L’amore per chi resta. Riti di passaggio

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

Da tempo volevo cercare di affrontare il tema dei processi che si articolano attorno all’esperienza del lutto e della morte, era nell’aria da mesi, era nei discorsi dei ragazzi, nei disegni dei bambini, nei visi inespressivi di chi mi parlava, esprimendo rassegnazione e senso di precarietà.
Poi ho incontrato Marybel dai dolci sorrisi, che mi chiedeva come preparare i suoi tre bambini alla incombente dipartita della nonna tanto amata, e l’urgenza è diventata necessità, ma una necessità che conteneva anche la chiave di lettura: l’amore per chi resta.
Spesso gli adulti, presi nella morsa del loro dolore e dalla negazione per difendersi da quanto sta accadendo, dimenticano la necessità del bambino di elaborare il proprio lutto.
Per proteggerlo dal dolore e dall’angoscia, cercano di tenerlo all’oscuro, a volte perfino d’ingannarlo su ciò che è accaduto o sta accadendo.
Il bambino può percepire però d’essere stato imbrogliato (A.Marcoli,2014), può imparare a non fidarsi dei grandi e a non mostrare il proprio vero sentire; può costruire teorie bizzarre sulla vita e la morte, a volte altamente patogene. Al contrario, il bambino, la bambina vanno supportati e accompagnati nel tempo e nello spazio per capire, esprimere ogni emozione (stupore, curiosità, dolore, angoscia, paura, rabbia, senso di colpa o d’impotenza…).
A volte possono persino pensare d’esser loro i ‘colpevoli’, allora occorrerà rassicurarli, parlar loro dell’inevitabilità della morte e del fatto che non verranno abbandonati a breve anche dagli altri adulti cari.

Costruire con loro riti di passaggio aiuta a costruire senso! Permettere loro di partecipare ai momenti commemorativi, può aiutarli ad imparare o ricordare che dopo la caduta delle foglie arriva sempre la primavera.
I momenti in cui ci si trova in famiglia, ad elaborare un lutto comune, sono preziosi per la loro forza integrativa nella mente di ognuno (C. De Gregorio 2011).
Rimangono in memoria come momenti tristi, ma, paradossalmente, anche felici. La mancata elaborazione del lutto invece può comportare malessere psichico duraturo e può avere conseguenze pesanti sulla salute mentale della persona e dei suoi discendenti, come risulta da ricerche e psicoterapie (P. Roccato 1995, 2013).
Durante un corso di formazione in ambito bioetico, con immenso dolore, un medico ci raccontò d’essere stato escluso, da bambino, dal poter partecipare al funerale del padre, di aver attribuito questa decisione alla madre e di averla detestata tutta la vita per questo. Con l’aiuto dei compagni di corso ragionammo sull’eventualità che la madre fosse stata mal consigliata e che nel pieno del suo dolore avesse inutilmente cercato di proteggerlo da ciò che già lei, probabilmente stava sentendo come insostenibile. Insieme, tra le lacrime, facemmo pace con quei suoi ricordi che purtroppo avevano condizionato in modo significativo la sua relazione con la madre. Gli augurammo di riuscire a recuperarne almeno una parte.
Favorire l’elaborazione del lutto è dunque fondamentalmente fare prevenzione primaria e ‘preparare un bambino ad affrontare gli avvenimenti dolorosi della vita vuol dire aiutarlo a camminare in modo più leggero verso il futuro’ (A. Marcoli 2014).

Con Marybel siamo arrivate un pochino in ritardo e ora la bimba mezzana sta patendo tutti i processi separativi, problematizza l’andata alla scuola materna, si aggrappa al nonno, è triste ed arrabbiata ma sta cominciando a ricevere alcune risposte dai genitori, guarda il cielo e nelle stelle ritrova la nonna, le sta dedicando un libricino con foto, disegni, ricette che sta raccogliendo insieme alla mamma. Ci vorrà del tempo per far pace con questo evento naturale ma inaspettato e prematuro.
Anche ora, dopo la pandemia servirebbe un rito di chiusura ed elaborazione di quello che abbiamo vissuto per più di due anni, proprio per circostanziare gli eventi nella loro eccezionalità.
Nei primi mesi di quest’anno, all’interno di un progetto a contrasto della dispersione scolastica, ho chiesto ai ragazzi di una scuola media di parlarmi delle loro preoccupazioni. È emersa una grande paura per il futuro imperscrutabile e per la possibilità che vengano a mancare i propri cari.

L’aver preso coscienza della realtà della morte, con immagini e conteggi 24 ore su 24 durante la pandemia, ha strutturato in loro una sorta di angoscioso terrore.
A questo purtroppo si aggiunge anche la ricezione continua di stimoli e informazioni dai social, ad altissima velocità, cui sono esposti, e che accorcia enormemente i tempi del presente e del futuro, sollecitando con urgenza il soddisfacimento dei bisogni e la realizzazione degli obiettivi, con aspettative altissime.

Le ricadute più frequenti però sembrano essere una quasi totale perdita di senso e una caduta energetica vistosa, in alcuni casi persino estrema, come ci indicano i dati crescenti relativi ai suicidi.
A volte, raccontano, scappa il senso dalle giornate, sembra non esserci un buon motivo per muovere un passo, parlare, sorridere. Si sente il bisogno disperato di saper cosa fare per ricominciare, per smettere di sopravvivere ma fuori nulla li attrae o li accende. Spesso si rischia di pensare di non essere amati, ma in realtà non si sta più amando e questo genera distanza sociale. Si dice che per superare le crisi sia necessario attraversarle, guadarle, ma in quei momenti sembrano paludi stagnanti, senza possibilità di movimento. Sembra che nessuno possa aiutarli, passargli il boccaglio con l’ossigeno.

Lo racconta proprio così Federica, giovane neolaureata in cerca di prospettive in questo momento di stagnazione economica.

