L come Laboratorio

di Giancarlo Cavinato

Cosa caratterizza un laboratorio seguendo la pedagogia Freinet?
Intanto un laboratorio è, per sua definizione, un’attività pratica finalizzata a una produzione e che coinvolge diversi soggetti in un determinato contesto appositamente predisposto e si avvale di materiali, strumenti, tecniche e organizzazione. Il laboratorio è, scriveva Levi[1], una mente collettiva in funzione.

La classe cooperativa fin dai tempi di Freinet è una classe laboratorio. Ma con l’istituzione del tempo pieno, con attività che coinvolgono più classi in  modalità di classi aperte, con la presenza di una pluralità di insegnanti, è l’intera organizzazione scolastica che può essere progettata e realizzata come un insieme di laboratori che affrontano i diversi ambiti dell’esperienza e delle realizzazioni umane: gli aspetti artistici, corporei, materici, scientifici, tecnologici, espressivi e creativi.

Gli alunni possono in tale ‘sistema’ fare esperienza di ciascuno di tali ambiti, capirne la rispondenza a bisogni umani,  ed essere in grado di sviluppare propensioni, affinità e preferenze per qualcuno di tali ambiti così da orientarsi nelle possibili scelte quando dovranno decidere il loro percorso grazie anche alle esperienze che avranno avuto occasione di fare.

In un paio di volumi[2] due maestre del Movimento di cooperazione educativa, Gisella Galassi Ricci e Francesca Rossi Gardelli documentano il loro percorso  nei cinque anni di scuola elementare a Forlimpopoli.
Gisella era ‘specializzata’ in educazione linguistica. Frequentava il gruppo nazionale lingua del MCE e il linguaggio era la sua passione, vissuta come una sfida al superamento delle povertà linguistiche e culturali. Francesca seguiva il gruppo matematica del MCE.
Loro due, in una scuola di quattro ore antimeridiane, si  organizzavano con attività di interclasse aprendo le classi prima che la legge 517 lo ‘consentisse’. Sperimentavano.
E si scambiavano, ognuna insegnava la disciplina di propria elezione in ciascuna delle due classi e insieme, mescolando i gruppi, sviluppavano ricerca d’ambiente e ricerca storica.
In assenza di un tempo scuola più adeguato, di compresenze per lavorare a piccoli gruppi, riuscivano comunque a fare ricerca con i loro alunni, a ricostruire quadri di significato, categorie mentali per l’orientamento nel tempo e nello spazio.
Formando ragazzi-cittadini- consapevoli, critici, padroni di una pluralità di codici e funzioni linguistiche e logiche.

Nella consapevolezza, da parte delle due insegnanti, che spesso il passaggio da una cultura orale, da un dialetto, da una lingua madre intrecciata di affettività, interazione in presenza, a uno scritto come codice comunicativo della distanza, richiede un vero e proprio salto antropologico. Una cura della identità di ciascuno/a, della memoria, della cultura dei soggetti perché non vada dispersa e soffocata dalla molteplicità di messaggi.

Il ‘segreto’ del successo formativo degli alunni di Gisella e Francesca risiedeva appunto nella attenzione ad ognuno/a, nel non lasciare indietro nessuno, nel garantire a tutti una formazione per la vita; e nel lavoro paziente, su tempi lunghi, per formare menti ‘ben connesse’ in grado di leggere, analizzare, criticare il presente, pensare al futuro. Un lavoro che non poteva essere costituito da sequenze di lezioni ma da una prosecuzione di attività dotate di senso e che richiedevano una forte partecipazione e rielaborazione sia da parte degli alunni che delle insegnanti.

Il terzo elemento è il non lavorare isolatamente ma il consultarsi e progettare assieme.
Senza questo aspetto fondamentale non si può pensare di uscire dal circolo vizioso lezione-interrogazione-verifica.

Se esperienze con gruppi di alunni di classi parallele o con età diverse nelle pluriclassi erano già attive allora, grazie alla sensibilità e alla preparazione di insegnanti particolari, è con l’istituzione del tempo pieno e delle attività integrative che tale modalità organizzativa e pedagogica trova pieno sviluppo e realizzazione.

Sarà Francesco De Bartolomeis, con il suo ‘sistema dei laboratori’ a descrivere e prospettare lo sviluppo di una scuola organizzata per gruppi di ricerca e di operatività. [3] Proponendo una teoria dei laboratori fondata su una concezione produttiva e sociale della cultura, volta a comprendere i mutamenti di carattere sociale.
Solo un’organizzazione flessibile e mobile per classi aperte e laboratori operativi permette di realizzare una scuola della ricerca, della narrazione, della discussione.

I contenuti e la loro scansione  non sono indifferenti ma strettamente dipendenti da scelte  metodologiche e da uno sfondo che sappia intessere significati, relazioni, pratiche comunitarie.
Rispetto alla ‘moda’ corrente delle UDA ( unità di apprendimento) oggi molto diffuse ma che rischiano di essere documenti ricchi di buone intenzioni,  costruite  però in rapporto a una classe come sistema omogeneo e chiuso al proprio interno, la proposta  di unità di lavoro ci interroga su cosa di significativo si possa fare in una classe ( e fra più classi)  rispetto a un tema di comune interesse, con quali materiali, cogliendo interessi e motivazioni, provando a imbastire uno sfondo, un contesto, un piano di attività di ricerca.

