L’articolo 34 della Costituzione: una cornice imprescindibile per parlare di merito

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Simonetta Fasoli

Ogni discussione sul merito, comunque la si argomenti, deve fare i conti con l’articolo 34, che va letto come un unico e coerente disegno politico-istituzionale.
Il comma 1 inserisce il concetto dentro l’ambito dell’universalismo dei diritti (quel “tutti” è perentorio, tanto che va oltre il perimetro stesso della cittadinanza come requisito giuridico-formale).
Il comma 2 traduce l’universalità del diritto, determinandone la portata e i termini attuativi fin dentro gli ordinamenti del sistema di istruzione e educazione.
Il comma 3 ne fa un criterio ordinatore di contrasto alle diseguaglianze socioeconomiche matrici di iniquità sociale (quel “anche se privi di mezzi”).

L’insieme del contesto, dunque, vieta ogni deriva meritocratica al concetto di merito.

Per “meritocrazia” intendo l’uso strumentale del “merito” per stabilire o consolidare gerarchie sociali e di potere, che riportano la dinamica sociale dentro l’orizzonte di una società elitaria: basata sul censo, sul privilegio della nascita, sulla cultura che da “bene comune” si trasforma in fattore di discriminazione e in patrimonio da tramandare nel perimetro escludente della stessa classe sociale.
Se tutto questo è vero, e se una ri-contestualizzazione del dettato costituzionale è possibile, o addirittura auspicabile, ne farei discendere i seguenti corollari.
1) tutti sono “meritevoli”: di attenzione, riconoscimento, supporto attivo nei percorsi di crescita e di educazione.
2) nessuno de-merita, nel senso suindicato.
3) de-merita, invece, il sistema educativo di istruzione e formazione che, preordinato per mandato costituzionale al compito di attenzione, riconoscimento, supporto attivo, viene meno alla propria funzione.

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La lingua italiana ai tempi del web

di Rodolfo Marchisio

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Wittgenstein

 La lingua cambia continuamente. Ma le modifiche apportate alla lingua che usiamo, con l’avvento del web, sono molte e, come molte cose che passano attraverso quel moltiplicatore e acceleratore che è la rete, hanno conseguenze molto significative anche sulla nostra vita personale e sui nostri diritti di cittadini.
Tanto che la domanda oggi, a partire dalla lingua, non è più “cosa ci faccio col web” ma “cosa il web sta facendo a noi”, al nostro linguaggio e di conseguenza al nostro modo di esprimerci; quindi di ragionare, di sentire, di avere relazioni e fare amicizie, di agire e scegliere, cioè di essere cittadini. (S. Turkle).
“I ragazzi devono saper cosa succede sulla loro pelle in rete” …perché “cambiare è ancora possibile” recitava il Sillabo sulla Educazione civica digitale del MI 2018. In relazione alla attuale fase del web che ha fatto dire a T. B. Lee “Non riconosco più la mia creatura”.

Cominciando dalla lingua, perché di qui comincia il processo che coinvolge informazioni, conoscenze, pensieri; ma anche emozioni, sentimenti, percezioni, relazioni, amicizie e il nostro modo di essere. Persone e cittadini.

Allora è il momento di fare, insieme ai nostri ragazzi, una riflessione linguistica attraverso esempi, ricerche, dati ed autori, su come il nostro linguaggio, in molti modi, sia cambiato con l’avvento del web e su quali siano le conseguenze di questo cambiamento dinamico.

Se ne sta occupando anche la Accademia della Crusca. Ma, fortemente intrecciata con la dimensione lessicale, grammaticale e linguistica, c’è una dimensione culturale e di cittadinanza.

Ad esempio di semplificazione, del linguaggio e del pensiero. Da “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno…” a “E’ tutta colpa del governo”! Da ipotassi a paratassi.
Un problema che riguarda la grammatica, la linguistica, ma anche la cittadinanza.

Potremmo parlare allora della lingua e del pensiero come gioco di costruzioni.
Del rapporto, ad esempio, tra quantità e qualità di parole conosciute e democrazia (Don Milani, Orwell, Zagrebelsky).
Oppure del rapporto parole-azioni-potere come ci ricordano “Alice nel paese delle meraviglie” o Orwell con la neolingua (1984).
Del rapporto fra semplificazione della lingua e svalutazione della conoscenza e della competenza. Nichols, Asimov.
Della scomparsa di modi e tempi dei verbi nei media e della semplificazione della nostra espressione, specie nel web; anche, ma non solo, per la brevità imposta dagli ambienti social.

Verso la assertività: l’indicativo è il modo dei semplici e dei prepotenti.

Della lingua del web, spesso breve, aggressiva, equivocabile per mancanza di linguaggi non verbali (viso, gesti, tono). Wallace.
Del linguaggio dell’odio in rete (del rapporto odio/linguaggio), di odiatori seriali e di chi sono, della industria delle Fake news che, ormai regolarmente, “inquinano” il nostro stanco diritto/dovere di votare.
Della frammentazione e dell’eccesso di informazioni in rete, spesso inutili e inquinanti.
Di parole “ombrello” come digitaleGuastavigna – o di parole suicide.
Dei vantaggi e dei rischi (anche ecologici) legati alla disintermediazione nel campo della espressione; di post verità e delle sue conseguenze.
Dal punto di vista del vocabolario in ingresso. Dei neologismi, delle parole straniere entrate a far parte del nostro lessico, di sigle o abbreviazioni, del “gergo” dei social che fanno ormai parte anche della lingua parlata/scritta nella vita di tutti i giorni.

