Un’educazione nuova per il XXI secolo?

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Enrico Bottero

Gli educatori della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, riuniti in Congresso a Nizza nel1932, redassero una Carta che iniziava con queste parole: “L’attuale crisi impone a tutto il mondo di concentrare gli sforzi nella direzione di una rinnovata educazione. In vent’anni l’educazione potrebbe trasformare la società e infondere uno spirito di cooperazione capace di trovare soluzioni ai problemi del nostro tempo. Nessuno sforzo nazionale è sufficiente per raggiungere questo risultato.
La Lega Internazionale per l’Educazione Nuova rivolge un appello urgente ai genitori, agli educatori, agli amministratori e agli operatori sociali affinché si uniscano in un vasto movimento universale. Solo un’educazione che realizzi in tutte le sue attività un cambiamento di atteggiamento nei confronti dei ragazzi può inaugura-re un’epoca liberata dalla rovinosa competizione, dai pregiudizi, dalle preoccupazioni e dalle miserie che caratterizzano la nostra civiltà attuale, caotica e insicura”.
Quegli educatori, pur molto diversi tra loro, credevano che solo una nuova educazione avrebbe potuto formare cittadini aperti al mondo, tolleranti e solidali, evitando così nuovi sanguinosi conflitti.
Avevano una forte visione provvidenziale, poi, purtroppo, smentita dagli eventi successivi. Oggi, dopo quasi un secolo, abbiamo meno certezze sulla possibilità di cambiare il mondo grazie all’educazione e tuttavia quelle parole ci interrogano ancora.

Questo articolo è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Encyclopaideia.
Lo si può leggere integralmente cliccando qui.




Lettera aperta alla maestra “dell’Ave Maria in classe”

di Cinzia Mion

Cara Marisa Francescangeli, maestra della scuola primaria di San Vero Milis (Oristano), mi chiamo Cinzia Mion e mi permetto, da anziana Dirigente scolastica in pensione , di inviarle una lettera aperta per spiegarle alcune “cosette” che evidentemente lei ignora.
Lo si capisce dalle notizie di stampa, comprese le varie interviste da lei rilasciate a destra e a manca. Cosette che lei ignora pur avendo il dovere di conoscerle in quanto ricopre un posto importante all’interno dell’Istituzione Scuola.
Posso perdonare che i diversi “salvini” di turno non ne siano a conoscenza: lo Stato non affida loro la formazione iniziale dei piccoli cittadini italiani in crescita, come viene fatto invece nei suoi confronti.
Ma lei no. Lei le deve conoscere e tenere presenti.

L’aria garrula e superficiale, invece, con cui le affronta non solo mi fa capire che non ne è a conoscenza (ha superato un esame di concorso per ricoprire il posto assegnato?) ma mi fa anche capire che sta prendendo sottogamba quello che lei crede di valorizzare sia pur minimizzandolo, perché si stupisce della sanzione ricevuta. Lasciamo perdere il problema della correttezza giuridico-amministrativa della sanzione stessa (su questo aspetto, sui social, sono intervenuti anche rappresentanti dell’Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici ).
Mi riferisco alle conseguenze della revisione del Concordato (1985) e al fatto che da allora nella scuola ha diritto di cittadinanza la “cultura” religiosa ma non al contrario gli atti di “culto”.


Questi ultimi sono: il segno della croce, le preghiere prima delle lezioni, (o addirittura durante come ha fatto lei) le benedizioni a Natale o a Pasqua o comunque durante le cerimonie civili, le messe durante l’orario scolastico, le cosiddette visite pastorali, ecc. “Unzioni” varie come sembra aver fatto lei non sono nemmeno contemplate tanto sono anacronistiche e direi onestamente strambe, non essendo lei deputata a somministrare olii più o meno santi….
La preghiera, è stato chiaramente spiegato, poteva essere analizzata, verso per verso, ma non recitata ma anche questo con l’insegnante di religione o durante le ore ad essa deputate. Se recitata, infatti, automaticamente diventa un atto di culto.
Da notare comunque che anche durante la lezione facoltativa di religione cattolica (quindi in presenza di alunni che hanno scelto tutti di frequentare questa attività) valgono le stesse regole!
Ma veniamo ora all’aspetto che più mi interessa perché mi pare che finora nessuno l’abbia rilevato, nemmeno chi si sbraccia a difenderla.
Mi riferisco all’aria scanzonata con cui si vanta di far recitare le preghiere così, come si recita una poesia o una filastrocca a memoria. Ma non si rende conto che è lei a “desacralizzare” le preghiere, togliendo loro con disinvoltura l’aspetto che le rende pregnanti : il Sacro e il Simbolico?
E per di più se lo fa ricordare da una persona non credente ma che ha sempre rispettato questi valori tanto da scandalizzarsi nel notare la leggerezza con cui lei affronta queste tematiche.
Mi fa tornare in mente quella volta che in Umbria una docente di religione valdese ha fatto ricorso al Tar per mancanza di rispetto del dettato del Nuovo Concordato, da parte delle autorità religiose cattoliche. Era stata infatti impartita una benedizione religiosa durante l’orario scolastico, che la dirigente scolastica aveva permesso, facendosi scudo di una semplice “noterella “(invalidata poi dal Tar Emilia Romagna, Sentenza 250/1993) del ministro di turno che affermava che, se il Consiglio di Istituto era d’accordo, si sarebbe potuto fare, e il TAR dell’Umbria ha dato ragione al Vescovo affermando che : udite udite “ Le benedizioni durano poco e non lasciano tracce!!!”. Ha pensato anche lei così come il Tar dell’Umbria di quel tempo (sentenza 677/2005!)?
Quello che mi ha fatto rabbrividire allora non è stato tanto il giudice amministrativo, chiaramente ammanigliato, ma il Vescovo che pur di averla vinta ha accettato che si calpestasse , dal suo punto di vista, la sacralità del RITO e il significato SIMBOLICO della religione. Se a quest’ultima togli il rito e il simbolo, cosa resta? Lo spauracchio sulla povera gente.
Ricordiamoci chi parlava dell’”Oppio dei popoli”…