Diverse unità di lavoro possono costituire la mappa del lavoro dell’anno di più classi in rapporto di scambio e condivisione.  La mappa verrà via via arricchendosi e ampliandosi grazie alle capacità connettive e all’ estensione dei temi che diversi gruppi  alunni metteranno in campo e a cui si dedicheranno.

Ogni scelta tematica infatti si colloca in una catena di problemi e di argomenti che si richiamano gli uni con gli altri, costituendo un tessuto reticolare e molteplici configurazioni come  si può realizzare con producendo con i sette pezzi del  tangram infinite combinazioni.
Si  intende così  valorizzare il pensiero infantile, le preconoscenze, le ipotesi, fondandosi su effetti quali la sorpresa, l’inciampo, il conflitto cognitivo, la metodologia dell’animazione.[4]

I temi che emergono dalle proposte dei ragazzi nel corso della messa a punto del piano di lavoro personale e della classe e dagli stimoli proposti dagli insegnanti   verranno sviluppati suddividendosi  a gruppi secondo gli interessi (ogni aspetto affrontato può essere elaborato sul piano temporale, spaziale, artistico, scientifico, teatrale,…)

Il tempo pieno, strumento imprescindibile per affrontare le povertà educative e i divari socio-culturali, permette di arricchire e articolare le proposte didattiche, con la possibilità di organizzare in modo diversificato i tempi di acquisizione di conoscenze e competenze praticando diversi linguaggi e offrendo una pluralità di stimoli, e rendendo possibile la differenziazione didattica, è stato e  potrebbe tornare ad essere la sede per un’organizzazione scolastica centrata sui laboratori come luoghi delle attività umane.
Ma in cosa consiste l’attività di laboratorio?  Nel MCE Veneto e negli incontri fra scuole a tempo pieno della provincia di Venezia avevamo individuato alcune fasi che ci sembravano consentire, al di là delle diverse tematiche, di sviluppare dei percorsi organici con le stesse strutture di base:

  1. l’individuazione di un problema che catturava l’attenzione e a cui si voleva trovare risposta
  2. una prima fase di emersione di ipotesi, idee preesistenti, convinzioni [5]
  3. una fase di raccolta di materiali, fonti, esemplificazioni per convalidare o ‘falsificare’ le ipotesi
  4. la fase della produzione/preparazione/lavorazione
  5. la messa alla prova: la fase della verifica
  6. nuovi problemi, nuova fase di esplorazione di idee e possibilità

Si tratta di un percorso ricorsivo che descrive efficacemente Paul Le Bohec[6]  descrivendo a sua volta le fasi che denomina  dell’osservazione, del provare, del tornare a vedere-sentire.toccare, del riprovare, fino ad elaborare un modello applicabile in varie situazioni.

Alfieri, rifacendosi a Bruner [7], descrive un simile modello ‘a loup’ (lente d’ingrandimento dei processi) in una serie di articoli sulle riviste ‘L’educatore’ e ‘Cooperazione educativa’. Si parte dal livello 1, ‘definizione dell’argomento’, si passa al 2, ‘le parole per parlarne’, al 3, la prima narrazione’, al 4, ‘la teoria ingenua’, al 5 ‘le integrazioni’, al 6 ‘la teoria consolidata’, al 7 ‘la seconda narrazione’: un modello ricorsivo che cresce su se stesso e si amplia ripercorrendo le diverse fasi.

Una scuola di laboratori è una scuola della discussione, della narrazione, dell’avventura.

[1] Levi P. ‘il sistema periodico’, Einaudi, Torino, 1975
[2] Galassi G., Rossi F.,  ‘Più fatti che parole’, ed. La Linea, Padova, 1977
[3] De Bartolomeis F. ‘Il sistema dei laboratori’, Feltrinelli, Milano, 1978
[4] Bachelard G. ‘La formazione dello spirito scientifico’, Raffaello Cortina, Milano, 1996
[5] Giordan A., ‘Il bambino e l’educazione scientifica’, Giunti e Lisciani, Teramo, 1987
[6] Le Bohec P.,Campolmi B.,  ‘Leggere e scrivere con il metodo naturale’, Junior, Bergamo, 2000
[7] Bruner J.S. ‘La cultura dell’educazione’, Feltrinelli, Milano, 2000




