Il discorso sul merito

di Stefano Stefanel 

Merito e Meritocrazia sono due nomi che, in questi giorni, fanno discutere, da qualunque parte li si voglia considerare. Poiché il Merito è diventato il nuovo logo del Ministero dell’Istruzione e del Merito credo che, almeno in questa fase, sia meglio attenersi al mondo della scuola, visto che analogo trattamento non hanno ricevuto, ad esempio, i ministeri della Funzione Pubblica, dell’Università e delle Ricerca, degli Interni, ecc.

Se ci fermiamo dunque al Ministero dell’Istruzione e del Merito sono quattro le categorie interessate alla questione:

  • gli studenti
  • i docenti
  • i dirigenti
  • il personale ATA

LA PERICOLOSA CHINA DEL MERITO COME CONTRALTARE DEL DE-MERITO

Cominciamo dagli studenti che, a tutt’oggi, nel mondo della scuola sono gli unici ad essere valutati in maniere, comunque, troppo disomogenee e molto poco eque. Va immediatamente sgomberato il campo da un possibile equivoco e cioè che tutto ciò che non è de-merito, per sua stessa natura sia merito. Per dirla in modo molto semplificato: se prendo 5 de-merito, se prendo 6 merito: questo è un modo proprio perverso di ragionare. La docimologia italiana è la base strutturale della sua dispersione, perché scambia misurazioni sommarie ed arbitrarie con i processi di valutazione. Bisogna, quindi, sgomberare il campo – immediatamente – dal de-merito, categoria legata a situazioni sociali, personali, culturali, motivazionali che si vanno ad intrecciare spesso con didattiche frontali ed obsolete, ossessione per compiti in classe e interrogazioni, interesse per i risultati dei prodotti e non per quelli dei processi. Il merito deve, dunque, essere qualcosa che dimostra particolari capacità degli studenti che devono essere premiate nell’ambito di un’azione meritocratica, che parte cioè dagli oggettivi risultati di coloro che riescono a sollevarsi dalla media. Dunque, il merito dovrebbe essere la ricerca degli elementi di eccellenza in un sistema che deve, contemporaneamente, avere attenzione ai bisogni di inclusione, supporto, accompagnamento, azioni dirette sulle persone.

Se si volesse percorrere la strada della valorizzazione del merito una buona lettura è quelle costituzionale: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questa dicitura intende tutelare un principio di equità non di concorrenza, mettendo tutti i “bravi e meritevoli” sullo stesso piano, sia che abbiano i mezzi, sia che non li abbiano. A prima (ma anche a seconda) vista sembra che l’idea insita nella Costituzione non sia molto simile a quella che ha ispirato il cambio di nome ministeriale. Il merito, comunque, si può premiare e individuare ma, per farlo, è necessario slegarlo totalmente dal de-merito, altrimenti si passa da una tendenza equa, ad una tendenza selettiva e iniqua. Quindi si deve partire dall’idea che i voti, in sé, non possono essere merito, ma soprattutto non possono discriminare il merito in rapporto al de-merito. Se non si sta molto attenti, in questo frangente, si rischia di trasformare tutto in un’unica notte dove tutte le mucche sono nere.

                L’azione sul merito inteso come elemento di valore e qualità alta o altissima dovrebbe produrre due provvedimenti che però scardinerebbero il sistema scolastico italiano:

  • L’eliminazione del valore legale del titolo di studio
  • L’eliminazione delle bocciature

Il valore legale del titolo di studio pareggia tutto: i diplomi e le lauree presi in Istituti e Università di grande valore e quelli presi per via telematica; i percorsi di eccellenza e quelli mediocri, le lauree di chi le ottiene al primo appello utile e quelle di chi si trascina per vent’anni all’università. Non credo sia necessario enumerare tutti gli elementi che hanno prodotto la grande distorsione italiana per cui il “pezzo di carta” fa aggio su qualunque competenza sia stata acquisita per raggiungere quel “pezzo di carta”: sia quella di alto valore e livello, sia quella strappata anche attraverso tutte le varie patologie del sistema (due anni un uno, istituti che usano metodologie valutative non comparabili, e via di seguito). Se i diplomi e le lauree non avessero valore legale, in primo luogo, si abolirebbero gli esami di stato, che forniscono classifiche tanto inutili quanto deleterie, su prove di tipo contenutistico spesso proposte per soddisfare le aspettative dei valutatori e non dei valutati.

