Clotilde Pontecorvo, studiosa di psicologia dell’educazione

di Pietro Netti

Qualche giorno fa ci ha lasciati Clotilde Pontecorvo, maestra, studiosa e ricercatrice, tra le più importanti esperte italiane ed internazionali di psicologia dell’educazione e di processi di apprendimento.
Nata a Roma, scampata bambina alle persecuzioni nazifasciste, nel 1959 aveva conseguito la Laurea in Filosofia alla Sapienza con una tesi sul liberalismo politico di Benjamin Constant.
Professore emerito dell’Università Sapienza di Roma dal novembre 2009.
Fino ad allora era stata Professore di Psicologia dell’alfabetizzazione e di Psicologia dell’interazione discorsiva presso il medesimo ateneo.
Dal 1998 Ordinario di Pedagogia all’Università di Salerno e di Roma, dal 1976 al 1983 di Psicologia dell’Educazione.
Dal 1984 al 1997 è stata, nei due trienni 1983/1985 e 1997/2000, Direttore del Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione dell’Università degli Studi di Roma “Sapienza”.
E’ stata coordinatrice dell’ESF Network on Writing and Written Language.
Promotrice infaticabile della collaborazione tra università, insegnanti e scuole, ha ispirato la migliore politica scolastica degli ultimi 40 anni, esaltando in particolare la scuola dell’infanzia e la primaria.
Fondamentale il suo apporto ai lavori della commissione ministeriale che ha redatto gli indimenticabili e per molti versi insuperati Orientamenti per la Scuola dell’Infanzia del 1991.
Tra i molti temi di cui si è occupata nei suoi studi le modalità di acquisizione della lingua scritta, lo sviluppo di concetti sociali attraverso la discussione, i rapporti tra argomentazione e pensiero in contesti educativi, familiari e scolastici, il curricolo e lo sviluppo cognitivo in diverse aree, sulla formazione degli insegnanti, sulla continuità educativa.
Numerosi i libri e le pubblicazioni di cui è stata autrice. Tra gli altri: “La scuola come contesto. Prospettive psicologico-culturali” (Carocci), “Famiglie all’italiana. Parlare a tavola” (Carocci), “Psicologia dell’educazione” (Giunti), oltre a più di 200 articoli in svariate riviste internazionali e nazionali, capitoli in testi collettanei e circa 30 monografie.




Divari territoriali, valutazione senza voti, bocciature

Stefaneldi Stefano Stefanel

In questa fase della scuola italiana, che coincide con l’avvio del PNRR, sulla scuola si stanno abbattendo alcuni dibattiti solo apparentemente distanti tra loro, che ruotano tutti attorno ad un’unica “ragione sociale”: selezionare o includere. Tutto quanto viene discusso, però, lo è in maniera un po’ convulsa e non sempre gli obiettivi del sistema sembrano essere chiari a tutti.

Per i così detti divari territoriali un congruo numero di scuole ha ricevuto complessivamente 500 milioni di euro dallo stato (circa 250.000 euro a scuola), con uno stanziamento comunicato a giugno, quasi come un fulmine a ciel sereno, visto che le scuole nulla avevano chiesto. Anche i parametri indicati dal Ministero, per decidere il finanziamento, hanno individuato situazioni di criticità non ritenute critiche da molte scuole e hanno fatto pervenire cospicui finanziamenti per sanare situazioni problematiche che alcune scuole non ritenevano di essere tali. In attesa delle Linee guide sull’argomento sono però già trascorsi quasi cinque mesi dall’invio della comunicazione e l’anno scolastico 2022/23 ha già percorso un tratto della sua strada. In questo clima e con il passaggio del ministero alla destra si sta sviluppando anche un dibattito sul voto numerico e la sua eliminazione, sul concetto di valutazione formativa in contrapposizione a quella sommativa. La valutazione attraverso voto numerico e il concetto stesso di bocciatura (ripetere nell’anno successivo tutto quello che si è fatto nell’anno precedente) vanno nella direzione di aumentare i divari territoriali e la dispersione e dunque un ragionamento sulla valutazione sta in stretto rapporto con gli elementi da introdurre per recuperare questi divari.