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Le fronde degli alberi che si muovono cullate dal vento mi regalano sempre una gioia profonda. Questo però durante il giorno. Di notte quel fruscio mi mette inquietudine, come se qualcosa di strano o minaccioso si stesse avvicinando. Un po’ come il Nulla di Fantasia.
Questa metafora non è scontata nel momento in cui mi trovo a fare i conti con un profondo radicamento a terra dei miei piedi, mentre il mio sguardo ha introiettato una visione esterna, periferica, quasi aerea sul mondo. Lucida e a volte disillusa. Preoccupata e un po’ rassegnata. Mi sembra di essermi accorta che viviamo tutti in una finzione o in tante finzioni, che poco valga la pena, che questa vita e questo pianeta poco hanno di definito e sono preda delle coincidenze, del caso, così come lo siamo noi e i nostri destini. Poco è certo, se non che questa vita smetterà di battere, quella dei miei cari anche, spero il più tardi possibile, e anche quella della nostra specie, una tra le tante, del pianeta.

Non sono, non siamo più il centro.
Questo mi fa sentire vagamente persa. Sto cercando di capire il momento in cui si è rotto qualcosa, e cosa sì è rotto. Se quando l’estate scorsa è morta la mia gatta Tigra o già prima, non saprei. Ho perso un po’ di senso e mi sembra di vedere tutto sotto una strana luce ridicola, come se quello che facciamo, costruiamo, viviamo non fosse che una copertura, un nascondere la vera realtà, la finitezza, l’insensatezza, l’incertezza.
Molte cose ancora mi danno benessere: una bella fioritura, gli uccellini, gli affetti e gli amici veri, forse l’unica ragione sensata, la danza ed i piaceri semplici, come la lettura, il sorriso di un’allieva, uno studio ben riuscito, le fragole.
Ma sono tipicamente più triste. Non ho perso la luce negli occhi ma se ne è aggiunta un’altra più spettrale. Nonostante questo continuo a rifugiarmi nella cura del cibo, del corpo, dei miei interessi e dei rapporti, nella preoccupazione sul futuro, sul lavoro…
Definire cosa sia il superfluo, capire se esiste un’essenza. Come si fa a vivere sereni dopo una scoperta così? Come hanno fatto filosofi e poeti? Forse l’accettazione di questa realtà, della malattia, del nonsenso, della povertà, della morte, del non controllo se non futile possono aiutare a vivere meglio…godendo dei piccoli piaceri transitori (se l’agnosticismo non mi inganna), del soddisfacimento di un bisogno proprio o dell’altro, della realizzazione di un compito ben svolto, del mare, dell’amore.
Mentre cerco il pezzo rotto, vorrei provare a soffermarmi di più, a contemplare, registrare immagini e sensazioni, amare più consapevolmente e più profondamente, tenere stretto ciò che posso, vivere; che è l’unica cosa che siamo nati per fare.
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Ho provato a spiegarlo ai ragazzini delle Medie, che si sentono isolati nelle classi, rifiutati, non visti. Spesso, loro stessi, evitano, non vedono, non parlano con i compagni, non permettono agli altri di conoscerli. Abbiamo costruito cartelloni con i loro desideri per il futuro, per una scuola nuova, per un lavoro un po’ più a misura d’uomo. Ora i loro lavori sono in mostra e speriamo contamino un po’ anche gli adulti!
Se notiamo qualcosa che non va, troppa rabbia, silenzio, sonno, apatia nei nostri vicini di vita, anche se purtroppo in questo momento siamo tutti un po’ a corto di energia psichica, proviamo a pensare che si può fare un po’ di staffetta, senza esagerare, ogni tanto prendendo fiato, mentre l’altro, arrancando guadagna qualche metro… Forse in due, in tre… forse insieme possiamo provare, galleggiando, nuotando a pelo d’acqua, a raggiungere l’altra riva, ma insieme, senza perderci troppo di vista.

Come ho consigliato proprio ieri ad una mamma turbata dal cambiamento umorale del figlio, in un contesto di vita connotato da frequenti lutti familiari, possiamo tentare di riempire ancora la nostra storia di vitalità, allargando lo sguardo sugli altri, sul mondo che pulsa.




Con il PNRR molti soldi per molti progetti, ma manca un progetto

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Nicola Puttilli

Sta crescendo la sensazione che anche per la scuola la valanga di risorse che si sta riversando con il PNRR sia, appunto, soltanto una valanga, una massa imponente e inattesa destinata a sciogliersi nel tempo senza, praticamente, lasciare traccia. In questi mesi assistiamo al paradosso di dirigenti scolastici che lamentano l’arrivo massiccio e continuativo di finanziamenti, quasi sempre vincolati alla digitalizzazione, manifestando quasi il pudore di dover continuare a spendere per materiali e servizi di cui già si ha ampia disponibilità o, comunque, considerati non prioritari. Senza dubbio una singolare constatazione per un sistema che ha visto un progressivo e inesorabile depauperamento di risorse nell’ultimo trentennio.

Ma il paradosso che colpisce maggiormente, nell’epoca della moltiplicazione dei progetti e dei progettifici, è proprio la mancanza di progetto.
Il più grande problema della scuola italiana, sia in termini di equità sociale sia di freno allo sviluppo economico del Paese, è quello della dispersione scolastica e della forte disomogeneità nell’acquisizione di competenze fra i diversi territori (nord-sud, centro-periferie, ecc).
Basta dare uno sguardo ai paesi che più e meglio di noi hanno risolto questo problema per capire che la chiave sta tutta in una didattica attiva, modulare, laboratoriale, attenta alla qualità della relazione. L’esatto contrario della didattica frontale e trasmissiva, inesorabilmente uguale per tutti, da sempre imperante nelle nostre scuole. Del resto c’è poco di che stupirsi, né più né meno di ciò che, dall’inizio del secolo scorso, hanno sostenuto tutti i pedagogisti più illustri , da John Dewey alla nostra Maria Montessori, fino a  Célestin Freinet che ha, fra l’altro, ispirato quel Movimento di Cooperazione Educativa che ha fortemente contribuito all’unica vera riforma dal basso, la sola possibile, della nostra scuola.

