La scuola dei desideri è andata all’incontrario

di Raimondo Giunta

Della scuola si parla per dire come dovrebbe essere e quello che dovrebbe fare, dimenticando spesso di dire come veramente è e che cosa ragionevolmente si può realizzare, considerate tutte le sue vere condizioni. Forse è la natura stessa della scuola a favorire questo modo di impostare i discorsi, a spingersi costantemente, ingenuamente o maldestramente nel futuro e a sottovalutare il peso della realtà.  La scuola per statuto non può che lanciare lo sguardo oltre l’ostacolo, lavora in funzione di chi deve pensare al proprio avvenire ed è naturalmente proiettato verso il domani. La scuola ha coltivato sempre l’ambizione di potere dire di se stessa che cosa possa e debba essere; purtroppo oggi, più di ieri, la scuola non sarà come vorrebbe essere, ma come la vogliono gli altri, come la vuole la sua amministrazione. Sono evidenti le intenzioni di farne un’istituzione che replichi le scelte e i comportamenti del mondo economico- aziendale, elevato con animo subalterno a modello da imitare; è palese la volontà di piegarla alle esigenze di una società che pratica largamente la competizione, la discriminazione e la selezione sociale, la gerarchizzazione dei rapporti umani e sociali e che irride ogni forma di sapere che non abbia i crismi dell’immediata utilità.

Nell’organizzazione che si è voluto dare alla scuola l’accoglienza, il successo formativo, le pari opportunità, la partecipazione, il dialogo professionale, di cui si sono nutrite per molti anni le pratiche formative per l’impegno di tanta parte degli insegnanti, col tempo faranno parte delle retoriche da recitare, ma non avranno più incidenza nella quotidianità delle attività scolastiche. Saranno confinate nel mondo delle illusioni e dei pii desideri, di cui devono pascersi le rimanenti belle anime degli insegnanti.  L’organizzazione, si sa, modella le coscienze più di molte prediche pedagogiche. Oltre la sacralizzazione dell’organizzazione, il tema della rendicontabilità e la cultura del risultato sicuro e immediato sono stati i prestiti del mondo economico che con fatuo e indiscriminato zelo si è cercato e si cerca ostinatamente di impiantare nel mondo della scuola, stravolgendo il significato che possono avere questi stessi processi nella formazione, dove di sicuro e di immediato c’è molto poco e nel rendere conto non si possono trascurare le caratteristiche culturali e valoriali del contesto, i tratti costitutivi del sistema scolastico, la carenza delle risorse disponibili, le condizioni economico-sociali delle famiglie. Peraltro non si dà conto solo agli organi superiori, ma nei nostri giorni ad ogni gruppo di pressione che pretende qualcosa della scuola, non conoscendone spesso le modalità operative e le responsabilità istituzionali.

E’ venuta fuori negli ultimi anni una scuola impaziente e frettolosa, stiracchiata da ogni parte, quasi costretta a trascurare la dimensione educativa, che ha bisogno di tempi lunghi di elaborazione e di riflessione. Nè può essere taciuto che senza adeguata vigilanza, la cultura del risultato, costantemente professata e inoculata da parte dell’amministrazione, conduce alla costituzione di un modello di istruzione estraneo ai bisogni reali di formazione degli alunni, che sono contestuali al luogo, al genere, alla condizione sociale e alle tradizioni. La scuola è servizio alla persona e istituzione della società e queste funzioni si esprimono principalmente nella salvaguardia e nella trasmissione delle conoscenze, dei valori, della storia, della cultura, delle tradizioni accumulate nel passato. Nella trasmissione di questo patrimonio la scuola aiuta a definire nella coscienza dei giovani la continuità e l’identità della comunità d’appartenenza, diventa ancoraggio per la salvaguardia della civiltà. Trasmettere è associare una persona ad un percorso, ad una storia; è indicare la lunga vicenda della nostra libertà intellettuale; è fare partecipare all’avventura delle scoperte che ci hanno fatto crescere ed hanno allargato il nostro orizzonte. La funzione cruciale di ogni sistema di istruzione è proprio questa ed è irresponsabile alleggerirla per rendere la scuola ancilla docile delle ingiunzioni del sistema economico.

