Calendari e Ministri cheerleader…

di Mario Maviglia

Immaginate un sistema scolastico che ha un bel po’ di problemi da risolvere: una dispersione scolastica tra le più alte d’Europa, un livello di NEET (Not in Education, Employment or Training) decisamente oltre ogni ragionevole soglia, una media degli stipendi dei docenti significativamente sotto la media UE, un’alta percentuale di edifici scolastici non a norma sia sul piano della sicurezza che dell’accessibilità, un analfabetismo di ritorno preoccupante, e altri dati non proprio entusiasmanti.
Cosa vi aspettereste da un Ministro dell’Istruzione davanti a una situazione di questo tipo? (Considerando che l’attuale Ministro ha una prospettiva di governo almeno quinquennale, se non addirittura decennale, tenendo conto dello stato comatoso dell’attuale opposizione politica).
Probabilmente (e ragionevolmente) vi aspettereste che il Sig. Ministro del Merito indicasse un piano pluriennale per risolvere questi e gli altri problemi sul tappeto, individuando le tappe intermedie da raggiungere, la azioni da mettere in atto, le risorse da impiegare  e i soggetti da mobilitare. Insomma, dato 100 come risultato finale, ci si aspetterebbe che il Ministro del Merito definisse delle trappe intermedie per avvicinarsi il più possibile a quel traguardo finale (probabilmente mai raggiungibile nella sua totalità).

Ma questo vostro modo di pensare nasconde una visione romantica e astratta della realtà, che non tiene conto degli aspetti psicodinamici che contraddistinguono la vita dell’istituzione e, nella fattispecie, dello stesso Ministro. E infatti, cosa fa il nostro Ministro del Merito? Si dedica a produrre un calendario commemorativo dei Ministri dell’Istruzione (della Destra Storica, e solo della Destra) dalla nascita del Ministero fino al 1923. Naturalmente è da salutare con grande rispetto ed entusiasmo un’operazione di tal fatta, anche se – del tutto marginalmente e en passant – si potrebbe far notare che non si comprende perché dedicare questa hit parade (presumibilmente realizzata con fondi pubblici, e dunque con i soldi di tutti i contribuenti) solo a Ministri della Destra. Forse perché i Ministri della Sinistra non sono abbastanza “meritevoli”, o forse perché i Ministri della Destra Storica sono più vicini ideologicamente all’attuale Ministro del Merito. O per altre imperscrutabili psicoragioni a noi ignote. Eppure, credevamo che il Sig. Ministro fosse al servizio di tutto il Paese, e non di una parte politica, soprattutto quando usa fondi pubblici.

Qualche anno fa veniva attribuita all’on. Andreotti la frase: “A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”; nel caso del Ministro del Merito vien da pensare che questo suo attivismo nel lanciare pensieri e prese di posizioni di carattere sociologico o pedagogico, sull’umiliazione, sugli stipendi differenziati, sui lavori socialmente utili per gli studenti, e adesso sul calendario dedicato ai Ministri della Destra Storica, voglia nascondere la grande difficoltà o incapacità nell’affrontare i problemi enunciati in apertura.
Fa sempre comodo trovare un motivo o un nemico esterno per giustificare l’incapacità a trovare soluzioni adeguate alle varie questioni (in un altro campo, può tornare comodo perfino un manipolo di anarchici pur di non affrontare i problemi seri della giustizia in Italia). Peraltro, questo barcamenarsi tra problemi tutto sommato alquanto futili, procura al Ministro del Merito un altro invidiabile vantaggio, quello di parlare comunque di lui, sviando l’attenzione dai problemi del suo mandato (“There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about”, Oscar Wilde. “C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé ed è il non far parlare di sé”).

Dopo i Ministri cheerleader (della Destra Storica, ça va sans dire) sarebbe interessante sapere come il Ministro del Merito intenda affrontare i problemi enunciati in apertura, ammesso che per il Ministro (del Merito) costituiscano dei problemi; infatti potremmo anche suppore che il contrasto alla dispersione scolastica non costituisca una questione meritevole di attenzione per l’attuale dicastero, in quanto la scuola non può far altro che registrare le naturali differenze che esistono tra le persone, per nascita, censo, disposizioni naturali et similia. Ecco, questo sarebbe un bel programma di lavoro per la scuola del futuro, con la benedizione e l’autorevolezza dei Ministri della Destra Storica, of course.




Valutare uno studente e misurare un divario non sono la stessa cosa

di Stefano Stefanel

Il dibattito sul merito è subito scivolato sul de-merito. È di questi giorni lo scambio mediatico sull’uso dei voti inferiori al quattro, che ha avuto nel Ministro Valditara uno dei suoi protagonisti. La questione del demerito e dei voti inferiori al quattro rientra in quella passione tutta italiana per la docimologia del negativo che sta letteralmente facendo cadere la questione del merito nella gabbia (non salariale, ma non meno divisiva di quella) del de-merito. I sistemi scolastici più evoluti, come quelli nordici, tendono a diminuire l’esistenza o l’impatto delle valutazioni negative, perché fortemente interessati a quelle positive. Ma anche i sistemi scolastici più selettivi (come quelli dell’estremo oriente asiatico) utilizzano strumenti misurativi per selezionare in ingresso e poi impongono standard di rendimento altissimo, che vedono le valutazioni negative come semplici elementi di blocco al prosieguo degli studi.
Il sistema scolastico italiano invece si definisce inclusivo e ha come suo principale obiettivo la lotta alla dispersione scolastica, per cui non si comprende come la questione della docimologia del negativo venga posta in maniera così sommaria. Mi sfugge, cioè, come sia possibile pensare che uno studente in difficoltà riceva uno sprone a fare meglio da una serie 2 o di 3 dati con l’intento di punire incoraggiando, cioè creando un ossimoro valutativo-punitivo, che dovrebbe fare orrore a chiunque si occupi di pedagogia.


Il dilemma potrebbe essere anche questo: in quanto sistema scolastico quello italiano è interessato alla pedagogia o invece è più propenso a sposare il meccanismo che verifica l’effettiva trasmissione del sapere dalla “testa ben piena” del docente alla “testa ben vuota” dello studente attraverso sistemi misurativi tutti autoreferenziali e tutti per loro natura con tendenza misurativa-punitiva? Il discorso sulla pedagogia si frange contro quello del disciplinarismo, che vede nella pedagogia un elemento di diluizione della disciplina entro metodologie meta-cognitive che allontanano dal risultato cognitivo, elemento necessario per ogni competenza disciplinare. Però se manca l’attenzione alla didattica e alla pedagogia dallo schema didattica trasmissiva/misurazione docimologica non si esce.
Se proviamo a ribaltare la questione pedagogica una pratica interessante è certificare dopo attenta valutazione (non misurazione) se uno studente è in grado di essere valutato su un contenuto o su una abilità o anche su una competenza.
Se voglio assegnare un compito sulle frazioni o sulle derivate (in base all’ordine di scuola) dovrei prima accertarmi se lo studente ha compreso il concetto di frazione e le potenziali operazioni connesse o se ha compreso come ci si muove nelle derivate.
Altrimenti lo studente consegnerà il compito in bianco o cercherà di copiare. Questa certificazione in ingresso impone un’analisi attenta del processo di apprendimento degli studenti al fine della valutazione, non dopo la valutazione. Invece questa certificazione viene effettuata attraverso un passaggio semplice empirico privo di alcun valore scientifico: dato che l’insegnante ha spiegato le frazioni o le derivate questo costituisce di per sé elemento d’accesso alla verifica e quindi alla valutazione sulle frazioni o sulle derivate.
Io ci vedo un salto poco logico, ma forse perché mi occupo troppo di pedagogia e poco di discipline. Nell’ambito di questa impostazione misurativo/valutativo ecco che allora diventa logico accanirsi sulla docimologia del negativo, quella docimologia in cui il 3 è meglio del 2,5 e il 4/5 è peggio del 5. Se noi applicassimo questa mentalità – molto gettonata a livello scolastico e a questo punto anche ministeriale – ad esempio al salto in lungo avremmo giudici che perdono un sacco di tempo a misurare salti di atleti che non hanno raggiunto la sabbia con misure ridicole e inutili. Nel salto in lungo se il salto non è di almeno 3 metri non lo si misura, mentre nelle scuole italiane se il compito vale meno di 5 è tutta un gran misurazione in basso. Qualcuno dirà: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.