Il secondo passaggio dovrebbe essere quello dell’abolizione della bocciatura, con la conseguenza di rendere necessaria una valutazione e una certificazione che descrivano attentamente tutti i percorsi in modo che si possano conoscere le reali competenze acquisite dagli studenti. Così si avrebbero, ad esempio, studenti che escono dai licei con il 100 e lode e studenti che escono con il 25, cioè con un semplice attestato di frequenza. Tutto questo collegato agli accessi universitari aperti solo a chi – in determinate materie – ha un voto alto. Per cui, ad esempio, se esco da un liceo scientifico con 4 in matematica non posso iscrivermi a ingegneria, dove ci vuole, poniamo, l’8. A quel punto pur provvisto di diploma devo andare a prendermi l’8 (al liceo o all’università), altrimenti a quella facoltà non posso accedere. Non credo sia questo il luogo per dettagliare, ma se voglio fare lettere classiche all’università devo proprio avere da 8 a 10 in latino e greco. Questo permetterebbe un’azione personalizzata sui percorsi, con studenti che decidono di perseguire il livello alto in tutte le discipline e studenti che si specializzano in rapporto all’università e al mondo del lavoro. A questo punto diventerebbe fondamentale e interessante sapere da che scuola o università viene uno studente, che percorso ha seguito, dove è di alto o medio livello e dove di basso livello. E gli unici “bocciati” sarebbero quelli che a scuola non ci vanno proprio e quindi diventano soggetti su cui si dovrebbe agire in primo luogo per via sociale.

Non credo sia molto complicato comprendere che questo sistema rivoluzionerebbe tutta la scuola italiana e – soprattutto – renderebbe evidenti, pubbliche e verificabili le valutazioni e le certificazioni delle scuole. Il voto perderebbe il suo valore e diventerebbe soltanto la descrizione di un livello di competenza, come già avviene per i livelli linguistici (anche se questi livelli a scuola assurdamente convivono con i voti). E anche gli studenti che escono dal sistema con una bassa votazione potrebbero vedersi valorizzate alcune competenze. In questo modo la ricerca del Merito inciderebbe sul profilo dello studente e non sul suo tempo di permanenza a scuola.

Io credo non si possa continuare a dare in premio agli studenti migliori lo “scalpo” (leggi bocciatura) di quelli deboli e in difficoltà, perché non si ha altro da dargli. Sono due profili di studenti diversi e devono essere trattati in modo diverso. Lo Stato dovrebbe prevedere posti di lavoro immediati per gli studenti di alto livello, con percorsi certificati da scuole-università-organismi indipendenti. Insomma, lo Stato dovrebbe saper individuare i migliori, non lasciare indietro nessuno differenziando le didattiche a tutti i livelli, premiare i capaci e meritevoli senza metterli in raffronto con chi ha problemi ad essere capace e meritevole.

QUIS CUSTODIET IPSOS CUSTODES?

La questione dei docenti, invece, la si potrebbe chiudersi già dal titolo: poiché in Italia i valutatori destano sempre sospetti, nessun metodo di valutazione cancellerebbe i dubbi sui valutatori e quindi tutto sarebbe destinato al fallimento (come è successo a tutti quelli che ci hanno provato da Berlinguer a Renzi). Anche in questo caso si potrebbe fare un tentativo separando il de-merito dal merito. Non tutti gli insegnanti che vengono a scuola tutti i giorni sono meritevoli: qualcuno oltre a venire a scuola fa ottenere ai suoi studenti ottimi risultati, qualcun altro un po’ meno. Però come si verifica tutto questo? L’unica possibilità è che il merito sia un elemento certificato di eccellenza, non una semplice sequela di cose fatte premiate per il solo fatto di essere state fatte. Una base di partenza potrebbe essere questa: su base volontaria l’insegnante chiede di essere valutato e un soggetto esterno definisce il livello di partenza dei suoi studenti e lo stesso soggetto esterno (nucleo di valutazione) verifica a fine anno se c’è un valore aggiunto: se c’è, bene, si premia il merito, se non c’è non accade nulla e si è fatto quello che si è potuto. Questo metodo non produrrebbe insegnanti di diversa categoria, ma solo docenti desiderosi di verificare la propria capacità di lavorare sul valore aggiunto.

Sui dirigenti non merita – almeno qui – fare un lungo discorso, ma solo dire che va applicata la legge e vanno tutti valutati.

