Il principio di educabilità e il diritto dell’allievo di “fare resistenza”

di Raimondo Giunta

Attenersi al principio di educabilità significa pensare che qualsiasi alunno è capace di fare meglio di quanto non sembri e di quanto non abbiamo creduto.

Significa pensare che tutti hanno il diritto di essere educati nei tempi e con i modi più congeniali alle loro attitudini.
E’ il principio che dà sostanza e giustificazione all’esistenza dei sistemi di istruzione.
Succede a volte che l’alunno si collochi in posizione ostile o indifferente rispetto all’insegnamento; l’educatore, in questi casi, deve chiedersi per quali motivi avvenga e non dovrebbe cercare violare questa resistenza.
L’educazione è condivisione, non violenza; è chiamata, non costrizione. Si agisce sulle cose, non sulle persone: nell’educazione, pertanto, è possibile che l’insegnante faccia esperienza della propria impotenza.

L’educabilità si deve misurare con l’impossibilità, anzi con il divieto di condizionare il soggetto in apprendimento, che ha tutto il diritto di poterci sfidare con il suo rifiuto, con la sua opacità, con la sua avversione.
Mettere al centro l’alunno vuol dire anche questo.
La buona pedagogia ci ricorda il diritto dell’alunno alla sua irriducibilità ai tentativi di seduzione di condizionamento, di manipolazione.
Non promette di fare miracoli.

L’educazione, proprio per questi motivi, è un percorso accidentato e avventuroso sul cui esito felice non ci sono certezze e non si possono fare scommesse: bisogna misurarsi con le contestazioni, con gli ostacoli e con i rifiuti; bisogna mettersi sempre in discussione e solo così si potrà sperare nel successo formativo.

Il desiderio di apprendere e la perseveranza nell’impegno dell’alunno senza dubbio dipendono dal lavoro dell’insegnante e dalla sua capacità di instaurare una relazione educativa “rassicurante” e motivante; dipendono dalla sua quotidiana testimonianza di proporsi come esempio di ricerca e di amore del sapere.
“Se mai qualcuno ti avrà educato, non sarà stato con le sue parole, ma col suo esempio”(Pasolini).
L’azione educativa per le emozioni molteplici che suscita, per la disparità di statuto dei partners in causa, per le poste in giuoco supposte o reali, è un’esperienza che resiste a molti tentativi di razionalizzazione, verso i quali ci si deve dotare di un sovrappiù di precauzione e forse di preoccupazione.

Non c’è niente di peggio per la ragione degli eccessi razionalistici.
“L’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione”(E.Morin).
Una concezione puramente funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante ad un semplice impiegato; l’accezione esclusivamente professionale lo riduce ad esperto.
I giovani hanno bisogno di adulti umanamente significativi che sappiano parlare alla loro mente e al loro cuore, di docenti che sappiano dar vita al sapere trasformandolo in risorsa per risolvere problemi e per vivere meglio.
L’educatore è paziente davanti l’errore e lo trasforma in una risorsa per la crescita dell’alunno; ascolta con attenzione i ripensamenti e i dubbi e incoraggia, perchè la difficoltà è superabile e il problema può essere risolto, perchè l’alunno ne è capace e prima o poi ne verrà fuori.

Nell’insegnamento bisogna coniugare il rigore della professionalità e la benevolenza del’amico, doti umane indispensabili per rispettare il principio di educabilità delle persone. Nell’educazione ci vogliono più certezze morali che scientifiche: ogni pratica pedagogica sottintende una concezione dell’uomo oltre quella dell’apprendimento e rinvia all’etica della convinzione e all’etica dell’autenticità; ogni insegnante in classe propone, a volte inconsapevolmente, un modello educativo in cui le conoscenze professionali si intrecciano con criteri di valore.
E’ un dovere renderli espliciti e commisurarli al rispetto dei diritti dell’alunno ad una buona formazione. Per educare bisogna agire in classe come comunità morale, come comunità democratica, come comunità di apprendimento.

 

 




Docente esperto, ovvero la scuola basata sulla competizione

di Cristiano Corsini

L’idea di scuola dietro la trovata del “docente esperto” ha il privilegio di essere chiara e orecchiabile. È un’idea basata sulla competizione: chi insegna è disposto a migliorarsi se potrà guadagnare di più e primeggiare su un gruppo, conquistando sul campo soldi e status.
Si tratta di un’idea di scuola molto diffusa nell’opinione pubblica. Non a caso chi la difende sostiene che in molti altri ambiti lavorativi le cose stanno esattamente così.
Perché nella scuola non dovrebbe funzionare?

Ora, ammesso e non concesso che in altri ambiti questo approccio funzioni davvero (non sono in grado di stabilirlo, ma immagino che in alcuni casi funzioni di più, in altri di meno, in altri non funzioni affatto), il problema è che in campo educativo l’approccio cooperativo è più efficace rispetto a quello competitivo.
Una delle cose che ho imparato nel corso del mio dottorato di ricerca sull’efficacia scolastica è che le scuole che funzionano meglio sono quelle che hanno una cultura comune. Si tratta di scuole che hanno costruito tale cultura attraverso una condivisione di pratiche incentrata sull’idea che a problemi comuni si forniscono risposte comuni. Queste scuole esistono e non rappresentano nulla di utopistico, hanno anzi i loro problemi, ma li affrontano mettendo alla prova dell’esperienza (sperimentando e imparando) soluzioni condivise da più docenti che tra loro cooperano piuttosto che competere. E, attenzione, la cooperazione non esclude affatto la differenziazione, anzi. Esclude però la competizione.