Trasformazione in senso democratico e ugualitario, suggellata ed enfatizzata dalla lettera di Don Milani, ma che ha avuto insormontabili limiti di natura storica e geografica. Ha infatti dato il meglio di sé tra i primi anni ‘60 e la fine degli anni ’70, soprattutto in alcuni comuni del nord decisi a investire in educazione nelle scuole materne, allora non ancora di competenza statale, con esiti di assoluta eccellenza (Reggio Emilia, Torino, Milano, Bologna, per citarne alcuni) e nella scuola elementare, di nuovo principalmente al nord, fino a produrre fondamentali provvedimenti legislativi come la legge 820 sul tempo pieno e la 517 sulla valutazione formativa e l’inserimento dei disabili.


A distanza di molti anni non appare un semplice caso se negli ordini di scuola e nelle zone del Paese maggiormente toccati dall’innovazione didattica si registrano, ancora oggi, gli esiti migliori per la scuola italiana, anche nelle comparazioni internazionali per la primaria. Resta, d’altro canto, la percezione di come la forte spinta innovatrice di quegli anni abbia sicuramente lasciato tracce ben presenti nelle nostre scuole,  ma non le abbia tuttavia modificate nel profondo e, soprattutto, in modo generalizzato.

Sull’onda della destra governante assistiamo sempre di più a un’opinione pubblica che attribuisce, ideologicamente e senza alcun dato di fatto, al post ’68 tutti i mali, o quasi, della nostra scuola. Verrebbe da rispondere che di ’68 ce n’è stato troppo poco o che è finito troppo presto, non che ce n’è stato troppo. Al di là, infatti, di una buona dose di massimalismo e di velleitarismo, sicuramente controproducente ma quasi fisiologica in un movimento così massiccio e dall’esordio così tumultuoso, furono poste allora le premesse per un rinnovamento complessivo della nostra scuola che non hanno purtroppo trovato seguito nei decenni a venire.

Ciò che è mancato, e che continua clamorosamente a mancare, è stata la canalizzazione delle molteplici spinte riformatrici in una visione di insieme e la sua traduzione in un progetto di medio- lungo termine. I principali nodi problematici della nostra scuola sono nodi storici e soprattutto fortemente interrelati, non si possono sciogliere singolarmente ma solo attraverso un approccio sistemico.

  • Gli spazi di apprendimento: quasi tutte le nostre scuole sono predisposte per una didattica trasmissiva e frontale, spazi tutti uguali per ripetere all’infinito il rito della lezione collettiva, una palestra (non sempre e spesso inadeguata) per l’attività fisica, qualche spazio rimediato qua e là per i laboratori e un locale mensa nei casi più fortunati, quasi mai al sud. Le scuole italiane sono per lo più vecchie e insicure, nella maggioranza manca perfino il certificato antincendio. Non è procrastinabile un piano nazionale di rinnovamento e messa in sicurezza certamente molto impegnativo sul piano finanziario, ma di cui il PNRR può costituire un primo, importante tassello. La costruzione di nuove scuole o la riconversione e messa a norma di quelle esistenti dovrebbe considerare le esigenze di una didattica attiva e rinnovata; esperienze molto significative in questo senso, alle quali fare riferimento, esistono nel nostro Paese e soprattutto all’estero.

A metà degli anni ’70 a Torino, dove vivo e ho lavorato,  furono costruiti alcuni plessi scolastici con caratteristiche molto innovative sulla scorta dell’esperienza della scuola a tempo pieno, nato nel quartiere popolare delle “Vallette”, che cominciava ad avere in città una certa diffusione: pareti delle aule mobili per diversificare gli spazi, buca per il teatro, spazi esterni dedicati agli orti, ecc. Dopo una decina d’anni le pareti erano diventate fisse, la buca per il teatro ricoperta, gli spazi esterni restituiti alla libera ricreazione. Spazi innovativi di apprendimento rischiano di essere una spesa inutile se non affiancati da un serio piano di formazione.

  • La formazione del personale: la legge definisce la formazione come strutturale, obbligatoria e permanente ma, di fatto, non è così. I vincoli contrattuali limitano fortemente queste caratteristiche fino a ridurla a una sorta di benemerito volontariato. Le risorse, pur cospicue in questa fase, arrivano alle scuole in modo disorganico rischiando di convergere su iniziative non proprio prioritarie o nelle mani delle realtà  più virtuose che meno ne avrebbero bisogno. Un serio piano nazionale richiederebbe obiettivi espliciti e dichiarati, finanziamenti adeguati e valide strutture di supporto alle scuole in grado di fornire progettazione ed esperti di qualità. C’erano una volta gli IRRSAE (Istituti Regionali per la Ricerca la Sperimentazione e l’Aggiornamento Educativo), a un certo punto qualcuno ha cominciato a sostenere che fossero inutili e costosi carrozzoni. Per quello che può valere l’esperienza personale ne ho avuto una percezione totalmente diversa e resto convinto che la loro soppressione fosse principalmente dovuta a mere ragioni di risparmio, piccola parte di quel taglieggiamento partito a metà degli anni ’90 e che ha portato, in quasi un trentennio, a praticamente dimezzare la quota di PIL destinato al sistema nazionale di formazione. Strutture simili, ovviamente rivisitate e adattate alle esigenze attuali, sarebbero invece di grande utilità.

Un serio e qualificato piano di formazione, inserito in un progetto di rinnovamento partecipato e credibile, potrebbe anche essere motivante per il personale docente ma comporterebbe nuovi carichi lavorativi e comporterebbe il superamento degli attuali vincoli contrattuali, si tratterebbe realisticamente di porre in essere un altro contestuale e massiccio intervento.