SEGRETERIE IN AFFANNO

Anche in questo caso si tratta di cancellare il concetto di de-merito e di occuparsi solo del merito, ma non attraverso astrusi meccanismi valutativi, bensì premiando economicamente le eccellenze delle segreterie. Anche in questo caso va ribaltato il concetto di intensificazione della prestazione che col merito non ha nulla a che vedere e va, invece, approfondito quello di competenza tecnica ,che va premiata sempre (gestione economica, graduatorie, progetti, piattaforme sono solo alcuni nomi dove è semplicissimo vedere l’assistente amministrativo di alto livello da quello di basso livello). E anche nel settore dei collaboratori scolastici per un dirigente scolastico è immediato verificare il dipendente che interpreta il suo ruolo in forma minuziosa da quello che fa quello che deve fare senza cercare di migliorare, anche perché poi comunque riceve un’intensificazione (anche se spesso molto piccola). Il problema è che, anche in questo caso, se tutto ciò che non è de-merito diventa merito allora invece di produrre efficienza ed efficacia nelle scuole si produce un sistema falso-egualitario dove tutti hanno teoricamente gli stessi carichi di lavoro, anche se non ne hanno – con un’evidenza molto semplice da verificare – le forze e le competenze per gestirli.

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Cinema e linguaggi

di Giancarlo Cavinato

Nella pedagogia Freinet, nel quadro dell’uso di una vasta pluralità di linguaggi e di codici,  l’uso didattico dell’immagine e del film ha avuto un posto fondamentale accanto alle biblioteche di lavoro e agli strumenti di stampa. Freinet aveva realizzato i primi filmini amatoriali utilizzando una cinepresa e un  proiettore Pathé.

Michel Mulat, dell’ICEM (Institut coopératif d’école moderne), sta facendo presso l’Università di Nizza e per conto dell’associazione Les Amis de Freinet costituita da anziani insegnanti Freinet di diverse parti del mondo un prezioso lavoro di restauro e documentazione di film e video prodotti nelle classi Freinet (riferimenti e informazioni: michel.mulat@cvc-freinet.org )

Purtroppo molti filmati d’epoca sono andati perduti o distrutti o sono irrecuperabili. Michel ha restaurato un film cult sull’episodio, citato ne ‘i detti di Matteo’, del cavallo che non ha sete. Il testo è tradotto in varie lingue, e letto da insegnanti dei diversi movimenti.

Le cheval qui n’a pas soif

Ce film culte de Freinet est une allégorie qui devrait être vue par tout éducateur qui se réclame  de la pédagogie Freinet.

Le commentaire qui accompagne ce film est difficilement compréhensible même pour les francophones.

La restauration de l’image de ce film est achevée. Nous souhaiterions en profiter pour le traduire  en toutes langues.

Le texte intégral et les consignes sont  accessibles par lien.► CLIC
Traduisez le dans votre langue et  prenez le temps de l’enregistrer et de nous adresser le son ► CLIC.

(Questo film cult di Freinet  un’allegoria che dovrebbe essere vista da ogni educatore che fa riferimento alla pedagogia Freinet. Il commento che accompagna il film è danneggiato e difficilmente comprensibile.
Il restauro delle immagini è stato completato. Chiediamo di tradurlo in tutte le lingue. Il testo integrale e le consegne sono accessibili tramite il link. Chi traduce dovrebbe registrare e inviare il sonoro)

Nel sito degli Amis de Freinet vengono via via collocati filmati recuperati e restaurati realizzati dai ‘pionieri’. https://asso-amis-de-freinet.org/index.php/
Nel sito  archives-freinet.org  si possono visionare produzioni di diversi periodi e classi; il link invia a  delle tabelle dove le produzioni sono indicate per titolo o per tema.

Un archivio che viene via via arricchito anche attraverso incontri che Mulat organizza nell’ambito della proposta CVC – classi virtuali cooperative. Nella sezione dedicata a tali classi sono visibili i filmati nella parte ‘Réalisations’ (menu verticale).

Si tratta, come è per diverse produzioni della Bibliothèque de classe cartacea, spesso di video e proposte realizzate dagli/con gli alunni stessi, il che è ben diverso dal proiettare in classe prodotti preconfezionati facendone oggetto di lezione con le LIM.

