“Scuola media unica”: sessant’anni portati male

di Giovanni Fioravanti

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.
Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.
Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”.

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita.
Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.
Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.
Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti.
Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese.
C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.
Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.
Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio.
O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica.
E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.
Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.
La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.
Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni.

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.
E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?
Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.
Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.




Signor Ministro, Lei lavora troppo… e male

di Mario Maviglia

Su queste stesse colonne, qualche settimana fa, abbiamo stigmatizzato il grande attivismo del Ministro del Merito Valditara (Signor Ministro, Lei lavora troppo!). Ora il Ministro ha superato se stesso con un altro audace e impavido intervento.
Ma andiamo con ordine. Qualche giorno fa, la Rete degli Studenti di Milano ha manifestato contro l’Inail che ha negato il risarcimento alla famiglia di Giuliano de Seta, morto durante un progetto di alternanza scuola-lavoro nel mese di settembre 2022. Gli studenti della stessa Rete in un comunicato apparso sui social hanno affermato che “le tre morti che si verificano ogni giorno sul lavoro, oltre ai tre studenti morti in stage, non sono morti bianche, bensì posseggono dei mandanti ben precisi: da Confindustria a Mario Draghi, dall’Inail a Valditara, tasselli che compongono il mosaico di un sistema ora più che mai schiavo del profitto e del tutto disinteressato al capitale umano utilizzato per generarlo.”

Questo comunicato non è piaciuto al Ministro del Merito che ha affermato: “Ho dato mandato ai miei avvocati di querelare i responsabili di queste dichiarazioni infamanti e gravemente diffamatorie. Con gli autori di questi comunicati non voglio aver nulla a che fare.”

Per quel che ne sappiamo è la prima volta che un Ministro denuncia degli studenti (presumibilmente minorenni). Avrà avuto le sue buone ragioni. Da capo di un Ministero dedicato all’istruzione e all’educazione forse poteva esperire altre vie per far comprendere ai facinorosi la gravità di quanto dichiarato.
Ad esempio, poteva convocarli in viale Trastevere 76/A Roma ed avere con loro un franco confronto; oppure poteva spiegare pubblicamente ai ragazzi cosa ha fatto e costa sta facendo il Ministero (e le altre Istituzioni) per evitare che succedano ancora altri tragici incidenti come quelli denunciati; oppure poteva preannunciare una iniziativa legislativa per modificare le norme Inail in tema di risarcimento per morte sul luogo di lavoro o a seguito di esercitazione al lavoro; oppure poteva far rimuovere dai social il comunicato contestato e far chiedere scusa ai ragazzi per le indebite accuse.
Insomma, da una prospettiva educativa, il Ministro del Merito avrebbe potuto cogliere questa occasione per trasformarla in un momento di riflessione non solo sull’inappropriatezza del linguaggio utilizzato dagli studenti, ma anche e soprattutto sulla “inappropriatezza” della morte di un giovane studente avvenuta durante le attività di alternanza scuola-lavoro (ora PCTO, ma questa nuova sigla non è bastata a salvare la vita dello studente), evitando di cadere nella trappola del paradigma attacco-difesa (attraverso l’attacco).

Il Ministro del Merito ha preferito seguire la via della “umiliazione” e della punizione, convinto, evidentemente, che la giustizia penale sia sulla sua lunghezza d’onda. Ma forse il miglior antidoto per non essere infangati nella propria onorabilità è quello di misurare le parole e di compiere atti adeguati. Ne è convinto anche il prof. Francesco De Bartolomeis, il decano dei pedagogisti italiani, 104 anni, che in una intervista apparsa sul quotidiano Domani nello scorso novembre così si esprime nei confronti del Ministro del Merito: “Mi sembra assolutamente inadeguato, farebbe bene a stare zitto, dice delle autentiche sciocchezze. Valditara non ha nessuna idea di che cos’è un sistema formativo, di come va gestito, migliorato, quali sono i suoi problemi. Le sue sono dichiarazioni sparse senza costrutto. È una disgrazia, una delle tante disgrazie di questo governo. Lei si sentirebbe di umiliare una persona e poi dire che l’ha migliorata? È una frase molto significativa per la sua mancanza di senso. Umiltà, modestia, buona disposizione verso gli altri, rispetto, ma non l’umiliazione. Questo è un altro piano, ma non so se si può parlare di piano per Valditara”.

