E’ ora di andare …

di Carlo Baiocco

I ragazzi, nonostante i loro notevoli cambiamenti, nonostante siano generalmente sempre più demotivati, smarriti, disorientati, trascurati e sofferenti e, molte volte, malgrado anche i loro assenti, lamentosi, pretenziosi, iperprotettivi, invasivi ed intrusivi genitori, sono e restano pur sempre meravigliosi e combattivi, ma la Scuola ormai, ospitata spesso in strutture penose, fatiscenti e non a norma, spinta e ridotta a pie’ sospinto in vincoli, catene e macerie da sterili, ripetitivi, pressanti mansionari impiegatizi, da prepotenti, manichee standardizzazioni ipervalutative, da tassonomie fuorvianti e demagogiche, da sigle vuote ed insensate e da normative fortemente illiberali, dissennate e mortificanti ed abitata per lo più da dirigenti saccenti, presuntuosi, incapaci, inetti, evanescenti ed autoritari ed insegnanti sudditi proni, cortigiani imbelli e del tutto indifferenti allo sfascio, è ridotta pressoché ad un deserto di sentimenti oppure, sempre più spesso, ad una barbarie di sentimenti.

Quasi tutti tacciono, chi può fugge e chi non può vorrebbe fuggire!
È ora che chi, come me, ne ha conosciuto l'”età dell’Oro” e ci si dibatte, sia pure rannicchiato in buna nicchia in cui più nessuno, per indifferenza, deferenza e timore, ha l’ardire di rompergli i gabbasisi, si faccia finalmente da parte!… da brillante, aggiornato, preparato, attivo, fattivo, appassionato protagonista ad inquieto, ribelle, oppositivo antagonista ed, infine, a rassegnata comparsa scomparsa!
Il mio pregresso “curriculum scholae” è davvero vittorioso, assai vasto ed “alto”, ma il mio cuore, ora, è davvero assai perdente e straziato!

Non riesco più, in questa Scuola piagata e piegata, ad essere il cambiamento che vorrei!
Ancora riesco a sorridere ed a ridere, tanto, con molti di tutto ed anche di me stesso e resto ciò che ero e sono solo attraverso l’ironia, l’autoironia ed il sarcasmo, sinceri e sprezzanti, ma anche patetici!

Ho avuto, prima, innumerevoli, edificanti, piene, fervide gioie e successi, così come ho, adesso, , esperienza e cognizione tanta di grigi, avvilenti, inevitabili sconfitte, dolori ed amarezze….
Uniche certezze: non ho certamente cambiato la Scuola, ma la Scuola non ha cambiato me, che vado via a testa alta, con mente lucida e mai compromessa, cuore tenacemente puro e resistente ed il tesoro grande dei miei grandi, infiniti “doni”, dati e ricevuti da molti genitori, da alcuni colleghi e dirigenti stimabili e, soprattutto da tutti, tutti i “miei” ragazzi “belli”!

 




La scuola che vorrei

di Raimondo Giunta

L’erba voglio non cresce e non è mai cresciuta da nessuna parte e tantomeno a scuola. La scuola che volevo, però, mi ha aiutato nei tanti anni di servizio a superare le difficoltà del momento e a rendere migliore quella che abitavo.
La scuola è oggi in rotta di collisione con la vita quotidiana delle famiglie e dei giovani; gli orari, il calendario, la struttura fisica degli istituti sono espressione di un ordinamento, compatibile con altri ritmi di vita, con altre regole sociali, con altre tendenze dei rapporti umani. L’attuale struttura della scuola è lo specchio della società come era qualche decennio fa.

Alla radice del disagio scolastico, che può debordare in degrado, si trova questa crescente contraddizione tra quotidianità e scuola, bisogni riconosciuti della società e organizzazione scolastica.

La scuola italiana ancora oggi in moltissimi casi è fisicamente preordinata alla sola attività didattica delle lezioni. In molte scuole non si può fare nemmeno l’educazione fisica per mancanza di palestre; non si fa decentemente ricreazione per mancanza di cortili; sono entrati i laboratori, ma non ancora la didattica laboratoriale.  Se funzionasse bene, ma non è così, essa sarebbe funzionale solo ai compiti di istruzione, alla formazione intellettuale, ma oggi tutto questo, per quanto importante possa essere, non basta. I giovani in questo particolare momento della società hanno bisogno di qualcosa di più. Hanno bisogno di cura della persona, dell’attenzione a tutti gli aspetti non intellettuali della loro formazione(sensibilità/affettività/valori).