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Dunque, se davvero vogliamo migliorare la qualità delle nostre scuole, ci sono soluzioni più efficaci rispetto alla corsa dei cavalli.
Tuttavia, temo davvero che la trovata del “docente esperto” venga perseguita dalla politica scolastica con la stessa infausta e bovina solerzia che ha già caratterizzato altre soluzioni chiare, semplici e sbagliate imposte a scuole e docenti negli ultimi decenni.
Ps. Talvolta, chi difende la trovata del “docente esperto” mi fa notare che nel campo dell’istruzione c’è già un’istituzione che differenzia notevolmente i ruoli di chi insegna, ovvero l’università.
Siccome in università ci lavoro, non posso che confermare. Tuttavia, la distinzione dei ruoli in università non ha nulla a che fare con la qualità della didattica. Un professore ordinario (un professore di prima fascia) non ha raggiunto il suo status in virtù della sua qualità di docente. Molto semplicemente, è diventato professore ordinario perché è stato selezionato in virtù delle sue pubblicazioni scientifiche. La didattica in questa procedura selettiva non c’entra nulla, sebbene possa aver avuto un peso nella selezione iniziale, ovvero quella procedura che, anni fa, consentì a chi oggi è professore ordinario di diventare ricercatore. Ma in quel caso si tratta di un parametro esclusivamente quantitativo (“numero di corsi erogati”), che con la qualità della didattica non ha nulla a che vedere.
D’altro canto, è sufficiente farsi un giro tra le studentesse e gli studenti: il più delle volte non si accorgono minimamente della differenza, proprio perché dal punto di vista della qualità della didattica non v’è alcuna soluzione di continuità, e chiamano con lo stesso termine – “professore” – il docente a contratto, il dottorando, il cultore della materia, l’assegnista di ricerca, il ricercatore a tempo determinato, il ricercatore a tempo indeterminato, il professore associato (II fascia), il professore ordinario (I fascia).
In università la differenziazione competitiva non risponde all’esigenza di migliorare la didattica.




Jerome Bruner: Il Conoscere, saggi per la mano sinistra

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

Introduzione
Sono tra coloro che ritengono Bruner uno dei quattro titani, insieme a Freud, Piaget,
Vygotskij, che il secolo scorso ci ha donato nel campo della conoscenza.
“Come conosciamo” è tema ancora trascurato, nonostante la scuola sia l’istituzione in
cui si apprende a conoscere. Ci occupiamo di come educhiamo, di come istruiamo, ma poco di come conosciamo, e qui non da un punto di vista psicologico.
La prima opera di Bruner pubblicata in Italia da Armando Armando nel 1964 è Dopo
Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture.
Bruner lo scrive dopo aver partecipato alla Conferenza di Woods Hole con la quale gli
Americani convocano nel Massachussetts, nel 1959, i maggiori scienziati e studiosi in
tutti campi per mettere in discussione i propri programmi scolastici preoccupati di
essere superati dai Sovietici che avevano lanciato nello spazio lo Sputnik.
Con il suo “Dopo Dewey” Bruner smonta il Mio credo pedagogico di John Dewey,
compiendo lui sì un’autentica rivoluzione copernicana e non già l’illustre filosofo
americano.
Non più la scuola come luogo di trasmissione del sapere per partecipare
alla cultura della propria specie, come sosteneva l’atto di fede deweyano, ma la
scuola come istituzione in cui si apprende a conoscere, come luogo di negoziazione
della conoscenza.
È sul tema della conoscenza che si esercita il mestiere dell’istruzione e
dell’apprendimento, non come si trasmette, ma come si accede al sapere.

Di qui i temi di fondo della teoria dell’istruzione di Bruner che si muove tra
strutturalismo e costruttivismo. L’importanza della scoperta come modo di avanzare in
un apprendimento che si amplia a spirale, indagando la struttura delle discipline per
rendere autonomo nel viaggio verso la conoscenza ogni singolo studente. La sintesi è
nell’apprendere ad apprendere: learning to learn, learning how to learn, oggi divenuto
patrimonio dell’Europa della società della conoscenza, manifesto dell’apprendimento
permanente.

Lo stato delle nostre scuole

La realtà didattica delle nostre scuole è senza dubbio a macchia di leopardo, accanto
a zone di eccellenza coesistono ancora diverse ombre. Quanto del contributo di
Bruner si sia tradotto nella pratica quotidiana delle nostre scuole non sono in grado di
dirlo.
La mia impressione è che sull’apprendere ad apprendere prevalga ancora
l’insegnamento come trasmissione, ma vorrei sperare di sbagliarmi.
In uno dei saggi di questo libro dedicato alla mano sinistra Bruner introduce due tipi di
insegnamento: l’insegnamento in forma enunciativa e l’insegnamento che si esplica in
forma ipotetica. Due modi opposti del fare istruzione.
Nel primo caso lo studente è colui che ascolta “le decisioni dello speaker”, si direbbe
in linguistica, è l’insegnamento ex cathedra. Nel secondo, nell’insegnamento in forma
ipotetica, l’insegnante e lo studente sono invece in posizione cooperativa. Lo studente
prende parte attiva alle esposizioni e alle formulazioni, e a volte può esplicarvi un
ruolo principale. Può assumere anche un atteggiamento del tipo “come se”.
Interrogativo, che è molto di più del semplice dubbio cartesiano, il “come se” della
mano sinistra che immagina. Perché soltanto la forma ipotetica può caratterizzare
l’insegnamento che incoraggia la scoperta e l’apprendimento a spirale.
Su tutto questo le nostre scuole sono ancora in mezzo al guado, e potrebbe
succedere che riprendere in mano, a cinquant’anni dalla sua pubblicazione in Italia,
un libro come Il Conoscere. Saggi per la mano sinistra porti a scoprire che è ancora
attuale.