Un’ultima annotazione: non risulta che il Ministro del Merito abbia denunciato le 13 persone che sulla scalinata dell’Istituto Paritario San Giuseppe De Merode di Roma, a due passi da Piazza di Spagna, nello scorso dicembre hanno fatto il saluto romano facendosi immortalare sui social. È vero che si trattava di ex alunni dell’Istituto, ma il gesto è stato compiuto sulla scalinata dello stesso, in spregio alle norme costituzionali e ordinarie contro l’apologia di fascismo. Certo, in questo caso  non è stato infangato il nome del Ministro, ma quello della nostra Repubblica democratica e antifascista. E questo è ancor più grave. Fatto sta che alcun atto di “umiliazione” è stato promosso dal Ministro del Merito; “forse era stanco, forse troppo occupato…” (F. De Andrè).




Un ministro meritologo. E molto altro

Stefaneldi Aristarco Ammazzacaffè

Il sogno di una vita.

“E l’Italia giocava alle carte e parlava di calcio nei bar e … rideva e cantava” (Gaber).
E Valditara studiava. Studiava soprattutto i primi passi, e anche i secondi, per dare concretezza alla scuola del Merito. Sembra addirittura che meditasse, già di prima di diventare ministro, di proporre all’Università Europea ‘Legionari di Cristo’ – di cui, come è noto, è promotore e preside – di istituire la facoltà di Meritologia.
E pensava.

Quest’idea quindi lo agitava da sempre. Infatti è da almeno tre legislature tre, da quando cioè è parlamentare, che desiderava diventare Ministro dell’Istruzione, soprattutto perché – udite! udite! –  voleva modificarne la denominazione.
Non gli piaceva quella adottata. Era monca e povera – diceva -. Sostanzialmente egli  mirava a integrarla con una parola che per lui era soprattutto un valore e una ragione di vita: MERITO. Tutto maiuscolo. E così passare alla Storia (ci teneva veramente tanto).

Col nuovo governo, che finalmente corona il suo sogno di diventare ministro, si presenta la grande l’occasione.
Ma non sapeva come centrare tale obiettivo. E questo gli creava depressione. Addirittura incubi notturni. Del tipo: sognare di essere davanti ad una commissione, formata tutta da gente di sinistra – povero! – dai volti accigliati e anche brutti (tra l’altro)  che lo interrogava in modo truce sulle competenze di ministro; e lui, in preda al terrore non riuscire ad aprire bocca. E sudava e stralunava.
Questo, almeno a dar retta ai suoi racconti. (Alcuni che ne sanno insinuano invece che non apriva bocca perché era a digiuno delle cose più elementari sul mondo della scuola. Sarà vero, non sarà vero? Nel dubbio, personalmente mi astengo).

Comunque alla fine ce l’ha fatta. Gli è arrivata l’idea giusta: – Rivolgiti a Giorgia – si disse – e vedrai che ne esci –
E così ha affrontato la Presidente Giorgia – come sempre la chiama lui (solo Salvini, che ancora gli rode, la chiama, col sorriso che gli si confà, “Giorgina”; e ogni volta lei lo squadra severa, che il sorriso gli si congela in smorfia).
“Vorrei, Presidente Giorgia – le dice – arricchire e meglio articolare la denominazione del mio ministero, per dargli la dignità e la considerazione che merita; e vorrei farlo aggiungendo, a Ministero dell’Istruzione, ‘e del Merito’. 

‘Giusto, giusto. È la bandierina che mancava. Mettiamocela”. Non aggiunge altro e riprende il suo lavoro. (Aveva evidentemente altro per la testa o già conosceva il personaggio. Ma chi lo può dire).  Lui capisce, saluta ed esce, comunque contento.
Era fatta! Raggiunto l’obiettivo anche sulla denominazione, inizia la sua missione concedendo interviste sull’argomento ai giornali, alle radio, ai telegiornali e alle trasmissioni di intrattenimento di Rai 1,2,3, de La Sette, della Nove e fors’anche della Dieci, se c’è; e ovviamente anche di Mediaset, di Sky, ecc., ecc.. Ha tentato anche con BBC, ma non ce l’ha fatta, per un soffio – dice lui.

