L’orientamento scolastico e professionale, in salsa ‘Valditara’. E oltre

di Antonio Valentino

  1. “La grande rivoluzione del merito”, annunciata dal Ministro a tambur battente a fine marzo, si è materializzata nelle sue linee portanti il 5 aprile col Decreto n. 63 e con la Circolare ministeriale, stessa data, con oggetto: Avvio delle iniziative propedeutiche all’attuazione delle Linee guida sull’orientamento[1] – A.S.2023-2024 (sottotitolo: Il tutor scolastico: prime indicazioni).

Dal Decreto si derivano essenzialmente queste indicazioni:

  • si destinano 150 milioni di euro alle istituzioni scolastiche statali del II ciclo di istruzione e più precisamente alle ultime tre classi -, per ‘valorizzare’ l’impegno dei docenti chiamati a svolgere la funzione di tutor e di orientatore”.
  • si precisano i requisiti dei docenti interessati per l’accesso alla formazione – a carico dell’Indire e per la durata di 20 ore -: condizione per svolgere le funzioni delle due figure;
  • si prevede che le iniziative da mettere in campo siano destinate alle classi del secondo biennio e dell’ultimo anno del Secondo Ciclo e che le figure saranno attive a partire dal prossimo anno scolastico.

La Circolare Ministeriale definisce invece in modo particolare le cose fondamentali che c’è da sapere: gli obiettivi dell’orientamento, le attività che devono svolgere le due figure e la consistenza dei raggruppamenti di studenti destinatari delle attività proposte; la consistenza come criterio per il compenso alle due figure.

  1. Quanto agli obiettivi dell’operazione, si precisa che sono: (a) rafforzare il raccordo tra il primo e il secondo ciclo di istruzione e formazione, per permettere una scelta consapevole che valorizzi le potenzialità e i talenti degli studenti e, inoltre, (b) contribuire alla riduzione della dispersione scolastica e dell’insuccesso scolastico e (c) favorire l’accesso alle opportunità formative dell’istruzione terziaria”.

    Obiettivi sostanzialmente condivisibili se solo non evidenziassero una vistosa incongruenza.
    Praticamente si dice: obiettivo urgente e prioritario è il raccordo tra la secondaria di primo grado e il biennio successivo – per le ragioni a tutti note -, ma il decreto prevede  di intervenire prioritariamente sulle ultime tre classi della secondaria. Così. Un arcano

  1. Rispetto poi alle attività del docente tutor, le stesse che di fatto assorbono quelle più significative nei percorsi di orientamento, sono ricondotte alle seguenti due:
  • aiutare ogni studente a rivedere su una apposita piattaforma[2]digitale unica”…., le parti fondamentali che contraddistinguono ogni E-port-folio personale (cioè percorso di studi; sviluppo delle competenze; a sviluppare riflessioni “in chiave valutativa, auto-valutativa e orientativa sul percorso svolto e, soprattutto, sulle sue prospettive”; a provvedere alla “scelta di almeno un prodotto, riconosciuto criticamente dallo studente come il proprio ‘capolavoro’ (sic!)”. E questo, per ciascun anno scolastico e formativo,
  • “costituirsi consigliere delle famiglie” nei momenti di scelta dei percorsi formativi o delle prospettive professionali dello studente.

Il docente orientatore si farà invece carico di “gestire i dati forniti dal Ministero   preoccupandosi “di raffinarli [ohibò] e di integrarli con quelli specifici raccolti nelle differenti realtà economiche territoriali e metterli a disposizione di docenti, famiglie e studenti”. Una figura praticamente “a sostegno dell’orientamento”, come si legge nella Circolare più volte citata.

La cosa, anche qui, un po’ strana e misteriosa, è la denominazione delle due figure: il docente che svolge tutte le funzioni tipiche dell’orientatore/di orientamento viene chiamato tutor e chi raccoglie dati dalla piattaforma dedicata e li ‘raffina’ (!) e li integra e li diffonde tra docenti e genitori, lo si chiama orientatore. Mah!

  1. Però ai fini di una funzionalità sensata dell’intera operazione, l’aspetto che pone più interrogativi è il numero delle risorse professionali da mettere in campo. Il Ministro nell’ultima intervista al Corriere, dove preannunciava “la grade rivoluzione del merito”, declamava trionfalmente che “sono in arrivo 100.000 tutor”. Una cifra impressionante e sorprendente, con un sottotesto facilmente intuibile.

I dati per venirne a capo e capirne il valore ce li offre la già citata Circolare ministeriale del 5 aprile.

Questi i parametri numerici della Circolare ministeriale: 1 tutor ogni 30 studenti; studenti che  possono diventare anche 50, se 30 vi sembran pochi. (Nella circolare si parla addirittura di raggruppamenti, lasciando così pensare di raccogliere ragazzi di classi diverse per arrivare ai numeri previsti: tutti con un unico tutor!).

Stiamo parlando di una funzione, come si può dedurre da quanto riportato al precedente punto 3, molto delicata   e pesante per compiti, responsabilità, oltre che per numero dei soggetti con cui rapportarsi; funzione che si affianca, nella stessa persona, a quella di docente ( 3 e più classi da gestire) in nessun modo alleggerita.
Pensate solo al “dialogo costante con lo studente, la sua famiglia e i colleghi coinvolti nell’attività didattica rivolta al singolo studente, ecc. ecc.”, moltiplicato per 30, 40, 50 ragazzi, famiglie ecc..

Spiderman o lo stesso Batman, ne uscirebbero vivi?

Il tutto con un compenso accessorio annuo compreso tra i 2800 euro a 4.700 lordo stato. Da scialarci, se ci pensate. (Per il docente ‘orientatore’ – uno per ogni istituzione scolastica – il compenso va da 1.500 euro lordo Stato a 2.000 euro, sempre lordo Stato: si sciala di meno, ma si sopravvive di più).

Quelli qui sopra indicati sono gli impegni sull’orientamento delle scuole del secondo ciclo per le quali sono stati stanziati dal ministero i 150 milioni di euro di cui al Decreto del 5 aprile.

  1. Dal prossimo anno sono previste inoltre iniziative di formazione per gli studenti, a carico dei fondi PNRR, che interesseranno classi della Secondaria.

