Scuola della cooperazione e della solidarietà vs scuola del “merito”

di Claudia Mossina
Presidente Regionale AIMC Piemonte
(il documento è stato deliberato dal Consiglio Regionale Piemonte dell’AIMC il 23.11.2022)

Dall’Art 34 della Costituzione
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
“Ministero dell’istruzione e del merito” è il nuovo nome attribuito al ministero che sovraintende alla scuola: ma quale declinazione ha, nell’intenzione del governo, il termine “merito”?
Riteniamo che sia un diritto della persona meritarsi il massimo possibile dalla scuola, vedere riconosciute e potenziate le sue capacità e accolte le sue fragilità.
“Nella vita della scuola il significato del merito coincide con il potenziamento dei propri talenti” dice Recalcati.
Enfatizzare il “merito” senza declinarlo può essere una forma di valutazione che utilizza standard elevati di successo scolastico senza tener conto dei punti di partenza e discriminando di fatto gli studenti che partono da situazioni svantaggiate culturalmente e socialmente o anche fisicamente.
La scuola, anche se faticosamente, sta cercando di offrire a tutti gli studenti percorsi di inclusione e di valorizzazione, anche delle diversità. Da cinquant’anni, dalla legge 517 del 1977, studi e formazione hanno cercato di fare breccia in una scuola orientata alla selezione, che tutto era, e in qualche area ancora è, fortemente selettiva.
La scuola cerca di educare i ragazzi alla cooperazione, alla solidarietà utilizzando metodologie nate appositamente per far loro sperimentare la bellezza del “darsi una mano” e del “fare insieme”. La sottolineatura del merito rischia di andare nella direzione opposta potrebbe se non ben orientata, essere un invito all’individualismo estremo, alla legittimazione della competitività negativa.
Chiediamoci quali cittadini di domani vogliamo! E di conseguenza quale scuola immaginiamo.
Quella che punta al miglioramento di tutti e quindi anche ad un progressivo innalzamento del livello sociale e culturale della società, (vedi le scelte di reintrodurre l’Educazione civica!) o quella che scava solchi ancora maggiori tra ricchi e poveri, tra fortunati e sfortunati, ecc.?
È uno scenario che come insegnanti, e come insegnanti cattolici in particolare, non vogliamo considerare!
Proprio come insegnanti non possiamo non prendere in considerazione anche il “merito” come espressione e declinazione della propria professionalità. Gli studenti, tutti, “meritano” di avere docenti preparati e motivati, docenti che danno il meglio di sé, che investono le loro migliori competenze ed energie nella didattica quotidiana!
Il congresso Nazionale, indetto per il 3-5 gennaio 2023 invita a camminare verso il dialogo, la collaborazione e l’innovazione.
Noi crediamo infatti nelle persone, nel loro diritto ad una crescita e ad una formazione che sia la più aperta ed efficace possibile, lavoriamo non per il successo scolastico di pochi ma per il successo formativo di ciascuno e riteniamo questo nostro impegno indice di alta professionalità, un impegno irrinunciabile che non va compromesso ma sostenuto dal governo con una concreta (in termini di azioni, risorse, scelte) azione di valorizzazione della scuola.

 




Educare umiliando. L’audace e rivoluzionaria teoria pedagogica di Giuseppe Valditara, Primo Ministro MIeM

di Aristarco Ammazzacaffè

È da un paio di giorni che il Neoministro Valditara non esterna. E questo preoccupa.
C’entra il Covid? O l’influenza stagionale? O piuttosto la Presidente Giorgia, preoccupata per le reazioni, a dir poco scomposte, contro il Neo, prodotte dalle sue uscite ultime e penultime (e fermiamoci lì)? O c’entrano i poteri occulti? Soros, pescando a caso, antiputiniano com’è, c’entra o no?
Sta di fatto che il neoministro non esterna più e questo mette ansia ansiogena e pone interrogativi densi e intensi, a pensarci bene.
La domandona: – Perché non si è apprezzato il gesto audacemente educativo del Nostro che fa retromarcia e chiede addirittura scusa per un termine usato forse impropriamente?

