ll progetto su “dispersione e dislivelli territoriali”: una sfida per le scuole  

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Antonio Valentino

La percezione

In questi ultimi mesi l’attenzione di dirigenti scolastici, insegnanti, personale tutto è apparsa rivolta essenzialmente alla gestione dei fondi previsti per il Piano, agli adempimenti a cui si è chiamati, all’uso della piattaforma messa a disposizione per facilitarne le operazioni.

 

Sono tuttora abbastanza rari gli incontri in presenza in cui socializzare dubbi, perplessità, limiti.

Poco e male finora sono entrate nel dibattito – anche in quello pubblico in generale – le ragioni per cui l’Unione Europea[1] ha previsto investimenti – in misura come mai prima era successo – su settori strategici della vita pubblica e, tra questi, quelli di Scuola e Università.
La stessa Amministrazione centrale – a partire dal Ministro – e quella periferica hanno finora dimostrato scarsa consapevolezza della dimensione strategica e della centralità e rilevanza della problematica dei divari  territoriali anche in fatto di istruzione; e quindi dell’importanza di  strategie di contrasto agli insuccessi e agli abbandoni precoci da mal di scuola che, nel nostro Paese, risultano tra i più alti d’Europa.

Anche altri due progetti del Piano Scuola del PNRR – ‘Zero-Sei’ e ‘Ambienti di apprendimento (‘Aule’ e ‘Laboratori’) – possono ben essere visti come occasioni importanti per contrastare alla base i fenomeni di inadeguatezza del nostro sistema di istruzione, cause non secondaria della dispersione.
A questi è ancora da aggiungere il progetto sull’orientamento (le Linee Guida nel Decreto Ministeriale sono del 22 dicembre 2022), perché anche Orientamento è parola chiave nelle misure previste dal DM 170 sul contrasto alla dispersione[2].

All’interno di questo quadro complessivo, il progetto sulla dispersione andrebbe considerato – a ragione – come l’anima dell’intera operazione del Piano Scuola, in quanto le azioni di contrasto in esso previste investono aspetti ‘vitali’ del fare scuola: – cultura professionale e didattica,  organizzazione e leadership, ambienti apprendimento, … – che attraversano anche gli altri progetti.
Investire su di essi significa investire sul ‘motore’ dell’intera macchina del sistema di istruzione.

Novità (parziali) e interrogativi

È in questa ottica che andrebbero pertanto considerate azioni e percorsi previsti nei documenti di accompagnamento ai Decreti ministeriali citati e soprattutto in  “Istruzioni operative” del 30 dicembre 2022 – a cui va aggiunto la Piattaforma “Futura PNRR – Gestione Progetti”: che, in realtà,  è parecchio più di uno ‘strumento’ operativo.

Di questi documenti vanno certamente segnalati in positivo – perché prefigurano differenze promettenti rispetto a iniziative analoghe già sperimentate nelle nostre scuole – quelle parti che

  1. indicano come strategie importanti un insieme di azioni: dal mentoring[3] all’orientamento[4]; dai percorsi di potenziamento delle competenze di base[5] (visti anche come occasione di motivazione e di accompagnamento) ai percorsi di orientamento per le famiglie;
  2. prevedono percorsi formativi e laboratoriali co-curriculari che includono progetti speciali di scuola (dalle attività teatrali a quelle sportive, dai laboratori di musica ai percorsi di educazione emotiva-affettiva ….), visti come momenti di aggregazione volti non solo a sviluppare socialità e favorire inclusione, ma anche integrazione (che include normalmente anche ricadute sul rendimento scolastico in termini di apprendimenti).

Anche la previsione di aprire le scuole alla collaborazione – comprensiva di co-progettazione, ma anche di gestione di attività con agenzie formative accreditate e affidabili – è un punto importante dell’intero progetto, in quanto aiuta a fare uscire le scuole dall’auto-isolamento, in cui qualche volta si confinano, e a trarne arricchimenti salutari di vario tipo.

(Ma al riguardo va annotato che sono emersi, da più parti, interrogativi e dubbi che nascono – e non solo con riferimento a questo progetto – dall’enfasi con cui le collaborazioni con enti del terzo settore vengono prospettate alle scuole dal Ministero. Non si vorrebbe che tale enfasi preludesse a scivolamenti rischiosi per l’autonomia scolastica e a derive gestionali di tipo privatistico.)

Un nodo centrale: fruizione individuale dei percorsi o individualizzazione dell’offerta formativa?

In tale quadro complessivamente positivo, pone però seri interrogativi la scelta di intervenire su fragilità e insuccessi attraverso i percorsi di cui al precedente punto b., per le quali si prevede una modalità che sembra ignorare strategie che la ricerca pedagogica e didattica raccomanda da tempo.
Per i percorsi di mentoring e di orientamento, destinati soprattutto agli studenti a rischio dispersione, si prevedono infatti:

  1. una fruizione ‘individuale’ degli stessi (rapporto studente-docente / esperto esterno: 1 a 1);
  2. una loro collocazione di norma al di fuori dell’orario scolastico e degli spazi delle lezioni[6].

Manca in questa scelta operativa delle Istruzioni ministeriali ogni riferimento alle metodologie didattiche di individualizzazione o di personalizzazione, che, come è noto, sono cosa altra rispetto ad azioni a ‘fruizione individuale’. Metodologie che, per diverse e buone ragioni, meritavano attenzione – e non solo  –.