Negli anni passati si è proceduto a innovazioni curriculari senza adeguato e approfondito dibattito pubblico e non credo che si sia tenuto nel dovuto conto che le scelte effettuate su ciò che si debba insegnare nelle scuole non sono prive di importanza e di significato. A seconda di ciò che si insegna o non si insegna gli studenti acquisiscono diversi valori, diverse competenze sociali o economiche, diverse visioni del mondo. Si sta perdendo il senso del destino della scuola, della sua funzione conoscitiva e della sua funzione politica ed educativa. La scuola dovrebbe essere il luogo della riflessione e dei tempi lunghi e invece si cerca di praticare la soddisfazione immediata delle diverse pulsioni pubbliche che si scaricano dentro di essa. La scuola dovrebbe essere il luogo dell’appropriazione della conoscenza e dell’esercizio a saperla trasferire e invece si esercitano gli alunni alla ripetizione mnemonica e alla risposta immediata ai test da pubblicità o da propaganda. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui si professa e si pratica la ricchezza della lingua scritta e strutturata e invece si riducono di numero le prove scritte di ogni genere e i tempi necessari per elaborarle come si deve. La scuola dovrebbe essere il luogo della costruzione del senso di comunità e invece con premi e cotillons si mettono gli uni contro gli altri sia gli insegnanti, sia gli alunni. Si dice società della conoscenza e si fa, invece, la scuola dove si è perduto di vista la funzione autentica della conoscenza, il senso dei saperi e della cultura.




Semi di fiori per farfalle

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone

Mi è sempre piaciuto lavorare con altre persone e da chi ho incontrato ho imparato tantissimo: fare scelte controcorrente e tuffarsi in avventure coraggiose, non temere i furti di ingegno e non invadere spazi altrui, ma anche accogliere la stima e la fiducia per costruire opportunità. Proprio per la gratitudine che sento per questi e altri apprendimenti, che sono stati vitali nella professione, vorrei provare qui a rilanciare il tema della collaborazione tra colleghi e professionisti e spargere semi per fiori che richiamano farfalle. Esiste davvero questo tipo di semi e il risultato è stupefacente. Li regalai la primavera scorsa ad una delle docenti più accogliente e integrante che abbia mai incontrato, e chissà, una delle prossime volte vi racconterò anche cosa stiamo combinando insieme!

Intanto vi vorrei segnalare come nei contesti scolastici e sanitari stia avvertendo folate di demotivazione, disinvestimento emotivo, ansia gestionale, cinismo, finanche disperazione. Dopo anni silenti, descritti soprattutto attraverso termini come flessibilità, liquidità, mobbing, molestie sul lavoro, precarietà, nei contesti lavorativi oggi ricompare il termine burn out.
I giovani non sanno neppure di cosa si tratti ma noi ce lo ricordiamo bene! Una forma di esaurimento o surriscaldamento, legato ad una condizione di stress lavorativo protratto e intenso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo associato anche a demotivazione, trascuratezza degli affetti e delle relazioni sociali, difficoltà di concentrazione, irritabilità, senso di colpa, mancanza di iniziativa, assenteismo. A livello fisico può manifestarsi invece con emicrania, sintomi respiratori, insonnia, inappetenza, disturbi intestinali, senso di debolezza.

Coniato nel 1974 da Freudenberger per indicare una sindrome caratterizzata da un particolare tipo di reazione allo stress; sperimentata dagli operatori sanitari e poi estesa ad altre categorie di “helping profession”, fra cui le professioni sanitarie: medici, psicologi, infermieri, operatori sociosanitari; venne studiato soprattutto negli anni ‘80 e ‘90 (Maslach e Jackson,1981). Poi si capì che riguardava anche tutto il mondo scolastico!

Tra le risorse per fronteggiarlo allora si enumerava soprattutto la formazione e infatti proprio in questi mesi stanno ripartendo mille progetti nelle aziende e non solo. La risorsa principe è sempre stata in realtà far gruppo o squadra, come si diceva negli anni ’90 (Quaglino, Casagrande, Castellano 1992). In sostanza si proponeva di reggere insieme le fatiche, scambiare strategie, creare soluzioni e sviluppare le potenzialità diffuse… ‘con-dividere’ cioè possedere insieme, partecipare insieme, offrire del proprio ad altri.

Azioni, competenze che sicuramente possono giocare un ruolo fondamentale in qualsiasi campo lavorativo, si sa; eppure, anche nella pratica didattica risulta difficile, talvolta, condividere con altri una propria esperienza o un proprio modo di fare. Entrano in gioco le nostre competenze sociali: saper avviare, sostenere e gestire un’interazione di coppia o di gruppo, spontaneamente e con continuità. Ciò che in realtà proponiamo e valutiamo anche nel lavoro con bambini e ragazzi!