Tra scuola e società il dialogo è necessario, anzi indispensabile

di Raimondo Giunta

La scuola vive dei suoi rapporti con la società; si alimenta delle sue esigenze, si muove sulla spinta dei suoi problemi. Scuola e società reciprocamente si richiamano; si dovrebbero aiutare, ma più spesso negli ultimi tempi confliggono. Va da sé che per cogliere frutti buoni, però, è necessaria la loro stretta, solidale collaborazione, nella distinzione dei compiti e dei ruoli e nel rispetto delle funzioni professionali, culturali ed educative che in autonomia la scuola deve svolgere. Se la scuola non entra in sintonia con i problemi della società e con i temi culturali del proprio tempo, prima o poi perde la propria ragione d’essere.
La riflessione su questo nodo cruciale dell’istruzione deve essere permanente e costituirsi come principio di orientamento nell’azione quotidiana a scuola, per evitare il rischio che si avviti e si impoverisca nella sua solitaria autoreferenzialità. La scuola non può tenere né porte, né finestre chiuse. Operazione assurda e inefficace; ci penserebbero gli alunni e le famiglie eventualmente a portare dentro la scuola il mondo che sta fuori. Il problema è come la scuola debba pensare e vivere le questioni che agitano la società e questo non è di pacifica e concorde soluzione. C’è un modo proprio della scuola per svolgere questo compito e solo rispettandone stile e natura si possono avere risultati utili.
Nella costruzione del rapporto scuola-società ci sono scelte che attengono alle responsabilità generali dello Stato e scelte che sono nelle mani delle singole scuole, dotate degli strumenti che loro può dare l’autonomia.
Tutto, nel piccolo e nel grande, si sviluppa intorno al rapporto tra domanda sociale d’istruzione e capacità del sistema scolastico di soddisfarla. La composizione della domanda sociale di istruzione muta secondo i tempi, la forza sociale dei soggetti che la formulano, la natura dei bisogni collettivi che in un dato momento si pensa che possano e debbano essere soddisfatti.
Che la scuola anche quando lo voglia non riesca a tenere il passo con le esigenze della società è fatto naturale che non dovrebbe sorprendere. Le risposte del sistema di istruzione arriverebbero sempre con un po’ di ritardo… anche se fosse in grado di programmare e di applicare le innovazioni.


Compito della scuola non è la previsione delle esigenze della società, ma quello di interpretarle quando queste vengono esposte. Ogni realtà ha i propri tempi di funzionamento e il proprio statuto e prenderne atto è operazione dovuta e opportuna. Come comprendere che non esistono soluzioni definitive per i problemi della scuola. Le risposte del sistema di istruzione e formazione ad ogni buon conto sono nell’ordine del ragionevole e del plausibile. Questo non vuol dire volere una scuola effimera, ridiscutibile anno per anno.
La scuola deve avere un impianto solido, offrire curriculi strutturati e rigorosi con una parte ovviamente stabile e una riprogettabile che apra una finestra sul mondo
Nella domanda sociale di istruzione tende ad assorbire ogni spinta e a rappresentarla per intero quella che proviene dal mondo economico.
E’ una pretesa ricorrente dalla quale bisogna sapersi difendere, perché, se è impossibile teorizzare l’indipendenza dei processi di scolarizzazione rispetto a quelli economico-sociali, è altresì impossibile farne l’unico destino, perché la funzione professionale non è l’unica che deve svolgere un sistema scolastico.
Il mondo del lavoro e delle occupazioni, tra l’altro, per i processi continui di profonda, tumultuosa trasformazione che lo distinguono, non è un punto di riferimento stabile come nel passato e nessun sistema di istruzione può essere insensibile ai cambiamenti di costume, psicologici e sociologici dell’utenza scolastica. La scuola deve essere, infatti, sempre all’altezza del compito di socializzazione e di formazione culturale e umana delle nuove generazioni, al quale per nessun motivo può abdicare.
Nel leggere il rapporto tra scuola e società molti si soffermano sul loro scarso grado di integrazione; altri si lamentano dei tentativi di subordinare il sistema di istruzione alle leggi del mercato e delle imprese e di violarne l’autonomia. Per il sistema scolastico è quasi impossibile la simbiosi con la società; inaccettabile la sua subordinazione; convengono e sono proficui solo il confronto e il dialogo aperto e permanente nella diversità dei ruoli. Nel trattare questo problema non si può dimenticare che quando si parla del sistema di istruzione e formazione ci si deve riferire alla condizione attuale di pluralismo formativo, alla condizione, cioè, che vede la scuola in posizione di centralità fra tante altre agenzie formative, ma con connotati diversi rispetto a quelli che un tempo ne disegnavano l’indiscutibile supremazia.
E’ il tempo dell’industria culturale e della pervasività dei nuovi media. E’ il tempo dell’apprendimento lungo tutta la vita. E tutto questo rende molto difficile indicare una sola linea di confronto tra scuola e società, tra scuola ed esigenze individuali delle persone.
Ad ogni buon conto la scuola non può perdere il controllo del proprio programma culturale, ha la responsabilità di non disperdere la propria identità nell’allargarsi e nell’infittirsi dei suoi intrecci con la società; il mestiere della scuola consiste nel sapere escludere e selezionare i contenuti che devono entrare nei curricoli. Non deve rischiare di soffocare per ingordigia. La scuola non deve limitarsi ad assicurare una semplice continuità con la società che l’attornia o con le esperienze quotidiane.
”Essa è quella particolare comunità in cui si fa l’esperienza di scoprire le cose usando l’intelligenza e ci si introduce in nuovi e inimmaginati campi d’esperienza”(J. Bruner).
”La scuola è un luogo dove si svolge un particolare tipo di lavoro intellettuale che consiste nel ritirarsi dal mondo quotidiano, al fine di considerarlo e valutarlo;un lavoro che resta coinvolto con quel mondo, in quanto oggetto di riflessione e di ragionamento”(L. Resnick).
Il funzionamento del sistema formativo dovrebbe essere speculare all’apparizione di una nuova e consolidata tendenza esistenziale non più strutturata a blocchi (scuola/lavoro/pensione) ma segnata dall’alternanza di fasi di lavoro e momenti di formazione e dalla crescente importanza della capacità di apprendimento, dalla capacità di apprendere ad apprendere come si dice sempre più spesso.
Bisogna chiedersi, allora, che genere di cultura e di formazione debbano avere le nuove generazioni, che cosa debbano saper fare i giovani appena usciti dalla scuola, come sia possibile tenere il passo nei confronti delle trasformazioni della società e del mondo del lavoro.
Il sistema di istruzione svolge la sua funzione, se è in grado di progettare i curricoli che formano, a partire dalla scuola primaria fino all’università, le competenze richieste in questa fase storica dalla società nel suo insieme e non solo dal sistema economico-aziendale. Si parla da alcuni decenni di flessibilità, adattabilità, mobilità ed oggi di competenze chiave, di competenze trasversali, di soft-skills. Sono problemi di prima grandezza, bisognosi di risposte che devono contemperare l’immediato e la prospettiva, cioè difficili e nello stesso tempo transitorie. Nel mondo dei problemi con cui bisogna confrontarsi entrano da protagonisti nuovi contenuti, nuovi saperi, nuove tecnologie, nuovi media, personalizzazione dei percorsi formativi, ricerca di radici locali, conoscenza del mondo, momenti di creatività e di espressività. Vi restano con la loro forte presenza la lotta alla dispersione scolastica, la consistenza della cultura comune, le metodologie adatte ad esaltare l’iniziativa di chi apprende. Resta, inoltre, immutata la necessità di conciliare obiettivi di promozione umana e culturale con quelli di professionalizzazione e quella di evitare scelte precoci e socialmente inique.
Alla conclusione del corso di studi i giovano dovrebbero avere la capacità di riconoscere e controllare le condizioni e le modificazioni della propria condizione sociale e di lavoro. Dovrebbero sapere formulare ragionamenti chiari e fondati, compiere processi di astrazione, fare ordinate classificazioni, immaginare modelli ed enunciare generalizzazioni, procedere ad applicazioni del proprio sapere a casi nuovi e particolari.
La loro preparazione dovrebbe essere connotata da conoscenze specifiche e da metodologie tecniche relative alla professione di riferimento, se hanno frequentato scuole tecniche e professionali. La missione educativa della scuola non è più solo quella di arricchire una persona di conoscenze sempre più varie e complesse, ma anche quella di renderla sicura dei propri mezzi per affrontare in qualsiasi nuova situazione le proprie responsabilità di cittadino e di lavoratore.