Le recupero da Massimo Baldacci[7] che, già in un suo libro del 2005, le richiama esplicitamente: “L’istruzione individualizzata non è una istruzione individuale, realizzata semplicemente in un rapporto 1 ad 1. Essa consiste nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno (ritmi di apprendimento, capacità linguistiche, prerequisiti cognitivi) cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. (…)”[8].

E, a proposito di spazi e collocazione oraria possono ben valere, come aspetti importanti della dimensione collettiva dell’apprendere, le seguenti considerazioni di Simonetta Fasoli, particolarmente importanti ed esplicite perché ancorate a richiami normativi: “La strategia di contrasto va individuata nello stesso registro dell’ordinarietà, più che nella predisposizione di percorsi gestiti in ambito extracurricolare. Si vedano in proposito pietre miliari quali il documento della Commissione Falcucci (1975) e la legge 517/77 (…). Se è il gruppo di apprendimento la risorsa essenziale, non è la separatezza la risposta adeguata per chi si senta o sia stato escluso…”[9]. [i corsivi sono miei]

La didattica individualizzata – che è espressione operativa della teoria dell’individualizzazione degli apprendimenti, si configura pertanto come modalità del fare scuola particolarmente importante per l’integrazione nel gruppo classe degli allievi che se ne sentono esclusi; integrazione quindi come processo importante nel contrasto agli abbandoni precoci, soprattutto in quanto facilita l’apprendere migliorando livello e qualità delle relazioni nel gruppo [10].

Delle due pratiche didattiche sopra considerate sono indubbiamente diverse le idee di scuola ad esse sottese e diverso il tasso di carica innovativa. Penso però che, nella situazione attuale, entrambe potrebbero,  se ben condotte, sortire gli esiti previsti dal progetto.  Ne guadagnerebbe da questa scelta anche l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Due questioni non sottovalutabili.

Ci sono infine questioni, non propriamente secondarie, che non si possono trascurare, se si vuole partire col piede giusto. Si tratta di ‘mancanze’ o sottovalutazioni di variabili con cui fare i conti. Quali soprattutto

  • la non previsione di incentivi significativi per il surplus di lavoro delle scuole che la nuova progettualità del piano di contrasto inevitabilmente porterà (per i docenti, le segreterie, le figure di sistema, per i ruoli intermedi di raccordo e accompagnamento).
    Si è dimenticato infatti nelle Istruzioni operative che il cambiamento passa dal lavoro quotidiano, sempre più complesso e gravoso sulle spalle dei docenti e delle scuole;
  • la scarsa attenzione ad un principio guida per l’operazione in corso: è difficile aspettarsi cambiamenti duraturi e significativi se la scuola nel suo insieme non si sentirà parte essenziale dei processi attivati e non se ne farà carico. La lotta contro la dispersione non è affare di singoli insegnanti o esperti esterni che operano dentro protocolli indicati dai pochi docenti del team di scuola e dal gruppo di co-progettazione: o è impegno dell’insieme dei docenti della scuola che, nelle loro articolazioni, lavorano collegialmente per individuare problemi e possibili soluzioni o sarà molto difficile che si producano esiti positivi e duraturi.

La vera sfida del progetto dispersione e i principali terreni su cui giocarla

Quello che in conclusione si vuole soprattutto sottolineare è che la scuola, per essere la risorsa giusta contro insuccessi e rischi di abbandono – e saper fare al meglio la propria parte -, dovrebbe prioritariamente sviluppare consapevolezza autocritica che, in molti casi, è essa stessa parte del problema dispersione[12].

Che si crea sempre quando – al netto delle responsabilità del sistema, che sono comunque enormi e condizionanti – si sottovaluta (anche se per fortuna sempre di meno) l’incidenza, fra gli studenti,  di fattori non secondari del mal di scuola;  che se bene riconosciuti e analizzati possono suggerire una mappa di comportamenti professionali competenti e mirati di cui soprattutto c’è necessità se si vuole, come sarebbe opportuno e prioritario, trasformare l’esperienza scolastica degli studenti in una avventura che li veda partecipi e interessati; e prevenire così le diverse manifestazioni di abbandono, sapendone capire i sintomi. La lista di tali comportamenti è la stessa che gira da sempre e che vede in primo piano soprattutto:

  • la padronanza riflessiva di pratiche didattiche partecipative e coinvolgenti,
  • una cultura professionale, e relative pratiche, che sappia alimentarsi di esperienze condivise che si fanno occasioni di formazione ‘situata’,
  • la pratica attiva del lavoro di squadra, vincendo individualismi e autoreferenzialità,
  • la cura degli ambienti di apprendimento; che significa impegno a trasformarli da non-luoghi a spazi accoglienti, stimolanti, polifunzionali,
  • una leadership che coltivi l’idea di scuola come comunità professionale e dimostri attenzione costante al funzionamento delle diverse articolazioni funzionali del Collegio e al loro coordinamento interno.

[1]. Va richiamato che il  Piano di Ripresa (formula abbreviata che traduce la sigla PNRR) fa parte del Programma dell’Unione europea, noto come Next Generation EU.

[2] L’insieme di questi tre progetti è parte del Piano Scuola (capitolo importante del Programma PNRR per l’Italia), che si articola in ben sei Riforme, per altrettante aree problematiche del nostro sistema di Istruzione: questo per richiamare la complessità dell’operazione entro cui ci si muove.

[3] Attività che mira a vincere il disagio che generalmente si manifesta con modalità che vanno dal basso rendimento fino all’abbandono scolastico precoce. Si tratta di percorsi ad apprendimento guidato.  