Consideriamole nel riquadro che segue:

  • Percorsi formativi di 15 ore per ciascun studente nel corso degli ultimi 3 anni delle scuole del secondo ciclo della secondaria (5 h x anno) “da erogare con modalità curricolare ed extracurricolare”. Saranno organizzati dalle Università sulla base di accordi con le scuole. Praticamente, se ho capito bene: 5 ore per anno scolastico! Su tematiche, di tutto rispetto: dal conoscere il contesto della formazione superiore / i settori di lavoro / gli sbocchi occupazionali / i lavori del futuro; al fare esperienza di didattica disciplinare attiva, partecipativa laboratoriale; dall’autovalutare, verificare consolidare le proprie conoscenze, al consolidare competenze riflessine e trasversali, al ….. Tutto sempre in 5 ore annue per tre anni. Manca solo – se è possibile – una lezione con conseguenti esercitazioni (che sarebbe sicuramente molto apprezzata dai ragazzi, su Le fughe dalle lezioni ovvero Saltare scuola come esperienze di vita).
  • Percorsi formativi previsti dalle Linee guida per l’Orientamento (Decreto n. 328 del 22 dicembre 2022), 1. per le le scuole della Secondaria di primo grado e per il primo biennio della secondaria di secondo grado, di almeno 30 ore di orientamento anche extracurricolari, per ogni anno di corso; 2. per l’ultimo triennio della Secondaria di secondo grado, altrettante ore, queste però curricolari, per ogni anno. Per questi ultimi si concede che si possono integrare, qualunque cosa ciò significhi, con le 15 ore gestite dei percorsi universitari e con i percorsi PICTO.
  1. Un altro punto di attenzione riguarda la natura giuridica delle ‘figure’ introdotte. Quello che si capisce è che non si tratta delle figure di sistema prefigurate dall’articolo 21 della Legge 59/1997, col quale si istituisce l’autonomia scolastica. Presumibilmente si tratterà ancora di docenti che coprono funzioni specifiche ma in modo volatile, occasionale, e spesso senza che se ne abbia adeguata preparazione e competenza.
    Va anche considerato che i famosi 150 milioni previsti per ‘la valorizzazione degli insegnanti’ impegnati nelle funzioni di tutor e orientatore valgono solo per il corrente anno finanziario.  Quindi, sotto questo aspetto, la prospettiva è ancora una navigazione a vista?

  2. L’impressione che un po’ si deriva dai dati e dalle iniziative sopra riportati è che questa ‘riforma’, è quella di una debolezza complessiva di visione e di strategie appropriate.

Alla base di una valutazione di questo tipo c’è la convinzione, molto diffusa tra docenti e dirigenti del secondo ciclo e delle ultime classi del primo, che l’orientamento – come anche l’insuccesso scolastico e la dispersione – non è un problema per la cui soluzione ci si può lavare le mani pensando di uscirne  introducendo nelle scuole figure di cirenei, da formare con 20 ore di corsi, e condendo il tutto con percorsi formativi per gli studenti, che sono anch’essi un punto di domanda.
Assenti gli insegnanti come comunità professionale. Scompare il CdC a cui comunque dovrebbe essere il compito principale della formazione dei ragazzi. C’è invece il cireneo solitario che si fa carico di tutto e anche delle famiglie.
Sbarazziamo il campo da un possibile equivoco. Nessuno può ovviamente pensare che non siano necessarie, per questa come per altre operazioni dello stesso tipo, figure di coordinamento delle diverse azioni e iniziative dei percorsi formativi da prevedere nelle sedi proprie.

In una organizzazione complessa come la scuola, le figure di coordinamento sono fondamentali.
Ma che siano però figure di sistema: docenti cioè con un profilo potenziato, definito giuridicamente e contrattualmente. Non volatili e casuali.
E ancora: non è in discussione la presenza nella scuola secondaria di un counselor o un mentor, come figure professionali anche esterne (con competenze da attingere anche dalla psicologia dinamica), per le situazioni problematiche più complesse della classe.
Ma i soggetti da valorizzare in questa importante partita non sono forse i docenti tutti della classe, come gruppo professionale, sulla base di un progetto condiviso per orientamento? Non è ciò che sa qualsiasi persona che si intende un po’ di scuola?

  1. Interrogativi questi che riportano in primo piano due questioni – anch’esse complesse e difficili e non più rinviabili – che rappresentano altrettante risposte a due criticità della nostra scuola, che proprio una riforma dell’orientamento avrebbe dovuto prevedere nelle modalità possibili:

– la visione dell’insegnamento disciplinare capace di produrre una idea aperta della conoscenza e di sviluppare competenze di prim’ordine; come l’integrazione dei saperi, la correlazione e l’osservazione, con occhi e sguardi diversi, dei diversi oggetti di studio e apprendimento (competenze di base in ogni discorso sull’orientamento);

– la pratica di didattiche individualizzate/personalizzate[3], che, quando ‘agite’ con professionalità, possono creare ponti preziosi tra caratteristiche delle materie scolastiche e caratteristiche degli studenti (quest’ultime in termini di bisogni, attese, aspirazioni, ma anche di specifici ritmi e modalità di apprendimento, di tipo di intelligenza e capacità linguistiche, di prerequisiti cognitivi). Pratiche che, come sanno in tanti nelle scuole, diventano didattiche orientative quando guardano all’insegnamento disciplinare anche come ‘strumento’ per sviluppare capacità trasversali (soft skills); con particolare riferimento alla riflessività, alla comunicazione efficace, all’ascolto attivo, al problem setting & solving, alla flessibilità …,).

9. Ancora un’ultima considerazione. Legata alla percezione che questa ‘riforma’ dell’orientamento sembra abbia scelto di ignorare le esperienze positive e innovative di tante nostre scuole.
Il riferimento è alle pratiche, didattiche – diffuse tra l’altro  nei nostri Istituti  più di quanto non si creda – come il debate o lavori di gruppo opportunamente strutturati o attività di autovalutazione dello studente, esperienze di peer education: utili certamente per apprendimenti disciplinari più solidi e duraturi, ma utili anche per sviluppare competenze necessarie per orientarsi con consapevolezza e sensatezza anche nella scelta tra i diversi   percorsi scolastici o professionali; o più in generale, nelle scelte di vita.