Ad esempio sono raccolti video su: autobiografie, guide per i corrispondenti (un’interessantissima esperienza di una classe di scuola dell’infanzia di Nizza che accoglie i corrispondenti di una classe prima in visita alla città e li guida alla scoperta dei luoghi più significativi. Ma… i corrispondenti scompaiono. Dove andare a cercarli?); mappe e guide per orientarsi; ricerca d’ambiente; il mio quartiere; ‘confinati’: una classe cooperativa virtuale antivirus; mostra dei lavori nella stazione;…

Produrre e inviare i propri filmati a classi corrispondenti è un’attività che ‘allena’ a un uso critico e attivo dei media.
E avere a disposizione una cineteca storica e attuale è una fonte di risorse indispensabile per gli insegnanti.

Un esempio di filmato.
https://archives-freinet.org/portraits/14-audet




Che ce ne facciamo di un Ministero del Merito?

di Gianni Giardiello

Ossia: …. che cosa c’entra il premio al merito per alcuni, per una scuola che deve essere per tutti e per ciascuno.

Intanto cominciamo a chiarire che la nostra Costituzione dice che tutti i cittadini, a prescindere dalle differenti condizioni economiche e sociali e dalle possibili differenze di genere, di razza, di lingua, di credo, ecc. hanno diritto all’istruzione. La legge che stabilisce l’obbligo scolastico per tutti i cittadini dai 6 ai 16 anni di età, per 10 anni, conferma questo primo fondamentale principio costituzionale.

Il diritto all’istruzione deve essere assicurato a tutti i cittadini dal sistema scolastico pubblico nazionale al cui funzionamento presiede il Ministero dell’Istruzione.

Ebbene il primo problema che si pone è che il sistema scolastico cosi come sta funzionando non riesce a soddisfare questo compito primario che la Costituzione gli affida.
Le cifre ufficiali degli abbandoni scolastici e della dispersione scolastica nel segmento dell’obbligo e nel triennio superiore e nell’università lo dimostrano ampiamente.
Questa è la questione più rilevante. Credo che il bisogno primario non sia quello di premiare ulteriormente chi già è bravo o più bravo, quanto piuttosto di contrastare le politiche ancora molto in voga nella scuola pubblica, orientate a “respingere” (bocciare) o “abbandonare” i più deboli e meno attrezzati.

Il secondo problema nasce dalla considerazione, condivisa da molti, che bisogni dare a tutti le stesse opportunità di partenza e poi vinca il migliore. Quasi che il percorso di istruzione fosse simile ad una qualunque gara podistica.

Guarda anche la video intervista a Gianni Giardiello


Ma sappiamo altrettanto bene che le condizioni di partenza non sono uguali per tutti e quindi è falsamente egualitario dare a tutti le “stesse” opportunità,E’ evidente quindi che se diamo a tutti le stesse opportunità non necessariamente garantiamo  loro uguali condizioni di partenza. Una buona politica dell’istruzione ed educazione deve invece, come già disse Don Milani, proporre che chi parte svantaggiato (soprattutto per quanto riguarda le condizioni socio culturali ed economiche della famiglia) possa avere di più degli altri. Una politica “discriminatoria” in senso contrario.

Una politica che spetta al sistema di educazione e istruzione nazionale garantire e gestire e che comincia da cosa si è in grado di dare ai singoli individui fin dalla nascita.

Numerose ricerche hanno confermato, ad esempio, che la frequenza del nido e di una buona scuola d’infanzia, non solo risolve i problemi di socializzazione primaria e secondaria dei piccoli, ma ne potenzia anche le capacità cognitive, psicomotorie e, più in generale, del saper apprendere. Cosi come sappiamo che per i piccoli è altrettanto decisivo, per costruire le proprie necessarie competenze “di futuro”, poter frequentare una scuola primaria e secondaria di primo grado che consenta la conquista delle conoscenze attraverso l’utilizzo delle capacità espressive, comunicative, logiche, operative e fisiche di ciascuna e ciascuno, proponendo ambienti di apprendimento favorevoli sia alla socializzazione e alla cooperazione fra pari, che allo sviluppo di percorsi di apprendimento individualizzati.

Ad una scuola siffatta non credo interessi granché il compito di premiare coloro che sono migliori degli altri, quanto, piuttosto, il riuscire a dare sostanza e continuità ad una azione educativa e istruttiva in grado di rendere migliori tutti gli altri, compresi soprattutto i “meno bravi”, coloro che sono più deboli e più in difficoltà.