[4] Che andrà configurato secondo le Linee Guida del Decreto ministeriale del 22 dicembre del 2022, che prospettano azioni articolate e promettenti che richiedono non solo progettazione attenta, ma anche competenze professionali adeguate.

[5]. Particolarmente importanti dopo i due anni di pandemia che non ha garantito continuità e regolarità delle attività didattiche e ha sacrificato pesantemente la socialità.

[6] V. però la nota 10.

[7] M. Baldacci, Personalizzazione o individualizzazione? Edizioni Erickson, 2005

[8] In questo differenziandosi dall’”istruzione personalizzata che tende a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti”. Sempre Baldacci, ibidem.

[9] Simonetta Fasoli in Didattica del recupero o recupero della didattica? pubblicato recentemente su Nuovopavonerisorse.it

[10] La didattica individualizzata, nelle esperienze più comuni, assume generalmente la classe come l’ambiente di apprendimento nel quale si alternano momenti di attività a dimensione collettiva (lezioni parzialmente frontali, debate, brainstorming …), con lavori di gruppo a dimensioni variabili, a seconda dei luoghi, del tipo di attività ecc. Durante i quali l’insegnante copre funzioni, tutte comunque sostanzialmente riconducibili al proprio profilo.

[11] In essa si apre alla possibilità, che andrebbe però chiarita su più versanti, di svolgere anche in orario antimeridiano i percorsi di mentoring e orientamento e di potenziamento delle competenze. Alcune altre aperture interessanti:  l’individuazione di docenti/tutor/esperti interni attraverso deliberazione del Collegio Docenti;  riconoscimento economico per attività gestionali di progettazione e tecnico-operative del personale interno, il supporto educativo e/o psico-pedagogico di  docenti o altre figure specialistiche interne e/o esterne, le attività operative strumentali alla gestione dei percorsi formativi (da parte segreteria didattica), ….

[12] V. al riguardo, in Associazione professionale Proteo Fare Sapere, le considerazioni approfondite nel documento “La dispersione. La scuola da parte del problema a parte della soluzione”, elaborato da un gruppo di lavoro dell’Associazione; documento dal quale sono state riprese le riflessioni del paragrafo.

 




Elly Schlein, la cultura, gli insegnanti 

di Mario Maviglia

 Avviso ai lettori: questo non è un articolo a favore o contro Elly Schlein. È il tentativo di fare un ragionamento di carattere generale sulla comunicazione in riferimento soprattutto al mondo della scuola, considerato che proprio sulla comunicazione gli insegnanti fondano la loro azione. Si presume quindi che essi siano in grado di gestirne il meccanismo di funzionamento e di comprendere la natura e il peso di ciò che si afferma.

Subito dopo la vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd, è apparso sui social un post – condiviso anche da parte del mondo della scuola – così concepito:

“Elly Schlein
Mega miliardaria
Figlia di un luminare
È cittadina americana, Svizzera [con la S maiuscola] e italiana
Ha fatto campagna elettorale per Obama
Vice governatore dell’Emilia Romagna
Bisessuale
Sensibile a tematiche del mondo lgbtq+
Ebrea aschenazita
Mai visto un povero
Mai vista una fabbrica
Mai vista una casa popolare
Mai lavorato
Sarà il nuovo Segretario del PD.
Secondo la dirigenza del PD è la persona giusta per avvicinarsi ai problemi del popolo e della classe lavoratrice!!”

Il post è interessante per quello che dice e per quello che vuole indurre a far credere al lettore. Innanzi tutto la sottolineatura che la Schlein sia “ebrea aschenazita” contiene un sottofondo velatamente razzista, se non antisemita. Nel citare un qualsiasi politico italiano (soprattutto se di sesso maschile) non si sentirebbe alcuna necessità di aggiungere che è “ariano” o “cattolico” o “cristiano” o “marrano”. Questo dato, nel contesto del post, non aggiunge nulla di significativo rispetto all’eventuale valore politico del personaggio se non come subdola sottolineatura denigratoria, del tipo: “e in più è anche ebrea aschenazita”.
Probabilmente non cambierebbe molto se la Schlein fosse “ebrea sefardita”, ma questa puntigliosa precisazione merita di essere segnalata perché il Regio decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n, 1728, “Provvedimenti per la difesa della razza ariana” (in sostanza la prima legge razzista emanata dal Regime fascista) si era limitato a distinguere tra “razza ariana” e “razza ebraica” senza ulteriori specificazioni.
La storia ha dimostrato che comunque questa “semplificazione” giuridica ha prodotto i suoi amari e mortali frutti (a strange and bitter crop, cantava Billie Holiday in Strange Fruit). In questo contesto stigmatizzare che una persona è ebrea vuol dire, consapevolmente o meno, che ci si rifà a quel panorama ideologico e questo, per un insegnante o un educatore, può essere “imbarazzante”, diciamo così.