Queste nostre scuole piene di discipline, di ore di lezioni, di compiti pomeridiani, di progetti, ma privi di spazi e di momenti di convivialità cominciano a fare danni. L’adeguamento dei curricoli, che maniacalmente si sbandiera ad ogni cambio di governo e di ministro, deve andare di pari passo con la trasformazione radicale degli spazi e del tempo scuola, se vuole raggiungere i risultati che si propone.  Ma non basta. Le sorti dell’innovazione e dell’efficacia del servizio scolastico sono nelle mani degli insegnanti, mai così maltrattati e mai così poco difesi ed apprezzati dalle famiglie, dall’opinione pubblica e dall’amministrazione. Con un esercito smisurato di sottoproletari della cultura è già tanto se la scuola si tenga in piedi.

Ristabilito, come il buon senso richiede e come si fa in altre nazioni, il decoro sociale dello status degli insegnanti, perchè devono poter svolgere il proprio lavoro senza imbarazzo e senza umiliazioni, bisognerebbe fare una rivoluzione professionale per cambiare un mestiere ritagliato solo per alcuni compiti. L’insegnante deve poter sapere non solo che cosa insegnare e come, ma anche e soprattutto chi sono i suoi allievi, in che genere di ambiente e di famiglia vivono, in che genere di società loro stessi e gli alunni vivono. Ci vuole più cultura pedagogica, più cultura istituzionale, più cultura sociologica, più cultura psicologica..

La società italiana con i fondi del Recovery fund potrebbe avere una scuola diversa: scuola aperta dalla mattina alla sera, scuola con spazi, scuole con mense, scuole con convitto, scuole con più e diversi operatori; scuole con più libertà, scuole con più mezzi; scuole integrate nel territorio. Ecco è questa la scuola che vorrei per gli studenti, per gli insegnanti e per le famiglie.

 




Autonomia differenziata e equivoci culturali, politici, istituzionali

disegno di Matilde Gallo, anni 10


di Franco De Anna

La questione della “autonomia differenziata” è oggi alla attenzione del dibattito politico, culturale,
istituzionale, perché ha assunto il significato di una rivendicazione esplicita da parte di alcune
Regioni italiane tra le più rilevanti sotto il profilo economico e sociale, che chiedono, sia pure con
differenze significative, un ampliamento della devoluzione e una estensione delle loro titolarità rispetto alla ripartizione con lo Stato
Una parte significativa della alleanza politica che supporta il Governo generato dall’ultima
consultazione elettorale dei cittadini italiani, si batte, e da tempo, per la costruzione di prospettive e strumenti di autonomia differenziata da riconoscere alle Regioni italiane.
La “rivendicazione” politica, è storica per il movimento della Lega e la sua ispirazione federalista
(almeno nella versione “originale”), ma acquista oggi significati e valori che occorre reinterpretare e ricollocare nella attualità politico culturale, sociale, economica, profondamente diversa dal contesto nel quale fu inizialmente formulata.
Basti ricordare che quella rivendicazione originale si inseriva nella “novità” costituita dall’intreccio tra Riforma Costituzionale (il Titolo V e in particolare art.117, il “nuovo” ruolo delle Regioni) e il processo della riforma della Pubblica Amministrazione rielaborata attraverso la cosiddetta “Legge Bassanini” (la Legge 59/97, con le sue successive “interpretazioni”, fino al 1999). (1)
Il contesto politico, culturale, istituzionale dei primi anni “interpretativi” di quell’intreccio tra
riforma PA e Riforma Costituzionale è oggi “strutturalmente” diverso, e dunque è necessario
rielaborare diversi significati che acquista l’attuale confronto.
O meglio “rileggere” i significati culturali, politici e istituzionali entro i processi “strutturali” che
hanno modificato la “materialità” delle condizioni sociali, economiche, produttive, che stiamo
attraversando.

Autonomia Differenziata e Livelli Essenziali di Prestazione (LEP)

Come indicato in precedenza, vi sono processi di radicale mutamento delle questioni connesse con le proposte di autonomia differenziata oggi esse in campo.
E che si riflettono strutturalmente con la questione fondamentale della definizione dei LEP
Ne cito solo alcuni per il loro rilievo e perché spesso “sottaciuti” nel confronto politico e culturale corrente.