Al di là delle paradossalità tutto questo confluisce verso un meccanismo perverso di raccordo tra misurazione e valutazione.
La valutazione molto negativa (quella di cui si è parlato, sotto il 4) se è una vera descrizione di livello e viene inserita in una media matematica non è migliorabile. Se il livello dello studente è 2 o 3 quello studente non sarà mai in grado di prendere 8 e 9 per bilanciare la media (un’insegnante mi ha detto: difficilmente sarà in grado anche di prendere 6) e quindi una misurazione molto bassa che fa media impedisce il recupero.
Se invece la valutazione molto bassa non fa media ma è solo la misurazione di una pessima prova o la punizione allora non si comprende perché venga data e a cosa serve, visto che un semplice 6 è in grado di cancellarla. Devo tornare al salto in lungo, purtroppo: pensate a una giuria fortemente impegnata a misurare i salti che non hanno raggiunto i tre metri e che quindi vanno misurati in pedana e non sulla sabbia e che sono più lunghi da rubricare, e che dica che comunque tutti quelli che saltano più di sette metri sono eccellenti e quindi vincono la gara a pari merito. Quella giuria verrebbe presa per una congrega di pazzi e tutti direbbero che non sono interessati alle misure basse, ma solo a quelle alte, che devono essere precise al millimetro, perché si vince il campionato del mondo o l’olimpiade anche per un centimetro o addirittura per meno. O pensate allo sci dove i migliori si devono misurare in forma elettronica, mentre i meno bravi si potrebbero misurare con un cronometro a mano. Si dirà ancora: ma la scuola non è il salto in lungo o lo sci. Ovviamente, purtroppo.

L’idea che la docimologia del negativo sproni al miglioramento si frange sui dati della dispersione italiana (ancora altissima) e sull’abbandono che conduce verso i due milioni di NEET, cioè dei giovani che dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano e sono tutti passati dalle nostre scuole.
La docimologia del negativo ha una semplice conseguenza: se lo studente è bravo e ottiene buoni risultati è merito dei docenti e della scuola, se i suoi risultati sono negativi è de-merito suo o della famiglia, o del web, o della società, o del degrado dei costumi. Diciamo che la scuola come tutti vuole privatizzare i profitti (buoni esiti merito nostro) e pubblicizzare le perdite (cattivi esiti de-merito degli altri).

In questa oggettiva confusione pedagogica si apre il grande problema del PNRR-Divari territoriali, del PNRR-Next Generation Labs e del PNRR Next Generation Classroom.
Dal punto di vista misurativo-valutativo gli esiti di questa enorme operazione solla scuola verranno verificati sulle presenze ai corsi, sugli acquisti effettuati dalle scuole e non sulla diminuzione dei divari e quindi sulla riduzione della dispersione. Anche in questo caso si da per scontato che il semplice accesso ad un servizio o ad un’attività produca di per sé un esito positivo in uscita. In realtà non può essere così, perché la differenza le faranno i singoli percorsi e il loro valore pedagogico. E lo faranno anche gli acquisti se messi a sistema con una nuova pedagogia.
In realtà mi sembra che molta scuola italiana sia molto concentrata sul merito che si misura in base al de-merito (cioè tutto quello che non è de-merito è merito, quindi tutti i salti dai tre metri in su sono “meritevoli”) e non mi pare ci si stia rendendo conto che una Ri-Generazione della scuola (terminologia ministeriale) parte solamente dall’idea che la scuola vada rigenerata, perché altrimenti continua a De-Generare. Se devo Ri-Generare qualcosa vuol dire che sta De-Generando, quindi una qualche idea sulla pedagogica come elemento di eliminazione o diminuzione dei divari ci dovrebbe essere. In realtà poiché noi valutiamo misurando (per lo più con una gioiosa attenzione al negativo) la pedagogia ci fa un po’ paura, perché a differenza della trasmissione impone che colui che insegna sia più interessato a quello che gli studenti apprendono piuttosto che a quello che gli studenti ascoltano.
Diciamo che se la mia squadra di salto in lungo fa troppi salti nulli devo allenarli meglio, non misurarli con ossessione sotto i tre metri. E devo cambiare qualcosa perché altrimenti sono costretto ad abbassare a due metri la base di misurazione. Anche qui c’è un’obiezione: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.




I figli e gli allievi perfetti che vorremmo

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE


di Monica Barisone

Ci aspettiamo veramente tanto dai nostri ragazzi. Dovrebbero riuscire ad andare nelle scuole che noi non abbiamo frequentato, portare buoni voti col minimo sforzo, saper fare le scelte giuste già da piccolini, frequentare gli amici consoni a status e interessi, amare in modo equilibrato, essere sportivi con esiti eccellenti e almeno un po’ artisti. Si vorrebbe cioè il trionfo della prestazione sulla giocosità, dimenticando quanto quest’ultima sia di sostegno alle funzioni relazionali, sociali, affettive e cognitive (Di Quirico, 2016).

Che fatica per i figli! Che ansia dover a malincuore manifestare i propri limiti! Ai loro giovani occhi, i genitori, sembrano non reggere l’impatto con la realtà, con gli esiti medi o talvolta scarsi, dei nostri figli. Nella loro fragilità, i genitori credono ingiusti quei risultati modesti, incongrui rispetto all’impegno che si sforzano di impiegare nel garantire le condizioni ritenute ottimali per il loro sviluppo.

La preoccupazione dei ragazzi di oggi è quindi proprio quella di deludere tutti gli adulti di riferimento, genitori, insegnanti, allenatori…Le nuove generazioni non si ribellano, non fanno rivoluzioni. Il senso di inadeguatezza è a volte così bruciante da far pensare che l’unica possibilità di sopravvivenza sia il ritiro sociale.

Siccome per noi adulti possedere un lavoro oggi sembra ancora rappresentare l’unica competenza a vivere necessaria, nella manifestazione del valore personale dei nostri ragazzi tendiamo a porre al centro solo il rendimento scolastico e sportivo, unitamente alla loro competenza a socializzare. Timidezza e riservatezza sono bandite e considerate falle di produzione, dimenticando che, se queste caratteristiche umane sono sopravvissute nel tempo, significa che all’occorrenza potrebbero risultare delle risorse, ad esempio per proteggersi dai male intenzionati. Il mito odierno prevede che i nostri cuccioli e adolescenti siano soprattutto performanti ma questo significa anche sviluppare grandi competenze nella gestione dell’ansia. Queste però raramente gliele insegniamo!

Lo scorso anno mi è stato chiesto di fare un intervento in una classe III elementare proprio sulla gestione delle emozioni. Le insegnanti avevano intercettato segnali di fatica da parte dei bambini (tic, scatti d’ira, cefalee, minzione frequente…) a fronte dell’occorrenza di molte attività extrascolastiche svolte dai bambini ed elevate aspettative genitoriali.

Ho incontrato i bambini per capire di cosa avessero bisogno, quali emozioni li mettessero maggiormente in difficoltà e con grande disponibilità e generosità mi hanno parlato soprattutto delle loro ansie: la preoccupazione di non mettere nello zaino ogni mattina o sera tutti i materiali necessari e anche quelli imprevisti; il sentirsi in colpa per il mancato raggiungimento di risultanti vincenti nelle attività sportive, culturali e musicali, oltre che scolastiche; lo sgomento nel ricordare al risveglio o scoprire all’ingresso a scuola, di non aver svolto un compito.