Il fatto che la Schlein sia “mega miliardaria” si potrebbe liquidare con un liberatorio “beata lei!”. Ma il post vuole evidentemente veicolare altri messaggi, meglio specificati nella parte finale del post stesso. Il primo messaggio è che per essere un leader di sinistra occorre essere povero, nullatenente, meglio se con le toppe al culo (mi si conceda il francesismo). Insomma ci deve essere una identificazione non solo ideale con il proprio elettorato (immaginato ovviamente povero, nullatenente e con le toppe al culo), ma anche materiale.
La storia, in effetti è ricca di leader di origini popolari, se non povere: il padre di Mussolini era un fabbro, la madre una maestra elementare; il padre di Hitler era una guarda di frontiera dell’Impero asburgico e la madre una domestica. Non proprio “mega miliardari”, come si vede, ma ciò non ha impedito loro di creare quei “mega” danni che tutti conosciamo. C’è un ulteriore aspetto da segnalare rispetto alla ricchezza della Schlein. In un Paese come l’Italia che conosce un tasso di corruzione e di evasione fiscale tra i più alti tra i Paesi avanzati è alquanto strano che non ci si scandalizzi per fortune quanto meno sospette di certi personaggi anche pubblici e si vada invece a sottolineare lo stato di ricchezza di una persona che non ha altra colpa se non quella di essere nata in una famiglia ricca (con l’aggravante di essere “ebrea aschenazita”…).
Oppure si vuole inferire che siccome una persona è ricca non può comprendere i problemi del “popolo”. Anche in questo caso va registrato che finora questa comprensione del “popolo” non è stata poi così perfetta, a prescindere dalla Schlein; anzi, stando a quello che dice l’Istat, il numero di persone in povertà assoluta in Italia è quasi triplicato nel periodo 2005-2021, passando da 1,9 milioni a 5,6 milioni, ossia il 9,4% della popolazione. E tra i minori la povertà assoluta si è più che triplicata, passando dal 3,9% del 2005 al 14,2% del 2021. E magari i governanti che hanno guidato l’Italia tra il 2005 e il 2021 hanno “visto un povero, una fabbrica e una casa popolare”, ma ciò evidentemente non è bastato ad arginare l’aumento così poderoso della povertà.

Sul fatto che la Schlein non abbia mai lavorato, ad esclusione del suo impegno politico, dalla sua biografia ufficiale emerge che si è occupata da sempre di cinema, scrivendo recensioni per alcune testate e blog e frequentando dal 2003 il Festival internazionale del Film di Locarno. Ha lavorato al documentario Anija-La Nave (Istituto Luce – Cinecittà) di Roland Sejko, che racconta la fuga collettiva dall’Albania verso l’Italia di migliaia di persone sulle grandi e piccole navi, ricevendo il premio David di Donatello come miglior documentario 2013. Nello stesso anno, gira un video-inchiesta con Pippo Civati sul tema dei fondi italiani non dichiarati in Svizzera.
Anche ammettendo che ciò non costituisca un lavoro, e dunque facendo rientrare la Schlein tra la schiera di coloro che non hanno mai lavorato, cosa pensare di quei tanti politici italiani che non hanno mai fatto in vita loro un “lavoro” diverso da quello del politico? (Tra questi ricordiamo la stessa premier attuale di Fratelli d’Italia, nonché Presidente del Consiglio, e l’attuale leader della Lega, nonché Vicepresidente del Consiglio e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti).

Sul fatto che sia bisessuale o sensibile alle tematiche del mondo lgbtq+ credo che non sia il caso di spendere parole in quanto si tratta di scelte personali che, peraltro, non vanno a comprimere i diritti degli altri, ma anzi ne allargano l’orizzonte.

Al di là di ogni considerazione politica, ciò che forse si tende a denigrare è il fatto che trattasi di una donna giovane, non convenzionale, autonoma, di vedute internazionali, di famiglia ricca. E poi è “ebrea aschenazita”, colpa non emendabile.

Detto questo, ognuno è libero di essere pro o contro la Schlein; ma almeno si cerchi di andare oltre il repertorio del qualunquismo e del pregiudizio, soprattutto da parte degli insegnanti. Ragionare è un processo cognitivo ancora attuale.




Caro Salvini, ti scrivo (a proposito di voti e valutazione formativa)

di Cristina Marta
dirigente scolastica dell’IC di Pavone Canavese (TO)

In qualità di dirigente di una scuola del primo ciclo vorrei rispondere all’onorevole Salvini, che ritiene poco comprensibile la nuova valutazione per la scuola primaria e auspica il ritorno ai voti.
Anzitutto vorrei fargli presente che il voto numero associato ad una disciplina non dà pressoché alcuna informazione rispetto a ciò che effettivamente un alunno sa o non sa fare. Per fare qualche esempio il voto 6 di italiano è spesso attribuito ad alunni che scrivono commettendo errori  ortografici e lessicali, ma che sono, invece, capaci di argomentare adeguatamente e altrettanto ad alunni che , invece, scrivono in modo corretto, ma hanno grosse difficoltà nell’esprimere un pensiero. Altrettanto si può dire per la matematica, materia nella quale il calcolo scritto e mentale, il problem solving, l’argomentazione costituiscono ambiti rispetto ai quali un alunno può raggiungere livelli molto diversi che, fra loro combinati, danno origine allo stesso voto.
Valutare obiettivi disciplinari, che  i docenti hanno individuato come strategici per una specifica classe, consente di avere un quadro chiaro ed esaustivo della situazione a condizione che la scelta operata per gli obiettivi sia adeguata.
La nuova valutazione per la scuola primaria presuppone altresì che siano sempre forniti anche spunti di miglioramento , che dovrebbero essere espressi con un linguaggio comprensibile per i genitori, ma soprattutto per gli alunni, ed in termini operativi.
Una buona valutazione formativa richiede tempo e fatica e la sua efficacia è subordinata al fatto che fra famiglia a scuola vi sia un’alleanza, che ha quale obiettivo la qualità dell’apprendimento degli alunni  e non la loro classificazione.
Concludo osservando che chi non è in grado di esprimere un giudizio formativo adeguato, altrettanto non saprebbe valutare con qualsiasi altro sistema, compreso quello numerico decimale.