  • Gli stipendi e la carriera dei docenti: nella primavera del 2019 la commissione europea inviava una formale raccomandazione al governo italiano affinché provvedesse sollecitamente ad aumentare gli stipendi degli insegnanti, di gran lunga fra i più bassi di Europa. Da allora nulla è cambiato, i previsti e rituali aumenti contrattuali nel frattempo intervenuti non hanno in alcun modo colmato il divario, né introdotto alcuna realistica possibilità di carriera. Difficile pensare che una categoria frustrata sul piano stipendiale, oggetto di scarso riconoscimento sociale e lontana dalle attenzioni della politica possa partecipare con entusiasmo a un grande processo di cambiamento come quello che sarebbe necessario e senza gli insegnanti, l’esperienza lo dimostra, non si va da nessuna parte.

Molti altri sono evidentemente i problemi irrisolti della scuola italiana ma quelli sopra delineati sono passaggi obbligati se si vuole tentare seriamente di recuperare il “gap” con i paesi europei più evoluti. I ritardi accumulati sono enormi ma non esistono alternative anche se, al punto in cui siamo, i costi potrebbero sembrare proibitivi. Ancora una volta sono decisive la “capacità di visione” e la volontà della politica, quelle che sono mancate negli ultimi decenni e che sembrano oggi più che mai assenti se è vero che, nel Paese con il maggior tasso di abbandono scolastico e di analfabetismo funzionale, il governo in carica si preoccupa di inserire il merito nella propria intestazione istituzionale. Si inseguono la cronaca e il facile consenso inserendo le ore di educazione civica se il bullismo diventa argomento televisivo, l’orientatore se il tema del giorno è il disallineamento tra l’offerta formativa e il mercato del lavoro e già si prospettano le ore di contrasto al femminicidio, mentre il problema reale è l’innalzamento generale delle competenze dei nostri ragazzi, tutti i nostri ragazzi, in quanto cittadini attivi e responsabili in primo luogo e in quanto lavoratori  adeguatamente inseriti nel processo di crescita del Paese.

Lavorare a un grande e condiviso progetto per il raggiungimento di questi fondamentali obiettivi potrebbe contribuire a dare un senso e una visione anche all’azione quotidiana dei nostri insegnanti e dei nostri dirigenti scolastici. Per la classe politica si tratterebbe di una scelta strategica sulla quale far convergere risorse in buona misura provenienti dalla scuola stessa, dal PNRR a quelle, ancora più ingenti, derivanti dal calo demografico, fino a raggiungere gradualmente  una quota di PIL destinata al sistema di formazione paragonabile a quella degli anni ’90, in linea con quella dei paesi europei. Si tratterebbe, senza dubbio, di un grande impegno e di un grande investimento, inevitabile se si vuole evitare l’ulteriore declino della nostra scuola e, a stretto giro di posta, dell’intero Paese.




COME COMPILARE IL PEI A FINE ANNO

Nel canale Youtube di Gessetti Colorati è disponibile la registrazione dell’incontro svoltosi il 9 giugno 203 con Evelina Chiocca sul tema
COME COMPILARE IL PEI A FINE ANNO
anche alla luce delle ultime precisazioni del Ministero dell’Istruzione




Estate formativa: una iniziativa per i docenti lombardi

di Emanuele Contu

L’idea di proporre i corsi di “Estate Formativa”, rivolti prioritariamente ai docenti dell’Ambito 26 Lombardia, è nata prima di tutto da una contingenza. I fondi per le attività di formazione quest’anno sono stati assegnati molto tardi alle scuole polo, con il vincolo di concludere comunque le attività di formazione entro il 31 agosto.

Abbiamo pensato allora di proporre dei percorsi agili (quattro incontri online), con la convinzione che le settimane tra metà giugno e metà luglio per gli insegnanti siano non soltanto il periodo della fine di un anno scolastico, con scrutini e per molti anche esami di Stato, ma possano essere anche il tempo per iniziare a ricaricare le batterie facendo il pieno di stimoli e spunti di riflessione da mettere a frutto a partire da settembre.

Nei primi giorni dalla presentazione del catalogo, che comprende 25 percorsi rivolti a docenti di infanzia, primaria e secondaria, abbiamo raccolto oltre 250 iscrizioni, segno che l’attenzione è più elevata di quanto ci aspettassimo. Prevediamo di arrivare a circa 500 adesioni totali, un numero consistente se pensiamo al periodo dell’anno, alla platea ristretta cui ci rivolgiamo (le scuole dell’ambito sono 62) e al concomitante avvio dei percorsi formativi per docenti tutor e orientatori.
Stiamo anche pensando a un secondo tempo, che vorremmo collocare appena prima della ripresa di settembre: una giornata formativa residenziale, da aprire con una colazione condivisa e concludere all’ora dell’aperitivo, nella quale mettere in condivisione pratiche e spunti di riflessione tra docenti e dirigenti dell’Ambito. Provare a creare una cultura professionale comune, almeno in alcuni tratti fondamentali, è una sfida appassionante: per questo anche nella selezione dei formatori abbiamo dato spazio a molti docenti esperti delle scuole del nostro Ambito, cui si affiancano le proposte di alcuni nomi più noti come ad esempio Anna Rita Vizzari, Valeria Pancucci, Clara Alemani e Daniela Di Donato.

Clicca qui per consultare la proposta




Curatela di eventi (e di concetti)

di Marco Guastavigna

Il dibattito sulla cosiddetta intelligenza artificiale è sempre più sciatto e polarizzato: a raffiche di affermazioni apodittiche – improntate al sommo ottimismo o al massimo ottimismo, poco importa! – si affianca un’analisi asfittica.
Una delle sciocchezze più diffuse è l’impiego del termine “strumento”. È davvero stancante dover ripetere che abbiamo invece a che fare con dispositivi: contengono e dispiegano pre-decisioni, regole d’ingaggio, condizioni di impiego (anche economiche e discriminanti), mettono in atto retro-azioni e feedback, monitorano interazioni (non sempre in modo chiaro e trasparente). E così via. Per non parlare dell’appiattimento su ChatGPT, su cui fioriscono corsi e corsetti, webinar gratuiti e a pagamento, manuali che esigono il pagamento di royalties e altre iniziative di sfruttamento dell’approccio tecnocratico.