Al di qua e al di là del merito. La questione della scuola seria: cosa è, cosa non è.

Però, quando questa storia del merito non tirava più come notizia, ha cominciato con altri argomenti più freschi e momentaneamente più attraenti; a partire dalla questione dei cellulari, fino a quella apparentemente un po’ più seria della scuola seria (cos’è / cosa non è, il dilemma). Questione, questa, che ha avuto degli sviluppi eclatanti nell’intervista a Sky TG24, poco prima di Natale, che ci ha fatto capire finalmente il cuore della missione che gli sta a cuore, ben tradotta nella frase che riassume il suo obiettivo pedagogico: “Riportare la serietà nelle classi”.
E, siccome lui è persona che sa quel che dice, ha voluto chiarirlo nella seconda intervista rilasciata al quotidiano Libero, dove reclama, senza giri di parole: “Io voglio una scuola seria con docente che spiega e lo si ascolta”. 0h! – conclude.

Al riguardo, profonde, come il pozzo di S. Patrizio, le sue parole, riferite specificamente all’uso del cellulare in classe. Sul quale soprattutto ha argomentato molto convinto, nella sua prima o forse seconda Lettera alle famiglie, che

  1. si usa quando si può e non si usa quando non si può;
  2. gli adulti della scuola devono vigilare ed eventualmente punire chi fa di testa sua, perchè la scuola è una cosa seria e non c’è scuola se non è seria (affermazione che ha – a ben vedere – una sua profonda interna coerenza e perciò è stata molto applaudita in giro, dicunt);
  3. la circolare ministeriale del 2007 sulla questione diceva già quello che andava detto, ‘ma io ne ho voluto fare una tutta mia, per far capire che l’aria è cambiata; e anche il vento ha cambiato giro“. Chi deve capire capisca;
  4. sono anche sue (di lui medesimo), le preoccupazioni, al riguardo, dei genitori e dei docenti; perciò anch’egli ha voluto occuparsene e preoccuparsene personalmente per far capire a tutti che ora c’è anche lui che se ne occupa e preoccupa. È bene che si sappia.

Sul valore della  punizione. Ovvero: quando l’ego degli studenti si sgonfia.

Riguardo allo specifico punto delle punizioni – per lui strumento obbligato di una scuola seria – le riflessioni e considerazioni in cui offre il meglio di sé sono quelle che ne approfondiscono opportunamente il senso e il valore, a ben vedere decisamente catartico (Piace richiamare qui che gli è capitato spesso di riproporlo in giro, riscuotendo, si dice, tacita ammirazione).
Tra l’altro, alcune di queste sono decisamente esemplari, soprattutto per l’assoluta capacità di saltare di palo in fresca con invidiabile non chalance; tanto da chiedersi, tra chi lo ascoltava: – Ma quanto avranno cercato per trovare un ministro così? Boh!
E casi come questi si arrivava addirittura all’imbarazzo, perchè non si sa  se essere più ammirati per le cose che dice o per le cose che non dice e si presume voglia dire (in situazioni del genere, comunque, io, nel dubbio, mi astengo).

Però una cosa non va sottaciuta. È il piglio dell’uomo che sa decidere. Di cui ha dato particolare dimostrazione nella trasmissione televisiva “Porta a porta”, di fine anno; durante la quale afferma testuale, a proposito dei fenomeni di bullismo: «Non possiamo rimanere inerti. …”.
Non saprei comunque a questo punto chi citare dei grandi pedagogisti dell’ultimo secolo a cui lui si è creativamente ispirato. Non me ne viene nessuno.