Ci abbiamo lavorato insieme cercando di costruire strategie di fronteggiamento. Siamo partiti dalla presa di consapevolezza che non è sbagliato provare emozioni di disagio, ma è utile controllarle, cioè elaborarle e reagire in modo sano e utile. Nella classe solo una bambina ed un bambino disponevano già di pattern comportamentali appresi e, proprio grazie ai loro suggerimenti, è stato possibile riflettere insieme sulla possibilità di riprendere il controllo di sé stessi, di modificare le proprie reazioni[1], per esempio a partire dalle modalità che vengono utilizzate in famiglia o da compagni ed amici. Già con bambini di otto anni si può dunque affrontare con serietà e profondità la complessità della gestione delle emozioni.

Risulta invece sinceramente difficile, talvolta, svelare agli occhi ansiosi di mamma e/o papà, o disincantati degli insegnanti, la ricchezza di gesti, pensieri, emozioni, valori che animano questi cuccioli d’uomo ingaggiati nell’avventura della vita.

Anche nel mio lavoro di sportello d’ascolto con gli insegnanti, una delle fasi del colloquio di maggiore efficacia, risulta proprio essere quella della ricerca di ciò in cui il bambino riesce bene, è competente o risulta gratificato, o manifesta ambizione. Questi sono gli spazi del lavoro più produttivo perché portano a modificare l’immagine stessa che abbiamo della bambina o del bambino, ma anche della nostra relazione con lei o lui, e quindi persino l’immagine di noi stessi nella relazione con loro. Una magia miracolosa. Come sottolineava Alba Marcoli (2009), ‘la relazione genitori-figli (adulti-bambini) è un laboratorio’ naturale di ricerca quotidiana sull’esistenza, ‘che trascende le singole età, culture, storie di vita e appartenenze sociali’. Ricordo ancora oggi una mamma che, commossa, era tornata in colloquio proprio per ringraziarmi di averle fatto scoprire chi fosse suo figlio: non era più il mostro che mi aveva descritto e che era arrivata al punto di detestare, ma un ragazzino affettuoso e disponibile a relazionarsi con lei! I loro occhi si erano incontrati e si erano visti l’un l’altra. Aveva vinto la curiosità di conoscersi davvero. Spesso smettiamo di guardare e vediamo solo difetti attesi perché temuti, familiari, irrisolti.

È che tutti, grandi e piccini, siamo fatti di pieni e di vuoti – come dovette ricordarmi un giorno l’insegnante di mio figlio – e questa regolare irregolarità è da sempre la nostra bellezza!

[1]Non rimuginare, abbandonare l’idea di dover controllare o risolvere tutto, tollerare l’incertezza, migliorare la situazione attuale.




Settanta anni fa moriva Maria Montessori: ma sulle monete troveremo Raffaella Carrà

di Alvaro Belardinelli
(articolo pubblicato per concessione dell’autore e del giornale dell’Unicobas)

Notizia del 6 settembre 2022: a rappresentare l’Italia in Europa e nel mondo, nel 2023 la Zecca dello Stato italiano conierà le monete da due euro con l’effigie di Raffaella Carrà (che RaiNews trionfalmente definisce “regina della TV” e “regina del tuca tuca”).
Brava persona, Raffaella Carrà: nulla da eccepire sulla sua professionalità di ballerina e cantante, nonché presentatrice televisiva e donna intelligente. Tuttavia, con tutto il rispetto per donne come lei, se ripensiamo ai tempi (dal 1990 al 1998) in cui le banconote da £ 1.000 riportavano l’immagine di Maria Montessori, qualche perplessità è inevitabile.
Sotto i ponti del Tevere, del Po e del Piave l’acqua continua a scorrere velocemente malgrado la siccità, e i risultati si vedono nella cultura e nella weltanschauung dello Stivale, i cui orizzonti si fanno sempre più angusti e pedestri.
Su monete e banconote della vecchia lira in centoquarant’anni abbiamo avuto i grandi della nostra Storia: Giuseppe Verdi, Maria Montessori, Camillo Benso conte di Cavour, Cristoforo Colombo, Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Giulio Cesare, Raffaello Sanzio, Michelangelo Buonarroti, Marco Polo, Vincenzo Bellini, Alessandro Volta, Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio, Galileo Galilei, Guglielmo Marconi, Antonello da Messina, Tiziano Vecellio, Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Manzoni.
Nomi e immagini che fanno l’identità di una nazione, la memoria storica di un popolo. Di un popolo che legga, s’intende, e che conosca il proprio passato. Di un popolo che abbia frequentato con successo la Scuola, e che della Scuola abbia compreso, con gratitudine, l’importanza.

La filosofa che educò a un “mondo nuovo” e senza confini

La Scuola, appunto: cui il nome di Maria Montessori è indissolubilmente legato. Filosofa, educatrice, neuropsichiatra infantile, medico, pedagogista, scienziata: Maria Montessori a quarant’anni era già una celebrità mondiale. “The most interesting woman of Europe” fu la definizione che ne diede il New York Tribune nel 1913 quando sbarcò negli U.S.A., accolta con rispetto e considerazione.
Molti sono da allora i personaggi celebri e celeberrimi allevati secondo il “metodo Montessori”. Gabriel García Márquez aveva studiato secondo i dettami della scienziata. Così anche Anna Frank, e molti altri. Come Friedensreich Hundertwasser, architetto, ecologista, pittore e scultore austriaco; Taylor Swift, attrice, cantante, cantautrice statunitense; Yo-Yo Ma, celeberrimo violoncellista d’origine cinese (Maria Montessori considerava la musica fondamentale per la crescita del bambino); Jimmy Wales, imprenditore, fondatore di Wikipedia; Beyoncé Knowles, attrice, ballerina, cantautrice; George Clooney, attore, regista e sceneggiatore, impegnato socialmente e per la pace.
Moltissime sono oggi le scuole Montessori nel mondo: una ogni dodicimila abitanti in Irlanda; una ogni cinquantottomila in Svezia; una ogni sessantottomila negli U.S.A.; una ogni settantunomila in Germania; una ogni settantaseimila in Olanda (paese ove la scienziata morì). Fanalino di coda (come spesso accade quando si parla di istruzione) l’Italia — dove il metodo nacque — con una scuola Montessori ogni quattrocentotrentamila abitanti.
Maria Montessori voleva educare i bambini a un “mondo nuovo” e senza confini: un mondo in cui ognuno si sentisse parte di un corpo unico, quello dell’umanità intera, che è sano se ogni sua parte è sana. Un concetto da medico: Montessori fu infatti una delle prime donne italiane laureate in medicina.
L’educazione montessoriana tende all’autonomia del bambino: perché «insegnare a un bambino a mangiare, a lavarsi, a vestirsi, è lavoro ben più lungo, difficile e paziente che imboccarlo, lavarlo, vestirlo». Educare è creare le basi di un’umanità nuova, perché «il bambino è insieme una speranza e una promessa per l’umanità». Promessa che si mantiene con l’amore: «Più dell’elettricità, che fa luce nelle tenebre, più delle onde eteree, che permettono alla nostra voce di attraversare lo spazio, più di qualunque energia che l’uomo abbia scoperto e sfruttato, conta l’amore: di tutte le cose esso è la più importante». Concetto che ritroviamo anche nella pedagogia libertaria del pedagogista scozzese Alexander Sutherland Neill (1883-1973).