Nella stragrande maggioranza dei casi, inoltre, si trascura una questione per altro non nuova, ovvero la progressiva e totale privatizzazione della sfera pubblica e della conoscenza, già largamente praticata e accettata prima che l’emergenza del lockdown la rendesse sintassi della vita collettiva e individuale. Questione squisitamente politica, che l’impostazione e la gestione centrale e da parte delle singole unità scolastiche del PNRR moltiplica e rende sempre più drammaticamente risolta a favore degli attori del capitalismo cibernetico, ormai naturalizzati.

È perciò esclusivamente a titolo di (perverso?) gioco intellettuale che continuo ad approfondire, ad andare comunque oltre l’impressionismo digitale.
E così più esploro, più mi rendo conto che – nonostante il quadro ampiamente compromesso sul piano etico e civile – ci sarebbero spazi di riflessione significativa, qualora vi fosse desiderio di un dibattito autentico e sereno.

In primo luogo, è a mio giudizio sempre più evidente che, nel rapporto tra esseri umani e assistenti artificiali alle attività cognitive, ai secondi spettano compiti esecutivi e ripetitivi, mentre ai primi restano intenzioni, obiettivi, progettazione e (soprattutto) valutazione dell’efficacia del prodotto realizzato dall’agente digitale cui devono aver assegnato un compito preciso e definito in modo articolato.

In secondo luogo, è – sempre a mio giudizio – palese che è necessario che gli insegnanti e i loro derivati, anziché farfugliare ipotesi empiriche di attività scolastiche o pronunciare grotteschi anatemi, sperimentino e valutino gli agenti di assistenza cognitiva in prima persona sul versante intellettuale e culturale prima che didattico.

Un esempio di questo percorso di presa di consapevolezza è la “capacità tecnica” di alcuni dispositivi di transcodificazione di realizzare – in forme varie, dal sommario per punti a una vera e propria sintesi sotto forma di saggio – un riepilogo scritto del contenuto di filmati accessibili in rete, tipicamente da YouTube. Orbene: ciò è interpretabile come ennesima acrobazia operativa oppure come un’opportunità cognitiva.


Qualche tempo fa Gessetti colorati ha presentato la possibilità di estendere ipermedialmente un evento digitalmente riprodotto (un seminario online, la registrazione di una conferenza in prossimità, ma anche un filmato realizzato come manufatto culturale autonomo) mediante applicazioni a ciò dedicate, connettendo al flusso visivo immagini, testi, link e altri materiali di spiegazione, approfondimento, integrazione.
I dispositivi che ho appena indicato (Merlin, YouTubeDigest e altri) ci mettono nelle condizioni di intervenire nella curatela con un’ulteriore risorsa.
Quel che è importante comprendere è che il dispositivo macchinico si incarica degli aspetti più faticosi e ripetitivi (alzi la mano chi considera lo sbobinamento un’attività intellettuale!), mentre i redattori umani conservano pienamente il compito e la responsabilità di valutare la corrispondenza del riepilogo prodotto alla struttura, allo scopo e agli esiti dell’evento, che si desidera conservare e replicare in forma aumentata. Uno schema di elaborazione che, se praticato non come bizzarria innovativa, ma come apparato di meditato arricchimento globale – anche nella direzione dell’incremento della comprensibilità e dell’inclusione –, può valorizzare il patrimonio culturale condiviso mediante la rete.




Soldi, soldi, soldi: PNRR e Scuola 4.0 – Ma voi sapete cosa si sta decidendo nella vostra scuola?

di Rodolfo Marchisio

Le scuole sono sovraccariche in questo periodo, a causa della produzione di progetti – cfr. elenco di Stefanel – spesso legati al PNRR; non sembra tutti utili o realizzabili, né, a mio avviso legati ad una strategia esplicita complessiva che sia convincente, che vada aldilà della causalità:
soldi disponibili -> progetto -> soldi erogati.

Poiché almeno 3 filoni di finanziamenti hanno a che fare con la nuova iniezione di tecnologie digitali nella scuola e tutte con la formazione, se non con un modello di scuola, resta da definire qual è l’incastro temporale e funzionale delle varie iniziative in un progetto complessivo.
Per quanto riguarda il cosiddetto “digitale” riprendiamo l’analisi già introdotta e “curiosiamo”.
Almeno all’inizio parrebbe abbastanza chiaro.

Al fine di coordinare le misure di trasformazione digitale, ciascuna istituzione scolastica adotta il documento “Strategia Scuola 4.0, che declina il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, le innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento DigComp 2.2, l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola per la gestione della transizione digitale, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale, sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR”. Semplice no?
Si tratta di 2,1 miliardi per Scuola 4.0[1] già stanziati in base al numero delle classi (l’elenco completo dei fondi assegnati). Più altri dedicati ai laboratori (Ist. superiori), Labs (elenco completo).
Chi ha meno di 100 mila euro o ha buon senso o fa la figura del poveraccio, mentre gli altri avranno da 125 a 500 mila euro.


Da dove vengono questi soldi?
Dal PNRR, in genere da fondi UE (compresi i fondi versati dall’Italia) e parzialmente (in genere 2/3) sotto forma di prestiti. Come farà la scuola a restituire questi fondi (parliamo di 125- 250 mila per scuola)? Ne vale veramente la pena o ci stiamo facendo prendere dalla furia “digitale è di moda” e del “tanto è gratis”?
Dice un “esperto”: “unica clausola inderogabile è non scendere sotto il target”. Esageriamo!