Si tratta di competenze naturali ma anche oggetto di apprendimento, dunque, potenziabili attraverso attività che riguardano la percezione di sé, l’ascolto, la rappresentazione sociale, il gruppo. Questo per tendere a diventare un po’ come musicisti jazz che “ascoltandosi reciprocamente e ascoltando sé stessi, sentono in che direzione sta andando la musica e di conseguenza adattano il loro modo di suonare…” (D. A. Schön, 1983), cercano cioè di armonizzare la propria prestazione con gli altri, al fine di contribuire tutti al meglio all’opera che stanno producendo.

Questo, che sembra un atteggiamento quasi magico, è in realtà applicabile in ogni contesto lavorativo. Qualche anno fa ho partecipato ad un progetto[1], che ricordo spesso e a cui sono grata[2] ancora oggi. Un gruppo multiprofessionale nell’area canavese, cui partecipavano educatori, insegnanti della scuola d’infanzia, assistenti sociali, psicologi… Da che mi occupavo di formazione e supervisione, si trattava di una situazione pressoché unica nel suo genere!

Ci siamo conosciuti, abbiamo cercato di costruire un linguaggio comune, abbiamo discusso insieme di situazioni davvero complesse, condividendo tutto il possibile in termini di competenze e sapere, ci siamo sostenuti gli uni gli altri nei momenti più difficili (perdita del lavoro, smembramento di team, cambi di sede…) e sui temi più sfidanti (morte, abuso, dipendenze…). Un’esperienza di comunità scientifica[3] che ho sempre sognato di vivere e respirare.

Poi è arrivata la pandemia e allora ci siamo inventate un sostegno a distanza e abbiamo riflettuto su come stessimo vivendo un periodo così anomalo. Volevamo tornare nel mondo reale per cambiarlo almeno un po’ e far fronte con forza e coraggio ai prevedibili contraccolpi che sarebbero arrivati nel medio e lungo periodo. La speranza di poter eliminare il distanziamento era diventata quasi un’urgenza emotiva e cognitiva. Ma c’era anche il desiderio di reinventare l’essere educatori. C’era la consapevolezza di non voler scendere a compromessi, la fiducia nel cambiamento e la capacità stoica ed organizzata di reagire. Ci siamo salutate prima dell’estate e approfitto di questa sede per ringraziare ancora tutte e tutti!

Pensare a loro mi ha fatto ricordare come il primo gruppo di cui sia occupata veramente sia stato quello dei bambini e ragazzini del mio cortile. Nel turn over tra piccoli e grandi, per un’estate, ero rimasta l’unica un po’ più grande con una masnada variopinta di cuccioli. Ci siamo divertiti un sacco e si sa, anche in una sola estate, siamo cresciuti davvero tanto insieme.

Nella mia vita ho svolto davvero tanti mestieri, frequentato tanti contesti e tanti gruppi, crescendo ogni volta un po’. Il percorso con questo gruppo multiprofessionale del Canavese è stato tutt’altro che banale. Diversissimi ma uniti da un solo centro, i bambini, abbiamo ‘giocato’ insieme a lungo e con passione. E sono cresciuta ancora, perché dagli altri si impara sempre e dai bambini di più! Spero sia stato così anche per loro.

In un periodo storico di individualismo estremo, ho imparato di nuovo che insieme si arriva più lontano e si costruiscono cose nuove, che prima non c’erano. Ho imparato che ascolto a racconto viaggiano sempre insieme, che quando si sbaglia strada si può tornare indietro e ripartire, che è meglio se si fa a turno nel prendere la posizione di guida, che quando si brancola nel buio, ma si è in tanti, ad un certo punto arriva sempre qualcuno con un po’ di luce, con un sorriso, con una speranza, un’idea.

Buon lavoro e buona vita a tutte le farfalle con cui ho volato!

[1] Progetto Cipì – Canavese Insieme per l’Infanzia
[2] Ringrazio in particolare Reginaldo Palermo per avermi messo in contatto con questo prezioso Gruppo di Lavoro
[3] Alcuni di questi brani provengono proprio da quell’esperienza durata alcuni anni.




Conversazione artificiale

di Marco Guastavigna

Ieri ho fatto un’esperienza che mi ha riportato ai vecchi tempi, quando ero un ingenuo smanettone, e mi entusiasmavo di fronte a ogni novità, quale che fosse. Ma questo ritorno a un passato inconsapevolmente complice del Pensiero Pedagogico Unico è stato davvero effimero.

Utilizzando – leggermente controvoglia – Edge, il browser che ha sostituito Internet Explorer, accedendo a Bing e avviando la funzione “Chat”, ho infatti avuto modo di sperimentare la modalità conversazionale del motore di ricerca di Microsoft. Riporto in tabella domande (mie) e risposte (dell’accrocco).