Ma il riferimento è anche

ai Centri di Informazione e Consulenza gestiti da docenti di riferimento (tutor per l’orientamento nominati dal ds), diffusamente attivi nella secondaria di secondo grado e previste dal PTOF di istituto e

ai percorsi formativi gestiti da insegnanti in genere di materie scientifiche o tecnologiche del secondo ciclo, per classi terminali del primo ciclo (l’ex terza media).

Che dire conclusivamente, a seguito delle analisi e riflessioni critiche di questo contributo?

Solo che all’autore è del tutto estraneo l’idea di alimentare – nei cinque o sei che in esso incappassero – tentazioni di disimpegno rispetto alle iniziative che le scuole sono chiamate a mettere in campo in base alle indicazioni del Decreto e materiali connessi.
L’intento è stato piuttosto quello di riportare in primo piano le opportunità che offre la tematica dell’orientamento per il rinnovamento della nostra scuola (la centralità del ruolo della comunità professionale e dei C.d.C come gruppo di lavoro: in primo luogo attraverso didattiche individualizzate e orientative e un coordinamento responsabile delle attività; ma anche attraverso il coinvolgimento del gruppo classe). Opportunità che non sono in alternativa o in contrapposizione a quelle previste dall’impianto ministeriale e da recuperare opportunamente, e nei tempi giusti, attraverso un eventuale, apposito Piano di Istituto.
Comunque se all’intento non corrispondono gli esiti attesi, preme qui chiarire manzonianamente che “non si è fatta apposta”.

[1]Nota ministeriale del 22 dicembre 2022

[2] Con tutte queste piattaforme si ha a volte l’impressione che l’autonomia opportunamente regolata [Piero Romei] sia sempre più declinata come autonomia uniformata.

[3]Istruzione individualizzata non significa ovviamente istruzione individuale, generalmente realizzata in un rapporto 1 ad 1. Essa, come è noto, consiste piuttosto nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. Altro è l’istruzione personalizzata che tende invece a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti.

 

 

 

 

 

 




#exlibris, ovvero a proposito dei “pericoli” dell’intelligenza artificiale

di Marco Guastavigna

È l’ennesima notizia di colore: il guru di turno – Geoffrey Hinton –  affida a Twitter la propria consapevolezza sui “”pericoli” dell’intelligenza artificiale e abbandona la propria giostra di comfort (Alphabet, la holding dei servizi di Google).

L’approccio sensazionalistico, del resto, è ormai quasi uno standard, in particolare dopo la serrata di ChatGPT, dai più presentata e interpretata come “blocco del garante”.

Non vi è medium che si sia sottratto a questo approccio.
Ultimo esempio una succulenta puntata di Zarathustra, che ha dedicato ampio e divertito spazio ai furbetti dell’IA come trucco scolastico.
Sono stato per altro coinvolto in prima persona, intervistato da Fahrescuola, di nuovo per Radio 3.
Quale che sia l’incipit, una cosa è certa: prima o poi i conduttori delle trasmissioni o gli autori degli articoli dovranno almeno accennare al rischio del superamento dell’umanità, dell’autonomia decisionale dei dispositivi, della Singolarità prossima ventura.
Questa impostazione, tra il mitologico, il distopico e il romantico, è davvero irrinunciabile.

Ad imporla è il target, un pubblico che i social hanno svezzato nella direzione della polarizzazione, desideroso di posizionarsi a favore o contro in base a slogan, perché lo schieramento e l’identificazione, la contrapposizione senza se e la negazione senza ma delle argomentazioni altrui consentono di interpretare rapidamente, di assegnare senso e significato senza analizzare, senza affrontare la complessità, senza – insomma – capire davvero.
Che è esattamente ciò che fanno dispositivi a cui l’etichetta di “intelligenza” è stata ed è sempre più assegnata come strategia commerciale e (appunto) per comprovata efficacia sul mercato dell’attenzione mediatica.
Lo spiega molto bene la numerosissima, curata e coinvolgente saggistica di merito, che voglio ostinarmi a credere possa interessare ancora qualcuno.

Mi riferisco per esempio al concetto di comunicazione artificiale di Elena Esposito, davvero illuminante: “Se si guarda come lavorano i recenti algoritmi si vede che l’intelligenza non è il punto né lo scopo. Le macchine riescono a fare cose strabilianti non perché sono finalmente diventate intelligenti, ma paradossalmente proprio perché non cercano più di esserlo – fanno qualcos’altro. Si potrebbe dire che i progressi che osserviamo oggi non segnano il trionfo dell’Intelligenza artificiale, ma in pratica l’abbandono del progetto che ci stava dietro (…) Un esempio evidente, e spesso discusso, sono i programmi di traduzione automatica, che oggi funzionano molto bene – da quando i programmatori hanno smesso di cercare di insegnare agli algoritmi le diverse lingue e le loro regole. (…) Usando machine learning e Big Data si limitano a trovare dei pattern e delle regolarità in enormi quantità di testi nelle lingue trattate (per esempio i materiali multilingua della Commissione europea), e li usano per produrre dei testi che risultano sensati – per le persone che li leggono. Non per gli algoritmi, che non li capiscono, come non capiscono niente dei contenuti che trattano, e non ne hanno bisogno”.

Oppure all’intelligenza non antropocentrica di Nello Cristianini: il comportamento di un agente, cioè di qualsiasi sistema in grado di agire nel proprio ambiente, anche in situazione nuove e in presenza di contromisure, usando informazioni sensoriali per prendere decisioni efficaci in funzione di obiettivi. Titolo e sottotitolo del libro da cui ho tratto la definizione sintetizzano infatti una tesi assai chiarificatrice: “La scorciatoia. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano”. E spostano l’attenzione su natura e struttura degli ambienti e valenza e direzione degli obiettivi. Senza etica, l’efficienza rischia di essere un disvalore.