La personalizzazione dell’Istruzione alle porte. Centomila tutor in arrivo: parola di ministro (wow!)

di Aristarco Ammazzacaffè

Signor Ministro le scrivo, così mi distraggo un po’.
Scriverle dopo aver letto i suoi comunicati mette sempre allegria e speranza. L’ultimo in ordine di tempo, quello sulla “grande rivoluzione del merito” (sic) è particolarmente esaltante perché fa riferimento alla ‘prima pietra’ che finalmente è stata posta per una prospettiva decisamente strategica. Volendo.
Ora io non so se le rivoluzioni si costruiscono con le pietre.
Le voglio credere. Per ora ci basta – e avanza anche – il suo comunicato sullo schema di decreto, che – lo richiamo per chi non fosse informato – prevede cose addirittura – “l’istituzione di due figure professionali: il docente tutor e il docente orientatore”.
La prima, tesa a “sviluppare la personalizzazione dell’istruzione nelle Scuole secondarie di II grado” (nientemeno!); la seconda, “a concretizzare l’attività di orientamento” (era ora!).
E sul piatto, un primo stanziamento di 150 milioni di euro nel 2023. Per dire che ora si fa sul serio.

Su tutto questo sfolgorio impressionante, mi permette, signor Ministro, due considerazioni?
La prima è di assoluto apprezzamento, che sfiora la meraviglia, per tale sua impresa. Tanto che mi sono chiesto: – Ma come fa il signor ministro a connettere organicamente: merito, personalizzazione dell’insegnamento (attraverso la figura del tutor), orientamento degli studenti, come progetto istituzionale (attraverso la figura dell’orientatore)? E ancora: valorizzazione dei talenti e, soprattutto, ‘competizione’: parola ormai chiave del Programma 2023 per la valorizzazione delle eccellenze; e, soprattutto, modus operandi canonico per il riconoscimento del merito (Avviso M.I.M. del 25.01.’23, n. 2437).

E c’è anche la ciliegina della lotta alle diseguaglianze, come prezioso specchietto per le allodole (volatili da lei molto amati, come sembra riportino le sue biografie).
Tanto che mi chiedo spesso: ma quali meriti particolari ha la nostra scuola e il nostro Paese per meritare un ministro così? Boh!
Perciò, non si dia pena per quanti le rimproverano che nel suo vocabolario sono assenti parole come cooperazione, apprendere insieme, leadership diffusa, comunità professionale, pratiche condivise, lavoro di squadra, coordinamento organizzativo… Diffidi di chi gliene parla. Si tratta di finti innovatori che sappiamo bene chi sono e cosa vogliono.
Certamente non sono dei nostri, ci può giurare.
La seconda considerazione è invece un po’ più critica, ma è comunque tale da non togliere niente ai riconoscimenti precedenti. E riguarda il cuore del suo schema di decreto; cioè l’istituzione delle due figure professionali sopra richiamate.
Al riguardo, se me lo permette, sarebbe bene esplicitare meglio la nozione di ‘personalizzazione dell’istruzione’. È comunque certamente ottima la “direzione” che lei ha in mente: quella “di una scuola che faccia emergere i talenti di ogni studente, innescando un percorso virtuoso”. (Commuove, signor ministro, questo suo attaccamento ai talenti. La capisco: ogni umano ha le sue fisime; è lei signor ministro è chiaramente un umano). Molto importante e comunque democratica la finalità che lei esplicita: superare “le difficoltà, frutto di diseguaglianze di natura sociale e favorire le scelte consapevoli per il percorso di studi e di lavoro”.
Chiaramente ci propone, con questa lapidaria affermazione una scuola, che più che istruire, si preoccupi, come è giusto che sia, di fare emergere i talenti e, così facendo, di liberarci finalmente da tutti i problemi legati all’insuccesso scolastico. Che non se ne può più. E sono d’accordo.