L’impostazione solo numerica della valutazione nella scuola secondaria italiana aiuta a combattere la dispersione o la genera? Su questa domanda sono sorte varie teorie ed opinioni, a partire da quelle che nasce nella scuola primaria a seguito della trasformazione della valutazione numerica in valutazione i obiettivi – e non di materie – attraverso livelli e non voti.

Un altro elemento interessante da analizzare è quello relativo alla possibilità che i divari territoriali si sanino con un maggior numero di bocciature e di studenti insufficienti, cioè se i 500 milioni di euro possano servire per mettere in sicurezza una parte degli studenti non curandosi degli altri. Questo potrebbe portare ad una sorta di corso di recupero generalizzato e di massa che supporti gli studenti che si collocano a vario titolo nell’ambito della dispersione, attraverso un tentativo generico di risollevare il sistema dell’istruzione con metodi tradizionali.

Tutto questo, però, ruota attorno all’idea che il numero sia l’unico modo per valutare e che le verifiche tradizionali (compiti in classe e interrogazioni) ancora svolgano la loro funzione pedagogica e formativa. Non credo che, in questa fase, sia utile addentrarsi troppo in considerazioni di pedagogia generale, perché alla fine il PNRR porterà a valutazione dei risultai raggiunti non da parte del sistema scolastico italiano, ma da parte dell’Unione Europea. Se i soldi spesi per recuperare i divari territoriali non li avranno recuperati ci sarà stato solo un travaso di risorse su venditori ed almanacchi per un tentativo (a quel punto non riuscito) di raggiungere l’obiettivo della diminuzione della dispersione. Non credo che questa sia una strada realisticamente percorribile. Non potrà restare tutto così com’è, questo almeno dovrebbe essere chiaro.

Allora resta solo la messa in atto di strumenti, strutture e didattiche che puntino a rafforzare gli elementi positivi degli studenti deboli, per far salire il rendimento generale attraverso una modifica strutturale della didattica di fascia bassa. Credo sia necessario cancellare dalla scuola italiana l’idea che possa esistere una scuola attraverso cui si forniscono conoscenze, abilità e competenze uguali per tutti gli studenti e che questi poi vengano sottoposti ad una semplice fotografia in cui alcuni hanno raggiunto risultati soddisfacenti e altri no, quasi che il ruolo dell’insegnante sia solo quello di trasmettere e misurare.

Un piano che vada a coprire i divari territoriali deve porsi dalla parte dei più deboli per vedere come può farli diventare più forti, partendo dall’idea preliminare che non sempre il più debole è in grado di mettere in campo strumenti personali e sociali utili a costituire una solida base di apprendimento. Detto in termini “western spaghetti” molto spesso il ragazzo debole, che studia poco, è disinteressato e demotivato non è “buono”, ma è proprio “brutto e cattivo”. Se, però, vogliamo eliminare i divari territoriali dobbiamo addentrarci tra i “brutti e cattivi” dove è difficile produrre grandi cambiamenti, ma può essere interessante cementare apprendimenti (anche tecnici e pratici e non solo teorici).

Nell’immediato la strada più semplice ed efficace mi pare quella che procede attraverso quattro passaggi:

  • analisi dei (pochi) punti di forza e dei (molti) punti di debolezza degli studenti deboli o in dispersione;
  • predisposizione di Piani di apprendimento personalizzati (quindi percorsi totalmente autonomi ed individuali, non un abbassamento dei livelli o degli obiettivi) che rafforzino i punti di forza e semplicemente presidino in forma essenziale i punti di debolezza
  • valutazione dell’anno scolastico centrata sui punti di forza e non sulla situazione generale dello studente
  • azione orientativa per l’uscita dal primo ciclo dell’istruzione o per l’uscita dal sistema dell’istruzione verso il mondo del lavoro.