Una comunità mitologicamente istruita

Intanto “Il conoscere”, il titolo originale è “On knowing. Essays for the Left Hand”, non
un infinito sostantivato come è stato tradotto in italiano, ma un gerundio presente, non
un punto di arrivo o un atto isolato, ma qualcosa che avviene nel presente con
continuità tra passato e futuro.
Quel gerundio presente è la materia di cui è fatta la scuola di ogni giorno, la materia
che accompagna ogni istante della nostra vita. La conoscenza nel suo manifestarsi,
scorrere e divenire, il compiersi di un’azione, appunto: l’apprendimento.
“Il Conoscere. Saggi per la mano sinistra”. Saggi “occasionali” li definirà più tardi
Bruner, di giorno porta avanti l’indagine psicologica, di notte si occupa di romanzo, di
poesia, di teatro.
Il libro contiene saggi sulla creatività, sul mito, sull’identità, sul romanzo moderno,
sull’arte come modo della conoscenza. Fino al saggio su Freud, colui che più di tutti è
sceso negli abissi della conoscenza per rivelarcene i meccanismi più profondi.
Perché accostare l’arte all’istruzione, al knowing?
Perché scrive Bruner siamo una comunità “mitologicamente istruita”, con una sua
“bussola interna”. Una comunità mitologicamente istruita che è un complesso di
“identità” metaforiche. E qui c’è un richiamo alla lezione nietzschiana per la quale
possediamo soltanto le metafore delle cose, non le entità originali.
Una comunità la cui impalcatura sono i miti, la cultura come grande rappresentazione
che ci consente di riconoscerci nei suoi simboli, miti e metafore.
Nella nostra cultura mano sinistra e mano destra sono simboli e metafora, hanno
sempre ingaggiato tra di loro una discussione aperta e a volte rumorosa,
rappresentando le due culture, quella umanistica e quella scientifica.
Per i francesi à main gauche era il figlio illegittimo. Della mano sinistra noi diciamo che
è impacciata, sebbene sia stato affermato che gli studenti d’arte possono conquistare
una maggiore espressività nel disegno proprio cominciando ad usare la mano sinistra.
La mano destra rappresenta colui che fa, la sinistra colui che sogna. La destra è
l’ordine e la legalità. Cercare la conoscenza con la mano destra è scienza. La mano
sinistra è sentimento, intuizione, illegittimità.
Ma è anche vero che le grandi ipotesi della scienza sono doni che giungono dalla
mano sinistra.
Prendiamo la tastiera di un pianoforte, le note più basse sono a sinistra, in modo che
le note di basso che sono usate principalmente per l’armonia e il tempo siano suonate
dalla mano sinistra e la mano destra affronta la melodia. Entrambe sono necessarie
per una composizione musicale gradevole, così entrambi gli stili di pensiero, quello di
destra e di sinistra, sono necessari per un insegnamento efficace.

La cultura come grande narrazione

Che cos’è la cultura se non una grande narrazione, perché l’uomo ha avuto bisogno di
organizzare il sapere, frutto delle sue esperienze, in una grande narrazione, nel senso
etimologico del termine di conoscere e divenire esperti, una narrazione condivisa, dai
significati negoziati, nella quale riconoscersi come parte di una comunità.
E cosa c’è più potente “dell’economia metaforica” per dare rappresentazione
all’esperienze dell’uomo, l’economia della metafora che si è tradotta in miti e simboli,
in rappresentazioni mentali e in concetti, attraverso i quali pensiamo. I nostri costrutti
mentali, per dirla con la neurolinguistica.
Questa narrazione è la cultura, e la cultura è il DNA della nostra società.
La struttura fondamentale di questa narrazione è il linguaggio, a sua volta una grande
metafora.
Per dirla con Francesco Bacone la mente e la mano possono fare ben poco senza i
sussidi e gli strumenti che li completano: il principale è il linguaggio e le sue regole
d’uso.

Linguaggio e apprendimento

Il linguaggio è lo strumento principale dell’apprendimento a partire dalla lezione di
Pensiero e linguaggio di Vygotskij.
Dal linguaggio emerge la rappresentazione del mondo, veicola la rappresentazione
del mondo, i significati condivisi, il mondo concettuale.
Il linguaggio è lo strumento più potente con cui organizziamo l’esperienza, costruiamo
la “realtà” delle cose.
Il linguaggio è il concentrato massimo di simboli e di metafore per eccellenza, ne è la
sublimazione, è quello attraverso il quale si esprime una cultura, la cultura di una
comunità.
Il linguaggio è uno strumento delicato, la sua attività combinatoria produce effetti sulla
nostra rappresentazione del mondo, sul nostro pensiero, sul nostro stesso modo di
pensare.
La mano sinistra combina simboli e metafore, la mano sinistra è quella del “come se”,
il pensiero ipotetico che fa progredire arte e scienza, perché poi la destra organizza la
nuova esperienza nella narrazione che si fa cultura.
Ma le combinazioni del linguaggio condizionano il nostro modo di vedere e di
interpretare il mondo. Il linguaggio è strumento dell’insegnamento estremamente
delicato e su questo dobbiamo riflettere per come arrivano i nostri messaggi e come
essi possono condizionare la rappresentazione della realtà e i modi di pensare di chi
ci sta di fronte.
Il linguaggio è l’esempio di come gli stessi simboli, con gli stessi identici significati
possono combinare rappresentazioni differenti della realtà.
Si pensi alla frase “La borsa crollò, il governo diede le dimissioni” e come utilizzando
gli stessi simboli, le stesse metafore, ma combinandole in modo differente la
rappresentazione della realtà immediatamente cambi: “Il governo diede le dimissioni,
la borsa crollò”.
È l’arte combinatoria della cultura umanistica, l’arte combinatoria della mano sinistra
conduce secondo Bruner alla “verità illuminante”, alla “sorpresa produttiva” senza le
quali la grande narrazione della cultura non potrebbe avanzare, come la scienza non
potrebbe progredire.