Momenti della conversazione Considerazioni dell’umano sugli interventi dell’accrocco
L’approccio, narcisistico ma in terza persona

(D) Chi è Marco Guastavigna?

(R) Ciao, questo è Bing. Marco Guastavigna è un insegnante di scuola secondaria di secondo grado e formatore123È anche autore di numerose pubblicazioni sulle rappresentazioni grafiche della conoscenza e sull’uso didattico delle tecnologie digitali dell’informazione1Inoltre, è collaboratore a contratto dell’Università degli Studi di Torino2

Altre informazioni:
1. erickson.it2. corsi.tecnicadellascuola.it3. laricerca.loescher.it4. bing.com5. noiosito.it

Tutto vero. Una buona sintesi. E indica le fonti, tra cui il mito sito personale. Scrive perfino “secondaria di secondo grado”. Quasi quasi gli perdono di considerarmi ancora in servizio e non in quiescenza. Devo farlo vedere ai corsisti a cui ho mostrato Chatgpt, perché è diverso.
Il compiaciuto approfondimento culturale

(D) Quali sono le sue pubblicazioni?

(R)  Le sue pubblicazioni riguardano principalmente le mappe e gli schemi come strumenti di apprendimento e di didattica. Alcuni titoli sono: Non solo concettuali. Mappe, schemi, apprendimento1Mappe e schemi per la scuola2Mappe e schemi per il lavoro2Puoi trovare i suoi libri in vendita online su vari siti2.

Altre informazioni:
1. loescher.it2. ibs.it3. noiosito.it

 

 

Vediamo un po’ quali libri o articoli propone.

 

 

Principalmente… è abbastanza vero, anche se ho scritto su molti altri temi. Certo, i miei libri sono soprattutto su quello. Però con i titoli non ci siamo!

Il disvelamento, lo choc e la rinuncia

(D) Sono io Marco Guastavigna. Non ho mai scritto “Mappe e schemi per il lavoro”.
(R) Mi dispiace ma preferisco non continuare questa conversazione. Sto ancora imparando quindi apprezzo la tua comprensione e pazienza.🙏

Glielo dico, così impara, magari.

Offesa algoritmica? Frustrazione procedurale? Certamente la necessità di non perdere troppo in termini di immagine e di marketing.

Forse è ora di passare a un nuovo argomento.
Ricominciamo da capo

 




L’insegnante è come un regista, gli alunni sono gli attori

di Raimondo Giunta

Non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche ,ma ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema non è quale pratica adottare, ma quali apprendimenti si devono conseguire e misurare su questi la pertinenza dei mezzi e delle procedure usati, tenendo presente che una pratica non può essere separata dalle intenzioni che l’animano e dal modo in cui viene messa in atto.

Ogni apprendimento impegna l’attività intellettuale di colui che apprende e ne porta il segno; ogni conoscenza è legata al contesto sociale e culturale in cui scaturisce e nei luoghi di formazione il protagonismo dei discenti e le pratiche sociali di cui è quotidianamente partecipe non possono essere trascurate.

L’alunno deve sentire come scoperta personale il possesso del sapere e “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
E’ indispensabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento sul modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra.

“Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).
Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problemi, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta un radicale cambiamento dell’insegnamento.

E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).

Per raggiungere questo risultato una buona scuola deve dare spazio alla negoziazione, al dialogo, alla riflessione perché in questo modo l’alunno può crescere bene e trovare fiducia nelle sue forze.

Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione” delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.

Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.

Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.

Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante ,risorse di apprendimento per i propri pari

L’insegnante favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.

E’ presenza fondamentale nei momenti preliminari, e soprattutto durante l’attività didattica. E’ un ruolo di guida ,ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche. Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità. Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere.

Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca.
Deve far vedere che ha in sé il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.

 




C’era una volta il direttore didattico

di Nicola Puttilli

In una dichiarazione rilasciata qualche tempo fa al Corriere delle Sera sul previsto ulteriore taglio di autonomie scolastiche disposto dall’ultima legge di bilancio, il presidente di ANP Antonello Giannelli sottolinea il rischio di ingestibilità amministrativa degli istituti sovradimensionati. Giannelli ha ragione da vendere, anche in considerazione della condizione di perenne emergenza in cui da troppo tempo versano gli uffici amministrativi delle scuole fra carenze, precarietà e inadeguata formazione del personale. Mi ha tuttavia colpito l’assenza di argomentazioni circa la “gestibilità” didattica di tali strutture peraltro comprendenti, come nel caso degli istituti comprensivi, diversi ordini di scuole. Sarà che ho trascorso poco più di una decina di anni nel ruolo di dirigente scolastico mentre una ventina circa in quello di direttore didattico, ma sempre mi ha guidato la convinzione che una buona amministrazione e organizzazione non avessero altra finalità se non l’innalzamento della qualità del progetto formativo e della didattica.