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Contro la meritocrazia e per la giustizia a scuola

di Raimondo Giunta

La giustizia a scuola è oggi l’unica ragione della sua esistenza.
La scuola pubblica deve formare cittadini uguali, con uguali chances di partecipare alla vita pubblica, economica e sociale.
Il problema della giustizia a scuola è quello dell’accesso libero e paritario al sapere e alla conoscenza da parte di tutti i giovani.
Il sapere, il patrimonio collettivo di esperienze e conoscenze consegnatoci dalle generazioni precedenti è al servizio di tutti e non di pochi privilegiati. La conoscenza e il sapere sono, devono essere un bene pubblico e un bene pubblico per definizione non può essere posseduto da pochi.
E questo postulato non si deve dimostrare, altrimenti non si capisce perché si debba mantenere e finanziare un sistema pubblico di istruzione.
Contro l’ideologia del merito ci si deve battere, perché a scuola si possano ancora fare scelte di giustizia.

Ne cito qualcuna:
1) Ogni giovane, qualunque sia la sua origine sociale, deve riuscire ad affrontare gli altri su un piano di parità
2) La scuola deve offrire ad ognuno la possibilità di realizzare il suo potenziale umano per vivere secondo il principio di dignità
3) Nessuno deve restare indietro. Nessuno deve uscire dal sistema scolastico, senza il bagaglio necessario di competenze per non essere emarginato e vivere una vita dignitosa
4) La scuola non deve contribuire ad aumentare le differenze di riuscita tra individuo e individuo
5) Quelli che sono allo stesso livello di talento, di capacità e hanno lo stesso desiderio di utilizzarli devono avere le stesse prospettive di successo senza tener conto della loro posizione sociale.
Per trattare le persone in modo uguale, per offrire una vera uguaglianza di opportunità, la società e la scuola devono consacrare più attenzione agli svantaggiati, quanto ai doni naturali, e ai più sfavoriti socialmente per nascita.
“Un’eredità ineguale di ricchezza non è intrinsecamente più ingiusta di un’eredità ineguale di intelligenza” (J.Rawls).
Per essere giusto un sistema scolastico dovrebbe contrastare le disuguaglianze che conducono alla marginalità sociale.

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Educazione del lavoro

di Giancarlo Cavinato

Gioco e lavoro: una contrapposizione?

La polemica di Freinet è rivolta a una concessione eccessiva  alla vita dell’infanzia a un gioco totalmente gratuito libero da ogni responsabilità. Una fase della vita diversa da ogni fase successiva, in cui esercitare la propria ‘fantasia’ senza obblighi e compiti.

Ai nostri tempi eravamo integrati, fin dalla più tenera età, nel lavoro ambientale. […]Il lavoro si trovava al centro della nostra vita mentre il gioco era solo un accessorio e questa realtà aveva inevitabilmente la sua risonanza sullo stesso lavoro scolastico. La trasformazione è stata totale nel corso di questi ultimi decenni. Non c’è più il pericolo che si chieda ai bambini qualche servizio prima che partano per la scuola. Gli abbiamo preparato le fettine imburrate; li facciamo perfino mangiare il fretta. Li vestiamo; gli infiliamo il cappottino e i genitori li portano a scuola in auto. Quando usciranno, non avranno altra preoccupazione che quella di giocare, aspettando il pranzo. Anche nelle famiglie meno agiate non sempre si chiede ai ragazzi di aiutare a lavare i piatti[…]E da questi ragazzi che sono stati formati a giocare, che hanno disimparato il lavoro a tutto vantaggio di una pericolosa e passiva facilità, si esigerà, quando la porta della scuola si sarà chiusa, che lavorino tutta la giornata, senza sapere perché si trasformino così, bruscamente, le regole di vita di cui avevano beneficiato.[…] Ascoltate le lamentele dei professori della secondaria: “I ragazzi non sono abituati a lavorare; sono  incapaci di iniziativa e di decisione .”.Essi sono ciò che han fatto una società e una scuola che hanno disimparato il lavoro.[1]

L’analisi di Freinet si concentra sul valore di socialità che il lavoro contribuisce a formare, sulla responsabilità, sul senso del bene comune in uno spazio pubblico dotato di laboratori, centri di produzione, ‘con gli arnesi necessari per un lavoro serio.’[2]

Freinet non mette in discussione le fondamentali analisi sulla funzione dell’immaginario e del gioco come anticipazione della vita adulta, così come le fondamentali conquiste dell’eliminazione del lavoro minorile, ma la dissipazione del tempo del bambino che si è venuta produrre nelle nostre società limitando lo sviluppo di una personalità sociale.