Dovremmo riflettere sul rapporto emozioni/emoticon: anche semplicemente giocando con le emoticon (oggi oltre 3600 divise in dieci categorie) o col tono della voce.
Ma anche lavorando su abbreviazioni e modifiche della grafia, sms, lapidi e placiti Cassinesi.
O ancora sul senso di esperienze di libri riscritti con le emoticon, come Pinocchio.
Soprattutto di riflettere su quanti e quali diritti queste modifiche, talora implicite, talora volute e pagate, parte di un sistema economico di controllo del cittadino e del consumatore, stiano limitando o violando.

In sintesi.

Occorrono nuove consapevolezze (e competenze) sulla lingua che partano da una riflessione su:

  1. come cambia la lingua del web,
  2. ma anche la nostra lingua col web,
  3. come il web condizioni la lingua che parliamo,
  4. quali siano le conseguenze relazionali, sociali e di cittadinanza on e off line

Essendo consapevoli:

a- del fatto che oggi i giovani ci propongono, attraverso il web, un modo nuovo di comunicare multimediale cui prestare attenzione,
b- che il loro linguaggio (ma solo il “loro”?) sta utilizzando sempre meno parole (800 secondo il MI Inglese, poche decine negli sms). Il vocabolario di base di De Mauro, partiva da meno di 2000 parole per arrivare a un massimo di 7000 di più largo uso.
c- ma anche delle potenzialità dei linguaggi ipertestuali (e ipermediali) a più livelli che ci offre la espressione online.

L’insegnamento deve adeguarsi al cambiamento dei linguaggi e dei comportamenti cognitivi, imparando ad animare gli spazi di un immaginario che si compone anche dentro e attraverso la Rete. C. Scognamiglio.




Ministero dell’Istruzione e del Merito: ma perché stupirsi? stava già tutto nel programma

di Nicola Puttilli

Stupisce lo stupore con cui il mondo della scuola e non solo ha accolto la nuova denominazione del “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Forse non tutti avevano letto l’accordo di programma relativo alla scuola delle forze che si apprestano a governare, il cui primo punto recita: “rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico…”.

Meritocrazia e professionalizzazione sono aspetti fondamentali nel quadro di un intervento complessivo e organico sul sistema di formazione. L’idea di sostenere i “capaci e meritevoli” è, tra l’altro, alla base dell’art.34 della nostra Costituzione.
Non è d’altro canto possibile non ricordare alcuni decenni di sociologia dell’educazione che, già a partire dagli ’60, hanno chiaramente messo in luce come il “merito” non sia una categoria del tutto neutra ma che strutture concettuali, attitudine all’apprendimento, atteggiamento verso lo studio si definiscono già nei primi anni di vita e dipendono in larga misura dai condizionamenti socioculturali dell’ambiente di provenienza.
Quello che preoccupa, e non poco, non è la presenza della parola merito ma la totale assenza di parole come inclusione e dispersione scolastica. In uno sguardo complessivo come dovrebbe essere quello di chi si accinge a governare non può mancare qualsiasi riferimento a quello che è considerato, ma non da tutti evidentemente, il problema più pressante della nostra scuola, sia in termini sociali sia in costi economici.

Anche “professionalizzante” è una bella parola a cui corrisponde un concetto altrettanto fondamentale. Lo storico disallineamento tra filiera formativa e filiera produttiva è infatti un altro grosso problema del nostro sistema formativo che determina da un lato rilevanti difficoltà al sistema economico, oggi ribattezzato tout court “made in Italy” e dall’altro persistenti fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione che penalizzano in modo inaccettabile i nostri giovani.
Doveroso occuparsene in modo urgente e determinato, ma anche in questo caso colpisce l’assenza di qualsiasi riferimento “all’educazione del cittadino” che in una società democratica dovrebbe precedere o, quantomeno, affiancare la formazione del produttore con l’obiettivo, citando Dewey, di “formare persone in grado di contribuire al processo decisionale nel proprio contesto operativo e di vita e di comprendere in forma critica le scelte di governo”.

Altro punto qualificante del programma che non tarderà ad emergere è il “riconoscimento della libertà di scelta educativa alle famiglie attraverso il buono scuola”. Anche in questo caso ritorna in gioco un principio costituzionale, quel “senza oneri per lo stato” di cui all’art.33, soggetto a diverse e contrapposte interpretazioni. Rimane la considerazione relativa al saccheggio subito dalla scuola pubblica nell’ultimo trentennio, con dimezzamento della quota di PIL alla stessa assegnata e la inevitabile domanda: dove prendere le risorse se non ancora e sempre dalla medesima esausta fonte?

Pochi, certamente condivisibili e quasi di rito gli altri punti del programma relativo a scuola, università e ricerca (14° su 15 non proprio tra le priorità), tra gli altri, investimenti su edilizia scolastica, formazione del personale e superamento del precariato (temi storici rispetto ai quali nulla si dice sul come).