1. Vi sono alcune situazioni e condizioni regionali (alcune Regioni) nelle quali il richiamo ai
dispositivi previsti della “titolarità concorrente” o della “devoluzione” è in realtà un “costrutto”
di significato parziale e secondario.
Per esempio si pensi alla Lombardia (ma addirittura alla “Città metropolitana” della sua
capitale) e al suo sviluppo con intensi e significativi “rapporti internazionali” (per esempio con
la Cina) che “strabordano” il ruolo della politica statuale.
Ma alcune considerazioni simili (rapporti economici internazionali) sono applicabili anche ad
altre regioni del Nord con marcate “vocazioni manifatturiere”. Le “titolarità concorrenti”
definite nella riforma costituzionale dell’inizio del secolo si sono arricchite di una potenziale
dimensione “internazionale”.

2. Vi è un mutamento radicale dell’assetto baricentrico del Welfare. Il welfare pubblico è storicamente fondato sui servizi (Sanità, Istruzione, Assistenza,
Previdenza) prodotti e dedicati ai cittadini, e costruiti sul “baricentro” (economico, culturale, sociale) del “lavoro dipendente”, e del Sistema Fiscale che su di esso è fondato, nelle sue
“certezze” e disponibilità reali.
Un assetto “baricentrico” messo in crisi nella sua struttura e condivisione sociale, sia dai
mutamenti relativi alla composizione del lavoro e delle sue caratteristiche (lavoro dipendente e
autonomo, precarietà, salari “immobili” da anni) e dalla “domanda” che generano; sia dal
rapporto tra la “funzionalità relativa” del Sistema Fiscale, l’incremento progressivo del debito
pubblico e i vincoli reali che esso pone alla spesa che alimenta il welfare.
In parallelo vi è una accentuata moltiplicazione/stratificazione dei soggetti “produttori di
welfare” e dunque una diversificazione dell’offerta che tende a rispondere a tale modificazione
della domanda. (Dalla “proliferazione” di Enti Pubblici, alla affermazione del ruolo del Terzo
Settore)

3. Il rapporto tra cittadino e sistema welfare si modifica anche nei comportamenti “privati” e nei
riferimenti culturali relativi. L’identificazione tra primato del “Servizio Pubblico” rispetto al
“consumo privato”, un tempo fondata proprio sul reddito da lavoro dipendente, oggi si diversifica in rapporto al welfare ed alla sua funzionalità.
Spesso la combinazione tra la “convenienza pubblica” e “il vantaggio privato” investe anche i
servizi essenziali del welfare: dalla Previdenza (vedi sviluppo di sistemi pensionistici “integrativi”), alla Sanità, alla Assistenza, ma anche, sia pure con quantificazioni più ridotte (ma
si pensi allo sviluppo più recente delle Università on line) alla Istruzione.
I punti precedenti sono poco più che “citazioni”; ma invitano a riflettere ed approfondire l’analisi di processi e dislocazioni che tendono a mutare profondamente sia la struttura socio economica del Paese, sia le consapevolezze di essa diffuse tra i cittadini.
Come sempre nelle fasi di transizione occorre misurarsi sulla non corrispondenza
(contraddizione?) tra l’effetto innovativo di processi materiali ristrutturanti e le categorie
socioculturali, la costruzione e diffusione di significati condivisi capaci di interpretare quei
processi e di promuoverne “padronanza”.

NOTA

[1] Esempi di tale diversità e specificità del dibattito politico culturale degli anni indicati sono rintracciabili in elaborazioni dedicate in particolare alle questioni del rapporto tra quelle riforme e l’autonomia scolastica. Si possono rintracciare liberamente qui: Franco De Anna “A proposito di federalismo scolastico” in https://www.asperaadastra.com/politiche-dellistruzione/ancora-a-proposito-di-federalismo-scolastico/ e, Franco De Anna “Livelli
Essenziali di Prestazione per il sistema di istruzione” qui https://www.aspera-adastra.com/politichedellistruzione/livelli-essenziali-di-prestazione-per-il-sistema-di-istruzione-nazionale-una-questione-aperta/.
Entrambi i contributi presentano un intreccio di “questioni generali” e di “specifiche interpretative”.