È la liberazione da questa tara – la scuola che produce insuccessi e dispersione – che lei ha in mente quando parla di istruzione personalizzata? Siamo sicuri di sì.
L’impianto strategico previsto dallo schema di decreto però, mi permetta di dirle, non sembra essere all’altezza della ‘direzione’ che lei lodevolmente indica.
Occorrerebbe chiarire bene la questione e farcela sapere per tempo.
Intuiamo che con la partita dell’istruzione personalizzata lei vuole passare alla storia. E che lei giustamente ci tiene e se lo merita. Perciò, prima ce lo fa sapere e prima possiamo, al riguardo, fare anche noi la nostra parte. Perché, anche noi crediamo profondamente agli inneschi di percorsi virtuosi quando si fanno emergere i talenti (dirlo meglio non si poteva!). E questo va ribadito. Qualunque cosa significhi. Ci mancherebbe!
Perciò sul piano operativo vorremmo essere rassicurati un po’ di più sulle scelte strategiche che lei propone; a partire dalla istituzione delle figure del tutor e dell’orientatore, che lei tende giustamente a rendere funzionali al suo disegno complessivo.
In particolare, appare importante l’aver precisato il compito del tutor. Che lei chiarisce, da par suo, essere quello di “coordinare e sviluppare le attività didattiche a favore di una personalizzazione dell’istruzione” e di “predisporre percorsi personalizzati, d’intesa coi colleghi”. (dalla sua intervista al Corriere della Sera del 30 marzo).
Quindi si tratterebbe, se l’interpretazione è corretta, di interventi individualizzati (più che personalizzati, mi sembra) – definiti cioè in base alle caratteristiche degli studenti (tipo di intelligenza, ritmi e modalità di apprendimento, bisogni formativi in base alle loro specifiche situazioni sociali o a percorsi scolastici inadeguati, attitudini personali, eccetera) – che sarebbero a carico dei docenti coordinati dal tutor.
Supponendo d’aver capito – come pura ipotesi di partenza –, penso che bisognerebbe però, signor Ministro, chiarire quali siano questi insegnanti da coordinare: colleghi sorteggiati a caso? affini culturalmente? amici per la pelle? colleghi fastidiosi da riportare sulla retta via? E quanti poi per ciascun tutor? C’è qualche numero che gira in giro? Sappiamo che questi numeri lei li ha. Ma che non può comunicarceli per un qualche riserbo istituzionale. Se è così, ce lo dica, per favore. Noi capiamo, ci mancherebbe.
Però vorrei rispettosamente suggerirle che questi insegnanti potrebbero ben essere i colleghi dei Consigli di classe o dei dipartimenti o di appositi gruppi di lavoro della scuola. Non le pare?
In questo caso però i tutor come si configurerebbero? E, soprattutto, cosa diventerebbero gli Organismi collegiali dei docenti?
Mi creda, signor ministro, qui si prospetta un vero ginepraio. Da non raccapezzarsi. Tanto che a furia di pensarci mi sono detto: – Ma è mai possibile che nessuno dei suoi collaboratori al Ministero gli abbia detto che la didattica individualizzata – non individuale, che è tutt’altra cosa, come lei ben sa – occupa da tempo, nel dibattito di chi si interessa di cose scolastiche, un posto importante; e che è convinzione unanimemente condivisa che le competenze che essa richiede dovrebbero far parte del bagaglio professionale di ogni buon insegnante? E che lo stesso discorso, con qualche variante, vale per la didattica orientativa?
Questo per dire appunto che, con la didattica individualizzata, il tutor soprattutto non c’entra un benemerito fico secco. Se non è così, basta che ce lo dica.
Dovrebbe comunque conservare tutto il suo valore la funzione di coordinamento delle varie articolazioni del Collegio – implicitamente, e con lodevole acume, da lei richiamata -, da assicurare attraverso l’istituzione di figure preparate e competenti e contrattualmente riconosciute.
Purtroppo, nonostante la sua palese e apprezzabile buona volontà di fare qualcosa di innovativo, va però detto che la proposta del suo schema di decreto, a volerla guardare un po’ meglio nelle strategie che prevede, appare, allo stato attuale – se lo lasci dire, ma sempre con rispetto – abbastanza ingarbugliata e piuttosto deboluccia; e soprattutto discretamente pasticciata. Se me lo consente, aggiungerei: senza capo né coda. Del tutto.
Secondo me, deve avergliela suggerita qualche agente segreto dell’opposizione, nascosto nel suo entourage: certamente di sinistra (e lei sa bene che gente è), per far fare brutta figura a lei e all’intero governo; e soprattutto alla Presidente in persona: e questa cosa per me è decisamente intollerabile.
Però, signor ministro, faccia attenzione. Si informi bene prima della prossima mossa e lo faccia in prima persona. Certamente troverà gente esperta e di fiducia che le spiegherà bene il tranello in cui è cascato – anche lei a sua insaputa -; e probabilmente anche come uscirne.
C’è tanta brava gente anche nel suo entourage, basta solo trovarla.




Nuove figure docenti e circo Barnum

di Mario Maviglia

Dopo l’introduzione del docente tutor, sono previste altre rilevanti figure di insegnanti che animeranno la vita scolastica e daranno nuova linfa alla didattica. Siamo in grado di anticiparvi quali saranno queste nuove figure:

