Attenersi al principio di educabilità significa pensare che qualsiasi alunno è capace di fare meglio di quanto non sembri e di quanto non abbiamo creduto.
Significa pensare che tutti hanno il diritto di essere educati nei tempi e con i modi più congeniali alle loro attitudini.
E’ il principio che dà sostanza e giustificazione all’esistenza dei sistemi di istruzione.
Succede a volte che l’alunno si collochi in posizione ostile o indifferente rispetto all’insegnamento; l’educatore, in questi casi, deve chiedersi per quali motivi avvenga e non dovrebbe cercare violare questa resistenza.
L’educazione è condivisione, non violenza; è chiamata, non costrizione. Si agisce sulle cose, non sulle persone: nell’educazione, pertanto, è possibile che l’insegnante faccia esperienza della propria impotenza.
L’educabilità si deve misurare con l’impossibilità, anzi con il divieto di condizionare il soggetto in apprendimento, che ha tutto il diritto di poterci sfidare con il suo rifiuto, con la sua opacità, con la sua avversione.
Mettere al centro l’alunno vuol dire anche questo.
La buona pedagogia ci ricorda il diritto dell’alunno alla sua irriducibilità ai tentativi di seduzione di condizionamento, di manipolazione.
Non promette di fare miracoli.
L’educazione, proprio per questi motivi, è un percorso accidentato e avventuroso sul cui esito felice non ci sono certezze e non si possono fare scommesse: bisogna misurarsi con le contestazioni, con gli ostacoli e con i rifiuti; bisogna mettersi sempre in discussione e solo così si potrà sperare nel successo formativo.