Comunità dis-educante

di Cinzia Mion

Appare sulla stampa locale in questi giorni una notizia che mi ha sconvolto.
Si tratta di una ragazzina di 12 anni bullizzata in una scuola media di Treviso dalle compagne di classe e pure dai compagni, uno in particolare: il suo compagno di banco.
Il tutto per il suo aspetto fisico: troppo grassa secondo i simpatici “bulli” e secondo i canoni delle anoressiche ragazzine alla moda. Le minacce ingiuriose arrivavano perfino a suggerirle il suicidio.
Sappiamo tutti quali siano le dinamiche del bullismo e i diversi attori (tra cui quelli che sanno e tacciono: colpevoli come gli attori dei comportamenti vigliacchi!) e sappiamo pure quali siano le “paturnie “ oggi delle preadolescenti in crescita, in riferimento all’aspetto del corpo che si sta trasformando. Non intendo parlare di questo e nemmeno di ciò che sta circolando nel web rispetto a certe pratiche criminali e sadiche di istigazione al suicidio che dovrebbero essere stroncate da chi controlla (o dovrebbe controllare) ciò che circola appunto in Internet e che è a disposizione, senza filtri opportuni, anche ai soggetti più fragili.

Intendo parlare della “comunità educante”, di cui molti si riempiono la bocca, senza rendersi conto che questa comunità da molto tempo è diventata, come sottolinea Vertecchi, DIS-EDUCANTE.

Si tratta delle cosiddette “derive sociali” che da almeno dieci anni stanno rendendo preoccupanti le relazioni sociali e lentamente ci stanno contaminando tutti senza limiti o argini. Finché qualche comportamento fuori dalle righe interviene, sperando che questa comunità ormai dis-educante si svegli dal torpore e cerchi dei rimedi.
Non so se questo avverrà, lo spero.


Le derive sociali dell’indifferenza diffusa, della mancanza della categoria “dell’altro”, della totale assenza ormai dell’EMPATIA (come nel caso che stiamo esaminando), del narcisismo dilagante, dell’aumento del razzismo e dell’omofobia, del deficit di ETICA PUBBLICA, del prevalere dell’”avere” sull’ “essere” per cui ciò che conta è solo il profitto, delle aspettative genitoriale a livello soprattutto delle prestazioni e alla competitività piuttosto che alla cooperazione,ecc .hanno ridotto la convivenza sociale nel territorio spesse volte arida e caratterizzata dal più gretto egoismo
Ricordo che quando venivo chiamata a fare formazione al sostegno della genitorialità presso le scuole e durante gli incontri, in riferimento a queste derive sociali su cui famiglia e scuola devono intervenire per correggere l’andazzo, chiedevo ai genitori se educavano i loro figli alla “COMPASSIONE” (patire con l’altro)… Beh: mi guardavano come una marziana….
IO ricordo invece ancora benissimo le parole che usava mia madre quando incontravamo qualche mendicante che stava peggio di noi (era difficile perché c’era la guerra e noi eravamo sfollati; eppure lei mi diceva “poverino” vedi quello, non ha nemmeno un tetto sulla testa…). Il tono delle sua parole e la mimica del suo viso mi commuovevano ed io ho capito presto il significato di “senzatetto”.