Si tratta di agire su base sociale e pedagogica per avviare lente modifiche in parti complesse del sistema, con l’idea che il cambiamento della didattica impone un’idea pedagogica e non disciplinare di apprendimento. Su questo, però, le associazioni culturali e professionali sono chiare: oltre un certo limite non si può e non si deve scendere, perché altrimenti non si insegna più la disciplina, ma si fanno azioni pedagogiche e formative generiche. Ecco che allora diventa necessario verificare con attenzione se tutto quello che si insegna nella scuola secondaria deve essere necessariamente imparato da tutti: perché se è così quelli che impareranno tutto diminuiranno sempre di più e quelli che impareranno poco o niente aumenteranno sempre di più.

Parafrasando potremmo dire “che cento latini fioriscano, che cento matematiche gareggiano”, cioè che si vada verso la didattica di discipline che raggiungono una parte di popolazione in maniera profonda e approfondita e una parte di popolazione semplicemente con una infarinatura culturale. Nella vita degli adolescenti e dei ragazzi si deve fare strada un rispetto per il generalismo e al tempo stesso una possibile apertura verso il disciplinare di medio e alto livello. Proviamo a declinare un paio di domande e un paio di risposte:

  • quante matematiche si devono sviluppare in una classe dunque?
  • quante servono
  • quante matematiche sono possibili?
  • infinite

Tutto questo è possibile? Con il Piano Rigenerazione scuola, il PNRR- Futura, il Piano Nazionale Scuola Digitale sì, ma per farlo bisogna rispettare il passato, non trattarlo da presente, perché non c’è più. Quindi le scuole davanti al problema di come ridurre i divari territoriali dovranno scegliere se prendere la strada della pedagogia o quella delle discipline. Davanti all’obiezione: come si può fare pedagogia senza discipline? la risposta è molto semplice: la pedagogia è pedagogia di discipline, ma le precede, non può semplicemente essere uno stratagemma per definire il concetto di recupero.

Qui sta l’elemento più difficile da progettare e attivare: slegare il concetto di corso o attività di recupero a quello di azione per il recupero dei divari territoriali. I divari sono una cosa seria, il recupero fatto dalle nostre scuole spesso non lo è. E non lo è non per carenza di mezzi, impegno, passione, interesse per gli alunni, ma per carenza di pedagogia, quasi che un argomento spiegato al pomeriggio diventi più semplice da comprendere dello stesso argomento spiegato al mattino. Qui forse è il caso di entrare nel merito del concetto di “spiegato”. Spiegare vuol dire ampliare, cioè collocare la meta-conoscenza (spiegazione) sulla conoscenza, quasi che la seconda sia per sua natura più semplice e comprensibile della prima. Quindi lo spiegare amplia e produce i risultati che tutti consociamo: ottimi su alcuni alunni, medi o mediocri su altri, pessimi su una parte sempre crescente di alunni. Agire pedagogicamente significa saper scegliere e selezionare cosa “spiegare” cosa “piegare”, cioè cosa trasmettere per sintesi e cosa per estensione, cosa è essenziale e cosa non lo è, cosa serve a chi tende al massimo e cosa serve a chi non tende da nessuna parte.

Credo che le scuole farebbero bene a lavorare in rete e a costruire solidi team progettuali con la consulenza di esperti esterni in linea con il progetto della scuola. Serve, penso, un po’ di umiltà e capire che chi è finito in un divario territoriale farà bene a non cercare di chi è la colpa (la scuola tende comunque a dire degli studenti che non studiano come si deve, delle famiglie che non fanno più il loro dovere, del digitale imperante), ma a capire con chi allearsi.

Concludo indicando il luogo dove trovare la linea per comprendere come eliminare i divari territoriali, l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030: “Obiettivo 4: Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.  In questa splendida definizione non c’è la parola uguaglianza (che piace tanto alla nostra scuola a livello di enunciazione ma non di fatti) ma ci sono altre parole chiave:

  • Educazione di Qualità (don Lorenzo Milani: “non c’è ingiustizia più grande che far parti uguali tra diversi”)
  • Educazione Equa (il Maestro Antonio Manzi: “quello che può fa, quello che non può non fa”)
  • Educazione Inclusiva (Edgar Morin: “servono teste ben fatte, non teste ben piene”)
  • Opportunità di apprendimento per tutti (John Dewey: “Una società consiste di un certo numero di individui tenuti insieme dal fatto di lavorare in una stessa direzione in uno spirito comune, e di perseguire mire comuni “).