Né possiamo dimenticare l’inganno benevolo di Simone Natale, che ci ricorda che fin dal test di Turing l’obiettivo era imitare le prestazioni umane e non i processi ad esse sottesi.
Chi approcciasse questi testi, apprezzerebbe – oltre all’occasione di comprendere senza dover aderire, potendo e preferendo anzi costruirsi una propria opinione articolata e fondata su più punti di vista – l’approccio transdisciplinare.
Scevri da sudditanze tecnocratiche, tutti questi lavori, così come molti altri, propongono piuttosto rigeneranti escursioni intellettuali tra diritto e statistica, ingegneria e psicologia, sociologia e matematica applicata, economia e biologia e così via.
Il tutto con una forte venatura politica, dal momento che il focus del problema è un processo in atto da tempo: la progressiva appropriazione della conoscenza collettiva e, più in generale, della sfera pubblica, da parte delle mega-macchine del capitalismo cibernetico, il solo soggetto che ha in Occidente la potenza di calcolo e la base infrastrutturale che sono essenziali per l’estrazione e l’elaborazione dei dati necessari a individuare i pattern che costituiscono il materiale e i risultati del deep learning.




Apprendimento permanente, per affrontare le sfide del XXI secolo

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

Era la scommessa dell’Illuminismo il cittadino cosmopolita del sapere, come dire che solo la ragione può unire il mondo, perché l’uomo razionale non accetta barriere nazionali.
La società della conoscenza nasce nutrendosi della fiducia nell’universalità del sapere come forza unificatrice contro le spinte scioviniste dei vari nazionalismi.
La seduzione dell’apprendimento permanente, per tutta la vita, è l’enunciazione di un particolare atteggiamento illuministico verso esistenze guidate dalla ragione, dalla compassione per l’altro, dalla continua ricerca di innovazione e cambiamento, in cui l’unica cosa che non è una scelta è compiere delle scelte.

L’apprendimento è un processo continuo che non tollera più d’essere relegato alle sole aule scolastiche e alle loro forme rituali di istruzione, perché la vita esige sempre un di più di conoscenza per affrontare problemi e innovazioni che non hanno un punto di arrivo, cambiamenti che richiedono responsabilizzazione e processi decisionali i cui effetti non riguardano solo il singolo individuo, ma l’appartenenza collettiva alla comunità mondiale.
Siamo entrati nel tempo del problem solving, dell’apprendere a risolvere problemi, dove non è più sufficiente essere istruiti su problemi già risolti da altri, ma piuttosto è necessario imparare come dare soluzione a quelli che hanno da venire, per i quali non esistono ancora formule ed eserciziari.

L’apprendimento permanente è la risposta sociale moderna all’esigenza di diventare cittadini della Terra, della Terra Patria, come ci ricorda Edgar Morin,  accedendo a una cultura condivisa, dotati di strumenti intellettuali ed emotivi per vivere una cittadinanza planetaria.
La società come luogo pedagogico, di cui scriveva John Dewey agli albori del secolo scorso, è ora la Terra intera con la potenza del pluralismo e della molteplicità delle sue comunità e culture nelle quali ogni giorno si costruisce il destino comune.
La parola apprendimento è diventata indispensabile per parlare di noi stessi, degli altri e della convivenza con l’ambiente.

Le scienze dell’educazione si sono tradizionalmente occupate dello studio delle istituzioni che forniscono l’istruzione formale, ma oggi  è importante  l’espansione e la diffusione del paradigma pedagogico in aree non tradizionalmente considerate educative, in qualsiasi parte del mondo l’istruzione non è solo una questione di ciò che si insegna a scuola, ma è, in nome dell’apprendimento permanente, qualcosa che permea il governo di tutte le attività sociali.

Diventa importante per gli insegnanti sostenere gli alunni a trovare il modo migliore  di sviluppare la capacità di capire e gestire il proprio futuro, le narrazioni nel contesto dell’istruzione sottolineano che il mondo è diventato sempre più mutevole e difficile da prevedere. Una delle voci all’interno di queste narrazioni chiede come la scuola potrebbe prepararsi per un futuro di cui sappiamo meno ma di cui dobbiamo sapere sempre di più. La risposta data riguarda lo sviluppo di talenti per essere in grado di gestire nuove situazioni.
Il compito più importante per l’insegnante è quindi quello di organizzare ambienti e contesti di apprendimento stimolanti che supportino processi esplorativi in cui l’individuo in modo attivo acquisisca conoscenza e dove la conoscenza è considerata un processo piuttosto che un prodotto.

Una componente cruciale nel processo di apprendimento è, dunque, la metacognizione, come produrre conoscenza su noi stessi, capire come la conoscenza funziona nella pratica, progettare i nostri propri processi di apprendimento come un oggetto di ricerca, una meta-prospettiva per il futuro.
Pertanto, una dimensione centrale della formazione degli insegnanti è la capacità di sviluppare conoscenze su come la conoscenza è prodotta e costituita. In questo contesto, la conoscenza e i processi di apprendimento degli studenti diventano a loro volta una pratica di conoscenza per la produzione e lo sviluppo della conoscenza degli insegnanti. Senza dubbio “imparare” nelle narrazioni contemporanee significa qualcosa di diverso rispetto a quelle di altri periodi storici. Viviamo in una società rischiosa, incerta e in continua evoluzione. In questo contesto diventa indispensabile la svolta epistemologica che iscrive l’apprendimento permanente e la costante formazione e produzione di conoscenza nella pratica quotidiana come chiave per un futuro gestibile.

Pianificare il futuro significa pianificare le disposizioni e le sensibilità interiori che ordinano i modi in cui le persone risolvono i problemi in quanto cittadini orientati al futuro. La realizzazione del futuro diventa così un progetto individuale di apprendimento permanente. Non più l’alunno, l’allievo, lo scolaro della tradizione, ma il soggetto singolo pensato come il primo organizzatore del proprio destino.

Considerare l’intera società come luogo di conoscenza, come un luogo di apprendimento diffuso che investe la responsabilità dei singoli soggetti in termini di lifelong e life wide learning costituisce una condizione indispensabile alla governance del ventunesimo secolo.