Merito, professionalizzazione, libertà della scelta educativa sembrano pertanto i temi caratterizzanti che segnano una scelta di campo, rafforzata dal non detto su temi non necessariamente contrapposti ma almeno altrettanto distintivi quali il contrasto alla dispersione, l’inclusione, la formazione integrale del cittadino.
Si tratta di un’idea di scuola fortemente identitaria che sembra voler ignorare molto di quanto si è effettivamente realizzato nelle nostre scuole negli ultimi decenni, temi su cui aprire un confronto aperto, senza forzature e tanto meno imposizioni. La scuola è troppo importante per diventare terreno di scontro ideologico, bisogna ripartire da un’analisi attenta dei suoi problemi reali e da quanto i suoi insegnanti e dirigenti scolastici hanno, fino ad oggi, costruito.




Te lo do io il merito. Dalla meritocrazia alla mediocrazia è un attimo

di Mario Maviglia

Chissà quanto costerà alla finanza pubblica (ossia a tutti noi) la nuova denominazione di numerosi Ministeri voluta dal nuovo Governo.

Occorre infatti cambiare l’intestazione delle carte (anche se buona parte della comunicazione oggi avviene on line), i timbri non più in regola, le targhette ai vari uffici. E questo per tutti i Ministeri coinvolti e per le loro diramazioni territoriali.

Gli istituti scolastici, ad esempio, dovranno subito darsi da fare per aggiungere “e del Merito” subito dopo “Ministero dell’Istruzione. E dire che molte di loro avevano da poco finito di aggiornare la vecchia denominazione di “Ministero dell’Istruzione e della Ricerca”. (Ma se fate un giro in rete, ci sono ancora istituzioni scolastiche che utilizzano ancora la vecchia denominazione di “Ministero della Pubblica Istruzione”. Nostalgici…).

Può darsi (ma è alquanto improbabile) che gli inventori del nuovo nome abbiamo pensato all’art. 34 della nostra Costituzione, dove, in riferimento alla scuola aperta a tutti, viene citato il merito (“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”).
Non sappiamo per quale motivo, ma ci sembra che nel caso che stiamo trattando si faccia riferimento ad altri paradigmi valoriali (chiamiamoli così). E allora su questo punto conviene essere sfacciatamente espliciti e politicamente scorretti. Da molti anni in Italia (da sempre?) quando si parla di “merito” significa che si vogliono “sistemare” amici o amici degli amici (o familiari o parenti vicini e lontani o affini, con tutta la filiera genealogica del caso) in posti chiave o comunque ambiti, utilizzando (qui sta l’ingegnosità del paradigma) la parola magica del “merito”. È quello che succede quasi ordinariamente in ambito universitario, o nella nomina dei dirigenti pubblici ex art. 19 commi 5bis e 6 del DLvo 165/2001; o quello che succede quando si confezionano bandi ad hoc per la nomina di esperti/consulenti/formatori presso le pubbliche amministrazioni. Un ulteriore esempio è la cosiddetta fuga di cervelli dall’Italia, ossia quei talenti che non hanno alcuna possibilità di vedere riconosciute le loro competenze in quanto non adeguatamente “imparentati” con lobby o gruppi di potere.

Come funziona il meccanismo “meritocratico” in versione italica? È abbastanza semplice e tutto molto “regolare”: PRIMA si decide chi deve occupare quel determinato posto, e SUCCESSIVAMENTE viene confezionata la procedura valutativa o concorsuale in modo che non vi siano sbavature tra il dichiarato e l’agito (diciamo così). Insomma, una sorta di vestito cucito su misura del designato. Forse è per questo che quando sentiamo parlare di merito avvertiamo un certo fastidio, una sorta di orticaria comportamentale.

La rivincita della mediocrazia

Paradossalmente, questa traduzione nostrana della meritocrazia (ma probabilmente non è solo un problema italiano) porta a quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia” [1],  ossia il trionfo dei mediocri. Illuminanti le sue osservazioni fatte nel corso di un’intervista; “L’esperto è una figura centrale della mediocrazia: si sottomette alle logiche della governance, sta al gioco, non provoca mai scandalo, insegue obiettivi. È la morte dell’intellettuale, come lo descrive Edward Saïd in un saggio, Dire la verità. Intellettuali e potere. Si tratta di un sofista contemporaneo, retribuito per pensare in una certa maniera, che lavora per consolidare poteri accademici, scientifici, culturali. I veri intellettuali seguono interessi propri, curiosità non dettate a comando, possono uscire dal gioco. Un giovane ricercatore universitario ha davanti a sé un bivio. Se vuole essere semplicemente un esperto ha buone possibilità di fare carriera, ottenere una cattedra, finanziamenti. Se ha il coraggio di restare un intellettuale puro avrà un futuro molto più incerto. Magari non finirà assassinato come Rosa Luxembourg o incarcerato come Antonio Gramsci, ma non è più certo di poter diventare un professore come Saïd o Noam Chomsky. Ha buone chances di restare precario tutta la vita.”[2]