Ma il suo scavo sull’argomento bullismo e strategie ha avuto suggestivi sviluppi soprattutto nella sua Audizione di fine anno alle commissioni riunite Cultura di Senato e Camera.
Dove il ministro, puntando giustamente a fare bella figura – era la sua prima udizione – dopo aver parlato del bullismo come espressione dello sviluppo mal governato dell’ego  su cui evidentemente ha fatto degli studi la sera prima – ha lanciato il suo monito esplicito: “… il ragazzo deve concepire che il suo ego ha dei limiti; deve rendersi conto che è inserito in una dinamica sociale più ampia. Non può essere lasciato solo col suo ego ipertrofico». Una uscita che è una mazzata. E siccome è il tipo che non lascia le cose a metà, conclude con la parola d’ordine – quasi un’epigrafe -: “(Gli studenti) “devono imparare ad accettare la sanzione”.

Applausi finali ma anche qualche parlamentare che bisbiglia: – Ma noi che c’entriamo?
Comunque, nell’insieme non si può dire che la sua figura non l’abbia fatta.
A questo punto, la domanda finale: Cosa si può chiedere di più su un ministro di questa portata? Niente.
Lui è fatto proprio così. Che Dio comunque gliene renda merito.




Didattica del recupero o didattica da recuperare?

di Simonetta Fasoli

Ho letto in questi giorni in articoli dedicati alla scuola nell’ambito del territorio romano, spesso con toni comprensibilmente allarmati, dati e commenti circa l’avvenuto, sensibile incremento di corsi pomeridiani di recupero attivati nelle Scuole primarie. Ricorre il tema delle competenze linguistiche basilari (si parla di “comprensione del testo”) e logico-matematiche in vistosa carenza, per cui si rendono necessari tempi suppletivi (in orari pomeridiani) programmati dalle scuole.
Ferme restando la variabilità dei fatti e la complessità della casistica, che vietano giudizi sommari, penso sia opportuno, e perfino urgente, accompagnare la conoscenza dei dati con qualche considerazione e qualche spunto di riflessione. A partire dal concetto di “recupero” e dalle modalità con cui viene realizzato: spesso, infatti, si confondono i piani. Si devono recuperare i “contenuti” (nel senso più ampio) o non piuttosto gli strumenti di approccio? Nel primo caso, il riferimento sono gli obiettivi fissati; nel secondo sono i percorsi.

Nel primo caso, prevale un criterio quantitativo, per cui è sensato intervenire su un incremento del tempo scolastico. Nel secondo, è analizzata la qualità dell’apprendimento, che suggerisce di rivedere le metodologie del processo di costruzione della conoscenza.
Ma c’è una questione di fondo che, a mio parere, comprende entrambe le ipotesi e che potrei formulare così: più che di una didattica del recupero, parliamo del recupero della didattica!

Fuori dal gioco di parole, è un invito a spostare l’attenzione dall’apprendimento (“non ce la fanno”…e via alla ricerca dei “colpevoli”, identificati volta a volta nei telefonini, negli esiti della pandemia e dell’isolamento…) all’insegnamento e alla didattica che ne è in qualche modo la parte visibile, la messa in opera. Di fronte a questo guado, a me pare che la Scuola tenda a chiamarsi fuori, a non mettersi davvero in gioco, prendendosi il rischio di autoriformarsi dal basso. Di qui, la via, impegnativa e certo non indolore, di organizzare tempi e setting aggiuntivi.
Proviamo a rovesciare il punto di vista. Se il problema nasce nel tempo e nella didattica ordinari, la strategia di contrasto va individuata nello stesso registro dell’ordinarietà, più che nella predisposizione di percorsi gestiti in ambito extracurricolare. Se è il gruppo di apprendimento la risorsa essenziale, non è la separatezza la risposta adeguata per chi si senta o sia stat* esclus*. Questo lo ha recepito la cultura dell’inclusione e lo ha tradotto in principi e percorsi fin dagli anni Settanta del secolo scorso: si vedano in proposito pietre miliari quali il documento della Commissione Falcucci (1975) e la legge 517/77. A chi fosse sensibile a questa tematica, segnalo quanto è scritto, con esemplare semplicità ed efficacia, nel seguente breve passo della direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, che disciplina la vasta materia dei BES (Bisogni Educativi Speciali):
“[…] Si è detto che vi è una sempre maggiore complessità nelle nostre classi, dove si intrecciano i temi della disabilità, dei disturbi evolutivi specifici, con le problematiche del disagio sociale e dell’inclusione degli alunni stranieri. Per questo è sempre più urgente adottare una didattica che sia “denominatore comune” per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: UNA DIDATTICA INCLUSIVA PIÙ CHE UNA DIDATTICA SPECIALE.”
È mio il carattere cubitale.
Ripensare con la necessaria radicalità la didattica ordinaria comporta, va ribadito con forza, un netto cambio di direzione delle politiche scolastiche, che parta dalle condizioni strutturali: risorse e stabilità di organico, investimento sulla qualità degli spazi educativi e sul patrimonio edilizio, formazione del personale mirata a criteri di qualità dei percorsi e non ridotta ad adempimento burocratico, quando non a pratica vessatoria.
Non c’è tempo da perdere: il tempo è adesso, sono queste e non altre le generazioni che reclamano i loro diritti. Massimamente, quando non hanno voce.




