La centralità dell’insegnante, dall’insegnamento all’apprendimento

di Raimondo Giunta 

Nel processo di formazione l’insegnante svolge opera necessaria di mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non può essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, perché la funzione e la posizione dell’insegnante non possono essere sostenute da alcuna pretesa di potere sugli alunni. Ciò nondimeno, anche sgombrate da ogni forma impropria di autoritarismo la funzione e la posizione dell’insegnante, da qualche tempo e da più parti sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che fondate.

Si sa che la scuola e quindi l’insegnante non sono più nella società attuale gli unici dispensatori delle conoscenze, divenute ormai reperibili in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmetterle o che non lo possano più fare. Questo comporta che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata. Fatto che richiede specifiche prestazioni professionali, connesse necessariamente alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.

Da più parti si afferma che la centralità della figura dell’insegnante, come si constatava nei modelli educativi del passato, debba essere sostituita da quella che deve avere l’alunno nel nuovo modo di fare scuola.
Una rivoluzione copernicana, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali e con gli orientamenti di alcuni filoni della psicologia. Significativa, perché esalta anche il dovere di attenzione e di cura, trascurato a volte per lo spazio esclusivo assegnato al compito di trasmettere saperi e conoscenze. Bisogna, allora, cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano, se questa tensione etico-pedagogica metta in discussione il primato della conoscenza goduto nel passato e che ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante con la sua cultura. Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere.

Sul piano gnoseologico il nuovo modello educativo propone per una maggiore efficacia di dare spazio maggiore, se non esclusivo, all’apprendimento.  Una proposta che può destare qualche perplessità, se si vuole lasciare intendere che in questo ribaltamento l’alunno possa apprendere da solo e l’insegnante col suo sapere sia un impedimento.  Il primato dell’apprendimento ad ogni buon conto non può prescindere dal valore dei contenuti e dai saperi che si possono e si devono apprendere a scuola.  Il sistema scolastico è legittimato ad esistere, perché tenuto a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze, di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti.
La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze solide e strutturate. Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza, i giovani devono portarsi all’altezza dei saperi e delle conoscenze che è necessario possedere.

Delle innovazioni non si deve avere paura, e quando le circostanze lo richiedono vanno introdotte, ma sapendo in partenza definire i propri fattori di riuscita e quelli eventuali di insuccesso; sapendo conoscere e praticare le regole del giuoco che si vuole fare. Non si cambia per il semplice gusto di cambiare. I modelli educativi, che sono cosa seria, variano in funzione della concezione che si ha dell’uomo, della società e delle loro relazioni e non per caso o per moda.

 

ARTEFICI DEL PROPRIO APPRENDIMENTO

 

Nel paradigma che si vuole sviluppare ed estendere l’iniziativa dell’apprendimento viene affidata all’alunno e l’insegnante da mediatore privilegiato del sapere si trasforma in un organizzatore di situazioni di apprendimento. A soccorso di questa innovazione vengono chiamate diverse formulazioni del costruttivismo, secondo le quali l’apprendimento è visto come attività di chi apprende, sia individualmente sia in un gruppo di pari. Le concezioni costruttivistiche sottolineano la centralità del soggetto apprendente che attivamente e intenzionalmente costruisce la propria conoscenza e riflette sul proprio modo di apprendere. Sono teorie che intendono creare un quadro di intelligibilità delle pratiche didattiche, anche se non ne privilegiano qualcuna in particolare e stimolano a precisare le intenzioni pedagogiche e a determinare meglio le procedure più adeguate per gli scopi che si vogliono realizzare.

Sono un quadro di riferimento, non modelli da applicare ciecamente.
Per cui fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire” le loro conoscenze non sarà per nulla facile, perché comporta un lavoro di innovazione di un certo rilievo e soprattutto perché non viene mai meno il compito dell’insegnante di convincere gli studenti, che spesso non mostrano particolare attenzione e interesse per tutto quello che si fa a scuola, del valore e dell’importanza degli argomenti che vengono affrontati nelle attività didattiche.  Altrimenti sarebbe difficile vederli all’opera; a spingerli a lavorare non sarà la propria autonomia, ma il convincimento di fare cosa buona e giusta.

Ad ulteriore chiarimento va detto che se si possono modificare gli ambienti di apprendimento per dare spazio all’attività del soggetto apprendente, l’epistemologia dei saperi da apprendere non cambia affatto. Le strutture del sapere sui quali devono essere edificate le competenze non sono nella libera disponibilità degli alunni e dei docenti e non è una buona idea non educare gli alunni a misurarsi con i vincoli di questa necessità.  Per possedere certi saperi è una necessità apprendere quel che va appreso, quale che sia il modo di apprenderlo. Per consentire ai giovani di accedere a particolari professioni e a determinate occupazioni è assolutamente indispensabile che il tenore dei contenuti, la loro progressione debba essere stabilita da chi dirige il sistema di istruzione; responsabilità delegata alle singole scuole e agli insegnanti e che non può essere né negata, né trascurata, né arbitrariamente modificata.

Il valore fondante del nuovo modello pedagogico è l’autonomia dell’alunno, che in tanto è possibile formare e sostenere, in quanto viene messa alla prova nelle relazioni del processo formativo, nelle modalità di sviluppo delle procedure didattiche. Autonomia, si spera, come “capacità di autodeterminazione e di autoregolazione, secondo un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, la comunità, l’ambiente sociale e naturale” (M. Pellerey)

L’autonomia dell’alunno è una finalità di alto profilo, ma sarebbe incomprensibile che per essa si voglia alleggerire l’insegnante della responsabilità di trasmettere i contenuti della sua disciplina.

Non è scritto da nessuna parte che l’apprendimento debba essere noioso; è scritto che ci si debba preoccupare di renderlo interessante e anche piacevole, se è possibile.
E’ scritto soprattutto che debba essere solido e duraturo.  E a proposito di iniziativa e di autonomia dell’alunno in quali campi possono essere esercitate? Sulla scelta degli argomenti? Sulle modalità del lavoro scolastico? Sulla valutazione dei risultati di apprendimento? Sulla tipologia delle prove?

”Un processo costruttivo che voglia essere valido e fecondo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nella questione; perché e come. Ma è ben difficile che nel caso delll’apprendimento di nuove conoscenze il progettista e il capocantiere possa essere lo stesso studente”(M. Pellerey).