ll passaggio alla dirigenza scolastica è stata una logica conseguenza dell’attribuzione dell’autonomia. Non che prima ci fossero sostanziali differenze fra il ruolo di preside e di direttore didattico, entrambi inquadrati nel IX livello del contratto di lavoro dividevano analoghe condizioni retributive e di stato giuridico, mentre diverse erano, di fatto, le modalità di reclutamento: sempre attraverso regolare concorso, molto selettivo, nel caso dei direttori didattici, spesso con concorso riservato, decisamente più abbordabile, nel caso dei presidi. Diversa, inoltre, la formazione di provenienza: quasi sempre laurea di natura disciplinare per i presidi, non sempre, ma molto spesso, laurea in pedagogia per i direttori didattici, provenienti dall’istituto magistrale, dove un po’ di pedagogia e di psicologia l’avevano pur masticata, e dalla facoltà di magistero.

A Torino, dove ho sempre lavorato, c’era una grande tradizione associativa dei direttori didattici attiva già dal dopoguerra, raccoglieva una massiccia partecipazione e nei primi anni ’80 diede vita alla “Conferenza dei direttori didattici”, riconosciuta con atto formale e autorizzata a riunirsi in orario di servizio dall’allora provveditore agli studi. Nulla di simile esisteva per i presidi.

L’attenzione per i temi pedagogici e didattici era molto alta tra i direttori didattici e nel confronto interno alla  loro associazione (successivamente e quasi per intero confluita nell’ANDIS), ampiamente prevalenti rispetto a quelli più propriamente gestionali e amministrativi.

L’avvento dell’autonomia e della dirigenza, nonchè la formazione comune di 300 ore tra direttori didattici e presidi che l’hanno accompagnata, ha comportato, com’era logico che fosse, un radicale cambiamento di prospettiva. Per quanto il nuovo assetto normativo non prevedesse in alcun modo una diminuzione delle competenze e delle responsabilità del nuovo dirigente scolastico in campo pedagogico e didattico, l’enfasi si è di fatto spostata, quasi inconsapevolmente,  sugli aspetti gestionali e organizzativi con preciso riferimento, rispetto alla specificità del ruolo, alle teorie sul management allora prevalenti. Non è un caso, del resto, se in Piemonte, rispetto alle 300 ore di formazione, la scelta era limitata a due agenzie formative: ISVOR, che faceva capo alla FIAT ed ELEA agenzia formativa di Olivetti. Le teorie di riferimento erano ovviamente quelle più recenti di derivazione anglosassone che, rispetto al settore pubblico, istruzione compresa, si ispiravano prevalentemente al modello allora definito del “quasi privato”.

Certo esigenze di svecchiamento non erano più rinviabili. Come ci spiegava Enrico Autieri, direttore di ISVOR, si trattava di passare da un modello burocratico-artigianale, da sempre imperante nella nostra pubblica amministrazione, a un modello a gestione professionale, di chiara derivazione aziendale, fondato su variabili di progetto: pianificazione, problem solving, misurazione, rendicontazione.

La strada era segnata ma forse sarebbe stato necessario modularla fin da subito secondo le esigenze prioritarie della nostra scuola: innalzamento qualitativo dei processi di insegnamento/apprendimento, superamento delle ineguaglianze e della dispersione scolastica, inclusione e benessere psicofisico degli studenti. Da subito doveva essere chiarito il nesso fra qualità dell’organizzazione e fini istituzionali, da questo e per questo era nata fondamentalmente l’autonomia scolastica. L’enfasi sugli aspetti organizzativi e “manageriali” ha fatto invece premio, nella percezione del ruolo del dirigente scolastico in particolare, su quelli più strettamente pedagogici e didattici. Credo che anche a tale distorsione si debba il sovradimensionamento, nelle regioni del nord principalmente, di molte istituzioni scolastiche che arrivano a contare più di 2000 studenti senza, peraltro, che siano state create le condizioni normative e organizzative per gestire situazioni di tale complessità (middle management, leadership diffusa, ecc.).