Caro Ministro, l’orientamento educativo è altra cosa

di Simonetta Fasoli

Quasi sul finire dell’anno, il ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato un provvedimento che adotta Linee guida concernenti l’orientamento, il D.M. 328 del 22/12/2022.
Si tratta di un testo che si presenta con l’ambizione di assumere un’ottica di sistema, e non solo perché investe i diversi segmenti del sistema di istruzione secondaria di primo e secondo grado, ma anche perché mira ad inserirli in un’unica cornice istituzionale, pur nelle distinzioni dei rispettivi ordinamenti. Il filo conduttore è nell’idea di orientamento che attraversa l’intero percorso delineato, quasi a farne una chiave di volta.
Se questa è, come sembra, l’operazione, è il caso di fare qualche riflessione di approfondimento.
Il testo, in più di un passaggio, parla di “orientamento educativo”: ebbene, partiamo da questa espressione, per sottrarla al rischio di usarla come una formula che da sé basti a dare senso (vorrei dire, “dignità pedagogica”) alle indicazioni date.

Per dire, anzitutto, che un percorso di orientamento è “educativo” se
* si discosta nettamente da ogni forma, esplicita o implicita, di addestramento al lavoro
* si propone di formare soggetti capaci di riconoscersi parte attiva delle proprie scelte di vita
* non adotta il punto di vista del mercato come luogo di incontro della domanda/offerta, sovrapponendo in ultima istanza le sue esigenze economiciste ai percorsi formalizzati di istruzione/formazione
*non restringe lo sguardo dei soggetti in crescita nei tempi e negli spazi angusti di una idea fuorviante di “prossimità”, del territorio e delle sue caratteristiche produttive