Leggere l’intero contributo clicca qui




Disciplinarismo e pedagogia

di Stefano Stefanel

Il dibattito sulla valutazione formativa, i richiami alla valorizzazione del merito, l’idea che lo studente migliore è quello che studia sulla carta e solo se autorizzato va sul web, il concetto di apprendimento inteso come forma guidata di conoscenza, i miliardi riversarti sul digitale ma collegati ad una cultura proibizionista sull’uso dei dispositivi di proprietà, il concetto vago di divari territoriali collegato ad azioni di recupero finanziate prima ancora di essere decise, la richiesta di finalizzare il sapere al proprio futuro anche se nessuno sa indicare quale sarà sono tutti elementi dell’attuale contemporaneità che cozzano contro lo scoglio da aggirare: la pedagogia.

In teoria disciplinarismo e pedagogia dovrebbero essere strettamente collegate: se voglio insegnare qualcosa devo avere a che fare con un contenuto e questo contenuto sta per forza dentro una disciplina, che, a sua volta, richiede un determinato metodo per essere insegnata, cioè la pedagogia dovrebbe servire per transitare contenuti (e abilità e competenze che ne seguono) dalla mente di un sapiente alla mente di un non sapiente. Difficilmente vado ad imparare qualcosa che già so, difficilmente qualcuno mi insegna ciò che pensa io sappia o ritenga io debba sapere (i prerequisiti).

Da oltre cento anni la pedagogia è stata considerata una “materia” a sé stante, non necessariamente collegata al suo compito: far apprendere. Infatti, in alcune scuole si studia la pedagogia come una forma di pensiero filosofico minore, interessante, ma con valore più storico-sociale che metodologico. Il problema, però, è un po’ più complesso e va a toccare le discipline così come sono state codificate e così come si sono imposte, le uni a scapito delle altre. Da questo punto di vista Le parole e le cose di Michel Foucault ha dimostrato che le discipline sono strumenti di potere (politico) e che talune hanno preso il sopravvento, mentre altre vivono nell’ombra. In Italia questa evidente stortura ha dato vita al costrutto artificiale delle “classi di concorso”, una struttura di sapere che è diventata struttura di potere con un valore economico molto forte, strettamente collegato ai posti di lavoro che è in grado di farsi riconoscere.

L’ostilità dei disciplinaristi nei confronti dell’educazione civica sta tutta qui: l’educazione civica è una disciplina chiara e obbligatoria che non ha prodotto nuovi posti di lavoro. Quindi la sua trasversalità va abbattuta. Finora non ci sono riusciti, ma chi ha pazienza vedrà presto nascere le cattedre di educazione civica con tanto di abilitazione. Il disciplinarismo ha alcune caratteristiche molto marcate, che si possono riassumere in tre modalità didattiche.

La trasmissività vista come l’elemento base della disciplina: io ti racconto, ti spiego, ti argomento quello che devi imparare, tu studi e lo impari. La trasmissività impone la conferenza, la cultura del contenuto, la spiegazione anche di ciò che è già chiaro, la meta-spiegazione artigianale (la lezione in classe) di quello che è oscuro, il riassunto virtuoso, la chiacchiera diventata orazione.

Il manuale o il libro di testo in cui è codificato il riassunto di tutto lo scibile disciplinare, in fascicoli da compulsare e leggere annualmente, visto che tutto è diviso per annualità e prevede una chiara spesa da sostenere come base per accedere a quel sapere codificato, stantio e immobile, ma comunque certo, almeno nei limiti di quanto la comunità disciplinare ha deciso sia certo in quel momento.

La memoria come ricordo di ciò che è stato trasmesso attraverso conferenze (anche operative: gli esperimenti nei laboratori) e che deve essere esercitata senza supporti tecnici e multimediali in quelle che sono le prove disciplinari per eccellenza, cioè i compiti in classe e le interrogazioni.

La pedagogia, dunque, viene sempre più vista come un elemento di ostacolo alla disciplina, quasi che il piegarsi alle esigenze del discente debole sia un cedimento inaccettabile verso una contaminazione al ribasso della purezza disciplinare. Il discente forte – ed è questo il punto di grande ambiguità del concetto di merito – è perfettamente inserito nello specifico disciplinare ed apprende per trasmissione, tradizionalismo manualistico, memoria. Siamo dunque di fronte ad un problema molto serio che vede la disciplina come strumento delle élite e la pedagogia come strumento del popolo. Il sapiente è un disciplinarista se comprende che deve esserci un elitarismo nell’insegnamento che non può permettere alla disciplina di scendere verso la banale comprensione, il modesto impegno, il poco interesse; mentre è un pedagogo se cerca di raggiungere il popolo col sapere. Con il termine dispregiativo di “pedagogismo” si indica la china facilitatrice verso concetti e apprendimenti non facilitabili e come tali necessari più per il mantenimento del potere della disciplina che per migliorare l’apprendimento della stessa in studenti comunque giovani e generalisti.