Invito l’onorevole Salvini e tutti i genitori che si trovano in difficoltà nel decifrare il significato della valutazione attribuita ai propri figli a rivolgersi alla scuola per un chiarimento, che è dovuto.
La scuola cresce e migliora nel confronto costruttivo  con le famiglie.




Perché Valditara non può essere il Ministro dell’Istruzione

di Domenico Sarracino

L’attacco del ministro Valditara alla Preside del liceo “Da Vinci”di Firenze non va sottovalutato perché di portata ben più vasta e profonda di quanto possa apparire. E non solo perché colpisce una Dirigente scolastica che ha fatto il suo dovere professionale e civico –la qual cosa già di per sé costituisce fatto inaccettabile e fortemente censurabile – ma perché si scaglia contro uno dei pilastri che hanno connotato il profilo della nuova scuola italiana nata in quei giorni di formidabile apertura e conquiste democratiche che furono i primi anni ’70. Una scuola – che affogava nel nozionismo acritico e ripetitivo, nelle impomatate baronie universitarie, che selezionava ed escludeva sulla base della provenienza sociale, che proponeva un sapere astratto ed accademico, che chiudeva porte e finestre intorno a sé, e si faceva impenetrabile al mondo che le stava intorno – veniva scossa dall’irrompere del ‘68 e poi riorganizzata intorno ai Decreti Delegati ed in particolare intorno al DPR 416 che determinava la nascita degli Organi Collegiali “al fine di realizzare un modello di scuola basato sulla partecipazione” e volta “ad interagire con la più vasta comunità sociale e civica”.
Una scuola che doveva e deve vivere il suo tempo, promuovere la pacifica convivenza, incrociare dialetticamente il passato ed il presente, per educare a vivere criticamente, liberamente e consapevolmente; che doveva e deve rimuovere gli ostacoli che impediscono e frenano la piena realizzazione di uomini e donne, di cittadini e cittadine, secondo l’intento costituzionale. Un modello di scuola, certo, che si è realizzato solo in parte perché da subito incontrò limitazioni, ostacoli ed avversione, e che oggi va certamente rivisitato, badando bene, però, a salvaguardare l’idea di democrazia partecipata e di apertura al mondo reale ed alle sue trasformazioni.
Le minacce del Ministro alla brava collega che non si è voluta chiudere nelle quattro mura della sua scuola, che ha richiamato il male dell’indifferenza, che non si è rintanata nel suo “particulare”, che tiene presente la lezione della storia e il mandato educativo che le è stato affidato colpiscono non solo lei, ma tutta la nostra scuola e i pilastri che la sostengono, colpiscono un modello di società che dalla Costituzione è chiamata ad aborrire la violenza, la sopraffazione, la prepotenza, il manganello, ed a vigilare con la responsabilità democratica ed il senso civico affinchè questi metodi siano fermati al loro spuntare, prima che il silenzio, le complicità e il girarsi dall’altra parte ne permettano il dilagare, come appunto insegna la lezione della nostra storia non tanto lontana. “I care” è il noto motto di Barbiana, significa “mi interessa, mi sta a cuore, partecipo, dico la mia, non lascio correre, mi rendo responsabile”, e così facendo il Priore insegnava a vivere, ad essere cittadini liberi e sovrani. Il ministro Valditara invece non vede , non sente e non parla di un’azione violenta che ha colpito una scuola, ma non solo: interviene sulle parole importanti della Preside non per apprezzarle e farle sue , ma per contestarle, per considerarle una colpa e per minacciare provvedimenti. In sostanza provvedimenti contro chi ha servito ed onorato la Costituzione. Provvedimenti contro la Costituzione, contro quella Carta che non è un pezzo di carta morta ma che deve vivere in ogni cittadino. Su cui ha giurato solennemente, ma tanto leggermente pur di correre a coprire l’importante ruolo di ministro. La verità a cui si giunge è che questo ministro o non conosce la Costituzione e i fondamenti della Scuola italiana o li conosce, e peggio ancora, se ne frega. Nell’uno e nell’altro caso non può essere il ministro dell’istruzione della nostra Repubblica.




Fascismo sì/fascismo no? Il vero problema è il ruolo del Ministero

di Pietro Calascibetta

L’esternazione di questi giorni del Ministro Valditara nei confronti della preside di Firenze è sicuramente un intervento inopportuno perché invece di stigmatizzare comunque la violenza davanti a una scuola tira fuori una sua personale valutazione storica della contemporaneità dandone un imprimatur istituzionale, una valutazione che se non compete, come lui dice alla preside, meno che mai compete ad un ministro anche se è un docente di diritto (romano) in più è un atto di per sé diseducativo nei confronti dei ragazzi da parte di un adulto gerarchicamente superiore che sconfessa un altro adulto che nel suo ruolo ha deciso di fare un intervento sui propri studenti per dare un segnale che almeno nell’istituzione scolastica che frequentano, vivaddio, c’è una figura istituzionale che si preoccupa di loro e non se ne lava le mani lasciandoli nella convinzione che se la devono cavare da soli.
Spero che non si cada nella solita polemica fascismo sì, fascismo no perché la vera questione che spero emerga in questo caso non è il pericolo fascista dove molti della destra vorrebbero portare il discorso per meglio controbatterlo, ma il ruolo del Ministro e del Ministero nell’insegnamento della storia nella nostra scuola. Perché di questo si tratta.