Henry Moore ricorre ai buchi nelle sue sculture per risolvere un problema
squisitamente tecnico: dare un senso tridimensionale alle forme solide.
“Il buco connette un lato con l’altro rendendo un corpo immediatamente più tridimensionale”.
Un vuoto, un togliere per aggiungere. L’attività combinatoria della mano sinistra come
momento cruciale della creazione. Ecco la verità illuminante, la sorpresa produttiva.
Come sorpresa produttiva e verità illuminante ritornano nella tenerezza di madre e
figlio che esprime La Virgen Blanca, scultura gotica del XIV secolo conservata nella
cattedrale di Toledo. Non c’è un sacro più umano capace di rappresentare l’amore tra
madre e figlio di questo, costruito con l’abile artificio dell’uso del sorriso e della
delicatezza delle mani, fino alla mano del bimbo che accarezza il mento della madre.
Ma per Bruner è anche opera d’arte, frutto dell’attività combinatoria della mano
sinistra:
E=mc²
è probabilmente la più famosa formula della fisica, grazie all’intreccio di novità,
semplicità ed eleganza.
Il 1905 è l’anno mirabilis di Albert Einstein, fino ad allora tutti pensavano che la massa
e l’energia fossero due realtà fisiche molto diverse, completamente separate e senza
punti di contatto. Ma Einstein comprende che queste due realtà fisiche,
apparentemente così diverse, sono in verità strettamente legate da un valore
numerico molto preciso: il quadrato della velocità della luce nel vuoto (c²).
Questa geniale e semplice formula, che all’epoca risultò assolutamente rivoluzionaria,
stabilisce che massa ed energia sono equivalenti, come se fossero le due facce della
stessa “medaglia”.
La mano sinistra porta alla mano destra, il pensiero narrativo al pensiero
paradigmatico della scienza.

La metacognizione

Per Bruner compito dell’istruzione è “andare a meta”, non nel senso del rugby, ma
inteso come “metacognizione”. L’apprendimento come luogo della metacognizione. Il
“Knowing”, gerundio presente che si inoltra nelle strutture della conoscenza. La
conoscenza che indaga, che riflette su se stessa.
La scuola come luogo in cui si apprende a gestire il linguaggio quale potente
strumento simbolico della cultura, come luogo della metacognizione per eccellenza,
perché solo attraverso la metacognizione si può andare alla ricerca di sorprese
produttive, di verità illuminanti. Perché è attraverso la metacognizione che si può
giungere a scoprire come si è prodotta la grande narrazione e come essa si può
ricreare.
La questione di come sono organizzate conoscenza ed esperienza nella molteplicità
delle loro forme è come il ponte di pietra che il Marco Polo di Calvino descrive al
Kublai Kan. Qual è la pietra che sostiene il ponte chiede il Kublai Kan, e Marco
risponde che il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, ma dalla linea
dell’arco che esse formano. Kublai allora protesta, rimproverando Marco di parlargli di
pietre quando a lui è solo dell’arco che importa. Marco gli risponde che senza pietre
non c’è arco.
Ecco, la metacognizione è l’insieme delle pietre che formano l’arco, e la scuola serve
non per apprendere l’arco ma l’insieme delle pietre che consentono di disegnare
l’arco.

La caduta del Mito

La mano sinistra espressione di una comunità “mitologicamente istruita”, una
comunità di “identità metaforiche”.
Cinquant’anni fa Bruner prendeva atto che questa comunità aveva distrutto i suoi miti,
perduto il suo filo d’Arianna, si è persa nel labirinto.
Il bisogno di mito è rimasto inappagato, rimpiazzato dalle mode.
Scienza, tecnologie e globalizzazione non sono sufficienti a dare risposte, soprattutto
sul piano della creatività dell’arte.
La cultura stessa è un testo ambiguo, che ha costantemente bisogno d’essere
interpretato da coloro che ne fanno parte.
Non si è comunità se non si condividono i significati, e la condivisione risiede nella
negoziazione interpersonale.
La cultura è sempre più come un forum: un processo di continua costruzione e
ricostruzione, di metacognizione in cui gli individui non sono spettatori, ma
protagonisti.
Tutto questo è richiesto dalle continue sfide del presente e dal futuro che non ci è dato
di sapere come sarà.
Il tempo delle certezze è finito, il nostro tempo è l’incertezza. Non abbiamo bisogno di
saperi dati ma di strumenti per costruire i saperi futuri.
Il luogo in cui ci si prepara, non per adattarsi alla società, ma per affrontare il futuro è
la scuola.
La scuola come luogo del forum della cultura, la scuola dei progetti, la scuola
laboratorio che cozza con l’idea che il processo educativo consista in una
trasmissione di conoscenze da chi sa di più a chi sa di meno, da chi è più competente
e chi lo è di meno, da chi è preparato a chi è impreparato alla vita.