  • Insegnante counselor: sarà incaricato di dispensare consigli non richiesti ai colleghi su vari aspetti della vita scolastica e professionale. Al momento sembra non sia prevista la possibilità di offrire consigli anche sulla vita privata e intima dei docenti, ma non è escluso che ciò non possa avvenire in futuro anche in relazione ai risultati che verranno conseguiti nella fase di implementazione di questa figura.
  • Insegnante coach: come dice il nome, questo docente sarà chiamato a rimettere insieme i cocci delle scuole in quelle situazioni particolarmente degradate e disagiate e destinate allo sgretolamento se non vi è un adeguato intervento professionale. Il coach condurrà i colleghi verso le nuove frontiere della didattica rinsaldando i legami tra i docenti e facendo scoprire loro il valore della collaborazione e, in prospettiva, dell’amore universale come collante per la comunità educante. Sarà richiesto, come titolo indispensabile, la patente B.
  • Insegnante supporter: questa figura appare particolarmente importante in questo momento storico caratterizzato dalla visibilità e dalla popolarità. E in effetti il docente supporter ha il compito di andare in giro per il territorio per far conoscere la scuola e attirare nuovi clienti. Ogni scuola deciderà le forme più adeguate per raggiungere lo scopo, ma viene suggerito di non trascurare il contatto vis-à-vis (incontri porta a porta, volantinaggio davanti ai supermercati, omino sandwich, organizzazione di aperitivi di conoscenza ecc.).
  • Insegnante SE (Social Entertainer): ha lo specifico compito di tirar su il morale dei colleghi, facendoli divertire e proponendo un approccio positivo alla vita. Utilizza strategie di vario tipo: si veste da pagliaccio, racconta barzellette, fa giochi di prestigio. Questa figura risulta particolarmente importante in alcuni momenti rituali della scuola: prima di ogni Collegio Docenti, dopo i colloqui con i genitori, dopo l’incontro con i colleghi di dipartimento, tutte occasioni in cui il docente SE deve dimostrare tutta la sua perizia di intrattenitore ameno.
  • Insegnante per l’empowerment: si occupa di far esplodere le potenzialità dei colleghi fornendo loro suggestioni e illusioni circa la loro incontestabile importanza e bravura. Viene assegnato alle scuole poste nelle aree più depresse del Paese. Non agisce nei confronti dei docenti troppo grassi sennò l’esplosione di cui sopra potrebbe causare danni fisici. Titolo preferenziale per ricoprire l’incarico: laurea in ingegneria termonucleare o esperienza maturata nel campo dei cavalli fiscali.
  • Insegnante per l’IP (Inner Peace): l’obiettivo della pace interiore appare quanto mai necessario in quest’epoca convulsa e stressante. Il docente IP supporta i colleghi a trovare un giusto equilibrio interiore in modo che essi possano fondersi con l’armonia universale. Particolare cautela userà con i colleghi un po’ anziani affinché la pace interiore non diventi definitiva.
  • Insegnante MiI (Made in Italy): è incaricato di convertire tutta la strumentazione didattica, tecnologica e funzionale della scuola in MiI. L’approccio richiesto è di tipo pratico-operativo: talvolta basta correggere l’etichetta Made in China in Made in Italy; altre volte occorre andare più in profondità emendando tutte le dizioni non omologate: on/off diventa sì/no, power viene cambiato in potere, software viene emendato in programma per calcolatore elettronico. Richieste particolari competenze in onomatopea e aggiustamenti linguistici artigianali.
  • Insegnante humiliating: è una figura professionale che ha il compito di mettere in pratica la nuova Weltanschauung ministeriale in campo pedagogico. Infatti, tocca all’insegnante humiliating realizzare quel sano principio pedagogico valditariano che consiste nell’umiliare gli studenti che si sono resi colpevoli di gravi comportamenti nei confronti della scuola e/o dei compagni. Per questo incarico sono richieste specifiche competenze sul piano umano e psicosociale: essere molto cinici, dimostrare una buona dose di sadismo, abbondare in quella qualità che viene genericamente definita “stronzaggine”. È inoltre richiesta una buona padronanza nell’uso del cilicio, della verga e di un linguaggio non convenzionale (meglio se scurrile).


 L’introduzione di altre figure è allo studio degli organi competenti, che probabilmente avvieranno una consultazione per raccogliere proposte da parte dei docenti.
Gli insegnanti che non rivestiranno alcuna di queste funzioni (o altre già previste dall’ordinamento vigente) confluiranno nella categoria dei docenti pària, ossia l’insieme di coloro che svolgono il disdicevole compito di insegnare lingua, matematica, storia e tutte le altre discipline, guidati dall’insano convincimento che compito della scuola sia quello di promuovere i processi di apprendimento degli studenti..




Il diritto al disagio e la sua rappresentazione. La fuga dai licei

di Piervincenzo Di Terlizzi  – dirigente scolastico ISIS Zanussi – Pordenone
e Aluisi Tosolini – filosofo dell’educazione

Un ampio articolo a pagina 21 de “Repubblica” del 30 marzo 2023 pone l’attenzione sulla “fuga dai Licei”, cioè sul numero significativo di richieste, ad anno scolastico in corso, di trasferimento in uscita da alcune delle scuole più note delle maggiori città italiane. L’ansia che “devasta”, dice il richiamo del titolo, appare la causa di questo fenomeno.

La narrazione giornalistica della scuola italiana, si sa, ha come centro dell’attenzione i Licei di Roma e Milano e (meno frequentemente) degli altri centri principali: pure questo articolo ne è conferma, individuando, tra le cause possibili della questione, la (nuova, attuale) fragilità degli studenti di fronte alle (usuali) difficoltà richieste dallo studio impegnativo.

Sembrerebbe, dunque, che in buona parte di questi casi la scelta conseguente sia quella di cercare contesti in cui si studi “meno”.
Questa interpretazione, oltre che riduttiva rispetto ai casi individuali di disagio e fragilità, oltre che generica (è una spiegazione che può andare bene in tanti altri tempi e contesti) è anche ingenerosa nei confronti delle altre scuole, e pare basarsi implicitamente sul trito e insuperato assunto socioculturale per cui esistano i contesti “di serie A” (Licei) e quelli “di serie B, o C” (Tecnici e Professionali).