Ricordo ancora le difficoltà che incontrai, da parte delle insegnanti della scuola dell’infanzia, quando decisi di unificare il loro collegio dei docenti con quello della scuola elementare. Nei collegi della scuola dell’infanzia si ponevano in discussione tutti gli aspetti della vita scolastica, compresi quelli apparentemente più irrilevanti: cosa fare con i bambini che non volevano dormire al pomeriggio, le problematiche presentate dalla mensa o dai momenti di gioco, le dinamiche relazionali tra i bambini ecc., tutti quegli elementi di attenzione e di cura così cari, mi  piace citarla, all’amica Cinzia Mion.  Avevano ragione le maestre della scuola dell’infanzia, nel collegio unificato di queste cose non si è più parlato, né si sono trovati altri spazi per poterlo fare, figurarsi in istituti comprensivi con 1800 alunni e tre ordini di scuola.

E’ ovvio che non si sta auspicando un ritorno agli anni ’90, ma ad oltre vent’anni dall’istituzione dell’autonomia e della dirigenza scolastica sarebbero maturi i tempi per una rinnovata riflessione. Anche la ricerca di una giusta dimensione per le istituzioni scolastiche (da 700 a non oltre, tassativamente, 1200 alunni?) e una struttura organizzativa (middle management adeguatamente riconosciuto e formato?) idonea a presidiare gli spazi non solo amministrativi e gestionali ma anche più propriamente psicopedagogici e relazionali, potrebbero aiutare non poco a far ritrovare senso ed equilibrio ad organizzazioni fin troppo complesse e a un ruolo ormai reso indistinto e pletorico come quello del dirigente scolastico.

Anche nel linguaggio comune non si sente più parlare di direttore didattico, poco usata anche la corretta definizione di dirigente scolastico, evidentemente troppo fredda e burocratica, è rimasto il preside a rappresentare tutti. In una delle sue ultime riflessioni un altro caro amico, Giancarlo Cerini, così si esprimeva, con la consueta lucidità: “Si ha spesso l’impressione che la nuova generazione di dirigenti scolastici sia troppo preoccupata delle correttezza delle procedure formali e molto meno della guida di una comunità educativa”. Cinzia e Giancarlo, non a caso due direttori didattici.




Figli rubati

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

Lavorando nelle scuole, mi è successo frequentemente di raccogliere i vissuti di impotenza di insegnanti ed operatori sociali rispetto alla tendenza di molti genitori a sottrarsi al proprio ruolo educativo, ludico ed affettivo. Ho avuto anche occasione, purtroppo, di confrontarmi con situazioni di ridotte o quasi assenti competenze genitoriali. Intendo quelle funzioni che secondo la metanalisi di Visentini (2006) sono otto: protettiva, affettiva, regolativa genitoriale, normativa, predittiva, significante, rappresentativa e comunicativa, triadica. Oggi le si può valutare in modo obiettivo (con test psicologici, colloqui clinici, osservazioni comportamentali, raccolta di informazioni) su mandato dell’autorità giudiziaria (M. Nicastro, G.B. Camerini) e i risultati sono a volte molto netti, possiamo dire dolorosi. Questo è sicuramente un problema di estrema complessità epistemologica e di altrettanto complessa risoluzione.

In questa sede però vorrei dar luce a situazioni diverse, meno evidenti, potremmo dire opposte, ma altrettanto significative per la ricaduta sui bambini e i ragazzi.

Uno degli apprendimenti più importanti fatti in questi anni di lavoro negli Sportelli d’Ascolto, riguarda l’importanza del ruolo delle famiglie all’interno del percorso di counseling, come pure nelle prese in carico degli adolescenti (Lancini 2020). Inizialmente si riteneva che lo spazio d’ascolto dovesse essere riservato soprattutto ai docenti ed ai ragazzi ma gradualmente ci si è accorti che qualcosa non stava funzionando…senza la collaborazione dei genitori veniva a mancare la continuità nel progetto educativo pensato per i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze.

Iniziammo a coinvolgerli con alcune conferenze sui temi dell’età evolutiva e gradualmente cominciammo a restituire l’esito delle nostre osservazioni, e dei dialoghi con gli insegnanti, anche ai genitori. Per qualche strana credenza inizialmente ci rivolgemmo soprattutto alle mamme, lasciandoci convincere del fatto che i papà non potessero essere presenti ai colloqui o addirittura non ne fossero assolutamente interessati. Fu proprio a causa delle situazioni più intricate e apparentemente senza via d’uscita, che decidemmo di tentare invece con quest’ultima opportunità e ci imbattemmo in una piacevolissima scoperta. Ai papà interessava, e non poco, delle difficoltà dei propri bambini e spesso disponevano anche di informazioni utili nella ricerca di strategie e soluzioni. Come ricorda Daniel Stern (2000) il padre, infatti, non è semplicemente la luce che illumina la diade madre-bambino ma è, assieme a loro, l’essenza di un quadro in cui ogni singola parte ha senso solo in relazione alle altre.