La pedagogia chirurgica

La pedagogia che ne scaturisce è una pedagogia chirurgica che concepisce
l’insegnamento come un intervento chirurgico, un’operazione volta a sradicare,
sostituire o colmare una lacuna.
Ma noi veniamo da un secolo di Freud, Piaget, Vygotskij, che hanno posto in risalto il
bambino che impara, i suoi bisogni di individuo autonomo che apprende, un’enfasi
destinata ad avere un’importanza straordinaria.
Freud ha contribuito a mettere in risalto l’autonomia di funzionamento dell’io, il suo
affrancamento dagli impulsi eccessivi e conflittuali. Piaget ha accentuato
l’apprendimento come invenzione. Vygotskij il processo sociale di negoziazione del
significato.
Quello che deriva è che quello dell’adattamento è un ideale troppo modesto,
ammesso che possa essere ritenuto un ideale.
L’educazione non più come mezzo di adattamento alla società, ma come mezzo
fondamentale della trasformazione della società. E qui dobbiamo dire che il
meccanismo si è inceppato.
Come crescere una generazione nuova che sappia impedire al mondo di dissolversi
nel caos e nell’autodistruzione, recuperare il suo filo d’Arianna.
Il linguaggio dell’educazione è il linguaggio dell’arte, della mano sinistra e della mano
destra che suonano insieme lo stesso spartito, è il linguaggio della creazione di
cultura, non solo dell’acquisizione o del consumo della conoscenza.
L’archetipo non è Edison quale geniale inventore, ma è Einstein quale potente
pensatore. “Come se”, la mano sinistra.
Una scuola che a partire dalla mano sinistra sappia creare pensiero, predisporre il
terreno alla mano destra. Non è dell’eros, della passione di un insegnante in grado di
emozionare gli studenti, che abbiamo bisogno, ma di una scuola in grado di
coinvolgere il pensiero, in grado di far funzionare la “mente a più dimensioni” per dirla
con Bruner.
Quando Manet affermò che “la natura è solo un’ipotesi”, non poteva certo farlo nella
prospettiva popperiana. Era il suo un grido di battaglia contro la pretesa del
figurativismo accademico di costituire l’unica maniera, e anche la più giusta, di
rappresentare pittoricamente la natura. Era un invito a creare una molteplicità di
ipotesi diverse e perfino provocanti.
È il compito implicito della mano sinistra e della necessità che ha la mano destra delle
attività di tipo umanistico che consentono di creare e sviluppare ipotesi.

Una teoria dell’istruzione

L’uomo è un membro della cultura che eredita e poi ricrea. Il potere di ripensare la
realtà, di ripensare la cultura è il punto di partenza di una teoria dell’istruzione.
È necessario che la scuola, le classi non siano lasciate al loro isolamento dorato, ad
un’autonomia che si traduce in autosufficienza, per cui la scuola non è più come una
volta un corpo separato dalla società, ma è un corpo separato dalla cultura.
Va messo in cantiere uno sforzo collettivo che sappia per davvero prendere in mano il
futuro del nostro processo educativo, uno sforzo nel quale tutte le risorse di
intelligenza vengano messe a disposizione delle scuole.
Si devono trovare i mezzi per alimentare le nostre scuole con le conoscenze sempre
più profonde che si vanno maturando alle frontiere della conoscenza.
Abbiamo bisogno di istituti per lo studio dei programmi scolastici, dove gli uomini di
cultura, gli scienziati, gli uomini d’affari, gli artisti si incontrino regolarmente con
insegnanti di valore per rivedere e aggiornare i nostri programmi.
Occorre condividere con gli insegnanti i risultati delle nuove scoperte, le prospettive
aperte dalla ricerca, le nuove conquiste raggiunte sul piano dell’arte.
Dobbiamo avere le idee più chiare su cosa vogliamo insegnare, a chi e in che modo,
se vogliamo contribuire a crescere esseri umani capaci di raggiungere i loro obiettivi.
Bisogna dire che Università e Istituzioni culturali non danno e non hanno dato aiuti
preziosi.
Tutti gli Ocse Pisa del mondo non riusciranno a raggiungere l’obiettivo di dare nuova
vitalità alla nostra società multiculturale e farne una società nella quale e per la quale
valga la pena di vivere.




Il fantasma delle carriere, ma già oggi ogni scuola ha il suo organigramma

di Antonio Fini

Si sta facendo una gran confusione relativamente alle “carriere” dei docenti e alle figure del cosiddetto “middle managament”.
L’ultima surreale proposta del “docente esperto”, da proclamare tra dieci anni, sta contribuendo massicciamente al caos.

Non servono premi per “esperti”; ciò che serve alla scuola (OGGI, non nel 2032!) è semplicemente (si fa per dire…) la definizione di una normativa che ufficializzi la situazione di fatto.

Basta consultare il sito web di qualsiasi istituto per imbattersi nella voce “Organigramma”.
Ohibò, ma se nella scuola non ci sono altro che docenti, tutti uguali, tutti con le stesse mansioni, a che servirà mai un organigramma?
Al contrario, se nell’organigramma risultano così tante funzioni specializzate, come mai non vi è traccia di tutto ciò nella normativa o, se c’è, risulta tutto precario e fumoso?
Un esempio su tutti: la figura del coordinatore di classe, fondamentale da sempre e ultimamente di più, letteralmente NON ESISTE. Non è prevista da alcuna norma!

Allora, vogliamo liberare una volta per tutte QUESTI FANTASMI dai pietosi lenzuoli (ad esempio l’annuale rito della contrattazione del FIS) che ancora li rendono invisibili?

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Ecco la mia proposta.

Si può definire una struttura base, più o meno valida per tutti gli istituti, con i necessari adattamenti:
– 1-2 vice, con reali poteri di sostituzione temporanea del DS (max 30 giorni continuativi), con incarico pluriennale;
– coordinatori di sede, per le scuole su più plessi, con incarico preferibilmente pluriennale;
– coordinatori dei dipartimenti disciplinari e/o di classi parallele, con incarico pluriennale. Nelle scuole anglosassoni si chiamano “Head of …” e hanno importanti compiti di supporto alla didattica;
– coordinatori di classe, con incarico annuale;
– altre funzioni di staff (ex funzioni strumentali, responsabili dei laboratori, referenti). Va definito un numero massimo per ogni istituto in funzione della complessità, con incarico annuale.