 

IL MAGISTERO DELL’INSEGNANTE

 

Le ricerche di John Hattie sull’efficacia delle metodologie didattiche hanno messo in evidenza la funzione centrale del docente nei processi di formazione e che quando manca la sua direzione gli approcci didattici innovatori, ai quali si affidano molte speranze, non danno i risultati sperati. I metodi meno direttivi favoriscono gli alunni migliori, mentre danneggiano i più deboli, perché per loro è più pesante il carico cognitivo per fare fronte alle responsabilità loro assegnate. Le procedure di insegnamento diretto, contro le quali si continua a schierarsi, danno migliori risultati.
”Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito. ”(M. Pellerey).

Se un alunno deve affrontare un contenuto nuovo e di un certo spessore culturale e teorico, il buon senso dice che è opportuno che venga introdotto nei concetti che lo costituiscono e che venga guidato nelle pratiche messe in campo per acquisirne le abilità essenziali. Solo dopo che avrà acquisito gli elementi fondamentali e li ha conservati ben strutturati nella sua memoria può essere indirizzato a svolgere in autonomia le proprie ricerche o a risolvere i problemi che gli vengono assegnati. L’insegnamento esplicito e diretto, che nella lezione, ha uno dei modi di realizzarsi, non toglie nessuna iniziativa all’alunno, non ne menoma il compito e l’impegno di apprendere, anzi facilita questa avventura intellettuale, perché toglie di mezzo tanti ostacoli superflui. Sono il significato e la funzione che si danno a questo tipo di intervento a determinare il grado di autonomia che viene lasciato all’alunno e che si dà alla sua attività di apprendimento. Lasciato a se stesso non è detto che l’alunno eserciti la sua autonomia nel modo migliore e più efficace. L’insegnamento diretto non si riduce chiaramente alla lezione frontale, e tutti gli altri modelli didattici non possono fare a meno della direzione e della guida culturale dell’insegnante. Solo svolgendo la sua funzione magistrale l’apprendimento dell’alunno potrà essere, stabile, significativo e fruibile. Il suo compito non si colloca dopo l’apprendimento dell’alunno, ma prima e accanto e non è ragionevole e in alcun modo giustificato ridimensionarne l’importanza. Certamente l’alunno apprende da sé e nessun altro può farlo al suo posto, ma appoggiandosi sul sostegno e l’esperienza dell’insegnante. Per apprendere l’alunno ha bisogno di incontrare situazioni di comunicazione, di scambio e di confronto con chi ha esperienza e conoscenza.

Con questo non si vuole dire che il sapere dell’insegnante debba essere replicato dall’alunno, ma che è necessario per fare comprendere la distanza tra esperienza personale e sapere costituito, la complessità dei contenuti ai quali ci si deve avvicinare, le difficoltà per conquistarli, l’inestinguibilità del dovere di conoscere. Il sapere degli insegnanti serve per fare apprendere e se utilizzato bene per fare comprendere. Insomma l’insegnante non è un tecnico di laboratorio e nemmeno uno psicologo. Nessuno mette in discussione che ci sia bisogno di una diversa relazione educativa tra docente e alunno; una relazione da instaurare sul principio del valore assoluto della persona dell’alunno, che ha tutto il diritto di sapere, di capire e di farsi sempre una propria idea; perché solo la sua partecipazione attiva al processo di formazione renderà solido l’apprendimento. Nessuno mette in discussione che per fare crescere in autonomia e in libertà l’alunno, bisogna interpellarlo, aiutarlo a problematizzare, coinvolgerlo in attività di elaborazione di senso, dargli fiducia, Nessuno, se tutto ciò viene fatto, ha bisogno però di escogitare nuovi primati nelle relazioni educative.

”Certo anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come s’ingozzavano le oche. Si presentava loro un cibo pre-confezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard per la prima volta in vita loro sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo”(A. Camus).

 




Quando nelle scuole si devono “fare gli orari” dei docenti…

di Domenico Sarracino

Il mondo della scuola come tutti i settori lavorativi ha i suoi lati chiari e scuri.
Momenti di generoso impegno cedono in certe fasi a piccinerie, egoismi, al cieco “particulare”, che mortificano la scuola e che difficilmente non lasciano il segno…
Ecco, la fase in cui si prepara l’orario di servizio dei docenti è uno di quei momenti che non fanno bene alla scuola e alla sua credibilità.
Il povero docente incaricato di stendere l’orario è letteralmente messo in croce: inseguito per i corridoi, ora blandito, ora minacciato di rivalse, con il telefono che suona sempre, a tutte le ore, di tutti i giorni, domeniche comprese; e ore e ore a discutere, litigare, mediare …
Eppure non c’è docente che non conosca e non dichiari l’importanza di un buon orario delle lezioni, funzionale alla realizzazione delle esigenze didattiche e capace di mettere gli alunni ed i loro bisogni psico-fisici nelle condizioni migliori per rendere meglio.
Questo triste spettacolo è tanto lacerante quanto più le scuole sono sfiduciate, stanche e abbandonate a se stesse, con docenti strapazzati da tutte le parti e stressati da continui annunci di cambiamenti improvvisati, cartacei e rituali; con dirigenti lontani ed assillati da mille urgenze, a capo di mega-strutture, reggenti altre scuole, agenti su plessi lontani…
Non nego che ci possano essere – anzi, che ci sono – esigenze personali particolari, meritevoli di considerazione ed attenzione, ma queste possono essere circoscritte e risolte con equilibrio e spirito di solidarietà.


Si capisce allora – di fronte a questo quadro – quanto sia importante rilanciare l’idea che bene primario sia riuscire a creare quello spirito di compartecipazione ad un compito che non si può affrontare nella frammentazione, nella solitudine ed indifferenza “dell’ognuno che fa per sé”, ma solo nella collaborazione e cooperazione dell’insieme dei soggetti educativi che – cercando, tentando e sperimentando – mettono in piedi modalità di lavoro comune e provano a tracciare vie nuove per far fronte alla complessità educativa dei nostri tempi. I quali soggetti, unendo le forze, imprimono ad esse un impulso moltiplicatore e conferiscono alle scuole un profilo unitario di cammino condiviso. Si tratta, insomma, di rilanciare l’idea per cui le scuole riescano a realizzarsi come comunità educative vere, mobilitate e coese, appassionate e solidali; in cui l’altro, il collega, i colleghi non sono atomi estranei, ma l’uno forza e sostegno per l’altro, ed in cui il mio successo è contemporaneamente anche il tuo e di tutta la scuola. Quando vengono meno le passioni e le tensioni ideali, allora la frammentazione, il malessere, i contrasti sono dietro l’angolo; l’arido “particulare” prende piede e nelle scuole cala la nebbia…