C’è poi da chiedersi, più in generale, quale significato viene attributo al merito in una società neocapitalistica e liberista come la nostra (credo che si possano ancora usare queste espressioni. Non vanno contro il codice penale…).
Paradossalmente le critiche più spietate alla “meritocrazia” provengono proprio da alcuni dei Paesi più industrializzati al mondo. Il filosofo politico americano, Michael J.
Sandel, dell’Università di Harvard, vi ha dedicato recentemente un libro, tradotto anche in italiano [3], in cui sostiene che il modello del successo individuale basato sul talento crea un meccanismo perverso in quanto stigmatizza e marginalizza coloro che non ce la fanno.
Non solo: siccome il successo è strettamente correlato al reddito, si tende a svilire l’importanza di alcune professioni, pure fondamentali per la tenuta e lo sviluppo della società, in quanto non abbastanza remunerative (è il caso dei docenti o degli infermieri).
Un’altra perversa conseguenza è che siccome la sottesa convinzione che il successo sia da ascrivere alle proprie personali capacità di affermazione (secondo la logica “ognuno è artefice del proprio destino”), allora le politiche di sostegno verso i deboli o verso coloro che non raggiungono risultati ritenuti soddisfacenti sono inutili. Ecco perché, secondo Sandel,
il trionfo della meritocrazia comporta come conseguenza una società meno equa, peraltro con fenomeni di rifiuto verso quelle minoranze che abbisognano di assistenza e di sostegni (immigrati, disabili, disoccupati).

Concetti questi ultimi non molto diversi da quelli espressi da Papa Francesco nel 2017 durante una visita pastorale e Genova e commentate da José Angel Lombo in un suo articolo[4]. Il Papa richiama il rischio di una “dittatura della meritocrazia”. Se da una parte l’idea di merito è inseparabile dal lavoro e da quello che si fa, quando “si considerano ‘meritevoli’ attributi o qualità che non provengono dal proprio lavoro, ma da situazioni o contingenze circostanziali, come la propria nazionalità, le relazioni, o addirittura i propri titoli quando questi non sono supportati da risultati oggettivi”[5], allora si creano problemi di carattere etico e di giustizia sociale. Infatti “questo scambio dei ‘meriti morali’ per ‘qualità circostanziali’ – un vero quid pro quo – interpreta i talenti delle persone non come doni, ma come mezzi per determinare ‘un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi’. A partire da qui si sviluppano almeno due conseguenze. Da una parte, si rende possibile una strumentalizzazione ideologica della meritocrazia, vale a dire il suo impiego come strumento ‘eticamente legittimato’ per giustificare la diseguaglianza. Ma la diseguaglianza – non la diversità –, considerata in modo radicale, non è altro che ingiustizia. D’altra parte, questo rivestimento da moralità di ciò che è invece meramente circostanziale non è operato soltanto in senso positivo – pretendere di avere meriti in ragione della propria situazione –, ma anche negativo, e cioè colpevolizzando la sventura o le condizioni svantaggiate di alcune persone, ragionando in questo modo: ‘io merito la ricchezza che ho, tu meriti la povertà che hai’”.[6]

Al nuovo Ministro il compito di sbrogliare questa matassa. Se il merito lo sostiene…

[1] A, Deneault, La mediocrazia, Neri Pozza, Vicenza, 2017

[2] https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2017/01/25/news/il_trionfo_della_mediocrazia_spiegato_dal_filosofo_canadese_alain_deneault-156837500/

[3] M. J. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Milano, Feltrinelli, 2021.

[4] J. A. Lombo, https://www.pusc.it/sites/default/files/pdf/approfondimenti/Lavoro.pdf

[5] Ibidem

[6] Ibidem




La mistica della rete che promuove democrazia

a cura di Marco Guastavigna

Lo storytelling leggendario e mitologico di internet come agorà espansiva della democrazia resiste solo nelle ampie sacche di mistica dell’innovazione, purtroppo ancora vastamente diffuse nelle istituzioni formative della nostra Repubblica.

Altrove – ovvero in altri territori e in altri ambiti socio-culturali – le vicende Cambridge Analytica, il pullulare delle fake-news, il diffondersi del pensiero di odio, la segregazione nelle bolle di opinione, la manipolazione quotidiana delle coscienze da parte delle aziende di social business, la privatizzazione e la frantumazione della sfera pubblica da parte delle piattaforme del capitalismo cibernetico hanno invece mobilitato il pensiero autenticamente critico. Quello che si pone domande problematizzanti, mette in discussione i modelli di riferimento, propone attivamente alternative.

Tra le varie testimonianze di questi processi di ri-emancipazione l’appello che presentiamo e che invitiamo a sottoscrivere. Si tratta di un Manifesto per la realizzazione di media e internet con scopo esplicito di servizio pubblico, destinati ai cittadini e non più ai consumatori di informazioni, redatto da Christian Fuchs e Klaus Unterberger.




La progettazione di istituto ai tempi del PNRR

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Clara Alemani

Come è noto, le scuole stanno ricevendo cospicui finanziamenti legati al PNRR. Appare quindi necessario che la progettualità di istituto (ri)trovi spazi e modi adeguati agli investimenti, così da scongiurare il rischio di spese poco oculate e creare invece le condizioni per utilizzare al meglio quanto viene assegnato.