Il linguaggio
Ci serve un Project manager (di solito, almeno formalmente, il DS), uno o più progettisti, collaudatori, DSGA, animatore digitale (che vede aumentata la sua dotazione a 2000 euro), un team digitale, un supporto tecnico-operativo al RUP.
Dopo di che se hai dei dubbi puoi aprire “un ticket”.
Basta definire e rispettare il time sheet, il capitolato e il disciplinare.
Sorgono dubbi:
Check list DNSH in particolare con la scheda 3 ex-ante?
Sono iscritti su MePA, i prodotti devono avere la certificazione CAM?
È possibile caricare i file SOLO in formato p7m?

Chi lo scrive, chi decide.
Si stanno formando, talora scalzando i “desueti” Animatori Digitali, nuovi (reali, talora presunti) gruppi di tecnocrati e amministratori “specializzati”: dov’erano nascosti sinora? Hanno avuto una formazione sul campo?
Il DS è, spesso, il project manager, almeno formalmente e come remunerazione, mentre i progetti vengono elaborati da lui, dai docenti più esperti in qualità di “progettisti” o da AD e team. Spesso direttamente dal fornitore.  Un budget del 10% va a costoro (es. 15 mila su 150 mila). Spesso occorrono graduatorie e bandi per scegliere i vari ruoli ed i vari strumenti.

I genitori, gli allievi e il collegio talora non sono stati neppure consultati
E il progetto si blocca in C. di Istituto come segnalato da M. Guastavigna.[2]
Ma non era un progetto educativo per innovare la scuola? Non si dovrebbe partire dal progetto educativo e dagli OOCC?

Dubbi.
Voi incaricate già anche il collaudatore? Anche se non ha ancora nulla da collaudare (pertanto nulla da inserire in timesheet)?
Vorrei sapere se il KIT xxxx”, Kit xxxx”, il Modello xxxx e xxxx con schiena aperta, che i docenti di matematica hanno richiesto per implementare (sarebbe integrare, arricchire?) l’ambiente innovativo dedicato alle scienze, possono essere inseriti nelle spese per l’acquisto di dotazioni digitali(?)

Altri “filosofici”
Un carrello per spostare le macchine può essere considerato tecnologia digitale?
Un tavolo che fa da supporto alla robotica può essere considerato nel digitale?
Un carrello STEM vuoto va conteggiato?
Sicuramente sono tecnologie, ma ormai confondiamo tecnologia con “digitale” anche se non ci sono chip. Cfr. Treccani.
Si può fare una parete immersiva?[3]
Ma il vero dubbio da cui partire potrebbe essere “Quali sono i requisiti minimi che deve avere un ambiente per essere innovativo? Ci sono degli elementi che si devono obbligatoriamente inserire in un ambiente per essere innovativo? Gli aggettivi sono usati in libertà. Innovativo e digitale sono sempre più sinonimi.
Più concretamente:
Possiamo far ridipingere i muri?
L’esperto: si ma dipingendo soggetti digitali. (!)
E comprare le tende? Si, se servono a oscurare l’aula per proiettare.

Focus tecnocentrico.
Parola d’ordine “digitalizzare” (qualunque cosa voglia dire).
Puoi togliere solo per incrementare le attrezzature tecnologiche (Infatti è scritto dal 60% fino a 100%).

Scorciatoie
Affidare tutto ad aziende esterne, alcune, come sempre in passato, nate apposta, forniscono pacchetti con progetti, preventivi e formazione.
Il Pnrr scuola 4.0, in affanno, sta scivolando verso l’asservimento digitale al privato. L’ennesimo.
Si avvicina la scadenza (forse rimandata a luglio o ottobre fra polemiche: ci mangiamo le vacanze!).
Risposta: “meglio fare tutto prima. Adeguarsi ai pacchetti offerti dalle ditte (!) rispettare quel che “vogliono loro” (NdA ministero) e affidare alle ditte (!).
Poi qualcuno la contrabbanderà come una “rivoluzione digitale della scuola”. La misura della innovazione calcolata sul numero e sul costo delle tecnologie comprate.
Ma senza cultura digitale comprare macchine è buttare soldi dalla finestra, perché usare il digitale senza cultura è non solo pericoloso, ma diseducativo, non motivato e perdente.
C’è chi invita alla riflessione “Dispiace leggere e sentire in giro stupidaggini, anche da aziende che creano e offrono specchietti per le allodole approfittando del gap conoscitivo di molti docenti sull’argomento. Usiamo bene i soldi pubblici, studiamo, informiamoci con i colleghi che usano già ciò che vorremmo acquistare, scegliamo bene per noi e per i nostri studenti.
Che il PNRR sia anche un’opportunità di crescita professionale! Solo così avrà una vera ricaduta sulla qualità dell’istruzione nel nostro paese.
In effetti chi ha scelto di integrare l’esistente, spesso non utilizzato da tutti, sta facendo una scelta ragionevole. Chi punta agli effetti speciali digitali aumenterà il museo delle tecnologie dalla vita breve.

I “pacchetti”
Fioriscono seminari con esperti Google o altri fornitori. Non impariamo dai nostri errori e rimaniamo prigionieri degli stessi “padroni” da cui potevamo liberarci.