Giorni fa commentavo un articolo di Mario Maviglia su Nuovo Pavone Risorse che stigmatizzava l’intervento della Sottosegretaria Paola Frassinetti che contestava ufficialmente la partecipazione dello storico Eric Gobetti ad un incontro dedicato alle foibe con gli studenti di una quinta ( secondaria di secondo grado e non della primaria !) di un istituto superiore calabrese etichettando lo storico come negazionista, quando in realtà lo storico non nega affatto le foibe, ma cerca di collocarle nel contesto storico di quegli anni individuando le co- responsabilità di quanto è avvenuto prima e dopo quegli avvenimenti.
Un Ministero che dà la linea sull’interpretazione autentica dei fatti storici e che dà la patente agli storici che di mestiere fanno ricerca, mi sembrava di per sé eccessivo.
A questo punto mi sono detto che bisogna guardare più a fondo ciò che sta avvenendo in una prospettiva più ampia che va oltre Valditara.
E’ il Ministero ( cioè la politica) che deve fornire ai docenti l’interpretazione autentica dei fatti storici da insegnare in aula? E’ una questione più delicata di quanto si immagini perché non riguarda l’oggi.
Mi sono ricordato allora che cominciano ad essere sfornate dal Ministero nel silenzio generale “Linee guida” su argomenti diciamo storico-culturali. Mi sembra di capire che un’entità “politica e amministrativa” qual è di fatto il Ministero abbia cominciato a spiegare ai docenti come devono trattare i contenuti di alcuni specifici argomenti. Posso capire (ma fino ad un certo punto) le Linee guida metodologiche per trattare la dislessia o su come declinare in obiettivi le finalità disciplinari stabilite per legge. Si tratta di indicazioni operative su come applicare le norme ordinamentali, sono indicazioni “tecniche”, ma non capisco questo nuovo filone di Linee guida.
Che siano “Linee Guida per la didattica della Frontiera Adriatica” firmate da Bianchi oppure “Linee guida nazionali per una didattica della Shoah a scuola” o, chissà fra poco “Linee guida sulla guerra in Ucraina” o su una presunta “Guerra civile in Italia” non mi interessa proprio, non mi interessa l’argomento, né mi interessa che le abbia prodotte un governo di sinistra o di destra.
Spero che non ci sia uno spoil system rispetto agli argomenti di storia.
E’ il principio che trovo sconvolgente e un pericoloso precedente. E’ proprio sulla scia di questa nuova tipologia di Linee guida, la sottosegretaria Frassinetti solo per dare un segnale che la destra “vigila” sulla memoria delle foibe, si permette di sanzionare pubblicamente una libera decisione di una scuola di incontrare uno storico, decisione che attiene all’ambito della famosa libertà di insegnamento a cui tutti si appellano anche a sproposito.
La trappola in cui si può cadere è quella di lasciare che passi la narrazione che c’è una storia di sinistra e una storia di destra che ciascuna parte politica difenda la sua storia. In mezzo ci sarebbero non solo i docenti con i loro studenti, ma anche la democrazia perché in democrazia c’una storia anche travagliata, ma sempre condivisa.
Questo è un messaggio per la sinistra a congresso che è alla ricerca della sua identità. Chi va con lo zoppo comincia a zoppicare. La Costituzione non garantisce forse la libertà di pensiero e la libertà di insegnamento?
Trovo questo atteggiamento ministeriale di oggi come quello di ieri umiliante anche per i docenti che dovrebbero avere la professionalità per saper scegliere le fonti e i percorsi più adatti per formare nei propri studenti quella competenza critica prevista dalla normativa soprattutto per la storia contemporanea.
Ricordiamo sempre su questo sfondo il caso della professoressa di Palermo che aveva osato affrontare il tema della discriminazione con i suoi studenti sempre delle superiori parlando delle leggi razziali di ieri e del decreto sicurezza di Salvini di oggi e che si è trovata sospesa e senza stipendio, sanzione annullata poi solo dal tribunale del lavoro, ma non rivista dal Ministero anche dopo il cambio di governo .
A questo punto mi viene alla mente tutta le discussione frettolosamente archiviata nata intorno all’introduzione nell’ordinamento penale dell’aggravante delle affermazioni negazioniste della Shoah, dei fatti di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti rispettivamente dagli artt. 6, 7 e 8 dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale.
Allora vi fu un acceso dibattito tra chi riteneva un segnale importante sanzionare le affermazioni negazioniste e chi invece affermava che l’idea di una verità storica di stato non solo sarebbe stata aberrante, ma avrebbe sancito l’impotenza di tutta una società a combattere il negazionismo sul terreno dell’educazione, dell’informazione e della cultura.
Qual è quindi il ruolo della scuola oggi nell’insegnamento della storia, soprattutto quando è contemporanea? Come si può insegnare storia quando se dici una cosa sei di sinistra e se ne dici un’altra sei di destra? Vogliamo fare della scuola una palestra di scontro politico? E’ questa l’educazione civica ?




La Costituzione ha radici profonde, ma è anche un progetto dinamico

di Rodolfo Marchisio

La Costituzione è un progetto da realizzare (e non un insieme definitivo di regole), e allora  “bisogna continuare a pedalare” (Calamandrei), perché se non viene realizzata, nel tempo diventa “un progetto tradito” (Bobbio).

I filoni fondamentali che hanno contribuito alla stesura della Carta sono come noto:

a) il pensiero illuminista (libertà e diritti individuali – diritti di prima generazione per N. Bobbio-),
b) quello socialista e comunista (diritti sociali: lavoro, istruzione, salute), diritti di II° generazione,
c) quello cristiano (famiglia, persona, lavoro…).