 




Quando c’erano gli istituti magistrali

di Libero Tassella

Gli Istituti magistrali soppressi da Luigi Berlinguer erano corsi finalizzati all’insegnamento con una serie di materie caratterizzanti (filosofia, pedagogia, tirocinio).
Inoltre le maestre, in funzione dei concorsi ordinari che sostenevano tutte, affinavano in un secondo momento la loro preparazione tecnica; i corsi di preparazione erano gestiti da Direttori Didattici e da Ispettori che allora erano persone di una vasta cultura, poi nella pratica d’insegnamento acquisivano sempre maggiori conoscenze attraverso corsi di aggiornamento e si abbonavano a riviste come Scuola Italiana Moderna con i suoi vasti apparati didattici dell’editrice La Scuola (quelle cattoliche e democristiane) o come Scuola e Città della casa editrice la Nuova Italia (quelle socialiste e comuniste).

Comunque in ambedue i casi l’insegnamento era visto come una continua ricerca per lo meno un’avanguardia così lo considerava e si trascinava le altre e gli altri con una qualità medio-alta di insegnamento, nasceva in Italia la ricerca educativa e un dibattito sulla nuova didattica; è in questo clima che nacque l’integrazione dei disabili e si crearono le premesse per la legge 517 del 1977; il modo di fare scuola cambiava ma con la consapevolezza di formare il cittadino del futuro e un preciso riferimento alla Costituzione Repubblicana con una forte tensione etica.
Questa scuola che ha formato generazioni di italiani oggi è scomparsa.




Alla scoperta dell’intimità

di Giuliana Sarteur

Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione per l’importanza dell’educazione sessuale;
se ne sostiene fermamente l’inizio in età precoce a seconda dello stadio di sviluppo
dei bambini e degli adolescenti.
Un inizio precoce ha il vantaggio che i bambini e gli
adulti possono trovare gli argomenti meno imbarazzanti.
Il concetto fondamentale pare essere quello di salute sessuale che non comprende
solo contraccezione e prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale, ma
conoscenza del corpo e dei messaggi che esso invia.
Nel percorso educativo di formazione ed informazione spesso dimentichiamo i nuovi
connotati tecnologici della società: quella in cui oggi viviamo è la società dello show
continuo: siamo famosi se siamo visibili, continuamente connessi.
Allora diventa importante e necessario riparlare di intimità, di cura delle emozioni, del tempo da
dedicare alle attività e alle relazioni.
Se tutto diventa fluido, accessibile, possibile; se non esistono limiti e divieti non si attivano i percorsi trasgressivi ed esplorativi dei giovani verso l’attivazione della propria indipendenza e delle proprie fantasie.


In adolescenza è indispensabile sognare e desiderare una propria sessualità, un percorso che va maturato nella mente prima che diventi azione, pensarla prima che diventi una sperimentazione concreta.
Così, come ho già avuto modo di scrivere, è importante essere complementari ai genitori che non sempre hanno tutte le conoscenze indispensabili che i ragazzi devono acquisire: più informazioni rendono i ragazzi consapevoli e meno vulnerabili.
Questa nuova realtà tecnologica con cui i ragazzi vengono a contatto, spesso troppo presto, ha modificato la relazione con il gruppo dei pari con cui è sempre bene confrontarsi nel percorso di crescita. Un minore che naviga su internet può avere le abilità tecniche per gestire la tecnologia, ma non la maturità e le competenze emotive per scegliere in autonomie le scelte da fare
Quando sono davanti al computer basta un clic per interrompere la connessione e far sparire la relazione, tutto più facile, ma molto superficiale; tutto più accessibile senza controllo come la pornografia.
Perchè oggi i giovani vi si avvicinano così precocemente?
Non è solo la facilità di accesso; tutto ciò che doveva essere nascosto è attaccato frontalmente, visibile, è il superamento dei limiti del pudore.
Così il corpo femminile accessibile a tutti, sottomesso e disponibile: la pornografia è un danno per l’immaginario erotico. La donna nella pornografia ha sempre un ruolo passivo e sottomesso, un oggetto di piacere e non un soggetto con cui entrare in relazione.
Nel dialogo con i ragazzi dobbiamo sostituire la parola sessualità con sensualità
perché è li che avviene l’incontro, la scoperta, la soddisfazione reciproca e la ricerca
del piacere per l’altro.
La parola d’ordine per i ragazzi e i giovani che si avvicinano ad una relazione anche sessuale è intimità: vuol dire prendere tempo, non avere fretta, coltivare la tenerezza, non rinunciare ai sogni perché un mondo troppo razionale non da nè felicità né intimità.
Seduzione e complicità creano la relazione.
Alcuni appunti per i genitori: siate consapevoli delle esigenze dei vostri ragazzi, siate presenti da subito e responsivi alle loro domande, fate educazione affettiva e sessuale fin da piccoli e date
l’esempio con la vostra costante presenza.
Ad un giovane, ad una giovane ai primi rapporti non chiediamo se ha usato il preservativo (certo che lo utilizzano) bensì se è felice, così sapremo condividere e superare il normale e legittimo imbarazzo.