Se tutto questo è vero e plausibile, l’orientamento “educativo” attraversa allora l’intero sistema di istruzione/formazione, perché coincide con i processi di crescita in tutto l’arco della vita: senza precocismi e senza fughe in avanti. È la premessa pedagogica forte e irrinunciabile di ogni successiva opzione di vita. È l’antidoto a ogni interpretazione mercificante di interessi e attitudini; è la trama stessa della conoscenza, che nella sua piena accezione investe, come si sa, dimensioni relazionali, affettive, cognitive.
Suggerisco a chi fosse interessato di svolgere una ricognizione sul tema con uno sguardo alle sue matrici nel tempo, per evitare di prendere per buona ogni ricerca di “novità” fine a sé stessa. E di andarsi a rileggere, in questa prospettiva, le pagine illuminanti dei Programmi della Scuola media (D.M. 9 febbraio 1979). Qui si trova, a mio parere, esemplarmente riportato un impianto pedagogico ricco di implicazioni per il discorso che in questa sede mi interessa. Si vedrà agevolmente che la Scuola media (secondaria di Primo grado) è orientativa perché IN SÉ STESSA ORIENTANTE: cosa altro vuol dire, se non questo, l’espressione “scuola che colloca nel mondo”? Ne discende che la trama disciplinare concorre a promuovere “conoscenza di sé e del mondo”: due movimenti interconnessi di un unico processo. E che ogni disciplina, correttamente intesa, è un “modo” della realtà che essa racconta, nella specificità della sua “grammatica epistemologica”, del suo linguaggio e del suo metodo. Un’impostazione originaria che le Indicazioni nazionali del Primo Ciclo nelle diverse edizioni (2007, 2012 e 2018) hanno ulteriormente declinato, ma non superato né tantomeno resa obsoleta.
Devo confessare che, pur nell’attenta lettura del decreto ministeriale, non ho trovato traccia articolata di questa idea di orientamento qui in sintesi richiamata: la dimensione “educativa” resta un’evocazione senza radici culturali e pedagogiche, un mero artificio retorico. Di qui, duole dirlo, un travisamento che si ripercuote sull’intero disegno, coinvolgendo anche le declinazioni riguardanti la scuola secondaria di secondo grado. Qui si dà luogo, a me sembra, ad una vera e propria “commedia degli errori”, in cui gli aspetti meramente “informativi” dell’orientamento fanno agio su quelli propriamente formativi, in un frequente salto di dimensioni, in una confusione disfunzionale di obiettivi e metodi di approccio.
Il tutto condito da un’enfasi degli aspetti gestionali e dei risvolti organizzativi, spesso molto dettagliati, che non riesce a nascondere, semmai fa risaltare, la pochezza dell’approccio culturale e l’insufficienza della consapevolezza dei problemi affrontati.
No, cari signori del ministero soi-disant del merito, non ci siamo… Si raccomanda una rilettura dei “fondamentali”, un paziente lavoro di ripensamento, senza nostalgie certo ma senza nuovismi. L’orientamento è un tema strategico per il sistema di istruzione, solo se parliamo davvero di educazione e non di un restyling intrapreso su mandato, neanche tanto surrettizio, del sistema produttivo.




C’è proprio bisogno del tutor?

di Raimondo Giunta

Il ricorso a parole anglosassoni (seppure riprese con varianti semantiche dal vecchio latino..) accompagna talvolta qualche innovazione o qualche idea pedagogica,  con la speranza che forniscano un adeguato corredo di prestigio …Una di queste parole è “Tutor”.

Nel mondo giuridico, in cui è nata la parola,  il tutore è la persona che si prende le responsabilità di proteggere e guidare i minori,  in assenza o in sostituzione dei genitori .E’ la persona che deve assicurare la salvaguardia dei diritti e degli interessi del tutelato nel contesto sociale in cui vive e deve crescere.
E nella scuola?

A scuola la persona da tutelare è l’alunno, in posizione di minorità rispetto agli insegnanti e rispetto all’istituzione scolastica e chiaramente solo rispetto agli uni e all’altra.

A rigore, una figura terza come il tutor, tra l’insegnante e l ‘alunno, che sostenga quest’ultimo nell’esercizio del diritto a essere formato ed educato non dovrebbe esserci, perché questa cura dovrebbe essere indissolubilmente legata all’attività di docenza di qualsiasi docente.
Ciò nondimeno, in diverse forme dell’attività formativa (formazione professionale, educazione degli adulti, corsi di aggiornamento,  etc) questa figura si è resa necessaria, come supporto alla docenza e come aiuto all’apprendimento; figura di mediazione e di accompagnamento.
Ma c’è questo particolare bisogno nell’attività didattica di ogni classe di ogni tipo e grado di istruzione? A quale tipologia di alunno dovrebbe essere dedicata questa particolare figura professionale?
A quelli che restano indietro o anche a quelli che marciano da soli in avanti come vorrebbe il ministro? La preoccupazione per le sorti del “minore” in educando è ancora in capo ad ogni insegnante o viene delegata al tutor?

Le funzioni di guida e di orientamento sono costitutive dell’adulto e del genitore, figure finora e ancora ambedue assorbite e interpretate in modi particolari dal docente nell’esercizio dei suoi compiti. Non sarà più così?