Osservazioni dopo una prima lettura.
Non viene spesso discussa e dimostrata la utilità didattica ed educativa di quello che affannosamente si compra. Non ne è dimostrata quindi la necessità.
Non viene prima discussa (anche coi genitori o in collegio) la esigenza didattica ed educativa e le ipotesi educative e didattiche di questi acquisti. Gli acquisti affannosi non sono legati ad un nuovo progetto di scuola.
Spesso non sono previste ipotesi pedagogiche verificabili non legate alla stanca, falsa retorica che accompagna da decenni il “digitale” (“si annoiano meno, si creano situazioni nuove, il digitale facilita di per sé l’apprendimento, il lavoro di gruppo, il futuro nel mondo del lavoro” …)
Dubito che saranno monitorate e verificate utilità e vantaggi di queste spese ingenti.
Sarà possibile alle scuole avere questi soldi, ma restituirli? Chi, come e entro quando?
La cosa assurda è che le scuole che hanno molti problemi (dall’organico, alle risorse, alla sicurezza, soprattutto alla mancanza di un progetto di scuola insieme autonoma e Costituzionale, che garantisca però a tutti una base comune…) avranno soldi, tanti, per cose che non sono tra le loro priorità, ma una forma di condizionamento esterno non corretto metodologicamente, perché legato alla convergenza fra:

  • priorità emerse a livello europeo nel PNRR (ricostruzione e resilienza) insieme ad altre, a livello macro
  • mode, ministeriali e non solo, non pedagogie provate, che affidano alle tecnologie “digitali” il santo potere di risolvere i problemi della scuola
  • interessi delle grandi aziende che hanno da sempre nella scuola un facile mercato di riserva (Google non ci molla più da quando siamo caduti nella trappola delle piattaforme sponsorizzate dal MI e da cui siamo ancora pigramente dipendenti)
  • la apparente (e sempre più in bilico) abbondanza di fondi e prestiti del PNRR. Ammesso che arrivino.

Allora le scuole devono contestualizzare con realismo e buon senso le linee d’azione senza farsele imporre. Anche per quanto riguarda la relativa formazione.
Le conclusioni di Giannelli (ANP): “Ci troviamo nel paradosso per cui la nostra scuola, che soffre da sempre di carenza di risorse, ha il problema opposto: troppe risorse che non sa come spendere”.
Una riflessione su cui vorremo tornare è come dovrebbe cambiare il ruolo del docente, la didattica, la organizzazione di tempi e spazi, il progetto di scuola e delle scuole (obiettivi e competenze da raggiungere) su cui pare ci sia qui scarsa attenzione e consapevolezza.
E su cosa ne pensano i colleghi.

[1] https://pnrr.istruzione.it/infrastrutture/scuole-4-0-nuove-aule-didattiche-e-laboratori/

[2] Sulla motivata delibera contraria del liceo Albertelli vedi https://www.tecnicadellascuola.it/il-no-del-liceo-albertelli-al-pnrr-non-guarda-affatto-alle-urgenze-reali-non-e-una-battaglia-contro-le-tecnologie

[3] https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-liceo_albertelli_di_roma_e_i_fondi_del_pnrr_perch_non__andata_come_ve_la_racconta_repubblica/39130_49699/

[3]  “Immersivo” significa “Nel quale si entra completamente, rimanendone avvolti”. Non può esistere una “parete immersiva”, può esistere uno spazio immersivo, chiuso a 360°.

 

 

 




Non lo psicologo ma tanta psicologia per curare le patologie della scuola

di Giovanni Fioravanti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

Lo psicologo a scuola c’è ormai da tempo, con un eccesso di certificazioni per ogni disturbo specifico dell’apprendimento, per ogni bisogno educativo speciale.

È la scuola che non è mai ricorsa all’ausilio di uno psicologo per curarsi, eppure è da tempo che si segnalano vere e proprie malattie, crisi di identità, malesseri, sintomi di disadattamento e di sfinimento, addirittura pare che sia la scuola ad essere dannosa a se stessa. Ma non è attraverso il continuo ricorso alla clinica che la scuola può pensare di guarire dalle sue patologie.

La scuola più che di psicologi ha bisogno di psicologia a tutti i livelli.
Nelle professioni di relazione la competenza psicologica è fondamentale. Nella scuola questo vale dall’ultimo dei collaboratori scolastici fino al primo dei dirigenti.

Ma la relazione tra psicologia e scuola nel nostro paese non è mai stata delle più felici.
Ci aveva tentato, all’indomani della Liberazione, Carleton Washburne, pedagogista statunitense, a capo della ricostruzione della scuola italiana, mandando cinque insegnanti della scuola elementare all’Università di Ginevra perché apprendessero le teorie di Piaget. Ma il progetto naufragò perché il governo italiano di allora non aveva i soldi per pagare il viaggio e il soggiorno.


Il resto l’hanno fatto lo spiritualismo e il personalismo per anni imperanti nella scuola italiana, di fatto ostacolando una compiuta formazione psicologica dei suoi operatori.

David Paul Ausubel è stato uno psicologo statunitense, seguace delle teorie di Jean Piaget. Ha fornito contributi significativi nel campo della psicologia dell’educazione, delle scienze cognitive e della didattica delle discipline scientifiche.
Ha introdotto la differenza tra l’apprendimento di qualcosa che ci interessa e qualcosa di noioso che abbiamo acquisito in modo meccanico.
Nel primo caso parliamo di apprendimento profondo, di apprendimento significativo, di un apprendimento costruito e legato al bagaglio di conoscenze che già si possiedono, in cui l’individuo svolge un ruolo attivo ristrutturando e riorganizzando le informazioni.
Come si può intuire la teoria di Ausubel è influenzata dal costruttivismo: per Ausubel la vera conoscenza è costruita dal soggetto attraverso le sue interpretazioni.
Allora già qui si pone il problema. L’ apprendimento non è una questione di condotta, di disciplina, di attenzione passiva. L’apprendimento si costruisce, richiede una partecipazione attiva del soggetto, l’apprendimento significativo è un apprendimento relazionale.

In una scuola il cui perno organizzativo ancora ruota intorno alla disciplina e alla condotta è difficile concepire una didattica della relazione, della reciprocità.
La didattica che ancora prevale è quella condizionata dal comportamentismo, stimolo-risposta, da un “istruzionismo” meccanico e ripetitivo anziché da una prassi costruttivista della conoscenza.

E già questa è la prima patologia della scuola, non di chi la frequenta.