Dispersione scolastica, qualcosa si può fare

di Raimondo Giunta

Nei giorni che precedevano l’inizio delle lezioni, finchè sono stato in servizio, impegnavo il collegio dei docenti e i gruppi di coordinamento a discutere sui risultati dell’anno precedente e in modo particolare su quelli che fanno parlare di dispersione scolastica. Il proposito era quello di vedere come e se era possibile contenerla. Trasmettevo ai miei docenti la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

La definizione degli insuccessi scolastici come dispersione non mi è mai piaciuta e non mi piace ancora. Sembra quasi che si tratti di un fenomeno naturale, che si verifichi a prescindere dalle decisioni degli uomini, dalle scelte fatte dagli uomini. Una volta con più precisione si parlava di selezione, ma il termine era ed è sovraccarico di molteplici significati contrastanti e pro bono pacis non lo si usa più, tranne negli articoli di quegli intellettuali che nei quotidiani la reclamano ad alta voce per dare prestigio alla scuola e al sapere e anche per darsi un alto contegno…

Che la dispersione scolastica (ci atteniamo alla vulgata ministerial-pedagogica. . ) continui a verificarsi nonostante le lotte che le sono state dichiarate è un fatto grave sul quale è giusto soffermarsi a ragionare. Senza dimenticare che nel fenomeno della dispersione oltre agli abbandoni bisogna includere ripetenze e scarso livello di conoscenze e competenze

A determinarla nelle proporzioni che vengono messe in luce dalle statistiche ministeriali non sono solo le scelte di parte sempre minoritaria del corpo docente, ancora arroccata a difesa di procedure di valutazione che non hanno alcun valore pedagogico e docimologico; a determinarla contribuiscono la disarticolazione dei rapporti tra enti locali e istituzioni scolastiche, ma anche e in modo preponderante la stessa scuola come sistema. La scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale non è priva di responsabilità in questo campo.

L’apertura della scuola e il sostegno economico, ma sempre in crescente riduzione (esenzione tasse, libri gratis, borse di studio, trasporto gratuito) non hanno realizzato le condizioni perché tutti potessero godere pienamente del diritto allo studio e avere le stesse chances di successo. I pierini fino a qualche anno di studio si trovano accanto i gianni come compagni di classe, ma i primi concludono gli studi, fanno carriera si inseriscono nel mondo del lavoro, gli altri si disperdono, incespicano e a parità di talento fanno meno strada.

A scuola non si riesce a compensare lo squilibrio del patrimonio culturale ereditato dagli alunni; non ci si riesce perchè alla fine non si comprende il meccanismo, la logica che impedisce l’integrazione dei “nuovi “alunni con la scuola e quali nodi della struttura scolastica vadano sciolti per consentirla.

Il problema non è di facile soluzione perchè non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale, e non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.

Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti. E’ importante considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica)che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita. .

Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.

Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere. Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno.

Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola.
La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’ indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo.

Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono.
In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica. Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola.

In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi ? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?

La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali. La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.

Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire. Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana.

Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.

L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione. L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D. Nicoli).

Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione. Non si può avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento

A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione. Ma senza amore, senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta. Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.

Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).

 




Investire sulle Comunità professionali nelle istituzioni scolastiche. Condizioni e approccio.

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Antonio Valentino

La domanda delle Scuole in questa fase difficile e impegnativa è volta ovviamente a come fare al meglio la propria parte (ed essere aiutata a farla). Ma grande è anche il bisogno di orientamento e sostegno di fronte alle sfide importanti con cui sarà gioco forza misurarsi. Tra queste, in primis, la progettazione e le azioni per il contrasto alla dispersione scolastica e per la riduzione dei divari territoriali, previste dal PNRR, assieme alla predisposizione della Rendicontazione sociale e del RAV per l’aggiornamento del PTOF: che richiederanno molto probabilmente ripensamenti di non poco conto sull’offerta formativa e le strategie per darle gambe.

1.       Esperienze di Comunità Professionale (CP) durante la pandemia

Da considerare e sottolineare – delle scuole considerate in questa ricerca – le caratteristiche rilevate nel loro funzionamento durante la pandemia, sotto il profilo relazionale e organizzativo; caratteristiche così sintetizzabili:

  • forte coinvolgimento degli insegnanti come collettivo;
  • promozione e sostegno di  pratiche collaborative
  • la cura degli ambienti di apprendimento e l’attenzione al modello organizzativo, attraverso la valorizzazione delle figure di coordinamento delle diverse articolazioni del Collegio Docenti;
  • leadership (condivisa) come “qualità distintiva” dell’intera comunità.

Sono queste caratteristiche – identificate come proprie delle “comunità professionali di apprendimento” – che, secondo l’analisi degli Autori dell’Editoriale, hanno permesso alle scuole ‘osservate’ – questo è l’assunto esplicito dell’Editoriale – di attraversare gli scombussolamenti dell’emergenza, garantendo comunque equità e qualità dell’offerta formativa.

  1. Comunità Professionale. Si parte da lontano

Assunto questo che richiama e conferma ulteriormente, per più aspetti, l’importanza e il valore – e il metodo – delle ricerche e degli studi delle comunità scientifiche internazionali che – almeno dagli anni ’70 del secolo scorso – si sono interessate agli intrecci tra teorie dell’apprendimento e scienze organizzative. L’aspetto di maggiore interesse per queste loro ricerche va ricercato soprattutto nel nuovo approccio di carattere pluridimensionale, volto a studiare ed esplicitare le correlazioni tra fattori e capitoli di teorie coinvolte nei loro studi. E, ovviamente, a verificarne l’incidenza e l’efficacia.

E tutto questo, a partire da problematiche quali

  1. l’apprendimento nelle sue diverse forme (mnemonico e per imitazione, riflessivo e organizzativo, trasformativo e generativo, collettivo, individuale …),
  2. gli ambienti di lavoro (e come ci si sta dentro) e la cultura professionale, ma anche i modelli di funzionamento all’interno delle organizzazioni viste come organismi sociali,
  3. gli ambiti disciplinari a vario titolo chiamati in causa dalle ricerche (psicologia educativa, sociologia, pedagogia, economia, …)[2].