Le stesse riforme scolastiche che prevedono stage formativi e alternanza scuola-lavoro (con tutte le controindicazioni per la tutela dallo sfruttamento e la sicurezza) prevedono soluzioni individuali a un’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro che deve essere sociale. Creare collaborazione, solidarietà, accordando al lavoro un posto  nella formazione di ciascuno. Costituire quello che Primo Levi nella ‘Chiave a stella’ definiva il laboratorio come  ‘cervello collettivo’. Tutt’altra cosa che una concezione di una ‘preparazione al lavoro’ in strutture esterne, ognuno con percorsi diversi. Una lettura distorta della necessità, a lungo rivendicata dalla pedagogia, di un rapporto organico fra pratica e teoria per una formazione unitaria degli individui, in realtà tradottasi in una subordinazione della scuola al mercato del lavoro.

In Freinet una componente decisiva della vita scolastica è costituita dalla cooperazione, alternativa alla competizione. Nei ‘Detti di Matteo’[3] Freinet paragona gli alunni ai corridori del Tour de France. Per la maggior parte dei corridori, non è la classifica finale che conta, eccezion fatta per alcuni privilegiati. ‘O i corridori prendono in qualche momento la testa del corteo e si classificano in un buon posto, o abbandonano. La corsa non ha per loro senso se non permette, almeno per un istante., di riscaldarsi al sole del successo e della gloria.[…] Che ciascuno dei vostri alunni possa anch’esso prendere a un dato momento la testa della squadra ed eccellere i n uno dei molteplici compiti che la scuola moderna offre ai suoi alunni…Vi sarà facile trovare trenta funzioni significative per i vostri trenta bambini…’

La pedagogia Freinet non sottovaluta la necessità dell’emulazione nel lavoro e dell’autovalutazione e della valutazione sociale, grazie a una serie di dispositivi di  organizzazione del lavoro, socializzazione del pensiero dei bambini, tecniche di riproduzione e diffusione del pensiero, ricerca.

Una scuola che si organizzi su questi criteri è una scuola di laboratori, di classi aperte per il lavoro di gruppo e la diffusione di una pluralità di messaggi, una scuola del lavoro che sa articolare momenti diversi e stimoli diversi in cui ciascuno si sperimenti con le proprie risorse e sperimenti compiti e funzioni diverse sottoponendosi a una disciplina di gruppo.  

Una evoluzione positiva di una scuola che non si fondi soltanto sulle eccellenze e sul merito a scapito del successo scolastico di tutti non può non tener conto del necessario superamento della divisione rigida tempi di vita-tempi di lavoro. Come rivendicano i NATs’ (niňos y adolecentes trabajadores), sindacati dei bambini lavoratori dell’America Latina,  ci vuole un tempo per l’educazione e la cultura, un tempo per il lavoro e le condizioni di una vita dignitosa, un tempo per il relax e il riposo.

Come introdurre nella scuola un autentico rispetto dei bisogni, degli interessi, dei diritti dei ragazzi e nello stesso tempo garantire condizioni l’assunzione di forme di responsabilità e di cura del bene comune? Dice Freinet: ‘Organizzate il lavoro in maniera cooperativa, suddividendo i vari compiti e, soprattutto, adottate la pratica del giornale murale e della riunione cooperativa del fine settimana.[4]

Usando quali oggetti organizzatori e di pianificazione delle attività la conversazione, il consiglio di cooperativa. il testo libero, l’assemblea. Diversificando attività tempi ritmi uso degli spazi così da aprire la scuola alla realtà dove si svolgono attività funzioni e si risponde ad esigenze diverse, in cui non vige l’omogeneità continua.

L’esigenza è quella giungere a una disciplina del lavoro così come viene praticata in tantissime scuole moderne dove gli alunni, attratti da un lavoro che s’inserisce nella loro vita, prendono coscienza della necessità di una disciplina funzionale che non è né licenza né oppressione, bensì realizzazione di  un modo di vivere individuale e collettivo quasi ideale.’ [5]

NOTE

[1][1] Freinet C. La scuola del fare (2002), Junior, Bergamo, pp. 29-32 ‘Insegnare il lavoro’
[2] Op. cit.
[3] Freinet C., I detti di Matteo, (1956), La Nuova Italia, Firenze
[4] Freinet C. La scuola del fare, p. 260
[5] Freinet C. op. cit., p. 122