Ritornando al compito degli adulti educatori, ammesso e non concesso che i genitori oggi desiderino solo far felici i loro figli per cui rattristarli sulla condizione altrui non passa nemmeno per la loro testa (salvo come sempre le felici eccezioni) credo che il compito rimanga alla scuola in cui i docenti hanno il compito professionale, istituzionale e continuativo di educare i loro allievi e, nel caso dei giorni nostri, correggere le derive sociali summenzionate, portandoli alla “consapevolezza e alla responsabilità”.
Ovviamente consapevolezza e responsabilità che avranno molta più forza E INCISIVITA’ se passeranno attraverso un’ALFABETIZZAZIONE EMOTIVA, all’interno della quale riuscire a farli “mettere nei panni degli altri”, far loro avvertire la paura, la tristezza, il dolore, la rabbia ma anche la gioia. E finalmente attraverso l’empatia avvertire la profondità della com-passione.




Signor Ministro, Lei lavora troppo!

di Mario Maviglia

 Signor Ministro, è quasi commovente l’impegno che ci mette, attraverso le sue lettere/note/prese di posizione, per marcare la sua presenza presso viale Trastevere 76/A. Certo, può succedere che quando si produce troppo e in fretta, magari senza un adeguato momento riflessivo e comunicativo, qualcosa sfugga di mano e si rischia di fare affermazioni ambigue o incomplete o fuorvianti o inutili. Per esempio, nella lettera del 9 novembre inviata alle scuole in occasione della ricorrenza della Giornata della libertà, istituita con legge 61/2005, Lei ha (giustamente) invitato i giovani a riflettere sulla sconfitta di una “grande utopia”, ossia la conclusione “drammaticamente fallimentare del Comunismo”. Peccato che la legge 61 sollecita le scuole a organizzare “cerimonie commemorative ufficiali e momenti di approfondimento che illustrino il valore della democrazia e della libertà evidenziando obiettivamente gli effetti nefasti dei totalitarismi passati e presenti.” Totalitarismi al plurale, non solo del Comunismo, Sig. Ministro, come può facilmente comprendere qualsiasi studente di scuola primaria.

Qualche settimana dopo, nelle vesti di esperto pedagogo, Lei ha apoditticamente affermato, a proposito del Reddito di cittadinanza, che “è moralmente inaccettabile darlo a chi non ha terminato l’obbligo scolastico”. Quindi, tradotto in altre parole, chi non ha avuto la fortuna di completare l’obbligo scolastico ha anche la sfortuna di non poter accedere al RdC. Questo potrebbe essere uno dei pilastri per una vera inclusione sociale. Lei ha anche aggiunto, Sig. Ministro, che “l’educazione al lavoro è fondamentale, deve essere appresa già dalle elementari” perché in questo modo i ragazzi vengono educati “alla responsabilità e alla bellezza del lavoro, coniugare formazione con lavoro: questo è un obiettivo, una strategia che ispirerà il mio ministero”. Abbiamo voluto vedere in queste affermazioni un riferimento a John Dewey e al suo learning by doing, ma dubitiamo che lei conosca questo psicologo americano, e dubitiamo peraltro che Dewey intendesse questo. Abbiamo quindi tentato di intendere il Suo pensiero come una traduzione progettuale del Service learning, ma anche in questo caso abbiamo dovuto desistere in quanto non vi era collimazione né di contenuti né di approccio metodologico. Crediamo quindi, a buon ragione, che possiamo annoverare questa sua posizione come una via italiana originale della pedagogia makarenkiana. Unica perplessità: Makarenko non solo era un convinto sostenitore del valore pedagogico del lavoro, ma era anche un convinto comunista. E questo forse, Sig. Ministro, non Le farà piacere…

Sempre a proposito di lavoro, in occasione delle iscrizioni degli alunni e al fine di favorire il difficile compito delle famiglie e delle scuole nell’azione di orientamento dei giovani alla scelta di una scuola più adeguata, anche in relazione alle possibilità occupazionali, Lei ha meticolosamente accompagnato la Sua nota con una serie di schede che danno conto delle richieste occupazionali all’interno delle singole realtà. In tal modo i giovani dovrebbero orientarsi verso quelle scuole che garantiscono una formazione adeguata alle esigenze del mercato. Il ragionamento non è privo di fondamento ed anzi presenta una sua intrinseca logica interna. Vi sono solo due piccoli nei che lo rendono precario: con il processo di globalizzazione non è detto che i giovani siano disponibili a trovare lavoro sotto casa; a conclusione del ciclo di studi e prima dell’immissione nel mondo del lavoro le professioni oggi esistenti potrebbero avere una caratterizzazione molto diversa o addirittura essere scomparse. Insomma, inseguire le logiche del mercato è come entrare nel paradosso di Zenone, noto come paradosso di Achille e la tartaruga.