 

 

La progettualità, intesa come attività del progettare[1], deve innanzi tutto assumere la trasparenza come riferimento imprescindibile, non soltanto per quanto attiene gli atti amministrativi e contabili, ma soprattutto come principio per documentare quanto via via si realizza. Tradizionalmente nella scuola si lavora molto, ma si documenta poco: in parte perché gli strumenti adottati sono percepiti come appesantimenti burocratici da molti docenti (e da alcuni DS); in parte perché spesso le scuole sono chiamate a operare in situazioni cosiddette di emergenza, in cui conta agire rapidamente e appare quasi impossibile ricavare spazi e tempi per progettare e pianificare le azioni che verranno realizzate.  C’è inoltre una ragione culturale, retaggio di una visione di scuola in parte romantica, in parte legata alla cultura gentiliana, che identifica qualunque documento ufficiale redatto dentro la scuola come una indebita perdita di tempo, un’attività che deve essere compiuta, un dovere da adempiere, che, nei fatti, non interessa a nessuno. Il pensiero ancora prevalente per molti docenti identifica il buon insegnante come colui (solo in parte colei) che, dotato di una solida cultura (rigorosamente umanistica), di carisma personale e di una certa dose di istrionismo, è capace di improvvisare le proprie lezioni affascinando e incantando alunni e alunne. Redigere il piano di lavoro o un’unità di apprendimento rappresenta, in questa visione, un tempo sottratto ad attività considerate più nobili. Anche molti tra i nuovi giovani docenti non sfuggono a questa logica dell’adempimento e non sembrano disponibili a interrogarsi su altre ipotesi possibili. Al contrario, la capacità di documentare può diventare una risorsa professionale per i/le docenti, con funzioni diverse e variegate, come illustra Barbara Balconi[2].

Anche i documenti di istituto ricadono spesso nella medesima logica dell’adempimento, configurandosi così, non come risorse operative utili per chi lavora a scuola, bensì come atti da chiudere in un cassetto fino alla scadenza successiva. Riesaminare la progettualità di istituto può servire proprio ad avviare una riflessione collettiva sui documenti della scuola, sulla loro struttura, sulle modalità con cui vengono redatti, sulla scelta delle persone che se ne occupano.

È necessario, preliminarmente, interrogarsi sul significato che in ogni scuola si attribuisce al termine progetto: sotto questo comodo e rassicurante umbrella term abitano iniziative molto diverse tra loro che variano da incontri di poche ore, di una o più classi, con esperti su tematiche specifiche, a iniziative che negli anni hanno perso il loro carattere prototipico e si sono strutturate come articolazioni della didattica ordinaria. Sarebbe utile allora che le scuole definissero con chiarezza i criteri per classificare le diverse attività e attribuire a ciascuna di esse uno spazio meglio definito all’interno del curricolo di istituto, del PTOF, nonché del Programma Annuale. Sarebbe ugualmente utile interrogarsi sul valore di tali iniziative, inteso come coerenza con gli obiettivi educativi e didattici individuati come prioritari dall’istituto, sui risultati ottenuti nel tempo grazie a esse (ammesso che vengano effettivamente misurate), ma anche sulle metodologie promosse e sui tempi di realizzazione. La questione dovrebbe riguardare soprattutto le iniziative che le scuole intendono mettere in campo contro la dispersione scolastica. È chiaro che gli interventi, soprattutto quelli che le scuole definiscono di recupero, non possono essere la riproposizione, seppure destinata a gruppi di alunni/e più ristretti, di metodologie e modalità di conduzione delle lezioni tradizionali, in cui il modello prevalente è ancora la lezione frontale. È altresì evidente che le scuole potrebbero opportunamente aprirsi a realtà esterne, come previsto anche dal decreto del Ministero, che già agiscono in molti territori, per co-progettare iniziative in grado di valorizzare anche e soprattutto gli apprendimenti informali e non formali, in aggiunta a quelli formali proposti dalla scuola stessa.

Qualunque sia l’indirizzo che la scuola si darà, è necessario scongiurare alcuni rischi, primo fra tutti quello di mettere in pista un numero sproporzionato di iniziative / progetti, difficili da governare e pertanto poco organici alla scuola stessa. Un altro rischio, come già accaduto in passato, è quello di importare esempi e pratiche, più o meno buone, in maniera acritica, senza cioè il necessario adattamento al proprio contesto di scuola, compresa la cultura professionale delle persone che vi lavorano. C’è infine il rischio che le scuole improvvisino, realizzando azioni non sorrette dalle necessarie competenze professionali, intese come

  • adeguata formazione dei soggetti chiamati a realizzarle (sapere);
  • necessaria pianificazione delle azioni da realizzare (saper fare);
  • solida cultura professionale e organizzativa (saper essere).