Saper scrivere, per mettere ordine nelle nostre idee

di Raimondo Giunta

La parola ci aiuta a tenere a bada, a regolare la molteplicità delle cose che fanno parte del nostro mondo e delle nostre esperienze.
Ci costringe a mettere ordine nelle nostre idee, a dare una direzione alla nostra volontà. In questo modo crea lo spazio delle nostre relazioni e la possibilità, se lo si vuole, di metterci d’accordo, di comunicare, di dialogare. Nella parola scompare la particolarità, l’individualità della cosa; vi rimane attaccata la sua essenza, l’eidos, come dicevano i greci, l’immagine che ci facciamo della cosa e che per questo diventa il significato del nome che la indica.

La parola “orale” è immediata, fisica, contestuale; si accompagna alle emozioni e le provoca.
E’ la parola della conversazione, dell’ascolto, della rabbia, della gioia, del pianto. La sussurri, ma la puoi anche gridare, mettendoci tutta l’anima. la Parola scritta è di suo astratta, riflessiva, malleabile modificabile, reversibile. E’ muta e per questo adatta al dialogo interiore.

E’ la parola da leggere, che è nello stesso tempo un vedere e un ascoltare, anche se la pronunci in silenzio; ma richiede tempo, richiede la separatezza del raccoglimento; richiede attenzione: risorse tutte in via di estinzione nell’universo della chiacchiera multimediale e della nostra vita quotidiana.

La funzione normativa e regolatrice della parola si esalta nella parola scritta, alla quale si deve la possibilità dell’accumulazione e del trasferimento delle esperienze per la sua radicale sinteticità. Non consacra nella tra-dizione l’intera memoria sociale, l’intera nostra storia, perché non potrebbe farlo, neanche se lo volesse. Ma quel che la parola scritta può trasmettere lo consegna con sicurezza, e di esso si può fare istruzione, perché disponibile nei “testi”.

La riproducibilità dei testi fonda la modernità della ricerca individuale, del libero esame, di una soggettività padrona del proprio pensiero. Modifica un costume collettivo rispetto al principio di autorità e al concetto di verità. Ci si istruisce attraverso i testi, ma non si dovrebbe dimenticare mai quanta parte del “mondo dell’esperienza” non vi è più rappresentato, che in essi son date delle risposte a domande che bisogna sempre tenere presenti o recuperare. Senza testi scritti non si può fare scuola. La scuola trasmette saperi e conoscenze perché il mondo dell’esperienza viene riassunto e recuperato attraverso quanto è stato scritto e riprodotto nelle discipline scolastiche. Il testo a scuola è il sostegno dell’oralità nella trasmissione dei saperi, il punto di partenza della conversazione educativa e del dialogo e non ha alcun senso rinunciarvi (. . si dovrebbe sempre ricominciare daccapo). Impone la logica stessa del modo di insegnare.

E’ insegnabile, infatti, tutto ciò che entra nell’ordine del discorso, e può essere ricostruito nella sua identità e struttura. La scrittura deve essere posseduta da tutti per potere partecipare alle pratiche sociali che da essa vengono trasmesse e rappresentate; proprio per questo va salvaguardata dalle pratiche educative che la sottomettono ad altre priorità, che ne misconoscono le potenzialità formatrici.