Ognuna di queste figure dovrebbe avere una retribuzione differenziata e un orario di lavoro specifico. Per alcune figure si può prevedere esonero parziale/totale da attività in classe, in base alla complessità dell’istituto.
No FIS, ma stipendio diverso. Il MOF può quindi essere molto ridimensionato e con i relativi risparmi si finanzia, almeno parzialmente sta cosa. Per il resto, si investono i soldini del PNRR, ora, non nel decennio successivo.
Per accedere alle funzioni, si presenta una domanda, esibendo il CV e dimostrando di possedere le necessarie competenze (certo, acquisite anche mediante formazione!, come si fa comunemente in qualsiasi lavoro.
La decisione sugli incarichi è affidata al DS, coadiuvato dal comitato di valutazione, i cui membri, sempre eletti, devono però essere retribuiti.

Ecco, così cominceremmo a somigliare ad un’organizzazione seria. 




Docente esperto, ma dal 2032: la novità che preoccupa

di Rosolino Cicero

In questa calda stagione estiva, un tema altrettanto caldo ha destabilizzato la serena estate dei docenti, delle organizzazioni sindacali, delle forze politiche: l’istituzione nell’alveo degli obiettivi del PNRR di una nuova qualifica – il/la “Docente esperto/a” – a partire dall’anno scolastico 2032-2033.
Si tratta di 32.000 docenti che nei successivi quattro anni scolastici avranno riconosciuta la nuova qualifica ma con vincolo di permanenza di almeno un triennio nella scuola di servizio e non dovranno svolgere mansioni aggiuntive rispetto alla normale attività di insegnamento. In altre parole, devono insegnare e stop!

E’ arcinoto che il PNRR offre all’Italia risorse dell’Europa finalizzate a dare quelle opportunità capaci di cambiare il nostro Paese entro i prossimi due decenni.

Tra le missioni, la quarta pone al centro la scuola e l’università.
In particolare, per la scuola si parla di investimento nelle infrastrutture connesse agli ambienti di apprendimento da zero ai 19 anni, all’implementazione di quelle digitali, alla revisione delle procedure di reclutamento e orientamento, al sostegno e potenziamento dell’azione didattica dei docenti e, infine, alla valorizzazione professionale.
Se concentriamo l’attenzione al personale, nel PNRR è scritto chiaro che l’obiettivo principale è procedere con la formazione che sarà coordinata, monitorata e verificata dalla tanto discussa Scuola di Alta formazione: è una delle 6 riforme previste dal piano per migliorare nel corso del prossimo decennio la qualità della didattica e le competenze metodologiche, digitali e culturali dei docenti.

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Come scritto e sostenuto da più parti, anche autorevoli, non si potranno utilizzare le risorse per il rinnovo contrattuale che invece devono essere estrapolate dal bilancio dello Stato e messe sul tavolo della contrattazione.

Quindi il tema della formazione dei docenti riconosciuta e certificata nel breve e medio periodo per il legislatore è una PRIORITA’!
Il Parlamento ha ritenuto che la qualità dell’azione didattica non possa prescindere dalla formazione e già nel comma 124 della Legge 107/2015 ha previsto la formazione in servizio dei docenti di ruolo come azione “obbligatoria, permanente e strutturale” da prevedere nel PTOF.

Ma torniamo al DL Aiuti bis: considerato che nel DL 36/2022 i tre trienni di formazione (obbligatoria per i docenti neoimmessi e facoltativa per i docenti già in ruolo) alla fine del percorso non producevano di fatto alcun effetto nel curriculum professionale (erroneamente si confonde con la “carriera”), il Governo – su pressione dell’Europa – ha sanato questa incomprensibile “dimenticanza” prevedendo quale completamento la possibilità di “concorrere” per accedere al riconoscimento della nuova qualifica di “docente esperto/a” con la previsione di un riconoscimento economico annuale di 5.650 euro in aggiunta al trattamento stipendiale maturato per anzianità.

Tutto chiaro, logico e coerente per chi guarda al dispositivo giuridico senza pregiudizi ideologici: se non sei un docente neoimmesso, sei libero di aderire al piano di formazione e, al decimo anno, concorrere per la qualifica! Un’interessante novità di medio periodo che integra la progressione economica per anzianità che intanto continua a esistere per tutti come oggi la conosciamo.

E’ poco…è troppo….è lenta….è limitata nei numeri….discutiamone ma non possiamo eludere il punto: la formazione in servizio finalmente assume un importante valore aggiunto nella professione docente unitamente alla progressione di anzianità.

E’ un primo seme di valorizzazione professionale che ci pone di fronte le seguenti domande: siamo convinti che nella scuola di oggi e del futuro si debba ancora procedere per progressione di anzianità e con modesti incrementi stipendiali indifferenziati? Siamo sicuri che nella scuola già OGGI non si possano definire criteri per individuare le caratteristiche culturali e le competenze professionale del/della docente esperto/a?
Chiediamoci: nella scuola autonoma di oggi, chi potrebbe essere: il/la più bravo/a?….il/la più competente?….il/la più anziano/a in servizio?…..chi si dedica sine tempora alla sua comunità scolastica?…..il/la più formato/a?….chi possiede più titoli culturali e professionali?

Provo a rispondere partendo dalla scuola reale.

Poniamo “per assurdo” l’ipotesi di avere un’Istituzione scolastica con 750 alunni dei quali il 10% con BES, ripartiti in 5 plessi e in 3 diversi comuni, con un dirigente scolastico bravissimo, un vero leader, una dsga stracompetente, con gli uffici amministrativi efficientissimi con tutto il personale in organico e di ruolo, con i collaboratori scolastici ipercollaborativi e, infine, con un corpo docente brillante e di grande qualità professionale impegnato esclusivamente nell’insegnamento.

Questa scuola (magari esiste ma ditemi per favore dove!) potrebbe assolvere adeguatamente ed efficacemente al suo ruolo istituzionale nei confronti degli alunni e della comunità nel suo complesso? Si…no….forse….
Manca l’anello fondamentale, quello intermedio.