In questo particolare momento di questo particolare anno scolastico, in cui devono prendere avvio le iniziative del PNRR contro la dispersione, quelle del Piano Scuola 4.0, la rendicontazione sociale, il nuovo rapporto di autovalutazione, il piano di miglioramento e il PTOF, è necessario mantenere una visione di insieme (uno sguardo unitario) sulle diverse azioni che già si realizzano dentro le scuole, per evitare, da un lato la duplicazione di rassicuranti pratiche dall’esito incerto (o forse solo mai misurato),  dall’altro per differenziarne la tipologia e arrivare magari ad aggredire uno stesso problema da molteplici e variegati fronti.

Spetta a chi dirige il compito di mantenere la rotta, cogliendo ogni utile opportunità per garantire unitarietà all’organizzazione, ma anche per sollecitare la consapevolezza di tale unitarietà nei docenti, in tutto il personale della scuola, nelle famiglie, nei partner e nei portatori di interesse più significativi. Il messaggio deve essere chiaro e inequivocabile: la scuola ha selezionato i propri obiettivi, di miglioramento e di sviluppo, e agisce in maniera consequenziale, per favorirne il raggiungimento attraverso processi, azioni, iniziative e progetti coerenti con gli obiettivi stessi. È un messaggio che deve arrivare in maniera diretta dal PTOF stesso, cioè dal documento di pianificazione strategica dell’istituto, in cui le diverse iniziative sono portate a sistema in maniera coerente e organica, visibili all’interno e all’esterno della scuola, sostenute dalle necessarie risorse, a dimostrazione dell’impegno di tutte le persone che lavorano nella scuola.

Affinché si componga un disegno organico, è necessario che lo sguardo di chi dirige mantenga il fuoco su tre diverse prospettive, di cui sappia cogliere e far cogliere la complementarietà:

  • i risultati dei progetti, in coerenza con le azioni e gli obiettivi definiti (gli output, per così dire);
  • i risultati di apprendimento degli/delle alunni/e, destinatari per i quali quelle iniziative sono state messe in atto (gli outcome);
  • i risultati di apprendimento organizzativo, inteso come apprendimento che si sviluppa all’interno della scuola attraverso momenti collettivi di riflessione, di confronto e di agire effettivo e diventa patrimonio professionale dell’intero istituto (risultati in termini di impatti).

Per facilitare il compito e mantenere uno sguardo vigile, può essere utile elaborare o riesaminare, se già in uso, strumenti che

  • siano una risorsa per la pianificazione, la realizzazione, il monitoraggio, la valutazione e la messa a sistema complessiva delle azioni che si intende realizzare;
  • consentano di governare in maniera più agevole la complessità delle iniziative e dei progetti che le scuole realizzano e realizzeranno;
  • documentino le scelte e le strategie messe in atto dall’istituzione scolastica;
  • rendano possibile far dialogare fra loro i diversi documenti in corso di elaborazione (RAV, PdM, PTOF, Programma Annuale, Contratto di Istituto, …);
  • facilitino le azioni di monitoraggio e rendicontazione, non soltanto quelle che verranno richieste dal Ministero, bensì quelle necessarie alla scuola per valutare il proprio operato.

Ci sono elementi che, qualunque sia lo strumento adottato, devono essere presenti nel momento in cui si pianifica un’iniziativa o un progetto. Occorre

  • individuare obiettivi misurabili e coerenti con quelli di istituto riportati nel PTOF;
  • definire indicatori e target;
  • definire la sequenza delle azioni, anche di quelle apparentemente meno significative;
  • individuare i responsabili;
  • stabilire, per ogni azione, il piano temporale (quando e per quanto tempo);
  • indicare le risorse necessarie per la realizzazione;
  • definire un sistema di monitoraggio, in cui siano indicate le scadenze e le modalità di raccolta e diffusione dei dati.

Sarebbe inoltre opportuno definire un piano appropriato di comunicazione interna ed esterna, in cui indicare quando, cosa, a chi e come comunicare lo stato dell’arte delle varie iniziative.

Quanto riportato più sopra dovrebbe concretizzarsi in uno strumento a cui facciano riferimento tutti coloro che collaborano alle diverse iniziative, siano esse parte del Piano di Miglioramento, dei progetti del PNRR e del Piano Scuola 4.0, di ogni altro progetto realizzato dalla scuola. Un foglio excel o una tabella word possono essere altrettanto funzionali di strumenti più sofisticati che solitamente scoraggiano i/le docenti.

È certo che la definizione di uno strumento omogeneo per iniziative diverse comporta una riflessione che riguarda non soltanto la scelta delle attività, la loro pianificazione, realizzazione e monitoraggio, bensì un ripensamento più complessivo sul significato dell’azione educativa e didattica dell’istituto, sulla professionalità di chi ci si impegna, sul fare scuola. Una riflessione di questo genere deve trovare nella scuola uno spazio adeguato per svilupparsi, prendere forma e diventare così un elemento della cultura professionale di quell’istituto. È importante che non sia solo il risultato della riflessione (o dell’intuizione o persino dell’ostinazione) di una persona (o di un ristretto gruppo) , ma che possa diventare patrimonio di tutta la comunità professionale, come risultato di una riflessione condivisa e di un apprendimento sociale. Si parte dagli strumenti, ma si arriva inevitabilmente alle persone, ai protagonisti delle azioni educative e didattiche.