Molto si è discusso sulla Sua boutade dell’esaltazione dell’umiliazione nei confronti degli studenti che compiono azioni di bullismo. L’umiliazione insomma come fattore di crescita e di costruzione della personalità del ragazzo. Il tutto poteva finire lì, Sig. Ministro, ammettendo che era stata usata un’espressione infelice; ma Lei ha voluto precisare ulteriormente il senso del Suo pensiero e spesso, quando si precisa, si aggrava ancor più la situazione. Infatti, per quello che hanno riportato i giornali, l’umiliazione si è trasformata in umiltà, l’umiltà di chiedere scusa. Un concetto stupendo, che però è agli antipodi dell’umiliazione (sebbene condivida con questa la stessa radice etimologica (da humi, a terra, da humus, terra). Forse Lei a questo faceva riferimento. Ma non risulta che Lei sia specialista in etimologia. Peraltro anche il riferimento a “lavori socialmente utili” da far svolgere agli studenti che hanno combinato qualcosa di grave a scuola, e che Lei sottolinea come elemento di grande significatività, in realtà è già previsto dal nostro ordinamento giuridico. Infatti, come forse Lei saprà, il DPR 21 novembre 2007 n. 23, che modifica il DPR n. 249 del 24 giugno 1998 n. 249, dà sempre la possibilità allo studente di convertire le sanzioni in attività a favore della comunità scolastica.

Anche in una delle Sue ultime note, riguardante il divieto di utilizzare il cellulare durante le lezioni e ampiamente ripreso dalla stampa nazionale, Lei non fa che confermare quanto già stabilito dai Suoi precedenti Suoi colleghi. Infatti – come peraltro Lei stesso sottolinea nella nota 107190 del 19 dicembre 2022 – sia il DPR 249/1988 che la CM 15 marzo 2007 n. 30, danno indicazioni sull’uso del cellulare a scuola. Insomma, much ado about nothing, direbbe il William di Stratford-upon-Avon.

Lei lavora troppo, Sig. Ministro! Si riposi. Conti almeno fino a 10 prima di esternare o scrivere lettere. E soprattutto, cerchi di lasciare in pace le scuole: hanno già i loro grattacapi. E se proprio non riesce a stare fermo, faccia il Ministro dell’Istruzione! (sul Merito ne riparleremo). Non si improvvisi pedagogo o sociologo o psicologo. Da docente di diritto privato romano e storia del diritto pubblico romano dovrebbe sapere che è sempre valido l’adagio latino ne sutor ultra crepidam.

 

 




Ancora dalla parte delle bambine

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Cinzia Mion

“Ancora dalla parte delle bambine” è un libro di Loredana Lipperini,  con prefazione di Elena Gianini Belotti.
Il significato del titolo del libro della Lipperini palesa che purtroppo tutto è ancora drammaticamente vero!
La scoperta che la Lipperini mette in luce provocandoci un risveglio brusco  consiste nel prendere atto che, lungi dal coltivare il progetto della propria autorealizzazione, molte bambine/ragazzine/adolescenti attuali hanno come modelli  le famose fatine Winx, le altrettanto famose bambole(si fa per dire ) Bratz e i filmati Sex and the city!

Di conseguenza che cosa sognano di essere le “nuove”bambine?”
“Le loro bambole sono sexy  e rispecchiano o (inducono) i loro sogni: diventare madri, ballerine, estetiste, mogli di calciatori…”recita il quarto di copertina.

Da un’intervista fatta ad un’aspirante miss Italia il libro citato riporta l’affermazione che il  desiderio più vivo  “è quello di sposare un miliardario…”
Che l’obiettivo sia il successo,  il quale servirà a portare ad un ottimo matrimonio, fa capire che niente è cambiato!  Soltanto  il mezzo per riuscirvi appare uno solo: l’avvenenza fisica.
Anche la laurea servirà a costituire “la pedagogia del sapere femminile come ornamento”

Per poter affermare tutto questo l’autrice fa un’analisi minuziosa della rete Internet , i blog, soprattutto delle madri delle ragazzine, i forum, le chat, i siti, i videogiochi,  i personaggi virtuali oltre che prendere in considerazione la letteratura per l’infanzia, i libri scolastici, i giornali, i fumetti, la pubblicità, la televisione. E si interroga intorno ad una domanda cruciale:  – Come è possibile che ragazze che volevano diventare presidenti degli Stai Uniti abbiano partorito figlie che sognano di sculettare seminude a fianco di un rapper ?

Evoluzione o regressione?
In Italia certamente non siamo nel terzo mondo eppure siamo oggi in presenza di una regressione rispetto alle conquiste della donne che hanno caratterizzato le generazioni femminili comprese tra gli anni 50 e la fine del secolo scorso

Non è che non ci fossimo accorte del fenomeno delle veline ed affini, non è che non avessimo notato le schiere delle aspiranti miss ingrossarsi di anno in anno ma pensavamo che fosse un gioco ingenuo per una bella ragazza desiderare  di avere un riconoscimento, sia pur effimero, della propria bellezza. Quello che ci era sfuggito era che il fenomeno stava diventando di massa e che dietro non c’era un vero e proprio progetto di autorealizzazione ma “un’opportunità” in più per fare un buon matrimonio…L.Lipperini infatti scopre nei blog delle madri, che accompagnano le figlie ai concorsi di bellezza, che non lo fanno per qualche momentaneo trofeo ma perché in quei posti bazzicano gli uomini con i soldi….E pensare che mia madre (classe 1896!) raccomandava a mia sorella e a me: come minimo un diploma perché l’autonomia economica per una donna è fondamentale!