Sennonché, il disagio non pare pensarla alla stessa maniera, e non è di serie A o B o C: se allarghiamo appena un poco lo sguardo, o se, giornalisticamente, andiamo a interrogare chi lavora in scuole che non siano i Licei delle grandi città, il tema si ripresenta anche nelle scuole degli altri ordini, ed anche nelle fasce di età minore, e non si lascia risolvere con la retorica dell’”arrendersi al primo ostacolo”.
C’è disagio all’Università, come hanno segnalato gli stessi studenti all’apertura dell’anno accademico a Padova.
E c’è disagio anche ai Tecnici e ai Professionali, potremmo dire, semplificando; ma è, appunto, una semplificazione, e piuttosto abbiamo da chiederci che cosa stia accadendo di nuovo.

Due rapporti fanno luce sul disagio oggi in Italia

Prendiamo, a tal proposito, due documenti usciti quasi contemporaneamente, in questi stessi giorni: il dossier dell’Ufficio scuola della CEI, intitolato “In pieno inverno. Disuguaglianze e fragilità nel sistema educativo” (link) ed il Rapporto Disuguaglianze della Fondazione CARIPLO, sottotitolato “Superare gli ostacoli nell’età della formazione” (link). Entrambi mettono il lettore a contatto con la dura e stratificata dimensione delle ragioni del disagio attuale: economiche, sociali, familiari.
Leggiamo ad esempio, dal primo testo, questa considerazione, basata su uno studio dei comportamenti degli studenti toscani dopo la pandemia: “In chi già viveva una situazione di marcata privazione di opportunità, come nel caso di molti studenti degli istituti professionali, è presumibile che la pandemia abbia indotto cambiamenti meno evidenti che non in chi, invece, prima dell’emergenza poteva contare su risorse tali da consentirgli di coltivare una progettualità futura che adesso rischia di venire meno” (p. 23). La questione pare, ragionevolmente (e inquietantemente) spostarsi sulle attese per il futuro, sull’idea stessa di futuro possibile da parte degli studenti. Dal secondo testo, cogliamo questa osservazione di Valentina Amorese (p. 75): “Stiamo quindi assistendo ad una crescita delle distanze nelle prospettive di vita delle persone. Questa tendenza contribuisce a costruire e rafforzare un contesto di frammentazione all’interno del Paese”, che ci mette di fronte ad un altro aspetto fondamentale di cui le manifestazioni di disagio sono una sorta di termometro: la polverizzazione delle esperienze, con una perdita secca degli spazi (esteriori ed interiori) di socialità.

Frammentazione, crisi del senso e disuguaglianza  

La frammentazione sociale e la crisi di senso di certo ha anche a che fare con l’aumento delle disuguaglianze attestate in modo plastico da due infografiche, la prima ripresa dal dossier Caritas ( pag. 5) e la seconda dal XIII Atlante dell’infanzia a rischio pubblicato a novembre da Save the Children (link – pag. 30)

Ma di tutto questo, ovviamente, non è il caso di parlare, per non disturbare il manovratore e la classe dirigente (i cui figli, come dice l’articolo di Repubblica del 30 marzo, frequentano i licei dove si è scoperto esistere il disagio).

Allargare l’orizzonte

Se poi vogliamo allargare l’orizzonte possiamo scorrere le pagine del rapporto The state of the global education crisis: a path to recovery frutto della collaborazione tra Unesco, Unicef e Banca Mondiale pubblicato nel 2021 (link). Il rapporto è stato poi ampiamente confermato dallo studio ONU 2022 sul livello di raggiungimento dell’Obiettivo n. 4 dell’agenda sostenibilità (Istruzione di qualità per tutti – link -) che possiamo riassumere nei seguenti dati riferiti a inizio 2023:

  • nel mondo, sei bambini su 10 dell’età di dieci anni non sono in grado di leggere e comprendere una semplice storia;
  • 244 milioni di bambini e adolescenti non vanno a scuola
  • 617 milioni di bambini e adolescenti non sanno leggere e non hanno le competenze matematiche di base;
  • meno del 40% delle ragazze nell’Africa sub-sahariana completa la scuola secondaria inferiore e circa quattro milioni di bambini e giovani rifugiati non vanno a scuola.
  • si stima che 147 milioni di bambini abbiano perso più della metà dell’istruzione in classe negli ultimi due anni a causa della chiusura delle scuole causata dalla pandemia COVID-19
  • la percentuale di giovani che completano la scuola secondaria superiore è passata dal 54% nel 2015 al 58% nel 2020, con un rallentamento dei progressi rispetto al quinquennio precedente.
  • la maggior parte dei Paesi non ha raggiunto la parità di genere nella percentuale di bambini che soddisfano gli standard minimi di apprendimento in lettura e nel tasso di completamento della scuola secondaria inferiore[1];
  • Nel 2020, circa un quarto delle scuole primarie a livello globale non aveva accesso a servizi di base come elettricità, acqua potabile e servizi igienici di base.
  • Circa il 50% delle scuole primarie ha accesso a servizi come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e le infrastrutture adatte ai disabili.
  • Nel 2020, circa 12 milioni di insegnanti di scuola pre-primaria, 33 milioni di insegnanti di scuola primaria e 38 milioni di insegnanti di scuola secondaria lavoravano nelle classi di tutto il mondo e l’83% degli insegnanti di scuola primaria e secondaria avevano ricevuto formazione adeguata
  • nel corso dell’emergenza Covid solo il 20% dei Paesi ha intrapreso misure significative per fornire ulteriore salute mentale e supporto psicosociale agli studenti dopo la riapertura delle scuole;

Supporto psicologico?