Bibliografia

Biesta, G. (2006)
‘What’s the point of lifelong learning if lifelong learning has no point? On the democratic deficit of policies for lifelong learning’, European Educational Research Journal, 5: 169–80.
European Commission (1996)
Teaching and Learning: Towards a Learning Society, Luxembourg: Office for Official Publications of the European Communities.
European Commission (2000)
Commission Staff Working Paper, Memorandum on Lifelong Learning, Brussels: European Commission.
Fejes, A., Nicoll, K. (2008)
Foucault and Lifelong Learning. Governing the subject, Routledge, NY.
Field, J. (2000)
Lifelong Learning and the New Educational Order, Stoke on Trent: Trentham Books.
Gustavsson, B. (2002) ‘What do we mean by lifelong learning and knowledge?’ International Journal of Lifelong Education, 21: 13–23.
UNESCO (1996)
Learning: The Treasure Within, Report to UNESCO of the International Commission on Education for the Twenty-first Century, Paris: UNESCO.




PNRR Scuola 4.0. Ma se non cambiano le competenze pedagogiche, i ruoli, la cultura digitale dei docenti…

di Rodolfo Marchisio

Sto seguendo lo sviluppo affannoso dei colleghi delle varie scuole dei progetti PNRR Scuola 4.0, attraverso il dialogo con alcuni amici Animatori digitali e il dibattito serrato su alcuni ambienti social.
Si tratta, come tutto il Pnrr di soldi, tanti ed europei, ma anche della ennesima “iniezione” di tecnologie “didattiche” nella scuola. Questa volta la richiesta viene dalle scuole e dovrebbe essere più contestualizzata.
Ho vissuto la scuola dal 1969 come docente e con tanti, troppi, ruoli: da “Animatore Digitale” a Funzione Obiettivo, si chiamava così, del POF, a “preside ombra” per 25 anni.
Ho seguito, come docente (e formatore dal 1982) le varie iniezioni di “digitale” nella scuola tramite progetti, che ho scritto, seguito, presentato, realizzato, dagli anni 70.

Dal PNSD, a Fortic 1 e 2, a classi 2.0, 3.0, LIM, “Buona Scuola” e via delirando. DaD e Covid compresi.
Una scuola con sempre meno risorse (clamorosi i tagli anche di organico di Gelmini, ma anche il recente DEF vuole ridurre l’investimento nella scuola dal 4 al 3,5% del PIL, quasi tutto usato per gli stipendi dei docenti che stranamente continuano a mancare).

Allora la scuola era e continua ad essere, per avere risorse, un progettificio.
Si fanno tanti progetti per avere risorse, ma anche perché manca sempre un progetto comune di scuola e quelli tentati (da Moratti alla “Buona scuola”) non reggono. Specie con meno risorse.

Una constatazione
Come

  1. Sperimentato personalmente in questi decenni
  2. Dimostrato da studi OCSE dal 2014, 2015 fino ai più recenti degli scorsi anni
  3. Raccontato da Gui, nel libro Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio? che riassume quanto avvenuto.

    L’uso di tecnologie digitali non modifica la qualità dell’Insegnamento/apprendimento.
    I buoni docenti si. Indipendentemente dalle tecnologie che usano e anche in DaD.

a- “La capacità degli insegnanti emerge come prioritaria per il successo dell’innovazione quando le ICT vengono integrate come strumenti didattici a supporto dell’insegnamento di altre discipline”…
b- “Oltre ad un problema legato alla disponibilità di risorse, la scuola italiana mostra un certo grado di resistenza al cambiamento: solo il 73 per cento degli insegnanti in posizione direttiva ritiene che la propria scuola reagisca in maniera veloce ai cambiamenti quando necessari, contro una media OCSE dell’87,8 per cento”…
c- “Nel testo OCSE si segnala che il successo nell’uso delle ICT per scopi educativi si basa soprattutto sulla capacità degli insegnanti di selezionare, creare e gestire risorse digitali adeguate a un insegnamento innovativo e inclusivo perseguito adattando le strategie di inserimento delle ICT al contesto scolastico specifico. Non basta quindi la disponibilità di attrezzature ICT per garantire che gli studenti ottengano un miglioramento sul versante cognitivo…[1]

Iniezioni forzate di tecnologie vs riforma della scuola: innovazione tecnologica vs riforma

Ogni ministro dell’ex MIUR poi MI e oggi MIM ha velleitariamente e colpevolmente iniettato nella scuola, d’intesa con partner commerciali, una tecnologia “digitale” con relativa formazione, inclusa spesso nel pacchetto dal fornitore di turno, senza che questo fosse chiesto dalle scuole in base ad una analisi dei bisogni e dei contesti. E senza un progetto generale.
Spesso senza che questo diventasse patrimonio di tutti i docenti e senza monitorare l’esito di questi investimenti di soldi e di tempo, per pigrizia e perché intanto cambiava Ministro. Il report dell’impatto qualitativo delle classi 2.0 se ben ricordo elaborato dall’Ispettore Tecnico De Anna, che ho letto, non è mai stato preso in considerazione dal Ministero.

Quanti docenti coinvolgono questi progetti

Solo il Covid, per forza di cose, ha portato ad aumentare la percentuale di docenti interessati ed abbastanza addestrati (dal 30 a 70%) nell’usare piattaforme commerciali riciclate (come lo erano le LIM: la scuola come “mercato di riserva”) ed insicure: vedi pareri drastici dell’allora Garante della privacy A. Soro sul controllo dei dati sulle piattaforme Google (Zoom, Class room che continuiamo da usare) o Microsoft per la scuola; rigide, non nate per la scuola e che non hanno mai dato garanzie di controllo dei dati di docenti e famiglie .
“Se non siete in grado di controllare l’uso che dei vostri dati fanno i padroni delle piattaforme (e nessun DS è in grado di farlo) tornate ad usare solo il registro elettronico”. A. Soro

Quasi sempre la formazione era ed è legata a competenze di uso e ha coinvolto un numero limitato di docenti. “Saper usare” una LIM, un’aula 2.0 o 3.0; mentre il livello di consapevolezza delle implicazioni pedagogiche, didattiche, di cultura e cittadinanza digitale è, anche tra molti docenti, carente. Come peraltro dimostrato dalla sperimentazione, che sta finendo, della Educazione civica, in particolare della educazione alla cittadinanza digitale.