L’educazione fondata sulla libertà

Partendo dallo studio dei bimbi con disabilità psichiche, Maria Montessori arrivò ad elaborare un pensiero pedagogico valido per tutti i bambini. Mirando all’educazione dell’autonomia del fanciullo, il suo metodo segue le inclinazioni del fanciullo stesso, assecondandole. Viene favorita e aiutata la concentrazione della volontà del bambino su uno scopo, mediante esercizi metodici per insegnare a dirigere la volontà stessa. Educazione motoria e intellettuale vanno insieme, conducendo l’individuo ad una crescita armoniosa. La disciplina comportamentale, dunque, non viene più imposta come fine a se stessa, ma diventa una scelta dell’individuo, cresciuto nella libertà ed allenato nella volontà.
Nata nel 1870 presso Ancona da una famiglia di solide tradizioni liberali e risorgimentali (il padre era mazziniano e massone, la madre ancora più progressista), Maria si trasferì molto piccola a Roma con i genitori. Fin da giovanissima mostrò spiccato interesse per le scienze e per la medicina. Si iscrisse a un istituto tecnico (scuola considerata allora inadatta al gentil sesso), e nel successivo percorso universitario dovette studiare tra l’ostilità e lo scetticismo di un ambiente accademico tutto al maschile. Nel 1890 si iscrisse alla facoltà di fisica e matematica, ma nel 1892 passò a medicina. Affinché questa scelta le fosse consentita, dovette prendere posizione il ministro dell’istruzione Guido Baccelli, precedentemente contrario a femminilizzare la professione medica.
Caparbia, emancipata, di idee femministe, Maria non si arrendeva davanti a nessun ostacolo per far quanto riteneva giusto.

Quando si credeva che una donna non può essere un genio

Capì che malattie come la tubercolosi e la malaria erano favorite dall’emarginazione sociale, e che pertanto la lotta contro di esse era compito dello Stato. Nel 1896 si laureò: terza donna italiana con laurea in medicina, fu la prima in Italia a esercitare la professione medica. Si dedicò ai malati psichiatrici (soprattutto bambini) in un’epoca in cui soprattutto la psichiatria era territorio maschile. Vedeva “una fiammella d’intelligenza” in ognuno dei suoi piccoli pazienti.
Conseguì quindi una seconda laurea in filosofia. Maria era la prova vivente di cosa la cultura può fare di una donna intelligente. Colpiva tutti la sua capacità di resistere come un uomo alla fatica, al ribrezzo, alle emozioni violente della pratica clinica; nonché la sua fattiva intelligenza di ragazza sola, in mezzo a tanti luminari della medicina: tutti uomini, e tutti convinti che non possano esistere donne di genio.
Giuseppe Sergi, fondatore della Scuola antropologica romana, nel 1893 (quando Maria aveva 23 anni) scrisse perentorio che non esistono “donne di genio”, perché la donna ha come tratto dominante l’”infantilità”. Una donna può al massimo partorire un genio, ma non esserlo lei stessa. Gli scienziati dell’epoca erano scientificamente convinti di tale sciocchezza.
Montessori fu tra le prime a chiamare, con grandissimo coraggio, simili castronerie “cattiva scienza”, e a confutarle proprio dal punto di vista scientifico, mediante argomentazioni tecniche aggiornate ed inoppugnabili: come per esempio il fatto che il “cervello più piccolo” delle donne è in proporzione alla minore massa del corpo, rispetto alla quale il cervello stesso femminile risulta addirittura maggiore di quello maschile!
Maria aveva ventisette anni quando s’innamorò del collega, ricercatore, psichiatra e psicologo Giuseppe Ferruccio Maria Montesano, di due anni più anziano, promessa della psichiatria infantile. Nel 1898 ebbe da lui il figlio Mario, che fu tenuto segreto — perché “illegittimo” — e affidato ad un’umile famiglia di Vicovaro, paesino presso Roma. Successivamente, però, Montesano accettò di sposare un’altra donna impostagli dalla propria madre. A quel punto Maria vestì a lutto e lo lasciò per sempre, provvedendo da lontano — autonomamente — al mantenimento di Mario, che avrebbe poi ripreso con sé quattordicenne, alla morte dell’affidataria, senza mai rivelargli — se non nel testamento — di esser la sua madre vera. Da questa sua esperienza nasceranno (nel 1904) le sue idee sul tema della maternità sociale e sulla necessità che siano le donne a scegliere il proprio compagno, nell’interesse dell’umanità futura.

115 anni fa il “metodo Montessori”

Il 1907 è un anno chiave: a trentasette anni, Maria Montessori apre la prima “Casa dei Bambini” nel quartiere operaio di San Lorenzo nella capitale, per bimbi dai 2 ai 6 anni. Nasce così il “metodo Montessori”, il cui ambiente è studiato per stimolare l’attività del bambino, libero di scegliere il lavoro che meglio risponda ai suoi bisogni del momento. In questo ambiente tutti i bambini sono liberi di muoversi per compiere i propri esercizi, senza disturbarsi a vicenda: la libertà diviene terreno di crescita, base indispensabile della realizzazione umana.
In seguito Maria comprende che il suo metodo può essere applicato anche ai ragazzi più grandi, e lavora per diffonderlo. Viene invitata in tutto il mondo per spiegarne l’essenza, e viaggia ovunque, mentre i suoi libri vengono tradotti in decine di lingue.
È a quel punto che entra in scena Benito Mussolini: il quale si incarica di valorizzare l’“italianissimo metodo” montessoriano, conferendo alla scienziata la tessera del Partito Nazionale Fascista nel 1926 come “membro onorario”. Seppur estranea al fascismo, Maria viene strumentalizzata come simbolo della “rivoluzione” fascista. Col Regio Decreto 781 del 5 febbraio 1928 nasce la Règia Scuola di Metodo Montessori per insegnanti, con sede provvisoria nel nuovissimo quartiere “Della Vittoria” in via Monte Zebio, nella scuola governatoriale “Ermenegildo Pistelli” (dedicata al noto filologo classico morto l’anno prima).
Presto però il Duce fiuta nella libertà insegnata da Montessori qualcosa di totalmente estraneo alla teoria fascista del “libro e moschetto”. Il controllo sulla Règia Scuola si fa asfissiante e sospettoso. Alcune insegnanti sono accusate di antifascismo. Inoltre, in aperta sfida col fascismo, nel 1932 a Ginevra Maria Montessori si esprime in favore dell’educazione alla pace, con parole (“un mondo nuovo per un Uomo nuovo”) certo non gradite al futuro “fondatore dell’impero”.
Nel 1933 Maria e il figlio Mario (ormai trentacinquenne, presentato sempre come “nipote” e anch’egli pedagogista) si dimettono dalla Règia Scuola, rompono col fascio e l’anno dopo riparano in Spagna. Mentre le scuole Montessori in Italia vengono chiuse, scoppia la guerra civile spagnola, e nel 1936 Mario imbraccia il fucile insieme a Nello Rosselli per difendere la Repubblica spagnola. Maria, già sessantaseienne, si rifugia in Olanda. Spostatasi successivamente in India, nel 1940 viene internata dagli inglesi perché di nazionalità nemica. Torna in Europa dopo la guerra, onorata ovunque fino alla sua morte nel 1952.

A settant’anni dalla morte di Maria Montessori, onoriamo la Carrà

Settant’anni dopo, la Zecca italiana sceglie di dedicare una moneta a Raffaella Carrà. Quanto conta nell’Italia di oggi la Scuola? Quanto la pedagogia? Quale visione del mondo, dell’umanità, della società, del futuro alberga nelle menti e nei cuori delle nostrane classi dirigenti? O meglio, esiste una tale visione? Esistono questi cuori e queste menti?
Come pedagogia sembra esistere solo quella sociale implicita: implicita nel fatto che gli insegnanti, considerati impiegati di serie C, vengono retribuiti come operatori ecologici (i quali, con tutto il rispetto, svolgono mansioni nobilissime, ma senza le responsabilità civili e penali degli insegnanti, e senza dover studiare molto per svolgerle). Una “pedagogia sociale”, quella dello Stato neoliberista italiota del 2022, il cui messaggio subliminale è: lo studio, l’impegno, gli ideali non servono a nulla. Lasciate ogni speranza o voi che studiate, che credete, che vi impegnate in qualcosa. Lasciate che a guidarvi, a governarvi, a comandarvi, siano quelli di sempre. Sarete ricompensati con spettacoli luminescenti, pieni di ballerine, cantanti, ricchi premi (disvalori, preconcetti, stereotipi, sponsor) e cotillon. I divi che più vi incanteranno saranno glorificati, santificati, iconizzati su monete, banconote, francobolli e monumenti. Perché molti servigi avranno reso alla Patria: primo fra tutti, quello di rendere il popolo bue ancora più bue.