È quest’insieme di problematiche che entra in gioco, a partire da quegli anni, come intreccio di variabili che caratterizza le ricerche sulle Comunità Professionali, descritte, nell’accezione condivisa, come aggregazioni di professionisti che, all’interno di una organizzazione, ricoprono funzioni e ruoli identici.  Studiarne il valore sociale e garantirne eventualmente tenuta, sviluppo e identità diventa l’obiettivo di questi studi.[3]

Perciò riportarne in primo piano i punti di forza, assieme agli interrogativi che pongono, e riappropriarsi delle sue parole chiave – e delle pratiche che le traducono operativamente – si assume qui come un’operazione che può aiutare a recuperare o a meglio sviluppare un’idea di scuola capace di aprirci a nuove prospettive in questa fase di incertezze e grandi sfide. Consapevoli che, senza una visione di insieme e un’idea di scuola condivisa, che orientino gli impegni e prospettino condizioni di rinnovamento e sviluppo, le stesse sfide prima richiamate (dalla lotta alla dispersione, all’apertura alle opportunità e alla collaborazione col territorio, eccetera ), sarà difficile affrontarle con qualche possibilità di successo.

3.  Tra definizioni e approfondimenti[4]

Per recuperare al meglio l’idea di CP e metterla a fuoco – anche avvalendoci dei risultato di ricerche più recenti – può essere utile partire da una prima interessante definizione – forse la più nota –  di due pionieri e protagonisti degli studi dei primi anni ’70 del secolo scorso, Donald Schön e Chris Argyris[5]; definizione che mette ben a fuoco gli aspetti caratterizzanti di una Comunità[6], intrecciati con elementi che hanno a che fare con la professionalità di chiunque operi in organizzazioni che funzionano come sistemi sociali di apprendimento. Di questi aspetti si citano soprattutto

  • il senso di appartenenza (il percepirsi cioè come qualcosa di più grande che accomuna chi ne partecipa e li motiva in una logica di reciprocità);
  • la percezione di essere dentro una rete di relazioni capace di fornire sostegno emotivo e professionale a chi ci sta dentro;
  • la consapevolezza del proprio ruolo e del proprio sé professionale dentro la CP;
  • un sistema comune di apprezzamento con cui distinguere ciò che è rilevante da ciò che non lo è.

Si tratta, come è facile osservare, di caratteristiche che non si danno a priori e che richiedono quindi consapevolezza, esercizio e cura a più livelli, trattandosi di condizioni che interrogano la cultura e quindi la formazione professionale di chi partecipa a queste comunità. E non solo.

Va richiamato anche che ad arricchire e declinare più specificamente l’idea di CP di questi due studiosi concorrono anche i risultati di ricerche successive che riportano in primo piano gli aspetti più ricorrenti  per definire e descrivere tali Comunità  come specificamente professionali e permettere di riconoscerle attraverso appositi indicatori.

Tra questi, in primo luogo: una visione solidale e collaborativa del fare scuola, che si traduca in comportamenti contrari a chiusure e separatezze nell’esercizio delle diverse attività; e in secondo luogo: una cultura professionale fondata sull’assunto fondamentale che si apprende in modo socialmente significativo soprattutto attraverso il confronto e la condivisione delle pratiche lavorative e delle esperienze maturate.

L’accento posto sopra la dimensione collegiale e cooperativa, propria del costrutto di CP, tende piuttosto ad evidenziare opportunamente che, essendo la scuola una organizzazione-istituzione che ha responsabilità sociali, migliorarne la qualità è condizione che non può essere lasciata al caso o alla disponibilità del singolo, ma va opportunamente prevista e costruita, e anche curata e coltivata collegialmente nelle modalità più efficaci. 

Conferme sulla fondatezza di questa visione arrivano tra l’altro anche dalle neuroscienze che evidenziano come l’apprendere in modo efficace non è attività puramente solitaria, ma un’azione sociale, in un contesto dato, che matura attraverso processi di interazione e negoziazione dei significati con altri soggetti con cui si è chiamati a interagire[7]

4. Dalle condizioni ai i primi punti di forza.

I tratti che, nelle elaborazioni condotte col nuovo approccio, qualificano una CP – e che si ripropongono come spunti promettenti di cui riappropriarsi -, mettono in primo piano e prioritariamente:
• una visione dell’apprendere non più come esperienza unicamente individuale e mentale, ma come fenomeno sociale e collettivo; non più esito quindi di pura trasmissione di nozioni (dalla lezione del docente o dalle pagine del libro di testo alla testa dello studente), ma come esperienza attiva e trasformativa;
la valorizzazione dell’’apprendimento ‘organizzativo’ [8]: che si fonda sulla consapevolezza che in una organizzazione, il sapere professionale (e sociale) si crea, si sviluppa e si consolida, quando i contributi dei singoli o dei gruppi [in termini di risultati di esperienze, pratiche, attività] diventano parte del patrimonio di conoscenze della comunità [9]. Saldando così l’apprendimento individuale (o del gruppo) a quello collettivo e producendo cambiamenti migliorativi nel contesto lavorativo (Wenger) [10].
• l’idea di CP “come ambiente di apprendimento; dove apprendere è imparare a essere (learning to be) e ad agire come un membro della comunità (Brown e Duguid, 2000) [11] (Aspetto questo che si riprenderà successivamente).

5. La ‘pratica’, tra ricerca e riflessività

Una dimensione delle CP assolutamente centrale è anche Pratica che evidenzia l’importanza e il valore del conoscere basato sul fare e sull’esperienza. Importante per la nostra scuola, perché ancora non adeguatamente considerata, una prima definizione, ancora di Schön,  di Pratica come “sistema di attività in cui il sapere non è separato dal fare” e “dove il pratico non è contrapposto al teorico”; e dove la conoscenza si precisa come attività contestualizzata, “situata” nei luoghi dove acquista significato e valore.

Ma forse può risultare ancora più stimolante recuperare con più evidente nettezza una seconda definizione dello stesso studioso che la descrive in questi termini:

Attività di una comunità di professionisti che condividono (….) le tradizioni di un mestiere; e che acquista valore e senso (…) quando assume caratteristiche di ricerca e sa scavare in se stessa attraverso l’esercizio riflessivo e sa porsi domande, cercare coerenze, capire i presupposti delle azioni, cercare collegamenti con le teorie o tentare ipotesi teoriche nuove, insieme ai colleghi, mettendo a confronto i pensieri con le azioni[12].

Assunto quest’ultimo del quale va soprattutto sottolineata l’importanza di due suoi aspetti caratterizzanti: la ricerca e la riflessività, considerate nella definizione come stimolanti indicatori di una CP.

Qui però si vuole soprattutto evidenziare il richiamo all’esercizio riflessivo come pratica-risorsa dell’organizzazione (e delle sue articolazioni) che porta a guardare dentro e oltre le azioni e i contenuti che esse esprimono, per cogliere la carica trasformativa delle conoscenze o generativa di nuove[13].