Il fatto è noto. Durante un evento a Milano di alcuni giorni fa, a proposito di ragazzi violenti, che purtroppo non mancano nei nostri istituti, il Ministro afferma che quello che la scuola deve fare è umiliarli, costringendoli, non – si badi bene – con pugni nello stomaco o frustate sulla schiena nuda, ma solo obbligandoli a fare dei lavori socialmente utili.
Interrogativo: – Anche presenti i propri compagni, o altro personale che passa per i corridoi? –
Perchè no? Se con queste esperienze soprattutto – argomenta il Neo – il ragazzo riconosce questa esperienza come passaggio denso di significato formativo e culturale?

Di fronte a ragionamenti di tal fatta, chi può dargli torto? Solo corvi e marmotte, penso.
Devo però confessare in tutta sincerità che, del suo discorso, un passaggio non mi è tanto piaciuto: quello dove, con un’enfasi eccessiva, afferma: Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella costruzione della personalità.

Io personalmente l’avrei evitata. Anche se nella frase c’è un bel richiamo alla ‘costruzione della personalità’, che molto ci dice della sua tempra educativa e della sua preparazione e formazione.
Della quale, tra l’altro, sono testimoni veraci i suoi tanti libri.
Cito solo due titoli che si impongono per altezza di ingegno, a crederci: “L’Impero Romano distrutto dagli immigrati”, Aracne editore (il mio preferito in assoluto) e “IMMIGRAZIONE. La grande farsa umanitaria” (edito da il Giornale. Una ricostruzione fuori dal coro, che si legge bene, anche a righe alterne. Miracolosa!).

Comunque, il messaggio formativo che gli sta più a cuore, e da cui intende partire, si può sintetizzare così: Non c’è ordine senza disciplina, né disciplina senza ordine.
E parafrasando: Né maccheroni senza cacio, né cacio senza maccheroni. Se proprio si vuole esprimere al meglio il concetto.

E ne è talmente convinto – il Nostro – da essere sicuro  che questi ragazzi quando cresceranno, lo ringrazieranno per tutta la vita e che nessuno penserà di bucargli le ruote della sua Audi, ultimo modello.
Cosa che io gli auguro. (Che lo ringrazieranno. Ovvio. Cosa avete pensato?)
Non per niente lui, come ho già detto altrove – per averlo letto sui giornali nazionali – è Preside all’Università Europea dei Legionari di Cristo a Roma; e quindi un Legionario convinto lui stesso.
Si sa anche (ma è notizia ancora riservata), che fra poco istituirà – sembra – un dipartimento intitolato alle Sentinelle della Madonna.
Lui è fatto così. È bene saperlo.

È stato invece poco considerato un passaggio, dell’intervento all’evento di Milano, in cui, dopo averci ricordato, scoraggiato, che “Così non si può più andare avanti” (E qui mi viene da dire a mia insaputa: – Che fa, Ministro? Getta la spugna? Non sia mai! Lasciamo campo libero ai nuovi barberi e infedeli?), ha aggiunto significativamente. “Quando io ero un bambino, il maestro era il maestro con la emme maiuscola”.
È certamente una frase che gli fa onore, perché dimostra che già da piccolo capiva tutto.
Non è stata però molto gradita – sembra – da alcune insegnanti giovani e da altre a fine carriera. Le prime svilite: – Perché noi sole con la lettera minuscola? Ci si discrimina? Non è giusto! -; le seconde offese perché: “Noi i nostri bambini, per educarli, non abbiamo mai pensato di umiliarli. Come certi Ministri”.
Che dite? Alludevano? Mah.
Anche a me, ad essere sincero, l’uscita non è piaciuta molto perché i tanti malevoli che sono in giro – e il Neo sa quanti ce n’è soprattutto tra gli ‘scolastici’; a sinistra poi …! – hanno avuto buon gioco a controbattere che se lui è il frutto dei quei maestri con la m maiuscola, meglio tenerci quelli con la minuscola”. A tanto si arriva! O tempora! O mores! (Anche se lei, signor Ministro, se l’è andato proprio a cercare)

Quanto poi alla cosiddetta sua retromarcia”, c’è da aggiungere che, per chi ci ‘crede’ come Salvini, è un perfetto exemplum – se me lo si concede – di uno stile di educatore che ha realizzato il suo errore (espressione che condensa, se ci pensate bene, riflessività, responsabilità e umiltà opportunamente scecherate), per richiamarci che “la realtà è più grande del proprio Io”.
Ben detto. Ministro! Great!

Per concludere, signor Ministro, mi rivolgo direttamente a lei per una curiosità importante: – Il Salvini si è fatto anche lui Legionario? O aspetta il futuro dipartimento della sua Università Europea per farsi Sentinella della Madonna, ed essere, così, più coerente i con i tanti rosari che gli abbiamo visto sgranare?