Quello fu uno dei casi in cui mi accorsi che troppo di frequente bambini, bambine, ragazzi e ragazze venivano ‘rubati’ in qualche modo ai propri genitori. Vi potrà sembrare un’espressione eccessiva ma credo in realtà possa esprimere una qual consuetudine a sottrare i piccoli alla relazione educativa ed affettiva con uno dei propri genitori o adulti di riferimento. Questo rischio ovviamente si amplificava nelle circostanze che potevano venire a crearsi a seguito delle separazioni, soprattutto quelle conflittuali.

Un altro caso analogo riguarda l’intrusione dei nonni nello spazio educativo che spetterebbe invece ai genitori. In diverse occasioni, proprio a partire da quelle conferenze, che si trasformarono in incontri di gruppo tra genitori, partecipai a racconti di incongruenze educative anche molto nette in comportamenti e atteggiamenti di genitori e nonni. Incontrai la fragilità di tanti genitori, soprattutto mamme separate, pressati dalle aspettative delle famiglie d’origine sulla crescita dei nipoti. Si trattava di genitori più o meno giovani, soggetti a costanti giudizi svalutanti, paternali circa le proprie dubbie capacità di guidare con polso i propri bambini, o di gestire l’articolazione tempo lavorativo e tempo familiare, sino alle scelte delle compagnie e dei percorsi scolastici. Sembrava difficile trasmettere loro la necessità di assegnare un termine, una scadenza ai mandati educativi dei nonni a favore di quelli genitoriali.

Non si tratta, in questi casi, di disconoscere il valore sociale, familiare, affettivo ed anche educativo dei nonni, segnalato tra l’altro in modo inequivocabile, oggi, dalla quantità e qualità di tatuaggi, ad essi dedicati, presenti sui corpi di adolescenti e giovani. Si tratta di collocarli proprio nella giusta proporzione e posizione nella gamma dei ruoli e delle figure cui i piccoli fanno riferimento per definire il loro progetto futuro. Ad ognuno il proprio posto. Riappropriarsi, o appropriarsi per la prima volta, del proprio posto di guida accanto a bambini e ragazzi richiede fiducia nelle proprie capacità e risorse. In questo possono avere un ruolo davvero significativo insegnanti e educatori, andando a svolgere un reale sostegno alla genitorialità, scambiando strategie e informazioni per sostenere la gestione prima di nanna, pappa, pianto, rabbia, ansia…poi per potenziare la capacità di ascolto dei bisogni, di sostegno dell’autonomia e dell’assunzione graduale di responsabilità in modo autorevole. Merita infatti ricordare che i bambini di genitori autorevoli sono i più capaci, poiché i genitori stabiliscono con loro un buon equilibrio tra controllo e autonomia, sono fiduciosi delle possibilità del proprio figlio, tendono a far sviluppare la loro indipendenza. In questi giorni nel racconto di una mamma, dopo tanta rabbia, ho finalmente trovato la volontà di voler ascoltare il proprio figlio adolescente fortemente in crisi, di volerlo sostenere e proteggere, persino dagli attacchi dei nonni aggrappati ancora all’idea di dover raddrizzare l’albero finché è piccolo, perché più cresce storto, più sarà difficile farlo dopo.

Nello slancio confuso d’essere d’aiuto, a volte con un po’ di avidità verso rapporti non vissuti in gioventù con i propri figli e magari con un sotterraneo desiderio di rimediare e riparare, questi nonni non si erano accorti di aver sconfinato.




E’ il momento di dire Basta alle armi! Promuoviamo cultura di pace

di Roberto Lovattini
(maestro Mce – Piacenza)

Penso alle tante persone che abbiamo visto più volte nelle immagini televisive e che sopravvivono in Ucraina al freddo senza luce, gas e con difficoltà a reperire cibo, con l’incubo di morire sotto le bombe o subire le violenze di un esercito invasore. Nessuna giustificazione per Putin: l’esercito russo se ne deve andare e queste scene non dovrebbero più accadere in nessuna parte del mondo.