La scrittura stabilizza la nostra esperienza e differisce l’espressione immediata delle nostre reazioni, delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, delle nostre intuizioni collocandole nello spazio purificato della riflessione, con la quale diventano risorse del nostro pensiero. La scrittura mezzo di distanziamento e di riflessione nel mondo dell’immediatezza. Per questo è necessario a scuola valorizzare in tutti i modi, tutti i modi della scrittura. L’ingresso nella scrittura è il passaggio obbligato per ogni forma di autonomia intellettuale.




La giornata della libertà senza libertà

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Giuseppe Bagni

(per gentile concessione dell’autore e della rivista Insegnare)

Non sorprende che il nuovo governo riproponga il mantra storico delle destre sul comunismo e la sua storia, sorprende che lo faccia il Ministro dell’istruzione che sarebbe tenuto a garantire la libertà di insegnamento e la qualità dell’apprendimento nella scuola.
Il ministro con la sua lettera ci offre un ottimo esempio di quello che non deve mai fare un insegnante: dare un giudizio sul passato e imporre una visione ufficiale della storia invece che garantire gli strumenti per saperla leggere.

La scuola, in un paese democratico, si fonda sul pluralismo delle idee, sulla piena libertà di esprimerle e metterle a confronto. Se proprio vuol scrivere di storia, il Ministro si ricordi che essa ci insegna che è caratteristico dei paesi non democratici proporre un’ideologia di Stato e avere ministri incaricati della propaganda.

Il professor Valditara lasci le lezioni agli insegnanti. Che se tratteranno del percorso accidentato e tortuoso della libertà nella storia parleranno della caduta del muro di Berlino come il momento di una svolta epocale, non dimenticando tutti i momenti che nella storia europea, e anche del nostro paese, hanno segnato l’avvento di regimi nemici della libertà e della democrazia.

Non possiamo non commentare le parole del Ministro, ma vorremmo evitare di commettere ancora una volta l’errore di inseguire l’agenda delle priorità che stabilisce il governo. Prima il nuovo Ministero del Merito, poi la Giornata della Libertà.
Non sono questi i problemi veri della scuola, tantomeno del Paese. Queste sono uscite identitarie alla pari del decreto “rave”, delle navi Ong e migranti, dell’ergastolo ostativo, del tetto al contante, delle trivelle libere, dei medici novax in corsia, e degli altri provvedimenti che arriveranno con la stessa logica.
Segnali di fumo per indicare il cambiamento, ma anche tanto fumo negli occhi che testimonia un’impotenza verso le emergenze e i problemi reali.

Ma vogliamo davvero parlare di “libertà”? Se il ministro permette, gli spieghiamo noi qual è la libertà che vogliono i nostri ragazzi e le nostre ragazze.
La libertà di immaginare un futuro dove realizzare le proprie aspettative, che liberi dalla prigionia di un presente fatto di lavoro precario senza un domani.
La libertà di vivere al sud e nelle tante altre zone “disagiate” del nostro Paese senza portarsi sulle spalle quel disagio per tutta la vita.
La libertà di crescere in Italia senza dover scappare all’estero per trovare uno straccio di lavoro dignitoso. Oggi gli italiani che se ne vanno sono più degli stranieri che arrivano e dei fuggiti dall’Italia 1,2 milioni hanno tra i 18 e i 34 anni.
La libertà di sentirsi a casa nella propria scuola, “meritevoli tutti” di essere accompagnati fino dove consentiranno le potenzialità di ciascuno e ciascuna.

Non serve loro una Giornata della Libertà, serve una prospettiva di libertà. La storia è importante, ma non festeggeranno la caduta di un muro del passato quando tanti se li trovano davanti nel presente e tanti ne troveranno nel futuro.




Portfolio e pregiudizio

di Marco Guastavigna

Lo dico spesso, forse troppo: io ho avuto la fortuna di cimentarmi con un percorso formativo, culturale e professionale lontanissimo dalla mia laurea in Lettere, nel 1975, il cui unico (ed esclusivamente funzionale) passaggio tecnologico fu la battitura a macchina della tesi di laurea in bozza, con successiva normalizzazione in copisteria.