Il Ministro dell’Istruzione e del Merito(?) sicuramente sa che un tentativo di introdurre il tutor nella scuola italiana c’è già stato e che  per vari motivi non se ne è più fatto cenno.

Prima di riparlarne non bisognerebbe partire dalle ragioni di quel fallimento? La cura, l’attenzione ai problemi degli alunni, la guida nel loro processo di apprendimento, l’affiancamento nel loro processo di crescita non sono azioni possibili del e nel processo educativo, ma azioni doverose. Fanno parte delle responsabilità di ogni figura professionale che entra in una classe per svolgervi il proprio lavoro,  sapendo  che senza di esse non si genera la formazione, l’educazione, la crescita umana dell’alunno.

Non è sufficiente  sollecitare ed esaltare  queste responsabilità per affrontare i problemi che sorgono nella gestione quotidiana di una classe?

Si è vissuta una lunga stagione in cui con superbia intellettuale questi problemi sono stati giudicati marginali nella professione docente, tutta centrata sulle tecniche didattiche e organizzative.

Si sono sminuiti come superflui il mondo delle relazioni e la dimensione affettiva del lavoro, deresponsabilizzando il docente dal suo dovere di “cura” e di attenzione nei confronti di ogni singolo alunno.

Si è insistito con protervia nella formalizzazione di un processo dinamico, complesso, ricco, intrigante, emotivo, sentimentale come quello dell’educazione.  Molti, abusivamente a mio parere, hanno ridotto l’insegnamento alla sola dimensione conoscitiva, alla professionalità,  al culto della disciplina.

La dimensione educativa è stata spesso rinviata alla famiglia o nella versione più laica all’equipe psico-pedagogica.

Il problema è che le famiglie non sempre ci sono e se ci sono, spesso latitano, ma i ragazzi e i giovani ci sono e quindi non può essere eluso, da chi se li trova davanti per la gran parte del tempo della loro crescita,  il loro bisogno di “tutela”.

Se non si fosse giocato parecchio con la separatezza tra educazione e istruzione, se gli insegnanti non si fossero trincerati dietro il loro specialismo e non avessero difeso ad oltranza il loro insindacabile individualismo, rendendo di fatto impossibile l’assunzione della responsabilità collegiale di fare crescere armoniosamente l’alunno, a nessuno sarebbe venuta e verrebbe in mente l’idea di parlare di tutor.

Al massimo si sarebbe parlato dei nuovi compiti del coordinatore di classe, del coordinamento dell’azione unitaria dell’educare e dell’istruire.
Con la figura del tutor di fatto si scompone la figura del docente e se ne gerarchizzano le funzioni.

Il tutor a condizioni immutate del normale esercizio dell’insegnamento, senza una riconsiderazione radicale del suo svolgimento, potrebbe essere una pezza peggiore del buco che vorrebbe coprire, perché  professionalizzarebbe la funzione d’accompagnamento (con i rischi di impoverimento culturale ed umano del restante personale) e accentuerebbe e giustificherebbe la deresponsabilizzazione educativa dei docenti .In una parola è meglio lasciar perdere.

 

 




Non è una cittadinanza per vecchi

di Marco Guastavigna         

Acquisito e divorato. Sto parlando di Invecchiare al tempo della rete, di Massimo Mantellini. Il tema affrontato ha per me – e probabilmente per qualche lettrice/lettore di questa rubrica – una forte risonanza biografica, nonostante non sia mai tra le priorità del dibattito politico culturale. Che cosa significa diventare sempre più anziani oggi, di fronte alla conclamata pervasività dei dispositivi digitali nella quotidianità e nella strutturazione complessiva dell’esistenza, a partire da molte procedure amministrative o dalle applicazioni in campo bancario e finanziario?

Mantellini è molto netto: definisce le tecnologie all’opera come “anticicliche”, ovvero pensate e realizzate per una sorta di eterna giovinezza, in conflitto con le esigenze di lentezza e di latenza cognitiva dei “vecchi”. Un accumulo per “sommazione” di funzionalità sempre nuove e di conseguenza confusive e frustranti.