La protesta dei docenti di primaria laureati ISEF

Le recenti disposizioni in materia di insegnamento dell’educazione motoria nella scuola primaria creano l’opportunità di inserire docenti specializzati e forniti di apposito titolo di studio.
La norma, però, sta creando una situazione poco condivisibile perché non consente ai docenti già di ruolo nella primaria a già laureati Isef di essere utilizzati quest’anno nelle classi V e, a partire dal 2023/24, anche nelle IV,
Un gruppo di docenti che si trovano in questa condizione ci ha fatto pervenire un documento (una lettera aperta al Ministro dell’Istruzione e del Merito) che la nostra associazione ha fatto proprio nel corso dell’ultima seduta del direttivo e che ora proponiamo alla attenzione di tutti.

Leggi il documento 




Il Ministro dell’Umiliazione Nazionale

di Giovanni Fioravanti

In un celebre Fioretto riportato dai libri di lettura della mia infanzia, san Francesco spiega a frate Leone cosa sia la “perfetta letizia” alla quale la laica e pagana resilienza neppure assomiglia. La perfetta letizia è il piacere d’essere umiliato, vilipeso, una sorta di masochismo esaltato come ascesi. Non so se l’attuale ministro dell’istruzione e del merito (diciamolo tra parentesi, già il merito puzza di umiliazione per quelli che merito non hanno) sia un terziario francescano, certo è a digiuno, per stare nell’ascesi, di pedagogia, per lo meno di quella non nera.

Di fronte all’uscita, rivelatrice, del Ministro mi è tornata immediatamente alla mente l’iniziativa del suo alleato di governo, onorevole Maurizio Lupi, che nella scorsa legislatura si fece promotore di un disegno di legge per introdurre nei programmi scolastici della Repubblica l’educazione alle competenze non cognitive.
Ecco che il ministro l’ha preso in parola, pensando bene di iniziare con l’educare all’umiliazione; competenza indubbiamente non cognitiva, con i lavori socialmente utili come conseguenza punitiva. Tenere pulita e in ordine l’aula dove lavori e studi è umiliante, perché è come se fosse una punizione. Bella educazione a proposito di educazione civica, materia reintrodotta al posto di Cittadinanza e Costituzione!

Comunque invito a riflettere i fautori della comunità educante, con cui si sono riempite nei tempi recenti circolari e pagine di buoni propositi, a considerare quanto può puzzare una comunità quando pretende di essere “educante”, solo questo dovrebbe consigliare molti a rivedere il proprio lessico e la propria riflessione pedagogica.

Certo, invece di perdersi a discutere di merito senza entrare nel merito, qualcuno un po’ più avveduto in materia di scuola e formazione avrebbe dovuto intuire immediatamente che dietro al Ministero dell’Istruzione e del Merito in realtà si celava il Ministero dell’Educazione Nazionale di antica memoria, ora uscito smaccatamente allo scoperto con le parole del suo ministro.

In pieno revival gentiliano il ministro propone il ritorno alla restaurazione dei valori della “gloriosa Destra che guidò l’Italia al Risorgimento”, rivalutando quindi l’autorità dello “Stato forte, concepito come realtà etica” anche nel campo formativo, da qui la missione  di cui il ministro ha deciso di farsi paladino di “correggere” e “raddrizzare” il legno storto della gioventù.

Humus è la radice latina di umiltà, di umiliazione, e humus è la terra, ciò che sta in basso, ciò che sta sotto i nostri piedi. Invece di levarti da terra, invece di farti crescere, ti abbatto, ti respingo a terra, annichilito, annullo la tua vita, la tua identità.
Come chiamare tutto ciò, se diventasse pedagogia della scuola, se non bullismo di Stato? L’umiltà praticata come obiettivo formativo è violenza ovunque essa si concretizzi, in famiglia come a scuola, perché è negazione di sé, è sfiducia in se stessi, pastoia culturale e psicologica che impedisce la crescita e la piena realizzazione della propria vita. “Meglio la morte con dignità che la vita con umiliazione”, non ricordo dove l’ho letto, ma mi è rimasto impresso.

L’umiltà sarà pure una virtù cristiana ma confligge con la dignità che è una virtù laica.