Il bambino cui ballavano le letterine

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

Il bambino cui ballavano le letterine
di Monica Barisone 

Quando lo incontrai, solo pochi sapevano cosa fossero i disturbi specifici di apprendimento, gli addetti ai lavori, mentre io non ne sapevo quasi nulla. Fabio era reduce da lunghissimi anni di incomprensioni e fraintendimenti con le insegnanti che ormai lo consideravano un pigro e arguto ribelle. I suoi genitori, invece, ne percepivano soprattutto la fatica e il disorientamento, non riconoscevano il loro bambino in quella fotografia che veniva loro mostrata. Qualcosa non tornava e non riuscivano ad arrendersi: volevano a tutti i costi aiutarlo.

Lo incontrai con preoccupazione perché la vicenda si presentava già come confusa e contrastante. Dopo qualche incontro, passato a rovistare tra le sue competenze relazionali, alla ricerca di qualche falla, dovetti arrendermi. Fabio era socievole, perspicace, simpatico e curioso e l’idea che me ne stavo facendo non si incastrava per nulla nella casella suggerita dagli insegnanti. Sapevo bene che proprio a causa di questa incongruenza anch’io non mi sarei arresa facilmente. A malincuore provai ad avventurarmi in un terreno non proprio di mia competenza e gli chiesi di spiegarmi con la massima accuratezza, cosa succedesse quando si approcciava a lettura, scrittura e far di conto. Con encomiabile pazienza iniziò a spiegarmi che, nonostante il suo impegno e la sua concentrazione, quando si accostava ad una parola, ad una frase, le letterine non volevano saperne di star ferme e piuttosto sceglievano di cambiare continuamente di posto, impedendogli di comporre una parola o una frase in modo definitivo.
Si trattava di una guerra di posizione da cui Fabio usciva stravolto, senza aver ben compreso il testo che stava leggendo o il problema che avrebbe dovuto risolvere. Avevo capito! Lui non era dispettoso, sfidante, provocatorio! Era costantemente ingaggiato in una lotta impari per cercare di acchiappare il senso di ciò che doveva risolvere, da mattina a sera! Capii che lui e la sua famiglia erano dei supereroi!


Ne avrei incontrati ancora molti altri nel corso del mio lavoro, ingaggiati in gare di sopravvivenza e corse ad ostacoli allestite a volte per restituire ad altri fatiche sperimentate nella propria storia professionale o personale.
È passato poco più di una decina d’anni. Nonostante tutte le trappole disseminate sul percorso, Fabio si è da poco diplomato con una tesina unica ed originalissima nel suo settore. A suo tempo mamma e papà invece avevano trovato la forza ed il coraggio di fondare un’associazione di genitori di bambini con DSA e costruito con le istituzioni uno spazio loro dedicato, tuttora funzionante!

E oggi? Oggi si sa molto di più sulle diverse modalità di funzionamento nell’apprendimento e mentale in senso lato. L’accesso alle certificazioni di queste modalità è diventato abbastanza celere e le classi sono diventate splendide costellazioni di esigenze formative specifiche. Oggi i ragazzi stessi tentano l’autodiagnosi, arrabattandosi tra i materiali orbitanti in rete e le modalità didattiche che affannosamente cercano di evolversi. Accade però anche che le certificazioni non vengano lette o comprese, che si fatichi a raccordare le informazioni, che i linguaggi dei diversi interlocutori dissonino. Oppure accade che la certificazione diventi, per un ragazzo o una ragazza, un cappello da appoggiare sulla testa e calcare bene sulle orecchie perché possa finalmente segnalare a sé stessi e agli altri un nome per definirli e per poter accedere ad una identità fino a quel momento dispersa. Il rischio, come ripete costantemente lo psicologo evolutivo Matteo Lancini, è però quello di produrre un effetto specchio che possa contribuire a creare la loro personalità ancora in evoluzione.
Allora potremmo ipotizzare che l’arrivare o meno ad una diagnosi e con una tempistica più o meno rapida, rappresenti in realtà solo una sfaccettatura del problema, anzi della situazione. In un’epoca contraddistinta dall’individualismo estremo, sembra emergere di fatto, e a forza, il bisogno di definirsi in qualche modo, e non solo per chi esiste in modo divergente rispetto alle etichette convenzionali, o almeno per chi così si sente e si pensa. Come a dire: “sono così estranea ai discorsi dei compagni, alle loro scelte di vita nel tempo libero, ma anche estranea alle attese dei miei genitori e degli insegnanti da dover appartenere per forza a qualche categoria di disturbo cognitivo o mentale”.

A volte questi vissuti si riempiono addirittura di un’angoscia ed un dolore così intensi da scardinare la porticina dello stipetto degli anestetici più comunemente utilizzati: alcool, sostanze, farmaci, self cutting, regimi alimentari o sportivi rigidi, ritiro sociale…*
Allora, per noi adulti, stare accanto a loro diventa ancor più difficile, si avvia una lotta logorante tra lo ‘stare’ ma facendo finta di niente, e il ‘non stare’ ma trascinando con sé il macigno della responsabilità mancata. Alcuni decidono di ‘stare con loro’ nel disagio, molti di loro sono insegnanti o professionisti della relazione d’aiuto, che della delega, antica, a crescere i cuccioli d’uomo alla vita, hanno fatto una scelta di vita. Sono adulti che, come consiglia il pedagogista e sociologo Mauro Martinoni, riescono a guardare i bambini e vedere le farfalle che diventeranno, senza soffermarsi troppo sui bruchi e i loro bozzoli! Poco dopo la ripresa scolastica post pandemia Covid, per esempio, alcuni insegnanti di una Scuola Media mi hanno chiesto di attivare un corso di formazione, una specie di corso di primo soccorso per riuscire a fronteggiare le situazioni emergenziali che si trovavano a sperimentare coi loro ragazzi più in difficoltà. Gli anni di frequenza della Scuola Media rappresentano infatti nella vita di una ragazza e di un ragazzo, una fase particolarmente critica e generativa dal punto di vista evolutivo. Un periodo foriero di importanti svolte nella vita di ogni persona che si confronta oggi però con la dimensione estremamente rilevante del rebound della pandemia e della didattica a distanza, nonché con la crisi politico-economica europea e mondiale.

Questi fattori, in linea di massima fisiologici, se assommati, possono trasformarsi in importanti fattori di rischio di disagio sociale e psicologico. La sfida che ci potevamo porre era allora quella di prevedere, prevenire ma anche gestire le manifestazioni del disagio, da parte degli allievi e dei docenti, sin dai primi segnali e presagi. L’idea poteva essere allora quella di censire col personale docente le criticità ed i disagi già manifestatisi[1] o ancora in fieri, per predisporre patterns di strategie, procedure, comportamenti, azioni da mettere in atto per una gestione efficace delle future occorrenze, ma soprattutto per potenziare i muscoli che governano lo ‘stare con’ chi sta soffrendo o facendo fatica. Tra gli strumenti per trovare coi ragazzi delle soluzioni, ci potevano essere l’ascolto, la curiosità di scoprire chi si ha davanti, la ricerca avventurosa di un senso da dare a tutta quella fatica, il sogno di un futuro accessibile.