La parola “merito” va bene, ma va usata nel contesto giusto

di Domenico Sarracino

L’idea di chiamare “Ministero dell’Istruzione e del Merito” il vecchio MPI mi ha sorpreso creandomi un certo disagio e anche un inquieto malessere. Dico subito che di per sé l’idea di riconoscere e valorizzare il merito mi trova favorevole, ma a patto che la parola non sia presa isolatamente, ma chiarita, contestualizzata e collegata ad altre fondamentali condizioni.
Ora, il fatto che la compagine di governo utilizzi questa parola insieme ad espressioni ed esternazioni retrive ed oscurantiste che riguardano diritti, visioni del mondo, fatti religiosi e problemi economici e sociali, viene a costituire un puzzle minaccioso che non può non preoccupare.
Nelle mie considerazioni voglio partire dalle disparità presenti nella nostra società che non diminuiscono, anzi si accrescono, per richiamare subito il più alto compito che la Carta costituzionale si pone ed affida a chi è chiamato a guidare il Paese: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Dunque innanzitutto è necessario l’impegno a rimuovere le disparità, a costruire medesime condizioni di partenza e opportunità perché ciascuno poi possa farsi costruttore del proprio futuro, progredire, uscire dalla condizione di condanna ad una immutabile predestinazione che lo confina nella subalternità e ne deprime le aspirazioni.

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Se per tanti di noi l’ascensore sociale si è messo in moto permettendo di raggiungere mete ed un progresso sociale che i genitori, per le ingiuste condizioni sociali, spesso non hanno potuto conseguire è perché si sono congiunti due fattori importanti. Da un lato l’impegno, la fatica e lo spirito di sacrificio (rinunciare ad un divertimento, trascorrere le domeniche a preparare un esame, arrangiarsi con libri usati, arrotondare con qualche ripetizione e cose del genere) per poter esprimere le proprie potenzialità ed spirazioni; dall’altro il sostegno ricevuto dalla nostra Repubblica ( interprete dell’ansia di giustizia sociale e progresso provenienti dall’antifascismo e dalla Resistenza) attraverso borse di studio, assegni universitari ed altre facilitazioni. Promuovere il merito, intendendolo in questo senso, è un fatto di crescita individuale e sociale, apre la società a dinamiche progressive e costituisce un passo nella direzione dello spirito costituzionale e dell’uguaglianza delle opportunità.

E’ importante rilevare che Il benessere, la serenità della vita, la buona organizzazione sociale – un efficace sistema sanitario, scuola accogliente e ben funzionante, uffici pubblici competenti e disponibili, politiche non demagogiche ma responsabili – non sono mai dati automaticamente, ma sono sempre il frutto di una buona e giusta organizzazione sociale, del lavoro degli uomini e delle donne, delle loro preparazioni professionali e della responsabilità con cui le esercitano. Il vero riconoscimento del merito è quello che mette al bando nepotismi, raccomandazioni e scambi di favore; e pone abbienti e meno abbienti nelle stesse condizioni di partenza.