L’incontro con i dispositivi digitali avvenne dopo e per caso: a scuola c’erano un collega e uno studente dotati di Spectrum Sinclair e sotto casa aprì un negozio – siamo a metà degli anni ’80 – che vendeva Commodore 64. E così ho cominciato l’esplorazione, che continuo tuttora: cercare senso e significato con valenza intellettuale, politica e didattica analizzando e valutando aspetti operativi e cognitivi. E rifuggendo dagli slogan del pensiero unico della mistica dell’innovazione, la peggior forma di dominio tecnocratico possibile.

In quegli inizi accadde però un episodio che avrebbe dovuto mettermi sull’avviso su ciò che mi aspettava: ero in una scuola media, nell’aula degli audiovisivi, attigua a quella dove erano collocati un paio di C64 e alcuni Olivetti M24, quando entrò un’ausiliaria che non mi aveva mai visto prima. Vedendomi trafficare con quegli oggetti mi disse: “Lei deve essere il nuovo insegnante di educazione tecnica”. Non ricordo se delusi questa fortissima e limpida convinzione, ma l’aura che emanavo allora mi ha perseguitato per tutti i decenni successivi.

È mia abitudine, per esempio, iniziare i laboratori universitari in cui lavoro a contratto domandando quali siano le aspettative rispetto al percorso. Accanto a chi mi guarda stranito, non avendo ancora una confidenza personale tale da consentirgli di esclamare: “Ma quali vuoi che siano?”, ci sono puntualmente coloro che dichiarano: “Io non sono per niente tecnologic* e nutro un po’ di timore sui miei possibili risultati”. Dentro questa ricorrente autovalutazione vi sono tutte le componenti di un bias diffusissimo e – colpevolmente – trascurato.
Da una parte si fanno coincidere tutte le “tecnologie” (compresi libri, quaderni, matite, penne, occhiali, automobili, biciclette, monopattini, distributori di bibite e così via) con i dispositivi digitali. Dall’altra si attribuisce a questi ultimi una valenza totemica, assoluta e indiscutibile, alla quale ci si deve iniziare avvalendosi di ermeneuti a ciò consacrati.

Questo approccio ha numerose implicazioni negative, che impediscono alle persone di diventare davvero autonome.
In primo luogo, un’impostazione mnemonica, meccanica e addestrativa degli apprendimenti, in piena e assurda contraddizione con il design cognitivo e commerciale delle interfacce, a impostazione prevalentemente visiva, fortemente intuitive, che dovrebbero invece invogliare a esplorare e sperimentare in prima persona.
In secondo luogo, l’acquisizione stentata di un gergo balbettato e del tutto approssimativo, che anziché chiarire annebbia e confonde, partorendo espressioni come “laboratori di informatica”, “DAD” e “DID” nell’istruzione o “corsi di informatica” nella formazione dei nonni e degli anziani in genere, e la rinuncia a priori a costruire un lessico davvero condiviso, basato sulle effettive possibilità di impiego in un contesto definito.
In terzo luogo, la cultura della delega all’esperto (o presunto tale) locale, le cui conoscenze e competenze personali diventano le regole generali, indiscusse e indiscutibili del comportamento di gruppo, generando situazioni paradossali, come quella dei corsisti che accendono i dispositivi su cui dovrebbero imparare e devono invece attendere un bel po’ di tempo che i personal computer terminino il lentissimo aggiornamento di sistema che il “guru de noantri” ha deciso monocraticamente – e misteriosamente – di impostare come automatico.
In quarto luogo, ciò che mi preoccupa di più: i singoli e i gruppi che preferiscono il limbo della dipendenza e della necessità di ricorrere alle opinioni o agli interventi pratici altrui piuttosto che affrontare la fatica di un processo emancipatorio, di acquisizione di consapevolezza e di capacità critica.
Con i tempi che corrono e considerata la pervasività dei dispositivi digitali in ogni aspetto della vita quotidiana, questa scelta di subalternità configura una rinuncia attiva alla piena cittadinanza.