Eccoci, fermiamoci a questo ultimo dato, riferito al supporto psicologico che anche in Italia è stato ampiamente attivato in tempo covid e che ancora oggi è alla base di molti percorsi pensati entro il PNRR anti dispersione.
In questo caso la domanda deve essere precisa e radicale: il supporto psicologico a che cosa serve e deve servire? A rendere sopportabile questa scuola a questi studenti? Quasi un antidepressivo anestetizzante rispetto al disagio imperante?
Oppure a cambiare questa scuola per renderla luogo nel quale iniziare a prendere davvero in mano il proprio futuro per costruirlo assieme, diverso?

Il disagio ha infatti a che fare proprio con l’idea di futuro, o della sua precarietà e, addirittura, mancanza.
Mancanza di futuro e spazi di socialità infranti: sono profonde domande di senso, che si possono verificare, del resto, anche in coda al supermercato.
Il “disagio” degli studenti non si semplifica con un movimento tra una scuola e un’altra, perché è il nostro disagio.




La pedagogia per amica

di Raimondo Giunta

Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perché pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.  Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica.
Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia.
La sostituii con filosofia della religione.

L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione.
Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi. Mi ponevo queste domande ogni volta che mi scontravo con una difficoltà o con un problema imprevisto. Erano i ragazzi senza prerequisiti; erano i ragazzi stanchi per il lavoro fatto nei campi; erano i ragazzi che non volevano starci a scuola; erano i ragazzi che non avevano a casa tempo, spazi e modi per imparare; erano i ragazzi di famiglie numerose che non ci credevano; erano i ragazzi che si distraevano e quelli che provavano vergogna per come si sentivano, per come erano vestiti e per come erano giudicati. Da tutti mi dovevo fare capire; da tutti mi dovevo fare accettare e da tutti qualcosa dovevo ottenere.

Ero senza mestiere e ho capito che dovevo costruirmelo subito e da solo, ma avevo passione e fantasia da vendere nel lavoro e i ragazzi venivano a scuola perché gli leggevo e raccontavo storie interessanti, perché comprendevo i loro errori, perché rispettavo i loro tempi, perché per ognuno avevo un gesto di attenzione, un sorriso, una battuta. Andavo per tentativi e poi ci ragionavo.
Penso che il compito della pedagogia sia quello di accompagnare, sostenere, illuminare la fatica di fare crescere le nuove generazioni. Credo che la pedagogia si ponga come aiuto alla definizione delle finalità educative e come sapere critico che interroga la congruenza tra fini proclamati e mezzi utilizzati nelle esperienze formative. Non so se sia molto, nè se con questi convincimenti abbia superato la mia giovanile diffidenza; ma poco o tanto che sia questa specificità andrebbe difesa e richiesta, perché senza la buona pedagogia il lavoro a scuola diventa una faticosa routine senza orientamento.

Si diceva con convinta superficialità “rem tene, verba sequentur”, che bastasse, cioè, una solida preparazione disciplinare per fare bene a scuola. L’insegnante, però, non deve sapere solo cosa deve insegnare, ma anche come si deve insegnare; deve sapere chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che genere di famiglia e ambiente vivono. La cura degli allievi, l’attenzione ai loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti dovuti. Senza di essi non si genera formazione, non si genera crescita umana.

Per molto tempo con superbia intellettuale questi aspetti della funzione docente sono stati giudicati inessenziali, non pertinenti come il possesso di un sapere specialistico. Si è espunto come superflua la dimensione affettiva e valoriale. Si è insistito e si insiste ancora nella scelta di formalizzare un processo dinamico, complesso, emotivo, ricco come quello del rapporto educativo. Con l’ausilio della sola professionalità e della propria competenza disciplinare, anche se irrorate da un forte senso del dovere e dall’etica del conoscere, nei nostri giorni l’insegnamento rischia di essere sterile o di conseguire risultati modesti. Non si va molto lontano quando la persona dell’alunno non è al centro dell’attenzione e il principio-guida dell’attività formativa. Se anche il sapere, la disciplina scolastica fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, lo scopo della formazione non è quello di sottomettere la natura indocile dell’alunno al sapere, ma quello di fare diventare “sapiente” l’alunno indocile.

A poco a poco mi sono convinto che è opportuno liberarsi dal fastidio e dalla diffidenza nei confronti della pedagogia e di tornare a familiarizzare con i suoi richiami ai temi etici e alla responsabilità educativa del docente. Mi sono convinto che tutto ciò può convivere col modello di professionalità proposto negli ultimi decenni e che questo è l’unico modo per non farsi sfuggire di mano il controllo del mondo, su cui gli insegnanti sono chiamati a intervenire. C’è stato molto lavoro sulle tecniche, sull’organizzazione didattica, sulla metodologia; ce n’è stato poco sui valori fondanti e condivisi dell’educazione dei giovani. La pedagogia aiuta a riflettere sulle relazioni tra docenti, alunni e sapere; mette sotto osservazione le relazioni umane e anche l’enciclopedia dei saperi di un curriculum scolastico, perché anche con l’esperienza dei saperi si costituiscono gli orientamenti delle proprie condotte e la visione della vita.