Ma l’umiliazione dal sen fuggita al ministro neppure avrebbe dovuto attraversare la mente di chi occupa il dicastero dell’istruzione, perché il lapsus freudiano è rivelatore di un modo di pensare, di una cultura, di pulsioni radicate.
Per troppo tempo la pratica dell’umiliazione ha accompagnato la storia scolastica di generazioni di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi. Quanti hanno affrontato l’esperienza di essere umiliati dai loro insegnanti e compagni di classe. Insegnanti che non hanno mai pensato a come ci si possa sentire male in quei momenti, danneggiando la fiducia nella scuola, fino a odiare l’insegnante e lo studio. E semmai si comportavano così, perché a loro volta era accaduto di essere stati umiliati a scuola.

Secondo diversi sondaggi, gli insegnanti scelgono di umiliare gli studenti per ottenere il controllo su di loro, per spaventare la classe e mantenere la disciplina. Alcuni insegnanti pensano che sia giusto umiliare gli studenti come rinforzo negativo. Altri ancora ritengono che gli studenti siano abituati a umiliarsi tra loro, soprattutto sui social, per cui dal cyber bullismo si passa al bullismo della cattedra.
D’altra parte anche recentemente le cronache non hanno mancato di riferire pratiche di umiliazione scolastica, dal professore che si rifiuta di ritirare il compito dello studente trans, a quello che si rivolge agli studenti di religione ebraica dicendo: ”voi nasoni dovete essere cremati”, per finire con la maestra elementare che, alla mamma che chiede alla sua piccola, sofferente di autismo, perché piange, risponde: “cosa glielo chiede a fare, tanto non sa parlare!”. E l’elenco potrebbe ancora continuare.

A un ministro giurista non è richiesto di avere né una competenza pedagogica e neppure psicologica, ma di riflettere prima di parlare questo sì, specie relativamente a terreni particolarmente delicati e scivolosi.
Sapendo che mio figlio è nelle mani di un simile ministro io non esiterei a scendere in piazza e a chiederne le dimissioni, ma ho l’impressione che il paese soffra di una corruzione culturale che ormai non salva più nessuna forza politica.
La cosa maggiormente preoccupante è che, di fronte a chi pensa di azzerare le conquiste dell’educazione progressista, riproponendo la pedagogia correttiva, non vi sia un sussulto di dignità professionale di chi lavora nella scuola, a partire dagli insegnanti e dai dirigenti.
A meno che vi sia chi nelle iniziative del ministro scorga un recupero di ruolo e di autorità dopo decenni di caduta  del proprio prestigio sociale.
Allora significa che davvero questa scuola ha toccato il fondo, è giunta al punto di non ritorno. Significa aver abbandonato la scuola nelle mani di un personale sempre più squalificato  e frustrato, privo delle competenze indispensabili per poter affiancare i nostri giovani di ogni età nell’incontro con i saperi e nella loro crescita.
C’è di peggio. Di fronte a giovani riottosi all’autorità dei genitori e degli insegnanti, la ricetta populista è quella dell’umiliazione nazionale con il ritorno all’autorità di uno Stato educante.




A volte ritornano. Il merito 10 anni dopo. Finalmente si fa sul serio!

di Aristarco Ammazzacaffè

Subito e pubblicamente: un portentoso apprezzamento per il neoministro Valditara e lo sforzo che ha fatto e sta facendo, lui e il suo governo, per fare capire a testardi e prevenuti (e ce n’è in giro) cosa effettivamente sia e significhi merito e come si debba onorare.

E ancor prima, dargli atto che la scelta di aggiungere a ‘Ministero dell’Istruzione’  ‘e del merito’, è decisamente rivoluzionaria e benedetta.
(Chi non ci crede è però giustificato. Siamo in democrazia)

Comunque, se posso – all’interno di queste note – rivolgermi direttamente a lei, gentile signor Ministro, per dirle che io l’ho capita bene.
Io leggo sempre le sue interviste e dichiarazioni. E le sue parole d’ordine: Merito come lotta al privilegio, e (addirittura) come lotta contro una visione classista della società, le trovo fulminanti, in senso letterale, mi creda.
Nette al riguardo le sue affermazioni: ‘La scuola di oggi è classista’. ‘Non è la scuola dell’uguaglianza’.  (Sic, a chiare lettere, nell’intervista al Corriere del 31 ottobre).