La rilettura della progettualità di scuola assume quindi le caratteristiche di un ripensamento complessivo del fare scuola e può condurre a ulteriori, interessanti spunti di riflessione. È possibile infatti che le diverse iniziative da realizzare richiedano anche aggiustamenti, correzioni, interventi su aspetti che riguardano i processi organizzativi (la necessità, ad esempio, di condensare alcuni interventi in un particolare arco temporale, con la conseguente necessità di rimodulare gli orari). È altresì possibile (auspicabile) che la necessità di pianificare azioni, variegate ma organiche, contro la dispersione promuova una riflessione sulle metodologie didattiche, sui modelli di lezione, sulla laboratorialità, sul significato stesso di dispersione. Ne potrebbe addirittura nascere un’esigenza di formazione su temi che derivano proprio dall’esperienza di quella scuola, in quel particolare contesto spazio-temporale! Ecco dunque che, partendo dagli strumenti, necessari per governare le azioni progettate, si toccano i nodi di una organizzazione complessa come la scuola: le persone, i processi, la cultura professionale, la dimensione sociale dell’apprendimento organizzativo.

La scuola valorizzerebbe in questo modo la propria dimensione di comunità professionale, con quelle connotazioni che Antonio Valentino richiama in un suo scritto[3]. Anche il profilo del/della dirigente ne uscirebbe rafforzato proprio in quelle dimensioni di leader per l’apprendimento di cui scrive, tra gli altri, lo stesso autore: capace di motivare le persone, sviluppare consapevolezza, orientare le scelte del collegio, creare le condizioni per favorire il confronto e la mediazione, delegare senza tuttavia smettere di presidiare le aree di propria competenza, adoperarsi per promuovere apprendimento per tutti i soggetti della scuola.

[1] SI veda il vocabolario Treccani on line, consultabile al seguente indirizzo web: https://www.treccani.it/vocabolario/progettualita/

[2] Barbara Balconi, Documentare a scuola – Una pratica didattica e formativa, Carocci, Roma, 2020.

[3] Antonio Valentino, Investire sulle Comunità professionali nelle istituzioni scolastiche. Condizioni e approccio
https://www.gessetticolorati.it/dibattito/2022/10/06/investire-sulle-comunita-professionali-nelle-istituzioni-scolastiche-condizioni-e-approccio/

 




Sbagliando si impara: fare valutazione ma senza provocare timori

di Raimondo Giunta

“Gli errori sono le porte della scoperta”(J. Joyce)
“Pensare è andare da un errore all’altro”(Alain)
“Lo Spirto scientifico si costruisce su un insieme di errori rettificati”(G. Bachelard).
“Se gli uomini sono i soli a poter fare gli errori,  sono anche i soli a poterli correggere”(G. Le Boterf).
Di simili citazioni se ne possono raccogliere tante altre, ma a scuola non si è riusciti a correggere il convincimento che l’errore sia una colpa di cui si deve rendere conto e di cui si deve pagare la pena, anche se come ci ricorda A. Giordan sono cinque secoli che l’errore è considerato come inevitabile nell’atto di apprendere; come inerente ai suoi processi.  Gli errori non sono colpe da condannare, nè imperfezioni da disprezzare. Sono sintomi interessanti degli ostacoli con i quali si confronta il pensiero degli alunni. Si collocano dentro il processo di apprendimento e indicano il progresso concettuale che bisogna ottenere (J. P. Astolfi).
L’ostacolo incontrato e non superato ha lo statuto di indicatore e di analizzatore dei processi intellettuali in giuoco.
L’errore segnala a volte un’incomprensione delle consegne da parte degli alunni o il loro disinteresse per l’argomento trattato o ancora la loro lontananza dalla cultura della scuola. Può essere l’affiorare di concezioni proprie dell’ambiente umano e sociale di provenienza degli alunni; è prova del loro modo di ragionare. L’errore può essere soltanto l’ostacolo creato dal modo in cui gli alunni agiscono e riflettono con i mezzi di cui dispongono.  Non bisogna cercare l’errore, ma la logica che l’ha prodotto. In altre parole l’errore è un’informazione, non una colpa e bisognerebbe finirla con le intimidazioni.

Bisogna accettare gli errori come tappe apprezzabili dello sforzo di comprendere dell’alunno e dargli i mezzi per superarli. Non si deve perdere la memoria del cammino fatto dal sapere e dalla conoscenza, degli ostacoli, delle incertezze, delle vie traverse e dei momenti di panico che l’hanno contrassegnato.
Si è proceduto da sempre laicamente per tentativi ed errori: solo dove e quando il sapere costituito vuole assurgere al ruolo di verità inconfutabile, l’errore si connota negativamente come devianza, opposizione, renitenza o rifiuto.