Ci era sfuggito che già a sei anni molte bambine al posto di un giocattolo chiedono le scarpette alla moda con la zeppa alta, che qualche volta le incontro per strada vestite con abitini leziosi,(con cui è difficile giocare, arrampicarsi, andare sullo scivolo,ecc) capelli fonati che scuotono ad hoc, per mano di madri orgogliose non solo perché così detta la moda ma anche per una specie di iniziazione indotta al tirocinio di seduttività!
Non avremmo mai pensato di poter scoprire che ragazzine di dodici anni potevano finire nelle discoteche a fare le cubiste, avendo già provato tutto del sesso, facendosi di cocaina e pasticche come la cosa più naturale del mondo! (Marida Lombardo Pijola-Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano principessa. Feltrinelli)
L’industria dell’intrattenimento e quella della società dello spettacolo con il loro sottobosco e le contaminazioni subculturali che ne discendono si stanno diffondendo tra le preadolescenti senza incontrare nessun filtro critico.

Le giovani degli anni 70 e 80 si opponevano al sistema, oggi queste, senza nemmeno saperlo, lo confermano.
Come abbiamo fatto a non accorgercene?
Avevamo forse messo in atto quello che Galimberti chiama il meccanismo del diniego. Non volevamo prendere consapevolezza del fenomeno e preferivamo pensare che fosse un evento di nicchia, isolato, tipico dell’entourage di certi ambienti , della Rai o del cinema.
Purtroppo non è così e Loredana Lipperini ci ha aiutato ad aprire gli occhi.

Vogliamo restare indifferenti? O vogliamo riprendere a fare delle serie riflessioni all’interno della scuola, a partire dal nido, e dalla scuola dell’infanzia ed elementare per aiutare a ridare coraggio, lucidità, intelligenza, volontà alle nuove bambine? Per sostenerle nella maturazione di una identità di genere finalmente liberata, consapevole ed autentica, dimostrando  la competenza, la responsabilità, lo smalto di cui saranno capaci le future donne che oggi sono ancora delle piccole bambine?
Perchè, anche se non avevamo voluto accorgerci della deriva fin qui descritta, per fortuna esistono oggi anche moltissime giovani donne, consapevoli del valore e della dignità femminile che sanno coniugare l’autorealizzazione e la relazione, con risultati sorprendenti ed addirittura affascinanti, di un fascino vero,  non legato solo all’apparire, che possono fare da esempio per orientare le nuove generazioni femminili.

Urge però correre ai ripari e, per esempio, riattivare il Comitato Pari Opportunità presso il Ministero della Pubblica Istruzione con compiti formativi,  a partire dalla scuola dell’infanzia, (come è esistito dall’anno 1989 all’anno 1999 al quale ho preso parte come componente dell’Associazione Nazionale dei Dirigenti Scolastici)
Ci riferiamo non al semplice Comitato paritetico, previsto oggi dal contratto di lavoro che, così come è impostato, difficilmente può interessarsi a diffondere nella scuola la cultura delle Pari Opportunità.

Intendiamo un Comitato che si faccia carico di  orientare consapevolmente bambine e bambini, ragazze e ragazzi verso la maturazione della loro identità di genere, evitando il più possibile vecchi stereotipi  o nuove storture o quei condizionamenti che hanno caratterizzato o ancora caratterizzano, come abbiamo visto, l’educazione.
Un Comitato PPOO composto da soggetti femminili e maschili, che abbiano approfondito sia la tematica del genere che quella della formazione.

Esiste il comma 16 della Legge 107/15 che dovrebbe “assicurare” questa formazione ma molti genitori “talebani”, temono che questa formazione possa “legittimare” l’orientamento omosessuale e parecchi Dirigenti che non vogliono “grane” lasciano perdere…
Alla prossima puntata proveremo ad approfondire la deriva dei nuovi  bambini,  vale a dire dell’identità maschile, che ancora di più abbisogna di essere presa in considerazione.

 Bibliografia

Lipperini Loredana- Ancora dalla parte delle bambine –Feltrinelli, Mi, 2007
Pijola Marida Lombardo-Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano  principessa.
Feltrinelli, MI, 2007

 

 

 

 

 




Dalla parte delle bambine, un libro che ha sconvolto il mio modo di pensare e di essere

di Maurizio Parodi

“Le radici della nostra individualità ci sfuggono; altri le hanno coltivate per noi, a nostra insaputa”

Dalla parte delle bambine è il libro che più di ogni altro ha sconvolto il mio modo di pensare e di essere.
Prima di incontrare, giovanissimo, Elena Gianini Belotti, credevo in una complementarità dei sessi, perciò dei ruoli anche sociali, di matrice cattolica, invero profondamente discriminante, giacché basata su stereotipi psicologici dei quali, a torto, si rivendicava la natura deterministicamente biologica.
Equivoco, ancora oggi alimentato da ideologie e da politiche subdole giacché in apparenza benevole, paternalistiche, ma nel profondo regressive e violente, dissolto dalla scoperta di come le differenze tra maschio e femmina siano per molta parte frutto di condizionamenti culturali che l’individuo subisce ancor prima di nascere e nel corso del suo sviluppo.
Forse una banalità per molti uomini e per molte donne che vivano in “occidente” ai giorni nostri, o forse no, visto che persino nei paesi formalmente più civili l'”uguaglianza” dei diritti, pur enfaticamente proclamata, è di fatto impedita dalla perdurante diseguaglianza delle reali opportunità, come dimostra, ancor prima della presenza femminile (ineguale) ai vertici delle stesse istituzioni politiche, la semplice distribuzione (ineguale) dell’impegno domestico, dai lavori di casa alla cura dei famigliari (laddove si può ben dire che il privato è politico).
Un rivelazione sconvolgente, appunto, per un giovane maschio degli anni settanta che ha segnato non solo la visione del mondo, l’impegno politico, bensì le relazioni tra pari, con le amiche e le compagne, anche di vita, così come i comportamenti quotidiani, le azioni solo apparentemente più prosaiche.
Una consapevolezza, attiva, vissuta anche sul piano professionale, in ambito pedagogico e didattico, sapendo che non si tratta di «formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene».
Grazie Elena: che la terra ti sia leggera!