Tutto questo lo aveva già detto Foucault molto chiaramente, ma il pensiero pedagogico novecentesco (Montessori, Dewey, Gardner, Brunner) ha sottovalutato la forza del potere economico sotteso alla disciplinarietà dei saperi. Ne ha fatto le sue spese anche la filosofia, per sua natura trasversale, diventata nei libri di testo liceali una parodia di un percorso storico-letterario, con teorie elencate insieme a dati biografici e bibliografici in cui tutti i pensieri sono metafisici, astratti, simpaticamente astrusi. Lo spacchettamento tra filosofia e pedagogia ha fatto il resto e la lezione di un grande pedagogo come San Tommaso d’Aquino è andata totalmente perduta.

Se si scende a questo livello la partita non si può vincere: il sapere alto, la specializzazione non ha pedagogia e, infatti, la disciplina più forte negli studi liceali è la matematica, che avanza solo per trasmissione e spiegazioni di teorie sempre più complesse, rese forti da un’inutile prova finale d’esame, troppo semplice per chi la matematica la conosce da disciplinarista, troppo difficile per gli altri che dimenticano tutto subito e vivono il resto della loro vita senza la matematica, dimenticando la matematica, per lo più odiando o disprezzando la matematica. D’altronde non c’è nessuno che a tavola o al bar dica: “io a scuola non capivo niente di grammatica o di scienze o di storia”, ma molti dicono, spesso con orgoglio: “sono sempre andato male in matematica”. La disciplina prima e più importante dei nostri giorni è finita in mano a indiani e cinesi, capitale primo delle multinazionali, mentre in Italia è lo spauracchio dei liceali e basta. Tutto il resto, da noi, lo fanno le macchine, che la scuola non vuole affiancare all’insegnamento della matematica come parte essenziale di supporto, perché vuole una matematica di memoria e lavagne d’ardesia.

Gli specialisti ci sono sempre stati nella storia dell’umanità e sempre ci saranno: non è mai stato questo il problema. Ma i disciplinaristi non sono degli specialisti, sono, forse, dei cultori della materia, cioè competenti dentro i limiti di una disciplina. La contaminazione è inutile in uno specialista, ma viene ritenuta pericolosa da coloro che non sono specialistici, ma sono solo disciplinaristi, perché la contaminazione fa perdere potere alle discipline. La struttura enciclopedica è una “lotta mortale” tra discipline, che vogliono avere più voci riconosciute possibili, perché tante sono le voci, tanto è il potere. Le arti del trivio e del quadrivio una battaglia simile l’hanno disputata circa mille anni fa.

Se torniamo a noi lo svilimento della funzione della pedagogia, soprattutto nelle scuole superiori, non è un modo per preservare il rigore e la precisione disciplinare, ma solamente per delimitare il campo del potere. Discipline che si contaminano, che agiscono su base multidisciplinare e interdisciplinare alla fine finiscono per perdere la loro specificità e a trasformarsi in altro. Questa battaglia la scienza, ad esempio, l’aveva già combattuta alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento quando si è sviluppata una notevole filiera di divulgazione scientifica, iniziata da Ernst Mach con e Letture scientifiche e popolari e continuata anche con grandi scienziati che si sono impegnati nella divulgazione come Einstein, Bohr ed Heisenberg. Ed è una battaglia che ha reso le discipline più arcigne, desiderose di essere trasmesse, ma ostili verso la pedagogia, cioè verso quell’azione del docente che comprende come raggiungere la mente del discente, non per riempirla, ma per farla diventare migliore.

Per questo servono i voti e non le valutazioni formative: per delimitare il campo della disciplina. Se il voto è negativo viene sancito il “debito disciplinare”, cioè quel terreno incerto e di controllo per cui l’insegnante non deve trovare metodi nuovi per raggiungere risultati di apprendimento che non ha raggiunto con i metodi trasmissivi, sperimentali, misurativi in vigore, ma semplicemente rubricare l’insuccesso, quella debolezza disciplinare che non permette di andare avanti. Più le discipline sono obsolete più sono difficili e astruse e per questo forti, perché essendosi tramutate in classi di concorso alimentano la schiera di chi insegnerà quella disciplina nella scuola italiana. Il tramonto della pedagogia, però, è il tramonto dell’apprendimento. E senza apprendimento non c’è progresso.