Tutti vogliamo usare, pochi vogliono riflettere su come funziona il web oggi e perché funziona così.
E sul fatto che il web è uno dei 3 ambienti in cui viviamo in contemporanea: insieme a quello sociale (Costituzione e diritti) e quello naturale (ambiente). Un ambiente che ci sta cambiando profondamente. [2]
Ma che è anche un campo di battaglia tra oligopoli, Stati e cittadini troppo spesso inconsapevoli e vittime. [3] I ragazzi debbono sapere cosa succede sulla loro pelle in rete” perché cambiare è ancora possibile. Vademecum MI 2018

Abbiamo girato pagina con la scuola 4.0?

Leggendo colpiscono:
a) il linguaggio da addetti ai lavori al limite della comprensione. Vecchio difetto. Come se una cosa detta da “figo” in Inglese la rendesse più utile e più appetibile (o inaccessibile?).
b) La varietà delle richieste e dei modelli in discussione (da chi organizza aule “digitalizzate”- qualunque cosa voglia dire – una per materia; a chi vuole organizzare un’aula virtuale a 360° in cui l’allievo si immerga; a chi chiede se si possono prevedere tra le spese a bilancio la tinteggiatura delle pareti – si ma solo se si dipingono soggetti “digitali” risponde l’esperto-; a chi integra più concretamente e cerca di rendere più flessibile l’uso delle tecnologie sganciandole dall’aula organizzata a lezione frontale con un PC sulla cattedra e uno per banco…); a chi si butta sulla robotica…

Alcuni aspetti da approfondire:

  1. L’iniezione di tecnologie “digitali” di per sé continuerà a non modificare la qualità dell’insegnamento/apprendimento indipendentemente da quanti soldi si sono spesi e dalla originalità della proposta.
  2. La formazione dovrà servire non ad “imparare ad usare” quella roba li con un nome strano in inglese, ma a:
  • A coinvolgere più colleghi possibile nella sperimentazione delle tecnologie, nei loro ambiti disciplinari e nelle attività trasversali di didattica attiva, a patto che ne capiscano l’utilità, elaborino attività convincenti e ne abbiano voglia.
  • Lo scopo della formazione non può essere solo di addestrare all’uso del nuovo giocattolo. È vero che nell’elaborare i progetti bisogna indicare obiettivi ed utilità didattica, ma la riflessione sul rapporto spazi, tempi e metodologie didattiche o quella sulla utilità ai fini della formazione di una cittadinanza digitale è da approfondire.
  • La riflessione su questi progetti è condizionata dal fatto che non si tratta solo di più tecnologie, ma di modificare le competenze ed i ruoli dei docenti che inevitabilmente debbono diventare organizzatori di spazi e di tempi, tutor, registi, animatori e gestori di una didattica formativa che coinvolga gli allievi li renda protagonisti di una ricerca attiva, che sa dove comincia ma non sa dove finisce. Che “ceda il controllo dell’ambiente” agli allievi (Penge). [4]

Ricordo un collega che, di fronte al laboratorio “nuovo” digitalizzato, organizzato fisicamente in aree/gruppi di lavoro e non ad aula frontale, perché orientato alla ricerca (la strutturazione degli spazi condiziona il tipo di didattica e di metodologia, vedremo, come la organizzazione dei tempi) lo trasformava in aula di proiezione: prima aveva usato la LIM come schermo cinematografico e prima ancora proiettava sul muro della classe. Però era passato dalla cassetta VHS, al CD e poi alla pennetta. Evoluzione dei supporti vs evoluzione della metodologia e della riflessione e consapevolezza didattica.

Sono invece condizioni necessarie
1- una capacità di organizzazione di spazi e tempi più flessibile da parte dei docenti
2- una maggiore articolazione dei ruoli e delle competenze dei docenti coinvolti e
3- la formazione di una cultura dell’ambiente digitale in cui viviamo, che sta dietro a tutto questo.
Ne parleremo presto.  Se interessa.

 

 

 

 

[1]  https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/ict-e-scuola-il-nuovo-questionario-ocse-pisa-2021/

https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-le-carenze-della-scuola-italiana-il-quadro-secondo-i-dati-ocse

[2]https://www.bing.com/videos/search?q=youtube+nuovo+pavonerisorse+come+il+web+ci+cambia&view=detail&mid=3D725C592E07AE7AE2BF3D725C592E07AE7AE2BF&FORM=VIRE

[3] Casilli, Schiavi del clic, https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/schiavi-del-clic/

[4] Per il concetto di apprendimento come cessione/conquista di un ambiente e molto altro vedi intervista a S. Penge sul suo ultimo libro https://www.youtube.com/watch?v=jsznEAr7whc




E portò via anche l’origano…

di Raimondo Giunta

Non ci sono parole per esprimere il disgusto per quello di cui è stata accusata la dirigente dell’ICS GIOVANNI FALCONE, situato nel quartiere Zen a Palermo.
Il danno arrecato alla scuola e al principio di legalità in terra di mafia è incalcolabile e non sarà per nulla facile riedificare ciò che è stato distrutto, soprattutto se si considera quanti vengono colti in questioni di malaffare ,regolarmente coperte da quotidiane esternazioni contro la mafia.
Questa orribile vicenda mi spinge a fare qualche riflessione sul ruolo del dirigente in regime di autonomia scolastica,perché credo che ci siano tanti modi e tante ragioni per evitare che possano ripetersi fatti come quelli verificatisi allo Zen di Palermo.
In una scuola che vuole essere una comunità educativa l’autorità del dirigente scolastico si dovrebbe fondare sulla capacità di fare della propria scuola un modello di convivenza collegiale e culturale e non sull’esercizio arbitrario dei poteri che gli affida la legge.
Non sono pochi, purtroppo, i dirigenti scolastici che ritengono di non potere fare bene il proprio mestiere ,perché sarebbero molestati dagli insegnanti che sollevano obiezioni e perplessità sul loro operato, e perché devono tenere conto di quello che ancora si decide nei collegi degli insegnanti e nei consigli di istituto.
Ricordo ancora la dichiarazione pubblica “LASCIATECI LAVORARE”, sottoscritta da alcuni dirigenti scolastici, in piena pandemia, come se il lavoro a scuola consista nell’esecuzione dei loro ordini di servizio.