6. Le Comunità di Pratica (CdP)

A completamento di questa ricostruzione – necessariamente sintetica e per più versi approssimativa, volta soprattutto a evidenziare le caratteristiche promettenti delle CP – vanno recuperati i risultati degli studi e delle ricerche (ultimo decennio del secolo scorso) di due studiosi di origini svizzere, Etienne Wenger e Jean Lave, sulle Comunità di pratica (CdP).

Traendo spunti da Schön e Argyris,  e più in generale dal filone di studi e ricerche che ruotano intorno alle CP, i due studiosi approfondiscono il senso e il valore dei luoghi di aggregazione (le CP) come ambienti di apprendimento dentro le organizzazioni, enfatizzando il concetto di pratica e dei suoi significati, su cui già Schön aveva offerto, come abbiamo visto, significativi contributi[14]; ma anche  insistendo sulla specificità dei campi di interesse (Campi tematici) delle Comunità, che si configurano – questa è almeno la ricostruzione che tendo a privilegiare – come potenziali elementi di diversificazione identitaria rispetto al costrutto della CP in senso stretto.

Ma di Wenger va soprattutto richiamata  la svolta (2002)[15], che lo porta ad allontanarsi dalla fase precedente strettamente teorica, per approdare ad una più pratica e operativa, che potrebbe essere probabilmente interessante riprendere e approfondire,  perché offre stimoli per una più solida e innovativa configurazione del modello organizzativo per la componente docente delle Istituzioni Scolastiche (IS).

7. La formazione ‘situata’

Sintetizzando

A mo’ di sintesi, questo lo schema mentale e operativo dei ragionamenti svolti, che si propone come sguardo di insieme su un argomento complesso, ma certamente interessante soprattutto in questa fase.

La CP: idea di scuola che assume il punto di vista del funzionamento della Comunità dei docenti di una IS come ‘ambiente di apprendimento e di pratica’ finalizzato a garantire il successo formativo di tutti gli studenti, non uno di meno. Il che significa: cultura e sviluppo professionale, ambienti e rapporti di lavoro, tipo di relazionie modelli organizzativi conseguenti e coerenti.

Punto di vista quindi come espressione di un approccio multi dimensionale alle CP delle IS.

Il cui costrutto assume a riferimento:

  • la dimensione collettiva dell’apprendere professionale (e non solo);
  • l’apprendimento non tanto attività mentale, quanto operazione trasformativa della conoscenza;
  • la pratica riflessiva come aspetto fondamentale della cultura professionale (apprendimento riflessivo)
  • l’apprendimento ‘organizzativo’ come risorsa (pratiche, astuzie del mestiere, risultati di ricerche legati ai problemi del fare scuola) prodotta dai singoli o dai gruppi, che diventa patrimonio dell’intero collettivo della CP ed espressione della sua identità culturale e professionale;
  • lo sviluppo professionale visto prioritariamente come formazione ‘situata’, espressione a. del confronto e della ricerca sui problemi aperti del proprio ambiente di lavoro e b. dei risulti, in termini di pratiche, di comportamenti, di strategie …, negoziati nel gruppo e in grado di affrontare problemi e difficoltà;
  • gli ambienti e i contesti lavorativi come luoghi di collaborazione, negoziazione e intese;
  • modelli organizzativi centrati: a. sull’autonomia di ricerca, b. sulla reciprocità delle relazioni, c. su una leadership distribuita, d. sulla dimensione reticolare delle articolazioni della Comunità professionale.

 NOTE

[1] Titolo del numero monografico della Rivista dell’Università telematica IUL (26.06.2022): “Leadership, innovazione e cambiamento organizzativo. Promuovere comunità di apprendimento professionale”.

[2] Va doverosamente ricordato che il nuovo approccio recupera aspetti fondanti di teorie maturate nei decenni immediatamente precedenti, come  il Learning by Doing (John Dewey),  lo Sviluppo cognitivo di Piaget, l’Apprendimento come sviluppo sociale (Vygotskij), la Pedagogia scientifica e ruolo dell’ambiente di Maria  Montessori; e include il Learning Organization (Peter Senge) e anche strategie formative  come il Cooperative Learning.

[3] Cfr. I. Summa, Se il docente fa ‘Comunità professionale’, in ‘Rivista dell’istruzione’, n.6, 2014.

[4] Le riflessioni e alcune ipotesi di lavoro, che di seguito si propongono, recuperano, ripensate, tematiche ed elaborazioni maturate all’interno di un gruppo di lavoro interregionale, formato soprattutto da Ds dell’Associazione Nazionale Proteo Fare Sapere, in occasione del percorso di approfondimento delle Linee programmatiche per il Congresso Nazionale dell’Associazione (Ravenna, ottobre 2021).

[5] Riferimenti bibliografici fondamentali  al riguardo sono: D. Schön – C. Argyris, Teoria in pratica: aumentare l’efficacia professionale . San Francisco: Jossey-Bass, 1974 ; Apprendimento organizzativo: una teoria della prospettiva dell’azione . Lettura, MA: Addison-Wesley, 1978;  D. Schön, “L’epistemologia della pratica”, 1991

[6] Occorre chiarire che le CP su cui qui si riflette, non vanno identificate  con le Comunità scolastiche indicate nell’ultimo CCNL scuola  – novembre 2019 – (definite Comunità educanti), riferendosi queste ultime all’insieme delle articolazioni (‘le componenti’) delle Istituzioni Scolastiche (per le quali si possono ovviamente prevedere analoghi percorsi di ricerca). Le CP si riferiscono invece – qui e in genere negli studi sull’argomento che afferiscono specificamente al mondo della scuola – alla sola componente docenti (il Collegio che comprende anche il DS).

L’attenzione prioritaria alle CP dei docenti non vuol dire ovviamente sottovalutazione delle altre comunità professionali che operano nella scuola. Punta essenzialmente a riportare in primo piano la centralità dell’apprendere e del conoscere e quindi dei soggetti che istituzionalmente e prioritariamente sono investiti di questa funzione.

Perciò non penso sia esagerato affermare che l’idea di scuola a cui si tende passa in primo luogo attraverso l’idea di Comunità professionale dei docenti che si assume a riferimento; e quindi della cultura professionale di chi vi opera, della sua organizzazione, delle sue pratiche e dei suoi valori di riferimento.

[7] V. Pier Cesare Rivoltella, Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende, Cortina Editore, 2012.

[8] Organizational Learning, dove l’aggettivo è da intendere nel senso di ‘prodotto dai membri della comunità’.