Non penso che della pedagogia si possa fare scienza, come si pretende di fare ogni volta che ci si imbatte con una disciplina umanistica, pensando di conferirle una maggiore dignità epistemologica.
Ci sono modi e modi di essere critici, di non sprofondare nel dogmatismo. Provvisorietà e fluidità sono i caratteri intrinseci di tutte le discipline umanistiche. Fluidità vuol dire problematicità; la stabilità dei concetti inconfutabili non viene reclamata nemmeno nelle scienze cosiddette esatte. Nelle discipline umanistiche la stabilità è quella costituita dalle convenzioni, dall’accordo più ampio possibile. Bruner ne “La mente a più dimensioni” esalta la natura negoziale, euristica, transazionale dei concetti delle scienze sociali e umane. ”Se qualcuno si chiede dove risiede il significato dei concetti sociali, nel mondo, nella mente di chi li pensa o nella negoziazione interpersonale, non potrà rispondere se non che la risposta giusta è quest’ultima. Il significato è ciò su cui possiamo convenire o perlomeno ciò che possiamo accettare come base di lavoro per la ricerca di un accordo sui concetti in questione”.
E ancora sempre nello stesso testo: ”Il linguaggio dell’educazione se vuole essere uno stimolo alla riflessione e alla creazione di cultura non può essere il cosiddetto linguaggio incontaminato dei fatti e dell’oggettività”.

Si fa spesso della buona pedagogia raccontando esperienze più che elaborando teoremi. Esperienze che possono essere di successo, ma anche esperienze di fallimenti.  Si impara molto, andando a scrutare il senso delle scelte fatte, analizzando la logica dei comportamenti messi in atto dai protagonisti, valutando la natura dei mezzi adoperati e quella dei risultati ottenuti.
”La lettera ad una professoressa” della SCUOLA DI BARBIANA, diretta e ispirata da Don Lorenzo Milani, appartiene a questo genere di letteratura e non casualmente ha affascinato e trascinato la generazione di nuovi docenti che si affacciava sulla scena della scuola italiana alla fine degli anni 60 e negli anni ‘70.

Vedo la pedagogia come sapere autonomo che si avvale di molteplici apporti interdisciplinari; nè ancilla della filosofia quanto ai fini, nè delle varie sezioni della psicologia quanto ai mezzi, nè madre autoritaria di ogni metodo didattico, ma capacità di riflessione sulle pratiche educative sulla base di criteri che non possono non essere che finalità di sviluppo umano e sociale. E se l’ordine dei fini ai quali attinge la pedagogia è collocato fuori dalle scienze, non per questo può essere discreditata, perché non può fare a meno di servirsene. La pedagogia come Pratica -teoria o Teoria-pratica dell’azione educativa. Non ha bisogno di dissolversi in psicologia applicata, nè allontandosi dal fatto educativo trasformarsi in antropologia o in filosofia morale. E in questo rapporto teoria-pratica che scaturiscono le invenzioni, le creazioni, che si rinnova l’insegnamento. Dopo tanti teorici dell’educazione per fare bene a scuola si può ragionevolmente attingere anche al sapere di chi ha fatto lunga esperienza di educazione. . .

La buona educazione scaturisce dall’azione sensata, alla cui origine si trova la fronesis di aristotelica memoria, il discernimento, non la scienza. Il rigore dell’azione educativa non deriva dal rigore del sapere dell’azione e questo dal rigore della scienza. Il come fare trova la sua verità nella coerenza dello stesso fare e non in saperi esterni che si proclamano scientifici. Non serve a molto perdere tempo per stabilire se la pedagogia debba essere una scienza.
E se per caso non lo possa essere, perché mai non dovrebbe essere utile? La pedagogia è una bella ed utile disciplina se i suoi concetti non pretendono di valere per sempre e in ogni situazione, se si convince che ogni sua congettura vale fino a prova contraria e le prove contrarie in educazione purtroppo si presentano anche quando nessuno se le aspetta.  Le buone idee si devono misurare con le ristrettezze della realtà e con i limiti che essa impone.

La buona pedagogia prima o poi si mette di traverso rispetto alle scelte amministrative e dell’organizzazione scolastica, perché è insita in essa un seme di utopia e di ribellione. Il destino pensato per gli alunni può essere, infatti, molto diverso da quello predisposto dagli assetti economico-sociali e dalle scelte politiche ad essi congruenti. E nella scuola dove non mancano i loro cantori, la buona pedagogia fa la guardia all’autonomia del pensiero, cerca di mettere in salvo l’umanità e i diritti degli alunni, soprattutto se sfavoriti, combatte la sua quotidiana battaglia per difendere la missione liberatrice della conoscenza e per mettere a nudo le mistificazioni di tante celebrate innovazioni.  Senza pedagogia è difficile cambiare ciò che l’educazione conserva e conservare ciò che con tanto impegno si è riusciti a cambiare.

“La pedagogia non è soltanto un’arte, una scienza e una filosofia. E’ una forma di vita, un mezzo di essere felice mediante la gioia di fare crescere i fanciulli, i figli degli altri” (M. Debesse).