Nemmeno nel Donbass.
Anche i civili del Donbass dal 2014 hanno a loro volta subito violenze e uccisioni da parte dei sostenitori dell’una e dell’altra parte. Esisteva l’ accordo di Minsk che sappiamo essere stato violato da ambo le parti e questo ha portato all’uccisione di tanti civili. Ricordate La Casa dei lavoratori a Odessa dove bruciarono vive 50 persone e fu impedito ai soccorritori di aiutare chi voleva salvarsi?
Come non ricordare che Zelenski voleva e vuole a tutti i costi entrare nella Nato, ben sapendo che questo per i russi costituisce un pericolo per la loro sicurezza. Ricordate cosa successe nel 1960 quando i russi volevano stabilire delle basi a Cuba? Si rischiò un conflitto armato.
Basta spingere l’acceleratore sulla guerra continuando ad inviare armi. Qui non è in gioco la difesa dell’Ucraina, ma la continuazione della guerra sino alla vittoria finale. Fino all’ultimo uomo, come dice Zelenski!

Qual è il modo migliore per proteggere la popolazione civile e garantire la Pace a tutti i soggetti coinvolti?

Ritengo che attualmente ci siano diversi scenari possibili con cui possa terminare la guerra.
Cessare il fuoco e intavolare una trattativa mettendo sul tavolo tutte le questioni. Sapendo che questo costringerebbe tutte le parti in causa a fare un passo indietro, ma aprendo prospettive migliori per tutti in futuro.
La Russia cede spinta da una rivolta interna, anche se al momento non se ne avvertono le possibilità. Le conseguenze sono difficilmente immaginabili e aprirebbero altri scenari non migliori per la popolazione.
Nel caso che la Russia fosse costretta al ritiro, Putin potrebbe utilizzare l’arma nucleare con conseguenze devastanti e mortali per il mondo intero.
La soluzione migliore è la prima. Nessuna guerra risolve i problemi per cui è stata combattuta, ma crea le condizioni per altre guerre. Produce odio e desiderio di vendetta che permangono per tempi lunghi e, nel caso attuale, potrebbe far terminare la vita sul pianeta.
Infatti la differenza rispetto al passato è che oggi premendo un bottone possiamo portare la morte in tutto il mondo e ridurre l’umanità in cenere.

E’ giusto aiutare l’Ucraina, come tutti i popoli che in questo momento soffrono, ma senza sacrificare, inutilmente, la vita di milioni di persone.
Per questo dobbiamo spingere, attraverso mobilitazioni partecipate, affinché i Governi Europei cambino indirizzo e si impegnino per una trattativa seria. Se vogliamo la Pace dobbiamo lavorare per la Pace. E dobbiamo farlo rimanendo uniti con tutti coloro che sono convinti della necessità assoluta di deporre le armi e di avviare trattative.
Dobbiamo chiarirci qual è l’obiettivo che vogliamo perseguire. Vogliamo cercare di fermare la guerra oppure rimanere ciascuno nel proprio ”territorio” e non mischiarci a chi, pur avendo alcune idee diverse dalle nostre, è contro la guerra? Cerchiamo delle soddisfazioni personali? O di gruppo (religioso, politico, ecc…)? Sociale ed economico (classe, nazione, ec..)? Oppure preferiamo trovare una soluzione di Pace che ci consenta di vivere ed eventualmente di dibattere poi su quanto ci differenzia? Sono assolutamente contrario all’invio di armi all’Ucraina e sono per il disarmo generalizzato, ma oggi il tema è di riuscire a fermare la guerra e quindi di tenere insieme che vuole giungere alla Pace attraverso negoziati veri, seri e condivisi.

Sono importanti azioni di disobbedienza di poche persone, ma anche le esperienze come quella di Gragnano in provincia di Piacenza, dove tutta la comunità locale è scesa in piazza per affermare che bisogna dire No alla guerra e dare la parola alla diplomazia. Comune, Parrocchia, scuola, negozianti e popolazione sono scesi in strada per manifestare queste idee. Certo da soli non fermeranno la guerra, ma se tanti Comuni dessero dimostrazione di una simile volontà le cose potrebbero cambiare almeno nelle decisioni del nostro Governo. E potrebbe cambiare anche l’atteggiamento del nostro Governo verso i migranti, se ci fossero più comunità come quella di Steccato di Cutro che mostra solidarietà e umanità verso i superstiti del recente naufragio.
Ma la promozione di una cultura di pace, alternativa all’individualismo sfrenato attuale è un tema che dovrebbe interessare a tanti. Tutti dobbiamo essere cercatori e promotori di Pace se vogliamo cambiare le cose. Chi si disinteressa della pace crea le condizioni perché le guerre continuino ad uccidere persone ma anche soffocare l’idea stessa di un futuro migliore. Sta a noi scegliere!