E giustamente e con fierezza rivendica al riguardo che “non accetta lezione da nessuno” (e chi può dargliele, scherziamo?) perché suo padre nella Resistenza è stato partigiano e, per chi non lo vuol sapere, faceva parte della Brigata Garibaldi.

Confesso che, quelle dell’intervista, sono frasi che immediatamente mi hanno fatto sentire il Ministro come uno dei ‘nostri’; addirittura, un compagno, se posso osare.
Vorrei tanto mi si credesse.

Aggiungo che sulle risposte del Ministro al Corriere ci ho pensato su parecchio. E mi son fatto persuaso che il suo bisogno di lottare contro il privilegio e il classismo della nostra società gli sia venuto già dalle sue prime esperienze di adolescente. Sono sicuro che presto verrà fuori – e lui ce lo dirà a tempo debito – che già dai tempi della scuola media egli era radicato in queste convinzioni: praticamente, compagno e rivoluzionario sin dalla prima ora, si potrebbe azzardare. Un esempio calzante del famoso detto: “Quando il buon giorno si vede dal mattino! Complimenti!

A ben vedere, le frasi citate nell’intervista sottintendono, per chi le sa leggere, la virulenza delle ferite che hanno lasciato, nella sua coscienza di adolescente, i vari casi di privilegio di cui godevano sfacciatamente alcuni suoi compagni di classe – figli di avvocati, padroni e manager e professori universitari – che venivano sempre e comunque promossi, e sempre con tutti 8 e 9 – qualcuno con 10! – ed elogi e sproloqui compiacenti da parte dei professori.
Ecco, immagino, che la tenacia del Ministro nel perseguire l’obiettivo di diventare titolare del Ministero dell’istruzione nasca proprio dal bisogno freudiano di aggiungere ‘e del merito’ alla dizione tradizionale del Dicastero, maturato proprio da queste sue prime esperienze. Fateci caso.
Perciò è da salutare con soddisfazione la sua proposta di voler promuovere una grande alleanza per il merito, con studenti e insegnanti: ‘una priorità’ che si configura come una battaglia politica di cui aspettiamo con ansia di capire i termini e lo sviluppo. (Risulta che siano stati sconfitti clamorosamente quanti, nello stesso Governo la volevano – l’alleanza – piccola, denutrita e pallida -, spingendo su altre priorità, come ad esempio, migliorare pratiche e condizioni organizzative degli insegnanti. Ben gli sta a questi benaltristi facinorosi.

Comunque, che gente che c’è in giro! Non si sa più distinguere il grano dal loglio. Secondo me, si legge poco la Bibbia! E bene farebbe il Ministro a lanciare a tal proposito una opportuna parola d’ordine. Personalmente, ho una qualche percezione che lui ci abbia già pensato. Non per niente, il Nostro è Preside all’Università Europea dei Legionari di Cristo a Roma. Pensate: Preside – Università Europea – e, addirittura, Legionario! E mica di un ‘Vessillo’ qualsiasi.
Qui si vola alto! Altissimo direi.
Per meglio capire poi cosa il Ministro intenda quando parla di merito da riconoscere e valorizzare, ho voluto scoprire direttamente, attraverso i quotidiani più diffusi e ‘accreditati’ a livello nazionale, la tipologia di meriti più apprezzati – e quindi utilizzati – per nominare un sottosegretario del dicastero da lui diretto.

E anche per avere a disposizione exempla di meriti da indicare a modello. E cosa poteva esserci di meglio di casi concreti che avessero come attore protagonista un personaggio di esperienza e degno di stima come il Nostro?
In questa mia ricerca, l’attenzione è caduta, leggendo i giornali dei giorni dopo le nomine dei sootosegretari all’Istruzione, su alcuni nomi non notissimi, tra l’altro. Il primo di questi, era quello dell’on. Paola Frassinetti.
Il suo profilo, sulla base del quale sembra sia stata ritenuta meritevole del prestigioso incarico, è così descritto (Corriere del 3 novembre): uno, “che è frequentatrice assidua della Corte dei brut di Gavirate Varese”, centro culturale e anche ristorante, “ancora oggi crocevia dell’estremismo nero ed esoterico” (Oddio! Sobbalzo.  E di seguito: stordimento generale e attacchi di tosse acuta e stridula); due, che in questa Corte è di casa “Rainoldo Craziani, figlio di Clemente, fondatore di Ordine Nuovo, e teorico dello stragismo degli anni ’70”; Piazza della Loggia, Piazza Fontana, eccetera, per capirci (Madonna! Improvvisa perdita della parola, vista confusa e conati di vomito. Ridotto a cencio), e, tre,  che l’attuale sottosegretaria “ha sempre sostenuto l’attività di Lealtà e Azione, piccolo gruppo neonazista in Lombardia” (tra l’altro, promotore a Milano, per il 4 dicembre prossimo venturo, di una manifestazione politica all’altezza, ovvio).