 




Individualizzazione e personalizzazione, parliamone ancora

di Simonetta Fasoli

Sembra incredibile che il discorso sulla scuola debba ritornare ciclicamente sui medesimi argomenti, in un sortilegio temporale da cui è difficile emanciparsi. Ma tant’è. Succede che un ministro pro-tempore rilanci in grande spolvero il tema della personalizzazione, addirittura facendone il fulcro di provvedimenti che riguardano le politiche professionali e retributive del personale. Così è stato presentato ai sindacati, in sede di informativa, lo schema di decreto sugli aspetti e i criteri attuativi riguardanti le nuove funzioni (“funzioni”, si badi bene, non ancora “figure”…) del docente tutor e del cosiddetto “orientatore”. In questo contesto si inserisce l’affermazione del ministro Valditara, secondo cui “nella legge di Bilancio abbiamo ottenuto lo stanziamento di ulteriori 150 milioni di euro, che sono stati utilizzati per valorizzare il personale della scuola, per favorire una grande riforma che oggi abbiamo lanciato: quella della personalizzazione dell’insegnamento, che prevede l’introduzione del tutor nelle scuole e l’introduzione dell’orientatore, per dare ai nostri ragazzi prospettive di un percorso professionale e formativo che sia realizzante”.
Al solito, si nota una certa enfasi, che caratterizza del resto le comunicazioni dell’Esecutivo su tutta la linea. “Una grande riforma”? Mah…né propriamente riforma (chi ricorda i “Piani di studio personalizzati” dell’era Bertagna?) né tantomeno grande. Sarebbe raccomandabile una certa dose di prudenza in certe affermazioni.
Converrà dunque fare qualche puntualizzazione e proporre qualche riflessione, come antidoto agli entusiasmi governativi, prima che la macchina politico-istituzionale si metta in moto.
Per cominciare, suggerirei un ritorno ai fondamentali, cosa sempre buona e giusta sul piano del buon senso. Mi scuso anticipatamente di sottolineare quello che per gli addetti ai lavori dovrebbe essere ovvio…ma sbanalizzare l’ovvio è una buona strada per contrastare il “nuovismo”, sempre in agguato quando si tratta di scuola e più che mai con un governo impegnato ad accreditarsi all’interno (e all’estero…). Parliamo allora, ancora una volta, di individualizzazione e di personalizzazione: con qualche schematismo, certo, ma con un approccio utile, si spera, ad evitare polarizzazioni strumentali.
Didattica individualizzata. Cosa vuol dire, in buona sostanza, individualizzare? Vuol dire partire da obiettivi comuni definiti nel curricolo di scuola e nella programmazione di classe per diversificare i percorsi finalizzati al raggiungimento di quegli obiettivi. Obiettivi COMUNI, attenzione: vuol dire non astrattamente “uguali”, ma ponderatamente “equivalenti”.
Didattica personalizzata. Possiamo sinteticamente affermare che la personalizzazione consiste nel diversificare gli obiettivi, calibrandoli sulle caratteristiche dei singoli. La diversificazione dei percorsi non è in questo caso una scelta strategica per perseguire quell’equivalenza di cui si è detto, ma una caratteristica strutturale dell’azione didattica che, in quanto tale, è destinata a confermare le differenze.
Da questi sintetici riferimenti si può capire come ci troviamo di fronte a due distinte modalità di impostare l’azione didattica, che non sono intercambiabili nè tantomeno neutre sul piano delle visioni di scuola cui rimandano. Detto questo, sarei personalmente per sottrarci ad un’assunzione unilaterale dell’uno o dell’altro approccio, come sembra fare in questa fase la politica ministeriale: la scuola langue nell’indistinto ma muore di polarizzazioni. Il suo naturale sfondo culturale è di natura “compositiva” (et et) non oppositiva (aut aut): l’educazione, da cui trae ragione e senso l’istituzione della scuola, è in sé stessa dialogica, perciò postula la dialettica delle posizioni che si confrontano.
Dunque, cominciamo con il porre in questione la scelta governativa di correlare il profilo della funzione di tutor (e quella di orientatore ad essa strettamente connesso) alla sola personalizzazione, quasi fosse la chiave di volta dell’intera operazione: ne emerge una visione parziale e distorta del processo di insegnamento-apprendimento.
In questo mio contributo propongo invece di delineare un percorso unitario che coinvolga in un reciproco rimando i due termini astrattamente alternativi. Il punto è un altro: se possono essere presi in considerazione contestualmente, “come” stanno insieme? A me sembra che potremmo pensare all’individualizzazione come al dispositivo didattico approntato dal docente (o meglio, dai docenti nella loro corresponsabilità progettuale) dal versante dell’insegnamento; mentre la personalizzazione è la risposta individuale messa in campo dai discenti rispetto all’azione didattica, dunque si colloca essenzialmente sul versante dell’apprendimento. In questo approccio, le caratteristiche personali non sono cristallizzate ( e le differenze non si traducono in “dati” di natura, invalicabili e definitivi) ma diventano “modi” della risposta alla didattica individualizzata: modi destinati ad evolvere, se l’azione è efficace.
In definitiva, individualizzazione e personalizzazzione si pongono come epifenomeni dello stesso processo, così come è un processo l’insegnamento-apprendimento.
Raffinatezze da “pedagogismi”? Non direi…ma qui il confronto è aperto e legittimo. A me è sembrato utile entrare nel merito, perchè troppo spesso l’azione ministeriale-governativa dà per acquisite le sue premesse “teoriche” (in questo caso, l’idea onnipervasiva di personalizzazione) per l’urgenza di calarle nelle cosiddette “fasi attuative”: un modo per stemperare e annacquare il valore dirimente dei presupposti.
E’ evidente, infine, che non entro qui nel merito delle questioni di politica professionale legate alla funzione del docente tutor e dell’orientatore, che coinvolgono aspetti di assoluto rilievo, anche di natura contrattuale, quali le modalità di individuazione, l’organizzazione del lavoro e la salvaguardia delle prerogative collegiali. In altre sedi e con altro taglio tematico è possibile, anzi opportuno, affrontarli.