L’errore diventa imperdonabile solo in un contesto in cui la conoscenza non è ricerca personale, volontà di capire e risultato del dibattito e del confronto di opinioni e di teorie, ma trasmissione vincolante e dogmatica di saperi pre-costituiti; l’errore è imperdonabile dove il rapporto educativo non è fondato sul dialogo, ma sull’obbedienza ad autorità dichiarate indiscutibili; dove non si crea, ma si ripete; dove non si parla, ma si deve solo ascoltare.  Se l’alunno non è il vaso da riempire, ma il soggetto autonomo che deve fare in proprio il cammino che porta alla conoscenza, l’errore diventa uno strumento straordinario per insegnare a ragionare.
Bachelard affermava che una buona didattica delle discipline tenta di comprendere gli errori, prima di condannarli e combatterli.
Se l’errore, d’altra parte, è visto come motivo di sanzione, gli alunni tenderanno certamente di evitarlo col rischio, però, di cercare più le risposte giuste che concentrarsi sull’apprendimento.

Pur nell’accresciuta consapevolezza pedagogica del significato dell’errore a scuola spesso non si fuoriesce dalle pratiche che tengono ancora sugli altari con tutti gli onori del caso la sua severa condanna. Gioca a favore di questo stato di fatto anche il mantenimento del valore legale dei titoli di studio, che è incline alla logica oggettivistica della misurazione e alla pretesa di rilasciare certificazioni corrispondenti alla reale preparazione posseduta da una persona al termine di un tratto o di tutto il percorso di formazione.
Un certo modo di considerare gli errori è funzionale ad una logica di selezione.  La valutazione a scuola non può fermarsi alla logica giudiziaria della prova; valutare non vuol dire istituire il tribunale delle colpe e degli errori con tutto il corredo di drammatizzazione, di stress, di angoscia (Ph. Perrenoud).

Gli alunni e anche gli insegnanti hanno il diritto all’errore, a pensarci bene. Gli insegnanti non sono contabili del giusto punteggio, ma guide del processo di formazione, di cui devono comprendere gli ostacoli e le resistenze ad esso frapposti.

Gli alunni non sono dati da giudicare, ma soggetti da conoscere, da capire e da ascoltare, perché hanno una storia cognitiva da raccontare. Solo nelle pratiche di una valutazione che vuole essere formativa trova una soluzione pedagogica soddisfacente la gestione degli errori. Con accurata strumentazione l’errore diventa un’opportunità per la regolazione del processo di formazione, perché dà informazioni all’insegnante sul grado di padronanza raggiunto da un alunno e sulle difficoltà che incontra nel processo di apprendimento.  La valutazione formativa non ha come oggetto diretto il profitto scolastico, ma la relazione pedagogica del processo formativo, che viene valutata per poterla migliorare, in modo che l’alunno sia aiutato a identificare, a superare le sue difficoltà e a progredire.

“La valutazione formativa mira a consentire all’alunno di sapere perché è riuscito in un caso e non in un altro(. . . ). L’obiettivo di questo tipo di valutazione è in effetti di confrontare l’alunno con se stesso e di aiutarlo a compensare le difficoltà identificate da lui e per lui”(A. De Peretti).

Andare verso la valutazione formativa significa rinunciare a fare della selezione il nodo permanente del rapporto pedagogico. La valutazione formativa non ha una vocazione selettiva e in qualche modo suggerisce di sostituire una relazione cooperativa ad una relazione potenzialmente conflittuale.  La valutazione formativa dovrebbe esercitarsi soprattutto sugli alunni in difficoltà; è funzionale alla differenziazione dell’insegnamento per un’educazione su misura. La buona valutazione è quella che suscita motivazione ad apprendere; è quella che valorizza lo sforzo e il superamento delle difficoltà e degli ostacoli; è quella che non tende a sorprendere in fallo e non demonizza gli errori.

Nelle operazioni di valutazione convivono naturalmente sia l’intenzione della misurazione, per gli esiti pubblicistici di cui si è parlato, sia l’intenzione dell’interpretazione che si realizza nel giudizio di valore. Intenzioni che allo stato di fatto esistono e che bisognerebbe saper conciliare, perché danno consistenza al significato della valutazione.
Bisogna saper conciliare la prospettiva dell’aiuto e della regolazione con quella del riconoscimento sociale degli apprendimenti, dell’attestazione e della certificazione.  Nei fatti si registra un’oscillazione costante tra una concezione democratica della valutazione, inclusiva e a sostegno delle pari e migliori opportunità per tutti, e una concezione elitista, formalmente meritocratica, ma funzionale alla riproduzione delle distanze sociali esistenti ad un certo momento della storia della società. La valutazione non dovrebbe servire ad escludere e a stigmatizzare, ma dovrebbe essere un’opportunità per apprendere meglio. “Altro è la selezione, altro è volere che le persone apprendano ad agire con efficacia, permettendo di riflettere se sono stati ottenuti gli effetti voluti. “(G. Le Boterf)

Purtroppo generalmente nelle pratiche di valutazione viene proposta una pedagogia dell’emulazione e della costrizione; raramente una pedagogia della realizzazione e della cooperazione. Per preservare la dimensione educativa della valutazione è necessario considerarla come l’operazione che assume il proprio significato nel dare un valore, nel valorizzare il lavoro, l’impegno,  la prestazione degli alunni.  “Bisogna spostare il senso ultimo dell’attività valutativa dalla polarità del controllo e della sanzione,  a sostegno di una logica premiale o punitiva,  a quella della ricerca e sostegno dell’innovazione”(M. Ambel).  Verrà il giorno in cui prove e valutazione non saranno più considerate con timore e terrore?