Il prestigio di un dirigente non deriva dall’esercizio incontrastato dei suoi poteri, ma dalla capacità di spiegare e giustificare le proprie decisioni in termini pedagogici, professionali e anche morali e dalla capacità di interpretare e affermare i principi costitutivi di una istituzione che è e deve restare democratica nel suo assetto e nelle sue procedure.
Si parla di management delle risorse umane, scimmiottando il mondo aziendale, mentre invece si dovrebbe capire che a scuola il problema più serio è oggi e sarà domani il management dei significati.
Il problema vero è sempre quello di impegnarsi in favore di valori educativi da condividere con tutto il personale, con gli alunni, con le famiglie, con la comunità di riferimento, per trovare il senso delle cose che si fanno e dello stare insieme, per trovare passione, entusiasmo, motivazioni profonde nel lavoro a scuola, soprattutto nelle scuole collocate nelle cosiddette zone a rischio.
Il problema quotidiano che si deve affrontare è quello di trovare ragioni e significato dell’educare e dell’essere educati.
Chi conosce la fatica del fare istruzione ed educazione sa che non c’è alcun bisogno di padroni a scuola , ma di professionisti riflessivi ,dotati di scienza , di esperienza e di intuizione creativa.
C’è bisogno, proprio in regime di autonomia, di professionisti che sappiano integrare valori e culture, non semplici risorse umane; che abbiano strategie motivazionali e che rifuggano da qualsiasi forma di prevaricazione.
L’autonomia ha un senso se viene pensata e gestita per dare diritto di parola, per consentire la partecipazione a tutte le scelte; per valorizzare tutte le professionalità esistenti in ogni singolo istituto. L’autonomia scolastica funziona efficacemente e dà buoni frutti solo se c’è cooperazione, dialogo tra le componenti professionali .Senza un reale potere sul proprio lavoro, senza autonomia intellettuale non c’è professionalità e senza professionalità dei docenti non c’è autonomia.
I dirigenti che vogliono comandare e solo comandare devono ricordare che scuole che funzionano, senza gli insegnanti che vi lavorano con il loro sapere, con la loro cultura, con la loro professionalità, con il loro spirito di sacrificio e con la loro dedizione non ne esistono.Solo
all’interno di istituzioni autoritarie o che pretendono di diventarlo se ne fanno e se ne vogliono fare dei docili esecutori delle direttive dell’amministrazione.Il lavoro dell’insegnante appartiene alla categoria delle attività intellettuali,alle quali togliere libertà e autonomia è togliere l’aria che serve per vivere .
Non credo che la dirigente della scuola GIOVANNI FALCONE dello Zen a Palermo si sia attenuta a qualcuna di queste regole di buonsenso.Non è un caso che tutta l’inchiesta sia partita dalla denuncia di un’insegnante che vi lavorava .




Liceo Meid in Itali e Via della Se(t)ta

di Mario Maviglia

In questi giorni si è fatto un gran parlare del Liceo Meid in Itali, ma pochi hanno capito di che si tratta, a cominciare probabilmente dagli stessi proponenti.
Siamo venuti a conoscenza, per vie traverse e inconfessabili, dei progetti di istituzione di questo nuovo Liceo e qui ne diamo una sintetica descrizione. Alcuni aspetti possono apparire poco chiari, ma è normale in quanto ci si trova in una fase incoativa di elaborazione; la versione definitiva sarà sicuramente ancor più confusa e campata in aria.

Il Liceo Meid in Itali nasce dall’esigenza di valorizzare il patrimonio linguistico, culturale, enogastronomico e zootecnico del Bel Paese.
Tante eccellenze italiche (quasi tutte in mani straniere, per la verità…) meritano di essere esaltate per promuovere un nuovo Rinascimento italiano come crocevia di eleganza, bellezza, armonia, sviluppo, qualità e ricchezza. (Sembra che come immagine per rappresentare i primi tre aspetti eleganza/bellezza/armonia verrà utilizzata una foto – formato segnaletica – della seconda carica dello Stato).

Questo ambizioso progetto troverà una sintesi nel nascente Liceo Meid in Itali, unico nel suo genere nel mondo. In realtà qualcosa del genere è stato tentato anche negli USA, ma l’espressione High School Fatto in America suonava male e l’idea è stata subito abbandonata.

Ma vediamo nel dettaglio gli elementi salienti di questa nuova epocale avventura che lancerà l’Italia nel firmamento culturale planetario. (L’idea di chiamare Speis Sciatol Ciallenger questo lancio è stata scartata data la sfortuna dell’analogo lancio).
Il punto di partenza è costituito ovviamente dal riscatto della Lingua Italiana che verrà potenziata e depurata da tutti i forestierismi che la affliggono. Ecco perché la denominazione di Liceo Meid in Itali viene scritta in questo modo e non Made in Italy come taluni vorrebbero in spregio alla lingua del Manzoni.
Tutto deve essere scritto in italiano, plis! C’è solo un problema che i proponenti devono risolvere: nella compagine governativa vi sono non pochi ministri che tra celticismi, venetismi e brianzolismi non conoscono la lingua italiana.
Risulta difficile depurare la lingua nazionale da anglicismi e francesismi se non si provvede a pulirla anche da queste anomalie, sennò ciò che viene cacciato dalla porta rientra dalla finestra. Pota! E in effetti il Ministro della Cultura è cascato in  questa trappola, dichiarando (Ansa, 29 dicembre 2022): “Credo che un certo abuso dei termini anglofoni appartenga a un certo snobismo, molto radical chic, che spesso nasce dalla scarsa consapevolezza del valore globale della cultura italiana. E anche della sua lingua, che invece è ricca di vocaboli e di sfumature diverse.”
Parole sante! Ma forse una “scarsa consapevolezza del valore globale della cultura italiana” alberga anche nella fertile mente del Ministro culturale, visto che il termine snobismo deriva da snob, un lemma non proprio italico; e l’espressione radical chic è formata da due parole, l’una inglese, l’altra francese. Prima di avviare l’ambizioso Liceo Meid in Itali è opportuno che l’establishment politico governativo vada in pellegrinaggio a Firenze per fare un lavaggio linguistico all’Arno…