Il merito non può ridursi ad una corsa, ma deve essere un impegno a fare ciascuno al meglio il suo lavoro, a svolgere responsabilmente il compito a cui è chiamato. Infine, nel campo della scuola la parola in questione merita una particolare declinazione sia che si parli degli allievi che dei docenti.
Riferendoci agli allievi, non credo che ci sia consiglio di classe, per quanto malmesso, che nel processo valutativo non tenga conto di questi punti fermi, ben noti agli operatori del settore: situazione di partenza, percorso compiuto, impegno, buona volontà, partecipazione alla vita di classe, responsabilità e collaborazione; e non ci può, non ci dovrebbe essere consiglio di classe che non tenga conto anche dei supporti forniti per non fare parti uguali tra disuguali. E qui, più che parlare di merito, parlerei di valorizzazione da riconoscere.
Per quanto riguarda il lavoro dei docenti – che si articola in competenze disciplinari, didattiche, psico-pedagogiche, relazionali ed organizzative – non voglio negare che esistano differenze, ma nel contempo non posso non rilevare che esso è difficilmente misurabile, perché i modi di essere bravi professionalmente sono diversi ed ognuno ha i suoi effetti positivi sulle ricadute educative: c’è chi è un bravo disciplinarista e magari non brilla in empatia; chi si connota per le particolari doti didattiche; chi per una naturale dimestichezza con il mondo delle nuove tecnologie; chi per il tratto umano e la cura degli aspetti psicopedagogici; chi , più estroverso, riesce meglio a vivacizzare la lezione; chi è esempio di organizzazione, metodo, puntualità e precisione; chi più naturalmente è capace di stare vicino, incoraggiare e stimolare …
C’è poi anche il caso di insegnanti che non ce la fanno a reggere la classe o di chi demerita, ma la mia esperienza mi permette di dire che si tratta di casi sporadici e limitati, che si possono affrontare occupandoli in compiti collaterali o, nei casi di violazioni dei compiti contrattuali, ricorrendo alle leggi in materia. Infine, rimanendo nel campo scolastico, mi pare davvero importante richiamare un’osservazione che anche in questa sede va ribadita.
La scuola non è un processo produttivo, in essa non si producono oggetti, per cui data una materia grezza , si organizza una catena produttiva alla fine della quale devono uscire prodotti standardizzati con precise caratteristiche.
No, la scuola non è questo e guai se anche lontanamente qualcuno arrivasse a pensarlo. Dalla scuola non uscirebbero persone libere e dotate di autodeterminazione, ma freddi automi, mostruose amebe, la fine del mondo umano. Il difficile o la specificità del lavoro scolastico sta nel fatto che i soggetti in formazioni sono esseri umani, ciascuno con una propria storia, le proprie conoscenze ed esperienze, il proprio vissuto, il proprio background; e che perciò non possono essere oggetti predefiniti, ma soggetti che devono acquisire un loro sapere e saper vivere, un loro peculiare abito comportamentale, una capacità di pensiero autonomo e libero. Il lavoro scolastico non è una filiera lineare e ben sequenziata che si può racchiudere e descrivere in una formula, un algoritmo.
A scuola il successo educativo e le buone riuscite degli allievi sono sempre il frutto dell’azione educativa condivisa e congiunta che richiede costante ricerca e messa a punto, tentando e ritentando; è il risultato di una comunità di soggetti che solo agendo insieme possono riuscire nel difficile compito. E perciò premiare, riconoscere il merito di pochi, comporta il rischio di minare quel clima di collaborazione ed aiuto reciproco che fonda la comunità educativa e che permette alle forze di unirsi, e così facendo non le separa, non le contrappone ma moltiplica la capacità della scuola di svolgere i suoi importanti e delicati compiti




Merito, demerito, rigore e capacità

di Maurizio Parodi

Il nuovo, altisonante e indeterminato appello al “merito” voluto dal Governo Meloni è da molti riferito esclusivamente, prevedibilmente all’impegno degli studenti, e ricondotto a una vigorosa “stretta” normativa.

Va detto che i richiami al “rigore” didattico non sono mai rivolti alla qualità dell’impostazione pedagogica o alla congruenza della struttura organizzativa; no,
il riferimento è a una scuola in cui il merito quasi sempre consiste nell’estrazione socio-culturale, che premia i “migliori”, avvantaggiati in partenza, e allontana i “peggiori”, gli inadatti, i più deboli.
La nostra scuola è fin troppo sbilanciata verso una logica della prestazione che, tra l’altro, tende a confondere il virtuosismo servile con la qualità degli apprendimenti.
Una scuola che non “promuove” l’esercizio e lo sviluppo delle diverse abilità, delle diverse intelligenze di cui ciascuno è variamente provvisto, ma solo alcune abilità, alcune modalità d’uso dell’intelletto (per giunta le meno elevate, quelle legate alla ripetizione, alla memorizzazione), “bocciando” le altre, che in taluni, fortunati casi la vita si riserva di riscattare – vi sono imprenditori, giornalisti, persino scrittori, filosofi e scienziati che hanno trascorsi scolastici non propriamente brillanti.

Il rapporto tutt’oggi esistente tra rendimento scolastico e ambiente d’origine, il fatto cioè che i “capaci e meritevoli” prosperino soprattutto nelle famiglie “attrezzate” culturalmente e affettivamente, conferma che la scuola non funziona più nemmeno come ascensore sociale.

Ma di fronte al dramma, sempre attuale, della dispersione scolastica, non si può indulgere ad atteggiamenti di fatalistica rassegnazione, quasi si trattasse di un fenomeno “naturale”, di un processo “fisiologico” (e non patologico), connaturato al sistema comunque sano. Non è decente pensare che i ragazzi lascino spontaneamente la scuola, che “demeritino” colpevolmente, e non ne siano invece allontanati, che la rifiutino deliberatamente, e non ne siano respinti; equivale a dire che la scuola è giusta e i ragazzi sono sbagliati, proprio come il sarto menzionato da Postman che, limitandosi a confezionare un solo tipo di pantalone, sosteneva fossero sbagliate le natiche del cliente quando il suo modello non calzava a dovere.

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