La novità è che i ragazzi oggi si sono aperti agli adulti, accettano di camminare insieme, di correre con una guida ‘anziana’ o ‘esperta’[2]. Allo stesso modo gli adulti di riferimento possono imparare insieme a bambini e bambine, ragazze e ragazzi, a diventare buone guide, chiedendo ciò che non comprendono e provando insieme a rispondere alle domande della vita. Oggi c’è uno spazio di fiducia relazionale che può diventare spazio di lavoro per provare ad uscire dai guai e dalle paranoie tutti insieme.

[1] attacchi di panico, atti auto/etero lesivi, fobie scolari specifiche e aspecifiche, ansia correlata a lutti o gravi malattie, vissuti di rifiuto/esclusione nelle classi con allievi con certificazione o in corso di diagnosi, disturbi alimentari, depressione…
[2] La grande affluenza agli sportelli d’ascolto conferma la capacità dei ragazzi e delle ragazze di ‘utilizzare’ il professionista per affrontare il proprio disagio.




Scuola e comunità locale

Stefanel

di Raimondo Giunta

Il modello della scuola separata dal mondo, lontana dai turbamenti delle vicende quotidiane, se è esistito, ha compiuto il suo percorso e comunque ad ogni buon conto non avrebbe davanti a sè un grande futuro.

Con la nascita degli stati nazionali la scuola ha preso in carico il compito di legare le nuove generazioni ai valori e agli interessi delle nuove organizzazioni statuali. Da quel momento diventa luogo di riproduzione dei saperi e di formazione dei comportamenti ritenuti necessari per l’accesso ai ruoli di comando della società e per il mantenimento della sua coesione.

Pur separata ha coltivato un disegno egemonico sulla società; ha ritenuto di doversi considerare il suo “dovere essere”, di rappresentare il paradigma, l’esempio dei principi e dei valori che andavano ovunque praticati.

La scuola dell’educazione nazionale nasce nel seno della cultura illuministica e ne conserva ereditariamente i tratti, gli impulsi, le tensioni e le procedure.  E’ una scuola che non conosce i propri limiti e che crede di essere e rappresentare la “cultura”, di avere l’esclusiva della vera e unica educazione; di essere nella nazione la sola dispensatrice del sapere critico, razionale, dei valori estetici e spirituali.

La scuola del nostro passato è stata il luogo del testo scritto, dei linguaggi formali, dell’astrazione concettuale: strumenti indispensabili di riduzione, unificazione e mediazione dei saperi alti. Operazioni possibili proprio per la sua separatezza. E’ stata una scuola elitaria nella cultura dei suoi curricoli, selettiva nella sua organizzazione, discriminatoria nella sua composizione sociale.
Questa scuola ha dato ai saperi una propria forma, l’ha dato anche alle procedure di trasmissione, al rapporto conoscitivo con la realtà e al dialogo formativo. Se questa non era la” cultura”, è però stata la sua cultura, dalla quale le riesce difficile distaccarsi.

La scuola dell’educazione nazionale è stata necessariamente una scuola uniforme, accentrata, diretta dall’alto.
E’ stata gestita con ordini di servizio e direttive indiscutibili, come si credeva che dovesse essere l’enciclopedia dei saperi che doveva trasmettere; è stata una scuola che ha funzionato finché è stata piccola la platea dei suoi studenti, limitato l’accesso ad ogni grado di istruzione.  Ha funzionato finché è stata semplice la composizione sociale della nazione e finché governabili sono stati i processi di cambiamento tecnico e lo sviluppo delle conoscenze.

Negli ultimi decenni il contesto di riferimento della scuola è profondamente mutato, è diventato quasi irriconoscibile rispetto al passato. Si potrebbe dire con grande approssimazione che fino a ieri la scuola è stata la scuola degli stati e delle economie nazionali, la scuola del primo secolo di industrializzazione, ma che oggi si trova fuori posto nei tempi dell’universalizzazione delle economie e dei mercati, del deperimento degli stati nazionali e della costituzione di comunità statuali multietniche e multiculturali.
Pare a molti evidente che il sistema scolastico necessariamente debba scommettersi e sfidarsi in un nuovo cammino; dalla sicurezza delle precedenti stagioni deve avviarsi alla ricerca di una nuova identità.
La scuola deve vivere con consapevolezza il suo paradosso che è quello di innovare, ma anche di conservare; di confrontarsi con i cambiamenti, ma di non illudersi di poterli afferrare e assimilare nella loro interezza; di porsi ancora come momento possibile di unificazione nazionale, ma di dare spazio alla diversità,  di aprirsi alla pluralità delle culture locali; di trasmettere un patrimonio,  ma anche di innovarlo. La condizione di separatezza, che l’ha distinta, si deve sciogliere in un rapporto di reciproco dialogo e di scambio con la società. Tra scuola e società c’è qualche necessaria barriera, ma non la cortina di ferro.

L’autonomia della scuola è sembrata lo strumento adatto per far compiere alla scuola questo nuovo percorso. La scuola non più luogo di esecuzione, ma di ricerca e di elaborazione curriculare; di creatività didattica; luogo in cui trovano spazio la libertà professionale e la responsabilità del personale della scuola.  L’apertura al territorio che era stata nel passato una vaga opzione culturale è diventata oggi un compito specifico da assolvere. Il territorio non è più un ambito di conquista e di colonizzazione; il depositario di conoscenze, di valori e di simboli di una cultura ritenuta minore e pertanto da censurare e da rimuovere, ma un partner educativo.
Con l’autonomia la scuola, pur rimanendo dentro l’apparato delle istituzioni statali, incomincia a qualificarsi come ente di servizio territoriale, la cui funzione si esprime nella formulazione di proposte formative che devono tener conto del contesto locale e interpretarne la storia.

La scuola da luogo di conformità diventa luogo di confronto culturale e valoriale. La scuola si arricchisce perché si possono recuperare gli elementi di contiguità e di continuità col mondo circostante e perché in questo modo in ogni situazione si può riannodare il filo della comunicazione con le generazioni che ci hanno preceduto; la scuola può diventare luogo della ricostruzione della memoria e delle tradizioni locali.
L’accortezza e la sapienza delle scuole devono fare in modo che l’apertura al territorio non comporti l’irruzione acritica del folklore e dell’aneddotica municipale nel curriculum, perché il compito è quello di dare spazio ai saperi “altri” rispetto a quelli ufficiali, ma nella forma seria del sapere critico e storico e di comprendere che tra territorialità, spazio nazionale e relazioni internazionali si giuoca la partita della buona educazione delle nuove generazioni.




Intelligenza artificiale, chatGPT e l’inafferabilità dell’umano

Aluisi Tosolini
Coordinatore del comitato scientifico Casco Learning

n questi ultimi mesi il dibattito sull’Intelligenza artificiale si è accesso con una fortissima fiammata che ha coinvolto anche l’opinione pubblica “generalista”, i quotidiani, le televisioni, i settimanali, e le radio.
Al centro del dibattito ChatGPT, il chatbot promosso da OpenAI e basato su intelligenza artificiale, lanciato il 30 novembre 2022 ha raggiunto un milione di utenti in 5 giorni e chiunque voglia può sperimentarlo, previa iscrizione partendo dall’ indirizzo https://chat.openai.com/chat .

Prima di ragionare sulle ricadute educative è bene cercare di capire bene di che cosa si tratta.
Proviamo a farlo con alcuni rapidi passaggi e link per l’approfondimento.

Che cos’è un chatbot?

La prima cosa da chiedersi è che cos’è un chatbot.