Una vita da mediano anche per il testo?

di Marco Guastavigna

Hai voglia e curiosità di giocare con un ambiente della cosiddetta “intelligenza artificiale” che manipola il linguaggio? Puoi andare sull’apposito spazio di OpenAI e provare. Facendo – ma soltanto per ora! – finta di nulla sul fatto che il progetto sia ampiamente compromesso con Elon Musk e Microsoft.

Ti verrà chiesto “soltanto” di accreditarti, magari con uno dei passaporti digitali rilasciati da privati di cui già disponi, ovvero account appunto di Microsoft o di Google e, pertanto, di partecipare in misura ancora maggiore all’estrazione di valore attraverso l’elaborazione dei dati e delle conoscenze da te conferiti per “sperimentare” il dispositivo. Insomma, sarai esente da pagamenti in denaro, dal momento che ti collocherai volontariamente tra i fornitori di materia prima del capitalismo di sorveglianza.

Lo schema di funzionamento è molto semplice e immediato.
Tu scrivi una riga di comando in inglese, avendo l’accortezza di indicare una tipologia testuale, un riferimento tematico e una lingua (io ho provato italiano e latino, influenzato dagli ultimi residui dei miei studi classici); e poi attivi il pulsante “Submit”.

L’accrocco (perdonami la forse eccessiva confidenza, ma serve a smitizzare fin da subito) digitale reagisce in tempi molto rapidi e scrive un testo, a volte più azzeccato e congruente, a volte meno. Testo che potrai memorizzare e collezionare, copiare e incollare e così via.
Ma cosa succede ogni volta? Una sorta di iper-esercizio di stile: il dispositivo riposa infatti su di un gigantesco corpus di testi classificati e correlati secondo varie categorizzazioni, a cui appoggiarsi per ritrovare un modello di struttura, un lessico ed esempi di sequenze sintattiche e semantiche coerenti con la tipologia indicata dall’utente, che potrà per altro essere più o meno soddisfatto e (magari) riproporre una consegna di elaborazione più puntuale.

Nessuna magia, pertanto.

E nessuna “intelligenza”. Siamo infatti in pieno nel campo del machine learnig, ovvero di un apprendimento che si fonda in larga misura sui Big Data disponibili nel “web partecipativo”, quello che permette a qualsiasi utente di produrre contenuti, che verranno scansionati e utilizzati da algoritmi che il marketing concettuale delle aziende produttrici e sfruttatrici fanno passare per intelligenti, provocando in molti una condizione di incertezza e di disagio.
Che non ha in realtà piena giustificazione se appena si leggono gli autori che adottano un approccio critico, e non i mistici dell’entusiasmo futurista o gli apocalittici del timore passatista.

È il caso, ad esempio, di Elena Esposito, che è davvero molto netta e chiara: “Oggi gli algoritmi traducono testi dal cinese senza conoscere il cinese, e nemmeno i loro programmatori lo conoscono. Usando machine learning e Big Data si limitano a trovare dei pattern e delle regolarità in enormi quantità di testi nelle lingue trattate (per esempio i materiali multilingua della Commissione europea), e li usano per produrre dei testi che risultano sensati – per le persone che li leggono. Non per gli algoritmi, che non li capiscono, come non capiscono niente dei contenuti che trattano, e non ne hanno bisogno”. (E. Esposito, “Dall’Intelligenza artificiale alla comunicazione artificiale”, Aut Aut, 392/2022)

La questione allora è piuttosto un’altra: il ricorso ai testi reperibili per le più diverse ragioni in rete e la ricerca di “regolarità” all’interno di questa massa via via sempre meno indifferenziata sono destinati per forza di cose a valorizzare ciò ritorna, è stereotipato e magari frutto di pregiudizi, comunque attestato su di una sorta di mediano “senso comune”.

Riproporre ciò che i pattern e le correlazioni rivelano essere più frequente è del resto una formula di successo: lo testimoniano un primo luogo i motori di ricerca, Google in testa, computando numero e qualità dei link delle pagine indicizzate e monitorando in tempo reale le reazioni degli utenti alle proprie proposte.
Siamo immersi nella cattura della conoscenza umana attiva e nella sua cooptazione all’interno dei processi e delle procedure che rendono i dispositivi sempre più efficienti.
Niente di eccezionale, per altro: il meccanismo socio-culturale per cui la conoscenza umana è una risorsa economica fondata sulla scarsità e sulla proprietà rivale è a sua volta un bias diffusissimo.
A partire dall’idea che l’istruzione deve preparare al mercato del lavoro e che i voti sono una sorta di simulazione anticipata del rapporto salariale.