Nel tempo si sono aggiunti nel 1900 i diritti sanciti dalle Carte e Dichiarazioni internazionali cui l’Italia ha aderito (diritti di terza Generazione) e più recentemente i diritti legati al mondo digitale (che spesso si intrecciano con quelli di prima e seconda generazione).

Un utile punto di riferimento è il libretto Le età dei diritti di N. Bobbio in cui si descrivono le 4 generazioni dei diritti, secondo l’autore.
Per approfondire il discorso sui diritti, che nascono quando un gruppo sociale è disposto a lottare contro un altro per ottenerli e per difenderli, perché si possono perdere in tutto o in parte (vedi  Incontro con N. Bobbio).

Chi erano i padri e le madri della C. e perché è stato necessario riscriverla (C. Marchesi).
La Assemblea Costituente era formata prevalentemente da giuristi, esperti di diritto, politici, docenti. Non c’erano contadini, pochi operai o sindacalisti. Molti antifascisti e qualche partigiano. Solo 21 le madri della Costituzione, prevalentemente socialcomuniste e cattoliche, unite dall’obiettivo della parità da raggiungere nella nuova situazione.

Per una verifica puntuale di questa composizione si possono usare gli url
I Costituenti
https://it.wikipedia.org/wiki/Deputati_dell%27Assemblea_Costituente_(Italia)
che presenta i componenti e la loro professione (basta passar sopra col puntatore)
Le donne (le madri)
https://culturalfemminile.com/vari/le-madri-della-costituzione-italiana/

Per questo l’assemblea si è poi divisa in commissioni più ristrette che hanno redatto i vari articoli poi discussi e approvati in plenaria.
Come primo atto di democrazia la Costituente ha dato a Concetto Marchesi, l’incarico di riscrivere il documento finale, di 9900 parole ca, usando solo 900 lemmi, per renderlo un documento leggibile non solo da addetti ai lavori.

Concetti fondanti dei primi 54 articoli: Democrazia, diritti /doveri, Repubblica, potere, popolo, lavoro (art 1 e seg.), regole, equilibrio. Molti diritti, pochi doveri e 2 diritti/doveri.
I doveri non sono una “compensazione” dei diritti, ma parte dell’impegno che viene richiesto ai cittadini di partecipare col loro lavoro e col loro contributo al progetto complessivo.

Diritti e doveri

Art 2. La Repubblica… garantisce i diritti inviolabili dell’uomo… ma richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

  1. a) l Diritto/dovere di votare. Alle ultime elezioni il 40/45% non ha votato. Sommando le schede bianche/nulle succede che il 18/20% degli Italiani ha deciso chi avrebbe comandato. Perché?
  2. b) Il dovere di pagare le tasse ( 53) in modo proporzionale e progressivo. Evasione fiscale record 200 miliardi
  3. c) quello di difendere la Patria se attaccata ( 52).
  4. d) quello fondamentale di partecipare col proprio lavoro, le proprie risorse al bene comune (art 2, 4 ed altri)
  5. e) Il diritto ma anche il dovere di allevare e prendersi cura dei figli ( 30 e seguenti).Dobbiamo collaborare tutti a realizzare il progetto descritto dalla Costituzione.
    Il contrario di mi faccio i fatti miei, non pago le tasse, voglio essere padrone a casa mia.

Contribuire a prosperità, benessere, progresso della nazione (lavoro, partecipazione … art. 2 e 4) Oggi invece prevale “l’ipertrofia” del diritto individuale contro il diritto degli altri ed il dovere di solidarietà, Zagrebelsky.
Calamandrei diceva che in democrazia: «non mi sento padrone neanche a casa mia.»
Imparare ad imparare
per contribuire al progetto è una competenza di cittadinanza (2018) non una cosa che riguarda solo gli studenti, ma anche i lavoratori, gli artigiani, gli imprenditori. Tutti i cittadini.

Una verifica statistica

C’è la possibilità di verificare con uno studio linguistico/statistico del linguaggio della C. e delle ricorrenze dei concetti/parole dei primi 54 articoli con semplici software Snap o foglio Excell, come fatto nel libro Dati Cittadinanza e coding (Le Parole della Costituzione) di Penge, Marchisio ed altri e sperimentato con l’IIS Volterra di S. Donà del Piave.
https://www.anicialab.it/coding/dati

La democrazia è governo del popolo e non per o con il popolo che sono demagogia (dalla democrazia Greca coi suoi noti limiti e la deriva demagogica – I sofisti contro Socrate – allo scritto di Platone, Contro la democrazia)

La Costituzione deve tener conto della evoluzione storica e sociale. Non è fuori del tempo.
Il concetto di famiglia di cui tanto si discusse e che compare in più articoli è passato dal primato del pater familias romano alla parità dei coniugi, ad un diverso concetto di famiglia anche non eterosessuale.
L’affermazione della priorità della famiglia sullo stato aveva all’epoca senso dopo la esperienza delle dittature in cui avveniva il contrario. Oggi famiglia e Stato dovrebbero armonizzarsi.

La Costituzione non parlava di ambiente (integrazione recente dell’art 9), i problemi all’epoca erano altri e la carta non può contenere tutto, è un progetto non una enciclopedia. Vedi
https://www.cortecostituzionale.it/documenti/download/pdf/Costituzione_della_Repubblica_italiana.pdf  (art 9 e le altre integrazioni o modifiche).

