando così la dignità della loro professione.
Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al DITO!