Infatti, vista la complessità del “fare” scuola, il Ds con i poteri conferiti dalla legge – ai sensi del DPR 275/99 art. 5, del D.lgs 165/2001 art. 25 commi 4 e 5 e della Legge 107/2015 comma 83 – si avvale di docenti da lui individuati “ai quali delega specifici compiti” che “lo coadiuvano in attività di supporto organizzativo e didattico dell’istituzione scolastica”.
Non è un caso se il legislatore, nell’istituire la dirigenza scolastica nel lontano 1997, abbia voluto chiaramente prevedere “Nel rispetto del principio della libertà di insegnamento e in connessione con l’individuazione di nuove figure professionali del personale docente….”.

Ecco allora già previsto l’anello mancante di fatto sempre presente, necessario e imprescindibile, per il “fare” scuola in modo efficiente e corrispondente alla complessità della scuola: il lavoro a scuola così non è più soltanto l’orario frontale di lezione!

Per questa ragione, nella scuola in continuo e dinamico cambiamento non è possibile lasciare il personale in una condizione permanentemente statica, dove la lenta attesa dello scorrere degli anni scolastici è l’unica ragione per aspettarsi un incremento stipendiale.
La complessità del sistema scuola, le conoscenze culturali e disciplinari unitamente alle strategie didattiche e alle competenze metodologiche e relazionali, la partecipazione attiva e informata all’organizzazione della scuola (e anche alla gestione in quella in reggenza), la conoscenza di norme e regolamenti relativi alla professione docente (stato giuridico, contratto di lavoro) in relazione ai propri diritti e doveri, la partecipazione al sistema delle decisioni all’interno della scuola, la conoscenza delle fonti giuridiche che determinano il corretto funzionamento dell’organizzazione scolastica anche in ordine alla sicurezza, la capacità di ascolto, di mediazione comunicativa e di propensione al lavoro di gruppo, la partecipazione alle diverse sedi di decisione nel rispetto delle funzioni delegate e di ruoli professionali, l’assunzione di responsabilità nel funzionamento organizzativo e didattico, la partecipazione alle attività di formazione e di aggiornamento, sono sufficienti per poter affermare che già OGGI nella scuola italiana possono individuarsi – secondo criteri, procedure di accesso e di valutazione definiti – docenti esperti/e, pronti/e ad assumere responsabilità professionali più ampie e trasversali oltre l’esclusiva attività di docenza, meritevoli di una carriera professionale integrata.

E’ arrivato il tempo di dare pari dignità giuridica all’attività didattica negli ambienti di apprendimento e a quella funzionale al funzionamento organizzativo e didattico.
Come prevede il comma 16 dell’art. 21 della Legge 59/97 diamo un profilo agli attuali docenti esperti, che posseggono i necessari requisiti di competenza e professionalità, che hanno una visione multipla della loro scuola (didattica, organizzazione e formazione), che hanno seguito percorsi di formazione, che sono riconosciuti risorse per la comunità scolastica.
Basta delineare la modalità di accesso, le aree della formazione, l’esplicazione delle funzioni, sulla base dei fondamenti giuridici oggi in vigore.

Potremmo prevedere, utilizzando anche una parte dei fondi del PNRR, per il prossimo anno scolastico attraverso un numero di scuole rappresentative del territorio nazionale una sperimentazione per l’individuazione delle funzioni intermedie strutturali, per l’elaborazione dei criteri di accesso e determinazione del tempo di lavoro, di un modello per lo sviluppo professionale nella carriera docente, di un modello di valutazione delle professionalità, di un percorso formativo.
In questo modo fra due anni scolastici potremo finalmente avere una vera carriera professionale che corrisponda in pieno alle attese dell’Europa.

Dunque, perché aspettare il 2032?

 

 




Ma il docente esperto sarà in grado di collaborare con i colleghi?

di Beppe Bagni

Si può non ascoltare nessuno e non rileggere nulla di quello che è stato scritto negli anni recenti sulla valutazione dei docenti e la loro progressione di carriera. Ma c’è del metodo in questa follia del docente esperto partorito all’interno di un decreto denominato Aiuti, ma che in questo caso spinge a chiedere aiuto.
Ci deve essere una logica altrimenti non si spiegherebbe perché tutte le principali novità che riguardano la scuola vengono sempre proposte in estate a scuole chiuse. Quando dovremmo attenderci di sentire il rumore dei lavori in corso dentro le scuole in vista di un rientro degli alunni più sicuro ascoltiamo invece il rimbombo delle notizie su nuove normative che stravolgono i difficili equilibrio di un sistema complesso quale la scuola.

La figura del docente esperto spinge a tre brevi osservazioni.

La prima riguarda la scuola come contesto nel quale opera la nuova figura.
Fra una decina di anni saranno 8000 su 800.000 i nuovi docenti esperti. Uno su cento; in una ipotetica distribuzione omogenea sarebbero meno uno per collegio: quale contributo su presume possano dare al sistema scuola non è dato capirlo, forse raccoglieranno qualche incarico dal dirigente, ma sarà difficile non siano invisi agli altri colleghi.
Ma ovviamente non saranno distribuiti omogeneamente: alcune scuole ne avranno molti, altre pochi, altre ancora nessuno. Come verranno gestiti? Tutti in una sezione o come capita? E come si risponderà al genitore che chiede di avere per il figlio o la figlia il docente doc?
Come spenderanno la quota dei futuri super docenti in servizio nelle proprie istituzioni i dirigenti nel perenne marketing scolastico per alzare le iscrizioni? La “dote” sarà pubblicata nella Homepage e nei trasferimenti trattati come merce preziosa? Auguri a chi dovrà gestire la situazione.