Cos’è Democrazia.
Le condizioni per definire un governo democratico sono:

  • Che si eleggano regolarmente i propri rappresentanti Bobbio
  • Che li si elegga liberamente e a maggioranza. Bobbio cfr video Bobbio
  • Che ci sia una assemblea legislativa indipendente e democratica.
  • Che la Magistratura sia indipendente.
  • La Separazione dei 3 poteri.
  • Che la stampa sia libera ( Runciman)
  • La possibilità del popolo di cambiare la élite che lo governa, secondo altri

Equilibrio fra poteri. Quando storicamente, nel nostro paese la Magistratura invade e limita il potere politico (da “mani pulite” in poi) è un fatto spesso legato anche ad una crisi della politica ed a reati.
Quando il potere esecutivo invade il campo di quello legislativo, come in epoca Covid, la Corte Costituzionale ha stabilito che è legittimo se: a) Legato ad una emergenza, b) Limitato nel tempo c) bene giustificato e delimitato.
Non è quindi, in genere, come qualcuno sostiene, una invasione di campo, ma deve essere una eccezione.
Legata anche al fatto che noi oggi viviamo una situazione di Democrazia “malata”, con problemi, come tante democrazie liberali che passano una “crisi di mezza età” (Runciman).

Infine

  • Parole ombrello che vanno ridefinite: democrazia, diritto sono tra le parole da tutti abusate che hanno logorato il loro significato.
  • Persona o cittadino. Il personalismo cristiano sosteneva il concetto di persona, le forze di sinistra si riferivano alle persone, al popolo (che non devono però diventare massa). La attualità fa prevalere il concetto di cittadino, che mi pare meno divisivo.

Per concludere.
Ai giorni nostri con episodi di violenza politica di origine neofascista,  discussione per interessi di parte su aspetti e parole chiave (“colonne”) della Carta e l’incertezza di come uscire dalle querelle su questo progetto che di sicuro ha soprattutto una matrice storica antifascista per costruire insieme una democrazia meno malata possono essere utili studi specialistici tra esperti di diritto romano, da cui non può derivare una posizione di parte; ma è vitale riaffermare che la  Costituzione va realizzata, sviluppata, contestualizzata rispetto ai tempi e non deformata né “tirata per la giacchetta” per motivi politici sottolineando solo alcune parole chiave ( persona, famiglia , stato, proprietà, libertà) né tanto meno diventare campo di battaglie di parte.




Formare i docenti alla Intelligenza Artificiale ? Si può fare, ma..

di Marco Guastavigna

Formare gli insegnanti (e più in generale il personale scolastico) all’Intelligenza Artificiale? Sono pienamente d’accordo: penso infatti che affrontare in modo critico questo tema sia una priorità assoluta per chi voglia adottare un approccio davvero emancipante ai dispositivi digitali, dal punto di vista sia operativo sia culturale. A patto, però, che si abbandoni il dibattito così come si configura attualmente, disperso tra sensazionalismo mediatico e escursioni empiriche, tra entusiasmo tecnofilo e rifiuto pregiudizievole, e imperniato sulla convinzione che ciò che conta sia capire – e giudicare – il funzionamento di superficie dei chatbot, dei traduttori automatici, dei ri-produttori di immagini, delle applicazioni per la realizzazione semi-istantanea di “mappe” a partire da testi. Per capire davvero quali possano essere le possibilità di arricchimento professionale e quali le opportunità di espansione, consolidamento, compensazione e mantenimento nel tempo di capacità di apprendimento e a quali condizioni ciò possa avvenire, è necessario invece decostruire i concetti che attualmente vanno per la maggiore, esito di marketing economico e veicolo di dominio lessicale. In primo luogo, proprio il riferimento all’intelligenza: va ricordato e compreso infatti che fin dal modo in cui fu concepito il test di Turing i dispositivi di AI hanno il compito di compiere prestazioni finalizzate a obiettivi definiti, con risultati paragonabili a quelli umani. E questo avviene mediante la raccolta e l’analisi di dataset, l’individuazione di correlazioni, la costruzione di modelli e la loro riproduzione.
È il caso, ad esempio, dei dispositivi come Google translate, che traducono dall’una all’altra lingua senza comprendere nulla di quanto vanno elaborando, ovvero sulla base di rapporti statistici tra le parole e di tabelle di corrispondenza e non in funzione della relazione semantica tra idee, nozioni, concetti e così via. E questo è il paradigma vincente: fare senza capire. Un’altra condizione per una visione emancipante è la consapevolezza che può accedere a dataset significativi solo chi possiede moltissimi dati, così come può computare e costruire modelli pregnanti solo chi dispone di potenza di calcolo adeguata, ovvero le grandi corporation del capitalismo cibernetico. Così come va compreso fino in fondo che l’allenamento dei dispositivi non avviene in campo neutro. Esso, infatti, altro non è che la captazione in tempo reale dell’intelligenza collettiva condivisa sulla rete internet: questo aspetto pone non tanto il problema di riconoscimento dell’autorialità e dei conseguenti diritti, quanto piuttosto quello dello scambio ineguale tra coloro che contribuiscono alla costruzione di palestre per l’allenamento di macchine rivolte alla privatizzazione della conoscenza a scopo di profitto – a cui partecipano a pieno titolo anche coloro che si prestano al beta-testing delle varie applicazioni, permettendone il raffinamento – e i loro proprietari. Insomma: ben venga una formazione alla cittadinanza, che restituisca alla sfera pubblica spazio e importanza. Magari arrivando a rivendicare la trasparenza dei “corpora” digitali raccolti, impiegati, analizzati, classificati, modellizzati e – come già sottolineato – riprodotti ad imitazione delle performance umane oggetto di addestramento e allenamento.