E per ritornare sul nostro produttore-artificiale-di-testi-imitati, il quale, una volta perfezionato, ha già una propria vocazione di mercato, per cui sarà legittimo esigere un pagamento in denaro: la produzione accelerata di merce linguistica (articoli, post, comunicati, slogan e così via) in sostituzione magari dei ghost writer umani, in una nuova forma di attribuzione non etica di un’autorialità da lungo tempo rivolta alla comunicazione manipolatoria e al profitto e non allo sviluppo intellettuale.




Intervista su Domani a Francesco De Bartolomeis

 

Nella intervista allegata il pedagogista Francesco De Bartolomeis (104 anni) interviene sulle “innovative” proposte pedagogiche del Ministro Giuseppe Valditara.
L’intervista è stata pubblicata dal quotidiano Domani nella edizione del 28 novembre scorso.

INTERVISTA




Valditara, dimettiti. Te lo dico da genitore!

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Franco Giorgio
presidente Disleporedia

Non sono un insegnante e non lavoro nella scuola. Sono semplicemente un genitore che si è impegnato in questi anni nel sociale in particolare come presidente di una associazione di volontariato il cui obiettivo è quello di supportare le famiglie e in particolare i ragazzi con difficoltà di apprendimento.
Trovo inaccettabili e da respingere al mittente le dichiarazioni del neo ministro dell’Istruzione e del “Merito” “…quel ragazzo soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche, l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità, di fronte ai suoi compagni è lui lì che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto, da lì nasce la maturazione, da lì nasce la responsabilizzazione”. – Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione e del Merito

A proposito del carattere terapeutico dell’umiliazione, richiamato dal ministro Valditara che, a stretto giro di posta si è scusato poi per le sue affermazioni, vi è da osservare che se fosse veramente reale e avesse una certa consistenza, tanto da essere preso in considerazione dal dicastero dell’istruzione e del famigerato “merito“, ci troveremmo davanti ad una vera e propria rivoluzione dei principi educativi.


Umiliazione come forca caudina evolutiva, come passaggio ineluttabile per lo studente che non studia, che sbaglia, che diserta le lezioni e, quindi, viatico di una formazione che vive della coercizione, dell’imposizione etica, che impedisce all’errore di essere una leva per trarre empiricamente beneficio dall’esperienza fallace.
Il ministro si sarà pure scusato, ne va preso atto, ma ciò che ha detto lo pensa. E’ il suo linguaggio anche politico con cui si traduce una parte dell’azione di governo, non certo limitata al solo campo dell’istruzione pubblica e di quella meritocrazia che somiglia sempre più ad un sinonimo dell’umiliazione apparsa sulla scena con una fulminea e deflagrante perturbazione delle coscienze.

Qui siamo proprio all’ABC dei fondamenti etici del diritto. Torniamo molto più indietro di don Milani e della Montessori. Torniamo a Cesare Beccaria, all’Illuminismo che rischiari un po’ i cerebri depennasti di una destra di governo che ha nella sua conformazione genetica la predisposizione alla punizione come atto catartico, come contrappasso tanto delle idee quanto dei comportamenti.
Se lo studente sbaglia, gli tocca l’umiliazione, una moderna gogna, senza essere messo in groppa ad un asino, senza indossare il cappello a punta alla Pinocchio, ma dovendo sopportare il giudizio etico, superiore di chi non sbaglia.
E chi è che non sbaglia mai? Nessuno. Il richiamo, quindi, all’umiliazione come transumanza dell’incoscienza dentro un cammino di purificazione dantesca, fa pensare che la destra abbia in mente di sollevare sempre più l’orpello su una sorta di feticismo di Stato che, oltre tutto, legherebbe molto bene con l’idea che ha del lavoro e della povertà che deriva dallo sfruttamento della mano d’opera, così come delle menti.