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La seconda considerazione riguardo proprio i docenti che concorreranno nella competizione.
Se ho capito bene si tratta di tre serie di formazione triennale tutte superate con valutazione positiva. Nove anni di formazione che non riguarda le necessità della propria scuola né tanto meno di propri alunni e alunne. Sarà un percorso di studio sulle nuove forme di valutazione, sulle nuove metodologie didattiche, sui sistemi d’istruzione europei, certamente sulla scuola 4.0, 5.0, n fattoriale punto zero.
Sono sicuri questi docenti di uscire più esperti nel loro lavoro? Di saper meglio collaborare con i loro colleghi in un lavoro quotidiano che porta risultato solo se è collaborativo e coerente tra tutti gli adulti che prendono parte all’impresa e soprattutto con gli allievi che avrà di fronte? Avrà trovato il tempo, con il peso di tanto studio personale e individuale, per imparare ad ascoltarli e saper scegliere non la metodologia più in voga ma i contenuti e in percorsi più adatti per far crescere ciascuno di loro?

L’ultima considerazione mi spinge a porre alcune domande al ministero e il governo.
Questo invenzione del docente esperto vi era stata chiesta dal mondo della scuola? No? Allora da chi?
Vi è sembrato fosse una questione di “ordinaria amministrazione” un provvedimento che impatta così pesantemente sulla scuola, sugli insegnanti e sui delicati rapporti al suo interno?
Allora spiegate, visto che avete deciso di introdurre questa nuova figura all’interno di una decretazione d’urgenza, in quale logica vi è sembrato “urgente”?
Era urgente perché l’estate dura poco e a scuole aperte poi con questa tocca discuterci?
Non si può aver paura di confrontarsi con i soggetti interessati e più in generale con il Paese.
Il vertice di una piramide è tale se ha segmenti che lo collegano agli spigoli della base.
Se li cancella non è più un vertice ma solo un puntino insignificante.




Sul “docente esperto”: per una necessaria ricognizione della professionalità

di Simonetta Fasoli

La questione del “docente esperto”, aperta dai provvedimenti appena disposti, ha comprensibilmente suscitato una serie di reazioni, a partire da quelle degli organismi di rappresentanza sindacale. Il tema è delicato e tocca, per così dire, “nervi scoperti” e annose diatribe.
Forse vale la pena rispondere alla frettolosa (e a mio parere abborracciata) soluzione governativa con una più ponderata riconsiderazione dei temi sottesi alla problematica. Solo così, a mio avviso , possiamo sottrarci al clima da derby che sembra profilarsi, e che non aiuta a fare qualche serio passo in avanti.
Il dispositivo di legge ha, mi pare, il limite di fondo nella stessa cornice di emergenza da cui è scaturito. Ne è nata una configurazione parziale, in cui si parla di “docente esperto” come mero prodotto di un non meglio precisato percorso di “formazione” spalmato in un lungo arco di tempo, senza un esplicito riferimento alle dimensioni professionali della docenza in quanto tale. Questa scotomizzazione di partenza ha reso a mio parere arbitraria e in-fondata l’intera operazione.

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Per cominciare, riporterei la questione nell’alveo nell’interezza che le appartiene. Parliamo allora di “articolazione delle funzioni” all’interno della professionalità docente, che è composita in sé stessa, multidimensionale. Se questa caratteristica strutturale diventa via di accesso ad una forma di gerarchizzazione (sancita infine dal trattamento economico fortemente differenziato e dalla platea dei “pochi” cui esso è programmaticamente destinato) si determina una torsione concettuale (e giuridica) dello stesso profilo.
Si sta immaginando una “comunità di pratiche” ispirata alla specializzazione dei “ruoli”, che diventano “figure” e non “funzioni” dello stesso profilo? Se questo è il modello di funzionamento, penso sia opportuno mostrarne le incongruenze, gli effetti negativi proprio sulla qualità dei processi di insegnamento-apprendimento che si dice di voler meglio assicurare.
Per esempio: la competenza progettuale non può essere delegata a un “esperto”, in quanto è parte integrante della prestazione didattica, che, se avulsa da essa, sarebbe attività meramente esecutiva. Così anche una didattica che, in quanto progettualità, ignori le implicazioni gestionali e organizzative è privata del suo corollario che è il criterio di fattibilità, rischiando di restare (come non di rado succede) una nobile ma inerte dichiarazione di intenti.
Diverso è il ragionamento se si considera la necessaria funzione di coordinamento, che un sistema complesso qual è l’istituzione scolastica richiede. Le “funzioni strumentali” (eredi delle “funzioni obiettivo”) sono un esempio largamente sperimentato di questo modello di funzionamento. Si tratta di istituti ancorati alla pianificazione educativo-didattica, dunque coerenti con le scelte collegiali e non correlati (come sembra adombrare la norma in questione) ad un “cursus honorum” de-contestualizzato, perseguito individualisticamente.
Partiamo da qui: da un ripensamento e, se necessario, da una rinnovata declinazione delle dimensioni che articolano la professionalità docente; tenendo ferma l’istanza di “tenerle insieme” nello stesso profilo, in concreto nella stessa persona, in netta controtendenza rispetto a ogni forma di “divisione del lavoro” che richiama concezioni tayloristiche decisamente superate.
Ragioniamo, infine, sulle funzioni di coordinamento, sostenendo la capacità delle istituzioni scolastiche, nell’esercizio responsabile della collegialità e nella cooperazione di tutte le componenti, di individuare i nodi della rete progettuale/organizzativa che connotano il sistema-scuola, affinché siano presidiati. Non vedrei male in questo caso un avvicendamento, regolato da criteri espliciti e trasparenti definiti dall’istituzione autonoma, nell’assumere tali funzioni di coordinamento: questo non per omaggio ad un principio astratto di democraticismo, ma perché ritengo che ogni docente dovrebbe farne concreta esperienza (diventarne “esperto”…) per maturare quella visione complessiva del sistema che è troppo spesso carente e delegata a pochi.