[10] E. Wenger, Comunità di pratica.  Apprendimento, significato e identità’, Franco Angeli editore, 2006.

[11] V. sito Formez PA http://focus.formez.it/content/n10-comunita-pratiche apprendimento-e-professionali Focus tematico n. 10: Comunità di pratiche, di apprendimento e professionali, p. 22. Nel testo cit. – molto interessante e utile per orientarsi sull’argomento con una visione multidimensionale – il riferimento è nel paragrafo dedicato alle Comunità di Pratica.

[12] Le frasi virgolettate di questo paragrafo sono tratte da D. Schön, “L’epistemologia della pratica”, 1991.

[13] V. L. Mortari, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci Editore, 2011, Fabbri L. (2007). Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Carocci: Roma e C. Mion, Riflessività, in www.edscuola.it/archivio/ped/riflessivita.htm, 2013.

[14] J.Lave, & E. WengerL’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006 – prima pubblicazione: Cambridge University Press, 1991;; E. Wenger, R. MCDermott, & W. M. Snyder,  ‘Coltivare Comunità di pratica…, cit..

[15] Wenger, a seguito della ‘svolta’, formalizzata in ‘Comunità di pratica.  Apprendimento, significato e identità’, del 2002 (nel 2006 in Italia. V. n 9) prevede che vi si possano costituire in autonomia dentro le, ‘costellazioni’ di CdP anche ‘promosse’ – le CdP – dalle Organizzazioni in quanto interessate alla promozione di organismi attivi e innovativi.

[16] V. S. Gherardi, D. Nicolini, cit., pp. 56-57.

 




VALUTAZIONE DEGLI ALUNNI: UN VADEMECUM PER IL 1° E IL 2° CICLO

La valutazione degli studenti, periodica e finale, costituisce una delle principali responsabilità delle scuole, anche rispetto all’efficacia delle comunicazioni alle famiglie, pertanto deve rispondere a criteri di coerenza, trasparenza, motivazione e documentabilità.
A tal proposito si richiama l’art.1 del Regolamento sulla valutazione, secondo cui l’allievo ha diritto ad una valutazione trasparente e tempestiva.
Proponiamo in proposito un vademecum realizzato dalla dirigente Antonella Mongiardo.




Il digitale nell’apprendimento

di Franco De Anna

Una considerazione generale

Se guardiamo alla Storia con lo sguardo della “lunga durata”, e dunque per transizioni e fasi di secoli, non possiamo non riscontrare una permanenza critica ad ogni passaggio che investa le forme della comunicazione, ed in particolare di quella destinata all’apprendimento e alle nuove generazioni.
Si ricorda la critica e la diffidenza di Platone verso la “parola scritta” rispetto alla interazione dialogica diretta.

Ma quanti secoli dovettero passare per misurarsi con la disponibilità diffusa della parola scritta attraverso il libro come strumento essenziale nella riproduzione della cultura, la cui diffusione di massa è legata alla invenzione della stampa? Anzi della tecnologia della stampa a caratteri mobili. Potremmo continuare gli esempi: ma ciò che conta è la consapevolezza che lo sviluppo delle ICT corrisponde ad un passaggio storico che ha portata simile a quelle transizioni citate, e dunque sfida radicalmente la nostra capacità di interpretare, decostruire, ricostruire significati connessi alla comunicazione sociale.

D’altra parte, non mancano certo sensate elaborazioni e pensieri sui problemi che nascono dalla intersezione tra sviluppo delle ICT, formazione ed apprendimento. Non solo, anche se specialmente, per le nuove generazioni. Un pensiero preoccupato per tanti adulti e finanche pensionati hikikomori maturi. In questa elaborazione cercherò di esaminare tali processi per i riflessi che essi hanno sulla organizzazione della scuola, tenendo conto ovviamente delle diverse elaborazioni ed esperienze sviluppate in proposito in questi anni. (Mi preme sottolineare il riferimento al rapporto con l’“organizzazione” della scuola . I cambiamenti indotti dal digitale nei processi di apprendimento vanno proiettati sulla dimensione di “sistema organizzato della istruzione e dell’apprendimento”.)

Non si tratta (solo) di rapporti precettore-allievo

Non ostante la sempre in agguato pericolosa dislocazione di “apocalittici e integrati” di Eco, che, come tale, è assolutamente paralizzante su entrambi i fronti, il dibattito è ampio. Rimane il fatto che la questione si accompagna ad interrogativi radicali, in particolare rispetto alle competenze dei docenti; non “tecniche” ma in campo psico socio pedagogico. Anzi direi: filosofico e antropologico.

Voglio fare solo un esempio

(Che credo sintetizzi molti significati di ciò che dirò in seguito)

Siete un docente “creativo” che usa le tecnologie e i loro dispositivi per sfruttarne le potenzialità (ah! se li aveste avuti a disposizione quando eravate studenti!!!). Dopo opportuno inquadramento storico-culturale avete dato un compito operativo ai vostri ragazzi. Per esempio: dopo spiegato (e capito…) cosa intendesse Duchamp disegnando i baffi alla Gioconda, proponete loro di fare altrettanto con altre opere “rinascimentali”

Che so? Mettere neri ricci ad una Venere che sorge … dei cerotti ad un San Sebastiano… degli occhiali ad una Santa Lucia… Gli strumenti che hanno a disposizione tra le loro mani rendono possibile realizzare il compito senza grande sforzo … Si selezionano le immagini in rete… ci si misura con semplici taglia-incolla e correttore di immagini… si ricava rapidamente ciò che altrimenti avrebbe reso il lavoro su carta proibitivo …

(Certo altra cosa è comprendere a fondo il senso della provocazione Duchamp, ma credo che tale operatività aiuti anche ciò). Osservateli al lavoro, e provate a pensare alla tipologia di problemi che avete di fronte, se appena riuscite a prender distanze dalla soddisfazione dei risultati. La cosa che immediatamente balza agli occhi è l’accorciamento drastico del circuito stimolorisposta…

Trovano una immagine, tagliano, adattano… buttano… ricominciano. Più volte e fino a quando non siano soddisfatti del “prodotto”. A volte, in realtà, avete l’impressione che si interrompano solo per un impulso esterno (la campanella, l’intervallo…) come se il “risultato mai” e invece “iterazione perpetua”.