Se la colpa è un dato di fatto, e se l’unico modo per espiarla non è la condivisione, il dialogo, lo scambio delle esperienze, bensì l’umiliazione, siamo certo che da tutto questo lo studente ne tragga un arricchimento personale? O piuttosto non si incattivisca ulteriormente, non rifiuti il rapporto sociale, con chi lo circonda, con le istituzioni scolastiche, con il mondo del lavoro e divenga sempre più guardingo nei confronti del resto del mondo?
Quando un ragazzo sbaglia nel rivolgersi malamente al suo insegnante, nel prenderlo ripetutamente in giro, oppure nel bullizzare i suoi compagni di scuola, prendendosela con i più deboli, l’insegnamento che gli dobbiamo consegnare non è la stessa umiliazione che lui ha fatto vivere ad altri.
Nemmeno sotto forma di lavoro socialmente utile. Perché se un lavoro di questo tipo viene dato con lo scopo di degradare il morale di un giovane, piegandolo ad una sorta di pentimento religiosamente inteso, il passaggio successivo sarà sempre e soltanto vincolato a due interpretazioni: il timore dell’autorità o l’aperta ribellione ad essa.

E, francamente, fra queste due opzioni, non fosse altro che per una presa in carico della propria vita e della propria coscienza critica, ci si deve augurare che quel ragazzo o quella ragazza scelgano di essere liberi il più possibile ribellandosi a chi vorrebbe insegnare loro che un errore, piccolo o grande che sia, si corregge solo con la sofferenza, con il sottomettersi e il patire e non con il cercare insieme una soluzione.
E’ evidente che nemmeno il ministro intendeva, parlando di umiliazione, arrivare a queste conclusioni. Tuttavia, siccome una lettura critica di quel discorso va fatta, non si può non farla fino in fondo, considerando tutti i più minuziosi aspetti, le più impensabili conseguenze che avrebbe l’adozione di un comune sentire in merito, di un adeguamento abitudinario a questi standard punitivi da parte delle presidenze scolastiche, ispirate da un’etica manifestata dagli esponenti dell’esecutivo.

Chi governa un paese, una nazione, quindi un popolo, dovrebbe avere ben chiaro che non esistono soltanto le leggi come punto di riferimento per la pubblica amministrazione nel far adeguare i cittadini alle norme di comportamento generali.
Esistono anche gli “esempi” personali, le parole dette ed anche quelle non dette, che spesso sono molto più incisive del diritto nell’arrivare allo scopo che variamente (e con una certa presuntuosa e pelosa vaghezza) si prefiggono: se chi governa intende far passare come ispirazione comune un determinato messaggio, ha tutto il diritto di farlo, ma deve prendere in considerazione tutte le implicanze che ciò comporta.

La Costituzione dovrebbe essere sufficiente a tutelare tutte e tutti dalla trasformazione esiziale e perniciosa della Repubblica da forma di Stato laico e plurale a Stato etico e magari pure confessionale. Al momento abbiamo ancora un sufficiente quantitativo di anticorpi che ci consentono di solleverai contro questi eccessi governativi, proponendo una altezza della protesta che diventa insormontabile per i ministri singoli e per l’esecutivo intero.
Ma il Ministro sappia che se c’è un Paese che ha votato per Meloni e le destre, c’è anche un Paese che è maggioranza in questo frangente e che non è disposto a seguire il governo nero sul terreno della retrocessione dei diritti tutti nel nome dell’osservanza dei doveri. I diritti sono tali se i doveri non li scavalcano, se qualcuno non stabilisce che per poter godere di un diritto si deve per forza ottemperare ad un dovere.
L’idea di crescita personale, di formazione del cittadino (sarebbe più giusto dire di sviluppo dell’”essere umano“) che hanno costoro che sono al governo è fondata su una meritocrazia esasperata e, di contro, su una umiliazione di chi non raggiunge lo scopo, di chi non riesce a stare al passo con le esigenze che il mercato reclama.
La povertà torna ad essere responsabilità soltanto del povero, così come la violenza scolastica diventa un fatto esclusivo dello studente che sembra poter essere astratto dal contesto, alienato a sé stesso in una separazione tra singolo e collettività: il primo giudicato e la seconda giudicante sulla scia della controetica immorale di governo.
Questa è una forma di decostruzione della solidarietà sociale e del tessuto anche morale, civile e civico che proprio la Costituzione ci insegna a mantenere da settantasei anni a questa parte come fondamento del patto repubblicano.
Ogni volta che un ministro si esprime nei termini che abbiamo ascoltato e ogni volta che assume una postura etica, fa un torto al suo ruolo, nonostante possa dire di star semplicemente mettendo in pratica le politiche in cui il governo crede.
Il nostro dovere di cittadini, di genitori, di insegnanti è di dirgli che sbaglia, rivendicando la pienezza dei diritti sociali, civili e morali fino a chiederne le dimissioni.