Protagonista dei processi di adattamento/respingimento è perciò la tragica figura del vecchiogiovane, che “si troverà, quasi senza accorgersene, dentro un ambiente nel quale la dominante culturale sarà unica e senza alternative. Il flusso ininterrotto delle cose che ascolterà e di quelle che vorrà condividere, gli argomenti, i temi sociali e politici, i film e le serie tv, i libri e gli articoli letti, saranno gli stessi per lui e per tutti. (…) Vorremo essere come gli altri, desidereremo soprattutto essere innovativi e giovani, perché solo il giovane è la faccia presentabile dell’innovazione la quale, nel momento in cui si rivolge ad altre età, perde la sua componente fondamentale di freschezza e rottura degli schemi. (…) Il vecchiogiovane vive l’eccitazione della scoperta di un mondo nuovo e il contemporaneo timore di essere riconosciuto. (…) Nel vecchiogiovane la cultura e l’esperienza pregressa, quella di cui è padrone, conterà meno di quanto lui avrebbe sperato: molto piú utile sarà sapersi adattare, annusare l’aria, in qualche misura sapersi mimetizzare. (…)
Che si tratti di un device digitale con il quale prova ad impratichirsi o di una discussione sull’ultima stagione della serie tv appena uscita, il rischio per lui sarà sempre quello di essere smascherato o, talvolta, il desiderio prepotente di esserlo.
La rivendicazione plateale di come si è, della propria anzianità, sarà poi abiurata e rapidamente ricacciata indietro, perché nella grande maggioranza dei casi essere vecchiogiovane è l’unica maniera possibile per dimostrarsi vivi ed attivi dentro la crudeltà delle reti digitali”.

Nel futuro, però, la percentuale di anziani sarà talmente elevata che – se non altro per razionalità di mercato e di consumo – non sarà possibile mantenere il medesimo paradosso e quindi Mantellini ipotizza tre possibili sviluppi.
Secondo una prima ipotesi, i vecchi saranno i “nuovi ribelli” che esigeranno “una società rallentata in nome della biologia”.
Oppure prevarranno i “vecchi bionici”, definitivamente convertiti ad una “fede cieca nella tecnologia”, di cui raccoglieranno, con subalternità e marginalità definitive, eventuali briciole funzionali.
Ultimo possibile epigono, “la pietra immobile digitale”, consapevolmente renitente a ogni forma di partecipazione.

Apparentemente contrapposto all’immaginario collettivo prevalente del campo dei dispositivi digitali, l’approccio di questo libro – pur conservando il pregio di guardare al problema dal punto di vista dei protagonisti, gli anziani, e non da quello di chi mette in atto paternalistiche operazioni di formazione a loro rivolte per “colmare il divario generazionale” – è invece, a mio parere, dello stesso tipo. Da una parte, infatti, ha una visione della vecchiaia come menomazione individuale e dall’altra ritiene lo scenario tecnologico fondato su velocità, competizione, tecno-abilismo, adattamento l’unico possibile.

Non è così. La vecchiaia può e deve invece essere concepita come condizione collettiva portatrice dei medesimi diritti di quelle precedenti, con particolare attenzione alla cura delle persone e delle relazioni tra di esse. In questa prospettiva, un uso consapevole e rilassato dei dispositivi digitali può significare davvero molto, in termini di mantenimento nel tempo ed estensione quantitativa e qualitativa delle capacità comunicative e culturali dei singoli e dei gruppi di prossimità e di affinità. Basta pensare alla rete come spazio pubblico, occasione di accesso a risorse di intrattenimento, chiarimento, approfondimento, confronto. O alle applicazioni per gli incontri a distanza come strumento per i rapporti interpersonali e il confronto.

È necessario però che noi vecchi abbiamo la volontà e la forza di essere protagonisti “totali”, non pubblico che assiste e – quando va bene! – scopre qualche servizio utile.
Ovvero che discutiamo e organizziamo in prima persona, attraverso le associazioni di promozione sociale e altre forme di aggregazione, percorsi di formazione e laboratori davvero emancipanti e sostenibili, perché costruiti sulla base di esigenze e disponibilità esplicitamente riconosciute dalla nostra “terza età”.