CLICCA QUI PER LEGGERE L’INTERVENTO COMPLETO




Educazione alla cittadinanza, occasioni (forse) perdute

di Rodolfo Marchisio

Pandemia, crisi ecologica e climatica, crisi energetica, elezioni e diritti

Siamo al terzo ed ultimo anno della sperimentazione dei progetti di Ed Civica (meglio Ed. alla cittadinanza), ma le attività, anche se rimaneggiate dai futuri governi, resteranno obbligatorie, oltre che collegiali e trasversali alle varie discipline.

Ci siamo confrontati su questo, negli ultimi 3 anni (come nei 15 precedenti sui temi di Cittadinanza e Costituzione) con centinaia di docenti; anche sul tema della valutazione (o meglio della Programmazione, Osservazione, Valutazione e Certificazione delle progettualità, perché i vari momenti sono inscindibili).
La valutazione proposta dalle linee guida della EC era molto vicina, come logica, a quella proposta per legge alla scuola primaria. Una valutazione formativa, collegiale, partecipata e condivisa con allievi e genitori. Trasparente, perché altrimenti non sarebbe stata democratica.
Questa era la prima sfida della EC legge 92/19. Portare la valutazione formativa anche negli altri ambiti di scuola. Osservare e descrivere il progresso verso le competenze e gli obiettivi attesi (in modo condivisibile) attraverso indicatori. Osservare i progressi. Non misurare i livelli.
Valutazione formativa e non voto come si discute anche alle superiori.

Il MI ha rilevato che diverse scuole non hanno ancora attivati progetti e aveva, mesi fa, stanziato fondi. In molte scuole dei vari livelli si erano realizzati notevoli progetti, esemplari buone pratiche.
In molte scuole, la progettualità è stata scaricata su un docente (nelle superiori diritto o storia ad es) o su un ristretto numero di docenti del Consiglio di classe.

Mi hanno lasciata sola. Non possiamo fare un lavoro collegiale, perché mancano gli spazi ed i tempi per confrontarci (specie nella secondaria); ma manca anche l’abitudine e spesso la disponibilità a lavorare insieme.
Non posso partecipare perché ho già poche ore per la mia materia; anche se una buona progettualità non sarebbe una attività in più, ma una flessibilizzazione del proprio curricolo – i programmi non esistono più ma molti ci si nascondono dietro – una partecipazione, con ricerche relative ad argomenti disciplinari, ad un puzzle interdisciplinare comune con una sua logica che quindi non richiederebbe più ore di didattica (attiva). Come molti progetti dimostrano.

Una prima impressione è che gli IC (infanzia, primaria, sec. di 1 grado) abbiano cercato di lavorare in verticale, anche se con qualche difficoltà. Mentre gli IIS abbiano fatto progetti più inquadrati in una programmazione di Istituto e lavorato in orizzontale (tutte le prime fanno una cosa…)
Partendo da quanto appreso in 43 anni di scuola come docente (e 40 come formatore), so che gli allievi non imparano da quello che diciamo, ma da quello che siamo (ad es democratici o no), dalle esperienze anche emotivamente significative che fanno con noi. Dal clima di classe (Losito).
Abbiamo vissuto, negli ultimi 3 anni, e vivremo ancora almeno 4 grosse esperienze sociali che ben si prestavano o si prestano ad essere ricerca attiva, concreta di cittadinanza. Imparare a lavorare insieme, raccogliere ed elaborare dati ed informazioni validate e riflettere su quello che viviamo.

  1. La crisi sanitaria, sociale ed economica della pandemia, è stata (o poteva essere) un enorme laboratorio attivo di esperienze di cittadinanza e di cittadinanza digitale Non sfruttata dalla scuola, presa ad affrontare la emergenza e miope nei confronti della realtà come esperienza che si vive insieme, drammatica, ma formativa.
    Questa riflessione, questo modo di vivere la crisi in modo attivo dipendeva dalle famiglie (già in crisi) e dalla scuola anch’essa in enorme difficoltà. Ma ci sono esempi di buone pratiche, un esempio alle superiori ma anche in altri ordini di scuola.

Con la pandemia – smart working, DaD, ma anche divieti e limitazioni di diritti, passaggio temporaneo e limitato dei poteri all’esecutivo, peraltro regolamentato dalla Corte Costituzionale; ma anche abuso della rete e dello smartphone (Cfr dati Polizia Postale: + 133% di uso e dipendenza dai device, + 77% reati e cyberbullismo) – abbiamo imparato che:

  1. La rete è finita. La rete, la banda, è una cosa finita come l’acqua. Non apparentemente infinita come l’aria. Se tutti usiamo l’acqua ne arriva un filino a ognuno e le cose si rallentano (specie con i video) e si complicano.
  2. Siamo ormai, a scuola e nel lavoro, “schiavi di Google” anche a causa del MI.

Quindi in Dad siamo “andati a scuola da Google”, per responsabilità del MI e per pigrizia.

  1. Usiamo la rete soprattutto attraverso lo smartphone, di cui abbiamo il record mondiale (93%), lo strumento più discutibile e pericoloso.
  2. Della rete usiamo solo alcune “stanze”, social o app ed ignoriamo tutto il resto: abbiamo un mondo da esplorare e stiamo chiusi in 3 stanze, sempre quelle. Quando domando ad un ragazzo “tu usi internet”, spesso la risposta è no. Poi scopro che ha un profilo social, fa ricerche con Google e invia mail e post. Quasi tutto da smartphone. È in rete, ma non lo sa.
  1. Siamo prigionieri in quelle poche stanze di Google e degli altri monopolisti (GAFAM), con i loro servizi apparentemente gratuiti e le loro app; anche nella scuola ed anche in epoca Covid hanno proseguito la loro politica di schedatura dei nostri dati, di “personalizzazione” della rete, di isolamento in gabbie [1] confortevoli ma vincolanti. (Bauman e Pariser).[2] Ed hanno guadagnato centinaia di miliardi di dollari.
  1. Esistono 4 tipi di fratture digitali

Si sono evidenziate nella società e nelle famiglie attraverso la scuola e la DaD quattro tipi di fratture digitali e di cittadinanza dovute a motivi sociali, economici, talora di zone del paese. Ma anche di arretratezza tecnologica (tipo di banda) o di scelte politiche: privato vs pubblico, chiuso/privato vs open/libero/pubblico:

  1. Chi ha e chi non ha la rete.
  2. Chi ha e chi non ha le tecnologie: soprattutto PC, Tablet.
  3. Chi ha e chi non ha le competenze alfabetiche (di base) digitali per usare la rete.
  4. L’essere esclusi per disabilità, povertà, cultura. I “dispersi” in DaD sono stati principalmente i disabili, gli stranieri, ma anche i più poveri che non avevano gli strumenti e che spesso si vergognavano di far vedere la casa in cui abitavano.