Elena Gianini Belotti: la sua vicenda intellettuale, il suo lascito

di Simonetta Fasoli

La recente scomparsa di Elena Gianini Belotti, dopo una lunga e intensa vita, ha comprensibilmente riacceso l’interesse per la sua opera e i frutti che ha disseminato: come dimostrano i tanti commenti che si sono subito avvicendati anche sui social. Emerge, nel ripercorrerne i passaggi, un ritratto ricco di sfaccettature e di “digressioni” che conservano comunque una profonda unità e coerenza di ispirazione. A cominciare dalla sua prolungata esperienza nel Centro Nascita Montessori, che diresse dal 1960 al 1980. Lo possiamo considerare un inizio significativo di cui, in qualche modo, recano tracce le diverse sue opere, che hanno spaziato dalla saggistica, alla narrativa, alla ricerca storica condotta con originalità di approccio.
E’ noto il suo esordio presso il pubblico più vasto, con il saggio Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita (1973). Un notevole successo editoriale, che evidentemente intercettava e portava a una sistematizzazione tematiche e problemi di quegli Anni Settanta che sarebbero stati segnati da un fervore intellettuale diffuso, anche nel campo dell’educazione e della riflessione di genere. Come indica con mirabile sintesi il sottotitolo del libro, si trattava di “sbanalizzare l’ovvio” dei modelli (femminili ma anche maschili) cui era ispirata l’educazione tradizionale, mostrandone la matrice culturale e mettendo in discussione ogni concezione “naturalistica”. Questo sullo sfondo di una riflessione sulla funzione decisiva dei primi anni di vita, che aveva certamente illustri precedenti ma che, nel caso di Gianini, si innesta sulla preziosa esperienza del Centro Nascita, a sottrarre alle sue posizioni qualsiasi rischio di ricostruzione puramente accademica. Con ciò si spiega, anche, l’impatto duraturo che il testo ha avuto sulle diverse generazioni di insegnanti, educatori/educatrici, genitori.
Seguono opere che ancora oggi possono stupire per acutezza di analisi e per attualità di prospettive, come (per citarne alcune) Prima le donne i i bambini e Non di sola madre, che è posteriore di dieci anni alla prima e più conosciuta opera. In tutte emerge e viene variamente articolata la sua appassionata e documentata ricerca sui modi e le categorie di interpretazione volti a de-costruire ogni “mistica” sul femminile e la maternità, giustamente individuata come veicolo di un potere patriarcale mai rassegnato alla propria progressiva irrilevanza: un potere di cui, si badi bene, sono vittime anche i maschi, tanto più in quanto lo esercitano secondo un determinismo culturale che non lascia margini a esperienze e a processi di individuazione.

La creatività, del resto, sembra attraversare il percorso intellettuale di Elena Gianini Belotti, che è rigoroso e inquieto al tempo stesso, come in un “romanzo di formazione” di cui si intravede solo alla fine un disegno compiuto. Eccola dunque cimentarsi con la narrativa (spicca, tra tutti, il suo Il fiore dell’ibisco, 1985, forse il più riuscito tra altri pure notevoli) e con quel genere tra saggio e racconto di cui è esempio Prima della quiete. Storia di Italia Donati, 2003. Mi preme soffermarmi brevemente su questo testo, che mi sembra interpellarci particolarmente come educatori/educatrici e persone di scuola. Gianini racconta la storia tragica della maestra toscana Italia Donati (che si suicidò nel 1886, a soli ventitré anni, a seguito delle infamanti dicerie di cui era stata oggetto circa la sua condotta privata) con lo scrupolo dell’indagine storica e l’approccio empatico verso una vicenda in cui vede rappresentata emblematicamente la condizione delle donne. In questo caso, il pregiudizio sociale che gravava sui maestri (in generale visti con ostilità da un contesto che li identificava con lo Stato opprimente e intenzionato a sottrarre “braccia da lavoro”, avviando i bambini e le bambine all’istruzione elementare) viene moltiplicato dall’azione degli stereotipi di genere, particolarmente accaniti contro le donne.
Un’opera coraggiosa, dunque, questa appena richiamata di Elena Gianini Belotti. In essa mi sembrano fondersi le molteplici facce di un’intellettuale, scrittrice e pedagogista, per niente pacificata e pacificante, pur nel rigore del suo impegno, stemperato in una lunga vita, che ha attraversato come un fiume carsico diverse generazioni e fasi storiche del nostro Paese. E’ tempo, credo, di farla riemergere in piena luce: non per limitarci a celebrarla, ma per esplorare ancora il suo pensiero e farne un lascito fecondo, di cui c’è più che mai bisogno.