A questo punto, mi è caduto addosso tutto il Resegone e ho perso conoscenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Se 80mila abbandoni vi sembran pochi

di Raimondo Giunta

La ricerca “Quanto futuro perdiamo?” promossa dall’impresa sociale “Con i Bambini”, presieduta da Marco Rossi Doria, e realizzata dall’Istituto Demopolis”, nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà minorile rivela un dato sul quale si dovrebbe meditare seriamente, perché rivela un quadro di fragilità sociale, in cui può perdersi una frazione consistente delle nuove generazioni.

Nell’anno scolastico passato oltre 80 mila studenti sono stati respinti per il numero delle assenze. E’ un fatto di evidente gravità che un numero così grande di studenti abbia regolato il proprio rapporto con la scuola assentandosi; un fenomeno vero e proprio di rigetto della scuola, che dovrebbe rappresentare una sfida culturale ed educativa da affrontare con energia e con le necessarie misure di contrasto.

All’origine di questa emergenza educativa gli italiani, secondo questa ricerca, pongono i problemi relativi alle strutture, perché troppo vecchie (64%); la carenza di attività di recupero per i ragazzi in difficoltà (58%) e l’inadeguatezza delle strategie che vengono attivate (63%); la scarsa motivazione degli insegnanti (56%).
ll fenomeno della dispersione e dell’abbandono è considerato un problema dal 53% della popolazione e viene percepito in via di peggioramento. Al centro del problema vengono collocate la fragilità del contesto familiare d’origine (74%), l’inefficacia delle istituzioni locali nel trattare il problema (58%), la vacuità del sistema di relazioni famiglia, scuola, istituzioni (57%).

E’ però un dato significativo che per l’85% del campione la responsabilità educativa delle nuove generazioni debba essere distribuita tra tutte le componenti di una comunità e non appartenga solo alla scuola; senza dubbio un fatto importante che indica una crescita della consapevolezza sociale dei problemi relativi ai nostri giovani. Non è, però, irragionevole pensare che a determinare l’abbandono scolastico di tanti giovani contribuisca, oltre alla disarticolazione dei rapporti tra enti locali, istituzioni scolastiche e famiglie, anche la stessa scuola come sistema, la scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale.
Tuttavia non è di questo aspetto del problema che ci si preoccupa di più per aumentare la capacità di attrazione della scuola e la sua efficacia, ma del bullismo e della violenza giovanile.
Questo aspetto è invece una delle soluzioni del problema e riguarda la parte delle responsabilità proprie della scuola all’interno di quelle che la società e le altre istituzioni hanno sull’educazione delle nuove generazioni
In ogni scuola il primo argomento del primo collegio dell’anno scolastico dovrebbe essere dedicato all’analisi e alla valutazione dei risultati degli scrutini finali dell’anno precedente, soffermandosi su quei dati che rinviano all’annosa questione della dispersione scolastica, alla quale in qualche misura non c’è scuola che non dia il proprio contributo….Il proposito da formulare e da tenere sempre presente dovrebbe essere quello di vedere come e se sia possibile contenerla. In nessuna scuola dovrebbero mancare la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

Se Il problema della dispersione è senza dubbio di prima grandezza, non bisogna dimenticare, però, che non è di facile soluzione, perché non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale e perché non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.
Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti .Nell’affrontare il problema della dispersione è opportuno considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica) che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita.
Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.
Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere. Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno. Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola. La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’ indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo. Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono. In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica.
Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola. In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi ? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?
La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali.
La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.
Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire.
Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana. Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.
L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione. L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D.Nicoli). Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione.
Non si deve avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento
A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione. Ma senza amore, senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta.
Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.
Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).




Il volto gesuitico dei voti

di Giovanni Fioravanti

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione.
Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.
Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”
E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.
Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.
Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai Gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro.
Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?
È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.
La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.
No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.
Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.
La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi.
Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.
Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire.[1]

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.
Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.
Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare.

[1] “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017