7- Che il web inquina. È la quarta potenza al mondo dopo USA, Cina, Russia, come consumo di energia elettrica e quindi produzione di CO2. Soprattutto se abusiamo di social e di video (spesso inutili), contribuiamo alla decadenza della terra. Coi nostri sfoghi o le nostre inutili esibizioni creiamo una massa di dati che si raddoppia ogni due giorni contribuendo a fare della rete una pattumiera digitale frammentaria di difficile utilizzo a livello informativo. Roncaglia.
E di questo è bene essere consapevoli.
Alla fine del percorso, dice la legge sulla Ed. civica i ragazzi non dovranno – come pensano troppi – “saper usare i computer”.  Dovranno invece oltre a Valutare fonti, Interagire con gli altri attraverso il web, informarsi, partecipare, crescere in modo autonomo. Conoscere e rispettare norme di comportamento e norme del web. Gestire la loro identità digitale. Preoccuparsi della Privacy e della dipendenza da device (smartphone e rete), ma anche… conoscere gli svantaggi della personalizzazione e del vivere in una bolla social. art 5.2 legge 92/19.
Essere consapevoli dei veri pericoli della rete
. Dai cattivi padroni (Rampini) al CB, sapere “Cosa succede sulla loro pelle in rete”. Vademecum MI 2018.

Bambini e ragazzi delle varie età dovranno essere consapevoli, in modo proporzionato alla età, di: in che mondo web vivo? Come funziona la rete e perché? Quali sono le conseguenze su di me anche come cittadino, e sulla società? Quali vantaggi posso trarre dal web e quale è la sua utilità?

In questo cammino è utile sapere che esistono vari tipi di intelligenze, e che si può essere bravi in una cosa e meno in un’altra. Molte di queste intelligenze (interpersonale/social, intra personale/ identificazione attraverso i social, oltre che linguistica, logico-matematica etc…) si esercitano in rete. [3]

b- La crisi ecologica, i cambiamenti climatici, la crisi energetica, che sarà anche una crisi economica ci pongono di fronte alla necessità, troppo trascurata, di modificare in fretta comportamenti individuali e collettivi.
Sinora, ci ricorda Zagreblesky da anni, abbiamo consumato “come se non ci fosse un domani e come se non avessimo figli”. In tre saggi paragona la ipertrofia ego-individualista attuale alla crisi dell’isola di Pasqua che è collassata su se stessa, sino al cannibalismo, consumando tutto (piante, habitat, fauna) per rivalità, guerre e sete di potere. Abbiamo i granai vuoti e consumiamo più di quanto possiamo permetterci.
La crisi energetica/economica sarà lunga e complessa, perché è l’intreccio di scelte politiche non lungimiranti, non generazionali (solo gli statisti “pensano alle generazioni future”- De Gasperi), di divisioni politiche, di una guerra complicata, di speculazioni finanziarie.
Non credo che i singoli comportamenti più razionali e virtuosi che in passato, ci possano salvare da soli, ma
– una somma di comportamenti improntati al risparmio a partire dalle piccole cose che possiamo fare, incide per una quota.
– Soprattutto dimostra, in modo esplicito, che stiamo cambiando mentalità individuale. Che non siamo più come quelli dell’Isola di Pasqua. Che c’è un cambiamento di mentalità, di cultura.

c- I 3 filoni indicati della Ed Civica si intrecciano in modo inscindibile in continuazione, perché non sono altro che i 3 ambienti in cui viviamo in contemporanea: l’ambiente sociale (le regole, i diversi tipi di diritti e i doveri); l’ambiente naturale (il mondo, le sue crisi e le sue risorse); il “digitale”, se possiamo usare questa parola “ombrello” ormai priva di significato, il luogo dove viviamo, noi e i nostri ragazzi anche 7 ore al giorno e 2, 3 di notte.
Da cui dipendiamo psicologicamente e fisicamente (dopamina).

La ipertrofia dell’individualismo sociale è speculare (e coltivata, indotta, dai “cattivi padroni della rete” Pariser, Bauman) all’uso che facciamo della rete, non come risorsa collettiva, ma come luogo della esibizione e vanto della nostra ignoranza (se 1 vale 1 “la mia ignoranza vale come la tua competenza”, Asimov); come luogo di protagonismo, di esibizione, come luogo dove sfogare la propria difficoltà di identificarci se non in contrapposizione ad un gruppo di altri, di diversi: ovviamente le donne, gli omossessuali, gli stranieri soprattutto.  Non come luogo di convivenza, cittadinanza, collaborazione, comunicazione, condivisione. Le finalità originali.
Sino alle parole dell’odio ed agli odiatori seriali.

d- Anche durante la crisi pandemica, in DaD e dopo, abbiamo continuato a voler usare gli strumenti digitali e alcuni ambienti che ci sono stati imposti dal MI in modo pericoloso.
Pochi di quelli che hanno usato le piattaforme per la DaD e continueranno (nella “Scuola di Google”: Zoom, Class room… ) ad usarle hanno potuto fare prima una riflessione sugli Ambienti di Apprendimento, sulle loro caratteristiche formative (non tecniche: ma spazi, tempi, relazioni, ruolo del docente, metodologie possibili o indotte) e sugli ambienti di apprendimento digitali.

Il digitale può essere inteso come strumento (e tutti li vogliamo o li abbiamo), ambiente di ricerca (googlare), lavoro, didattica, ma soprattutto è un ambiente di vita che richiede consapevolezza e cultura. Quante ricerche troviamo su questo tema?
Come il digitale può favorire la cittadinanza attiva ed agita e come si forma la cittadinanza e la cultura digitale?
Usare il digitale senza cultura non solo è pericoloso, ma è diseducativo.

e- Infine. Fra pochi giorni si vota. Sarebbe un atto di consapevole cittadinanza interrogarsi, prima (e a scuola a posteriori) e documentare in base a dati e riflessioni:

  • Quanti e perché non esercitano più questo stanco diritto/dovere?
  • Quali diritti, pochi sono stati menzionati sinora, corrono rischi in queste elezioni?Meglio che far studiare gli articoli della Costituzione o l’inno, perché studiare gli articoli senza una vera ricerca che si sa da dove parte, ma non si sa dove finisce, non forma cultura di cittadinanza.  

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Bolla_di_filtraggio
[2] https://www.ted.com/talks/eli_pariser_beware_online_filter_bubbles Breve conferenza TED di Pariser.
[3] Pluralità delle intelligenze, Gardner