Ma i nostri meidinitalisti già pensano a come rendere più abbordabile e popolare la lingua italiana e più al passo coi tempi: il congiuntivo verrà soppresso in quanto inutile zavorra; il pensiero ipotetico-deduttivo lascerà il posto al pensiero unico, più sobrio, maneggevole e soprattutto più manipolabile; il punto di domanda verrà tollerato solo nelle domande retoriche, per il resto basta credere e obbedire. Insomma, vi sarà una rivisitazione generale della lingua italiana che risulta essere la quarta lingua più studiata al mondo; chissà che non si cominci a studiarla anche in Italia…

Un po’ più complicato è capire cosa esattamente si prefigga di raggiungere il Liceo del Meid in Itali.  Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge (DDL S. 497 – XIX Leg, primo  firmatario Carmela Bucalo) si dice che mira a “formare una classe dirigente in grado di mettere a sistema opportunità e criticità con metodo, capace di puntare su solide competenze in economia, marketing, comunicazione, così come nel digitale, ma allo stesso tempo una classe dirigente che conosca il tessuto storico, sociale e culturale forgiato da storia millenaria”.
Insomma “una scuola superiore dove alla struttura liceale, con lo studio delle materie umanistiche dalla filosofia alla storia dell’arte, delle scienze matematiche, fisiche, giuridiche ed economiche si aggiunge l’approccio critico all’economia internazionale, e ai nuovi modelli di business.”

Per raggiungere questi obiettivi sono previsti i seguenti insegnamenti nel quinquennio:
1) per il primo biennio:
1. lingua e letteratura italiana; 2. lingua e cultura straniera; 3. storia dell’arte; 4. matematica; 5. informatica; 6. scienze naturali; 7. fisica; 8. scienze motorie e sportive; 9. storia e geografia; 10. diritto ed economia politica; 11. religione cattolica o attività alternative;
2) per il secondo biennio e per il quinto anno:
1. lingua e letteratura italiana; 2. lingua e cultura straniera; 3. storia dell’arte; 4. matematica; 5. informatica; 6. scienze motorie e sportive; 7. storia; 8. filosofia; 9. religione cattolica o attività alternative; 10. economia e gestione delle imprese del Made in Italy; 11. modelli di business nelle industrie dei settori della moda, dell’arte e dell’alimentare; 12. Made in Italy e mercati internazionali.

Queste ultime tre discipline sono le uniche non previste nel curricolo degli altri licei attualmente in essere, quindi vuol dire che solo questa tipologia di liceo è autorizzata a promuovere il Meid in Itali. Alcune domande sorgono spontanee:

  1. Nella relazione di accompagnamento al DDL S. 497 – XIX Leg. si dice che “Il cosiddetto Made in Italy è dato dalla creatività e dalla naturalezza, specificatamente italiana, con cui si spazia dalle specialità agroalimentari, alla moda, all’arredamento, al design, e che spesso traggono origine ed ispirazione dai nostri antichi mestieri. Questo insieme di eccellenze italiane deve essere messo a sistema, governato e potenziato.”
    Ma se questo è vero, allora tutti i licei dovrebbero promuovere il Meid in Itali. Perché limitarlo ad un solo liceo, dato il carattere trasversale del Meid in Itali?
  2. Gli altri licei cosa faranno? Promuoveranno il Meid in Roccacannuccia? O il Meid in Albisola Superiore, a seconda della località? Oppure il Meid in Ciaina, contribuendo in questo modo allo sviluppo di quella Via della Setta che tanto lustro può dare all’Italia? (Setta massonica, beninteso. L’Italia ha una certa esperienza in materia…).
  3. La terza non è un domanda, ma una constatazione: gli Istituti Tecnici e Professionali in questo discorso non sono presi in considerazione per un motivo molto semplice: non essendo licei non possono essere considerati vere scuole, ma – nella migliore delle ipotesi – simulacri di scuole. Sì, certo, sviluppano conoscenze, competenze e abilità di un certo livello, ma non sono pervasi da quello spirito gentiliano che solo dà senso alla realtà. Al più, possiamo considerarli serbatoi di manovalanza pre-intellettuale, riservati alle classi sociali gerarchicamente meno dotate. Più che del Meid in Itali possono occuparsi dell’Handmade…, pardon, dell’Endmeid.



Admin(chiam)

di Marco Guastavigna

“It is like
in the PNRR
on the cloud
the school”
(Google traduttore)

Sabato ho rimesso piede per la prima volta dopo il lockdown in un’aula scolastica. Alle mie spalle una LIM, collegata ad un PC dotato – ovviamente – di Windows. All’accensione, due possibili ingressi: il plenipotenziario e non meglio identificato possessore dei “privilegi” logistici e gestionali sul dispositivo, l’Admin, e il/la Docente, abilitato/a a utilizzare le risorse selezionate e installate dal grazioso supervisore, dalle cui decisioni dipende in toto.
Del resto, è questa la logica con cui molte – troppe – istituzioni scolastiche della Repubblica stanno affrontando in modo collegiale (sic!) le questioni relative ai finanziamenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: la delega tecnocratica, con progettazione degli ambienti e scelte in merito a tipologia e dotazione dei dispositivi confinate nell’ambito degli addetti ai lavori.
O, meglio: dei presunti addetti ai lavori così come li concepisce un immaginario collettivo e professionale superficiale e ritroso, incapace perfino di riflettere sul fatto che – per fare un esempio “caldo” e recente – sulla questione di ChatGPT e della cosiddetta “Intelligenza artificiale” si sono espressi e continuano a pronunciarsi non solo gli esperti dello specifico settore, ma sociologi, psicologi, giuristi, filosofi, linguisti, matematici e così via, che hanno colto la valenza generale delle istanze socio-tecniche e le loro implicazioni di configurazione complessa ed estesa.
E così stanotte ho fatto un sogno che mi vedeva entrare in un’aula scolastica per inaugurare la formazione di un gruppo di insegnanti, attività che ho svolto in centinaia di occasioni.
I personal computer pre-colonizzati da Microsoft venivano accesi e le password inserite, l’usuale chiacchiericcio si arrestava in attesa che io cominciassi a distribuire il Verbo (Word, nota di Google Traduttore).
Non ce l’ho fatta.
Ho salutato i colleghi, sono andato dal dirigente scolastico e mi sono dimesso da formatore.