La definizione offerta da Oracle è la seguente: software che simula ed elabora le conversazioni umane (scritte o parlate), consentendo agli utenti di interagire con i dispositivi digitali come se stessero comunicando con una persona reale. I chatbot possono essere semplici, come i programmi rudimentali che rispondono a una semplice interrogazione (query) con una singola riga, oppure sofisticati come gli assistenti digitali che apprendono e si evolvono per fornire livelli crescenti di personalizzazione quando raccolgono ed elaborano le informazioni.
Guidati da Intelligenza Artificiale (AI), con regole automatizzate, elaborazione in linguaggio naturale (NLP) e machine learning (ML), i chatbot elaborano i dati per fornire risposte a richieste di ogni tipo.

Sempre Oracle ne distingue due tipologie

  • dichiarativi: dedicati ad attività molto specifiche
  • predittivi: basati sui dati di conversazione

sottolineando i limiti e le potenzialità di ognuno e ribadendo l’importanza di una buona messe di dati e di una AI il più possibile evoluta per il loro funzionamento ottimale.

La stessa Oracle (ma è solo un esempio tra i tanti) propone anche un percorso di accompagnamento finalizzato alla costruzione e implementazione di un chatbot.

Da dove viene ChatGPT ?

Cerchiamo di spiegarlo con le parole chiarissime di Paolo Benanti:ChatGpt è un prototipo di chatbot basato su intelligenza artificiale e machine learning sviluppato da una realtà specializzata nella conversazione della macchina con utente umano (OpenAI, appunto). ChatGpt appartiene a una famiglia di intelligenze artificiali basate sul machine learning utilizzando una tecnica di deep learning nota come transformer, che consiste nell’utilizzare una rete neurale per analizzare e comprendere il significato di un testo. Nello specifico, ChatGpt fa parte della famiglia degli InstructGpt, modelli formati tramite deep learning ma poi ottimizzati tramite il rinforzo umano”.

Aggiungiamo anche una spiegazione riferita al deep learning che viene così definito, ad esempio, da bigdata4innovation.itun apprendimento automatico e gerarchico, un segmento della branca di machine learning e artificial intelligence (AI) che imita il modo in cui gli umani acquisiscono alcune tipologie di conoscenza. Si tratta di un metodo ad hoc di machine learning che ingloba reti neurali artificiali in strati successivi per apprendere dai dati in maniera iterativa. Dunque, il deep learning è una tecnica per apprendere esponendo le reti neurali artificiali ad ampie quantità di dati, in modo da imparare a eseguire i compiti assegnati.

Di chi è ChatGPT ?

La società OpenAI è stata fondata nel 2015 da Elon Musk e Sam Altman: Successivamente Musk si fece da parte per il rischio di conflitto di interessi a partire dall’utilizzo di una intelligenza artificiale proprietaria correlata alla guida automatica delle auto Tesla. Secondo voci giornalistiche Microsoft sarebbe pronta ad acquistare il 49% della società investendoci circa 10 miliardi di dollari per rilanciare così anche il suo motore di ricerca Bing.

Come funziona ChatGPT e cosa produce

Molto semplicemente: io faccio domande e lui risponde con un testo più o meno articolato (si può chiedere un testo più o meno lungo, più o meno approfondito).
Per chi volesse farsi una idea generale consiglio un articolo di Wired che costituisce un’ottima presentazione di ChatGPT

I giornali italiani si sono sbizzarriti a riportare le risposte più o meno corrette e precise del chatbot GPT sottolineando in sostanza che

  1. si tratta di risposte più o meno precise a seconda dell’argomento e quindi anche delle conoscenze che il chatbot ha acquisito (va comunque detto che interrogandolo lo si “allena” e quindi proprio l’uso migliora il suo rendimento)
  2. attualmente le risposte sono sostanzialmente simili ad un bignami
  3. il testo di risposta dipende molto dalla precisione e dalle tipologia della domanda (il prompt). Ad esempio, a richiesta, può scrivere diverse tipologie di poesie sullo stesso tema ed assumendo stili diversi (stile Montale, stile Ungaretti, stile Petrarca, ecc).
  4. ChatGPT rischia di mandare in soffitta molti lavoratori della comunicazione perché in sostanza confeziona articoli, relazioni, presentazioni, testi, temi, scrittura di contenuti per il web, … Sui rischi e sulle conseguenze per il mondo giornalistico e della scuola consiglio lo stupendo podcast prodotto dalla Rai, il n. 7 della serie Codice Beta con l’intervista a Michele Mezza.

Il collega Di Terlizzi ha chiesto a ChatGPT di spiegare in quali situazioni un testo scritto da un essere umano può essere considerato superiore a un testo generato da un modello di IA come ChatGPT.
Ecco la risposta: “Un testo scritto da un essere umano può essere più originale e creativo, mentre i modelli di IA spesso generano testi basati sui dati di addestramento che hanno visto. Un testo scritto da un essere umano può essere più adattato alle esigenze specifiche del lettore o del contesto, mentre i modelli di IA spesso generano testi basati sui dati di addestramento che hanno visto.
Un testo scritto da un essere umano può essere più attento alle questioni sociali, etiche e culturali, mentre i modelli di IA spesso generano testi basati sui dati di addestramento che hanno visto.
Un testo scritto da un essere umano può essere più efficace nel comunicare emozioni, sentimenti e toni, mentre i modelli di IA spesso generano testi basati sui dati di addestramento che hanno visto.
In generale, i modelli di IA come ChatGPT sono molto potenti per generare testi di alta qualità e possono essere utilizzati per generare testi in molti campi. Tuttavia, ci sono alcune situazioni in cui un testo scritto da un essere umano può essere preferibile perché è più originale, creativo e adattato alle esigenze specifiche del contesto”.

Che dire…. non male.

Continuando “il dialogo”, assieme  a Di Terlizzi abbiamo chiesto a chatGPT di fornire i riferimenti delle sue affermazioni. Ecco la (strabiliante) risposta:

  1. “Generative Pre-training for Language Understanding” di Alec Radford, Jeffrey Wu, Rewon Child, David Luan, Dario Amodei e Ilya Sutskever. Questo articolo introduce un modello di generazione di testo chiamato GPT (Generative Pre-trained Transformer) e mostra come esso può essere utilizzato per una varietà di compiti di generazione di testo.
  2. “Language Models are Unsupervised Multitask Learners” di Alec Radford, Karthik Narasimhan, Tim Salimans e Ilya Sutskever. Questo articolo mostra come i modelli di linguaggio possono essere utilizzati per una varietà di compiti di generazione di testo e di comprensione del linguaggio.
  3. “Fine-Tuning Pre-Trained Language Models for Domain-Specific NLP Tasks: A Survey” di Jieyu Zhao, Jing Liu, Xipeng Qiu, Xuedong Huang. Questo articolo fornisce una panoramica delle tecniche utilizzate per adattare i modelli di linguaggio pre-addestrati per compiti specifici del dominio.
  4. “Exploring the Limits of Language Modeling” di Tom Brown, Benjamin Mann, Nick Cammarata, Christopher Hesse, Mark Chen, Eric Sigler, Ryan Sepassi, Noam Shazeer, Alexander Alemi. Questo articolo analizza i limiti dei modelli di generazione di testo e le sfide future per lo sviluppo di questi modelli.
  5. “Human-like Text Generation” di Yizhe Zhang, Siqi Sun, Michel Galley, Chris Brockett, Xiang Gao, Jianfeng Gao. Questo articolo esplora le tecniche utilizzate per generare testi che si avvicinano al modo in cui scrivono gli esseri umani.

Spero che questi riferimenti bibliografici ti siano utili nella tua ricerca.

Ovviamente i riferimenti potrebbero essere errati e cosi ho provato a vedere se i riferimenti sono reali e ho trovato pronta ed immediata conferma. Esemplifico con i link agli articoli citati 1; 3 e 5. Ovviamente per me studi completamente incomprensibili !

OpenAI e Google: rischio disruption ?

Nell’economia (digitale e non solo) si parla di Disruptive innovation per indicare le innovazioni che cambiano radicalmente ed alla massima velocità un mercato mandando in soffitta aziende affermate.
Secondo molti chi ha più da temere da OpenAI è proprio Google. La differenza sostanziale è la seguente: io faccio la stessa domanda a tutti e due i servizi ma mentre ChatGPT mi risponde fornendomi una risposta in sé già completa (per quanto semplice e da verificare nella sua correttezza)., google mi fornisce un elenco di link che considera pertinenti. Ovviamente anche Google ha una sua intelligenza artificiale e potrebbe benissimo fare la stessa cosa che fa OpenAI solo che….. se lo facesse il suo modello di business salterebbe per aria. Google infatti guadagna con la pubblicità connessa alle ricerche on line. Scrive Paolo Benanti: “se un chatbot risponde alle domande con frasi stringate, le persone hanno meno motivi per cliccare sui link pubblicitari. Circa l’81% dei 257,6 miliardi di dollari di entrate di Google nel 2021 proveniva dalla pubblicità, in gran parte dagli annunci pay-per-click”.
Chi volesse ulteriormente approfondire questo aspetto può leggere l’interessante analisi di Ignacio De Gregorio intitolata emblematicamente “Can chatgpt kill google?

Rischi, opportunità, limiti, valutazioni

Tra i moltissimi commenti ho letto con grande interesse e divertimento l’articolo del filosofo Ian Bogost intitolato Una chiacchierata artificiale e pubblicato in italiano da Internazionale nel numero del 16 dicembre 2022.
Bogost evidenzia tutti i limiti di chatGPT e del modello di intelligenza artificiale sotteso riassumendo la sua valutazione nella seguente affermazione: “Forse ChatGpt e la tecnologia alla sua base non riguardano tanto la scrittura persuasiva, quanto l’abilità di dire cazzate in maniera superba. Un ciarlatano manipola la verità con cattive intenzioni, cioè per ricavarci qualcosa. La reazione iniziale a ChatGpt è più o meno quella che si ha davanti a un ciarlatano: si presume che sia un arnese progettato per aiutare le persone a cavarsela con una tesina per la scuola, un articolo di giornale e via discorrendo. È una conclusione facile per chiunque pensi che l’intelligenza artificiale sia progettata per sostituire la creatività umana e non per esaltarla.
E ancora: “L’intelligenza artificiale non capisce né può comporre uno scritto, ma offre uno strumento per scandagliare il testo, per giocarci, per modellare una quantità infinita di frasi relative a un’ampia gamma di ambiti – dalla letteratura alla scienza fino agli insulti su internet – plasmandole in strutture in cui possano essere posti nuovi interrogativi e, occasionalmente, prodotte alcune risposte”.

Algoretica

Non va poi taciuto l’aspetto etico della questione.

Paolo Benanti, francescano che insegna alla Pontificia Università Gregoriana, scrive: “Gli effetti e il potere di questo nuovo Bignami degli anni 20 di questo secolo può farne non solo uno strumento che rispecchia nei risultati il senso comune ma il vero nuovo produttore dell’opinione pubblica. La sfida è lanciata. Troverà l’algoretica uno spazio in questa battaglia? Un tema del quale si è discusso in questi giorni in Vaticano per la firma della «Rome Call for AI Ethics», documento sottoscritto dalle tre religioni abramitiche, curato dalla Fondazione RenAIssance e promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Si tratta di vigilare e di operare affinché non attecchisca l’uso discriminatorio di questi strumenti a spese dei più fragili e degli esclusi», ha detto il Papa ai partecipanti all’incontro (tra loro Brad Smith, presidente di Microsoft, e Dario Gil, vicepresidente globale di Ibm), auspicando che «l’algoretica, ossia la riflessione etica sull’uso degli algoritmi, sia sempre più presente, oltre che nel dibattito pubblico, anche nello sviluppo delle soluzioni tecniche”.

E su questo tema non si può non rimandare a tutti gli studi di Luciano Floridi (si veda il suo ultimo volume Etica dell’intelligenza artificiale Sviluppi, opportunità, sfide) e al suo impegno a livello istituzionale con l’Unione Europea per definire nuovi standard per l’intelligenza artificiale.

ChatGPT e la scuola

Ovviamente non potevano mancare articoli più o meno allarmati sulle ricadute scolastiche di ChatGPT.
Il dibattito italiano, dopo un primo articolo su Tecnica della scuola, è proseguito, con scarsissima fantasia, recuperando articoli ed esperienze statunitensi e canadesi piuttosto preoccupate per il rischio, in sostanza, di copiatura da parte degli studenti.

Rischio decisamente ridicolo per due diversi ordini di motivi:

  1. Il primo, che è anche alla base di un interessante articolo di Kevin Roose pubblicato dal New York Times il 14 gennaio 2023, è che vietare l’uso di chatGPT a scuola è assolutamente inutile: si tratta piuttosto di utilizzarlo come banco di prova,  come sfida. L’articolo si conclude così: “I grandi modelli linguistici non diventeranno meno capaci nei prossimi anni”, ha dichiarato Ethan Mollick, professore alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania. “Dobbiamo trovare un modo per adattarci a questi strumenti, non solo per vietarli”.
    Questa è la ragione più importante per non bandirli dalle aule, perché gli studenti di oggi si diplomeranno in un mondo pieno di programmi di intelligenza artificiale generativi. Dovranno conoscere questi strumenti, i loro punti di forza e di debolezza, le loro caratteristiche e i loro punti deboli, per poter lavorare al loro fianco. Per essere buoni cittadini, avranno bisogno di un’esperienza pratica per capire come funziona questo tipo di I.A., quali tipi di pregiudizi contiene e come può essere usato in modo improprio e come arma.
    Questo adattamento non sarà facile. Raramente i cambiamenti tecnologici improvvisi lo sono. Ma chi meglio dei loro insegnanti può guidare gli studenti inquesto nuovo mondo?”
  2. Il secondo è ben messo in risalto da Ian Bogost quando scrive, irridendo buona parte del sistema di valutazione statunitense ma anche italiano: “che senso ha preoccuparsi del destino di esami basati sugli elaborati da scrivere a casa? È un formato stupido che tutti detestano, ma che nessuno ha il coraggio di abbandonare. …Certo, possiamo approfittare di tutto questo per barare a scuola o per ottenere un lavoro con l’inganno. È quello che farebbe una persona noiosa, e quello che un computer si aspetterebbe. I computer non sono mai stati strumenti della ragione capaci di risolvere problemi spiccatamente umani. Sono apparecchi che strutturano l’esperienza umana attraverso un metodo peculiare e molto potente di manipolazione dei simboli. Questo li rende oggetti estetici tanto quanto funzionali. Gpt e i suoi cugini ci offrono l’occasione di prenderli per quello che sono e usarli non tanto per svolgere determinati compiti, ma per giocare con il mondo che hanno creato. O meglio, per distruggerlo”. Per inciso sottolineo qui la “vetustità” – per essere gentili dell’armamentario docimologico e valutativo della scuola italiana.

E quest’ultima riflessione di Bogost mi riporta ad un messaggio whatsapp di Piervincenzo Di Terlizzi che in modo lapidario mi ha scritto: A me (chatGPT) interessa perché la vedo come un asintoto. Più si affina in quello che noi pensiamo originalmente umano, ma che è in realtà deposito formulare, più l’umano, secondo me, brilla nella sua inafferrabilità.

Piervincenzo è un grecista, dirige l’istituto professionale e tecnico Zanussi a Pordenone, e la sua affermazione fa il paio con la conclusione dell’ultimo libro di Kevin Roose. Kevin Roose infatti che sostiene che “le persone possano prosperare nell’era delle macchine ripensando il loro rapporto con la tecnologia e rendendosi insostituibilmente umane”.

Ecco la sfida della scuola: insegnare alle persone a rendersi insostituibilmente umane, facendo brillare proprio la specificità e l’inafferabilità dell’umano.