Attenzione, condotta e disciplina alimentano l’errore di Cartesio, segnalato dal neuroscienziato Antonio Damasio.
Classe, cattedra, banco, voti, rigidità degli orari impongono il divorzio tra intelligenza ed emozione. Tra intelletto ed emotività.
Del resto l’intelligenza richiesta dalla scuola non è mai quella del pensiero divergente, ma se la mente deve convergere sull’unica direzione della cattedra di quale intelligenza parliamo? Dunque altra patologia della nostra scuola.

Howard Gardner con le sue intelligenze multiple ha offerto alla scuola l’opportunità di curarsi dai suoi disturbi, ma dimostrazioni che si sia sottoposta a sedute terapeutiche di questo tipo non mi ritornano.

Dopo Gardner non è andata meglio neppure con Daniel Goleman e la sua “Emotional Intelligence”, in Italia appare nel ’97 con il titolo “L’intelligenza emotiva che cos’è, perché può renderci felici.”
Si tratta di un aspetto della nostra intelligenza che consiste nella capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole sia le nostre emozioni che quelle altrui.
È appunto di quelle altrui che la scuola patologicamente non sa occuparsi. L’educazione emotiva non riguarda solo gli studenti, che si pretenderebbe di formare alla resilienza ed altre varie amenità, come certi progetti di legge prospettavano e forse prospettano ancora.
Chi si deve formare all’emotività in questo caso è l’istituzione. Ciò spiega l’incompetenza delle scuole di fronte alle difficoltà e al disagio di adolescenti e bambini.
È in gioco la relazione tra sistema e comportamenti disfunzionali degli studenti che richiedono non reazioni disciplinari ed emarginalizzanti, ma capacità empatiche che aiutino a ricercare risposte alternative. Pause di attenzione, tempi di decantazione, accompagnamento, cura, pluralità di opzioni, ma soprattutto accoglienza e capacità di riflessione, di ripensamento, flessibilità da parte del sistema stesso.

C’è un’altra patologia di cui soffre istituzionalmente la scuola che si chiama classe e classificazione.
In sostanza l’idionsicrasia conclamata nei confronti del sé. Una classe con troppi sé è una depressione o un’esplosione. A volte sono solo scintille isolate, che immediatamente vengono spente con l’espulsione diretta o indiretta, tale sempre da non turbare il normale follow up della programmazione.
Potremmo riassumere il concetto di sé come fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.
Elemento delicato soprattutto per un giovane, per il quale il concetto di sé è fortemente condizionato dagli adulti che entrano in relazione con lui.
Il concetto di sé non è qualcosa di statico, è dinamico perché in noi giocano le aspettative e le prospettive. Vale a dire i “Sé possibili”, i Sé orientati al futuro. I sé possibili sono quelli che alimentano il desiderio di raggiungere un certo obiettivo, di migliorare un certo stato, di crescere, di realizzarsi, sono la molla della motivazione ad agire, sono la spinta del sé agente.
La scuola mette in gioco i sé possibili e i sé futuri, molti troppo spesso rimangono sacrificati sul campo, ma di questo la scuola non si preoccupa perché neppure se ne accorge.

C’è poi la patologia dell’identità incerta di un luogo che non ha mai risolto il suo rapporto con i saperi e la conoscenza, limitandosi a fornirli in dosi già confezionate, prendere o lasciare, tipo i libri di testo.
Pertanto non si comprende se la scuola abbia una chiara consapevolezza della sua identità, schiacciata dalla schizofrenia mai risolta, dissociata tra “prendere” e “ap-prendere”. Come passare da un imparare passivo (prendere) ad un imparare attivo (ap-prendere), cos’è che fa dell’imparare un apprendimento?
È come ricevere le conoscenze senza sapere nulla delle conoscenze, della loro natura, come funzionano, come si riversano nella mente, come si combinano quando entrano nel nostro cervello e incontrano quelle che già possediamo. Si chiama meta-cognizione.
La Metacognizione per tradursi in apprendimento ha necessità che le cognizioni calde e fredde si incontrino: intelligenza, motivazione, consapevolezza di sé.
Ha bisogno di attivare quelle abilità mentali superiori che vanno oltre i “semplici” e scontati processi cognitivi primari come ad esempio: leggere, ricordare, calcolare, in pratica si tratta di stimolare il soggetto a controllare come lavora la sua mente.
La scuola soffre di identità mai risolte, di malessere e sfinimento prodotti dalla ripetitività, tali da renderla insofferente al cambiamento.
Il rapporto con il cambiamento è un grosso ostacolo per un’utenza che cambia, la cui peculiarità è il cambiamento, in quanto in via di sviluppo. In queste condizioni il conflitto è inevitabile, è inutile fingere di ignorarlo, porlo a tacere.

Ma poi cos’è lo sviluppo, cosa sarà mai? Ne siamo sempre usciti tutti.
E qui sta il più grande deficit psicologico della scuola che rende particolarmente fragili le relazioni con la sua utenza, dentro e fuori della scuola.
Allo sviluppo è connesso il cambio di stato, sviluppo non è solo crescita, non è soltanto passaggio da una fase all’altra della vita.
Sviluppo è cambiamento. E questo del cambiamento è un fattore importante per chi esercita una professione di relazione con chi deve cambiare per crescere, perché implica l’inaspettato, la sorpresa, come la fiducia.

Umberto Galimberti nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia definisce lo sviluppo come: “Processo evolutivo di un organismo con modificazioni di struttura, di funzione e di organizzazione per tre ordini di cause: maturazione intrinseca, influenza dellambiente e apprendimento che avviene assumendo una posizione attiva nei confronti dell’ambiente.”
Qui ci interessa sottolineare “la posizione attiva nei confronti dell’ambiente”, di tutti gli ambienti, compreso l’ambiente di apprendimento: la scuola e l’insegnamento.
È la posizione attiva nell’ambiente che consente di apprendere dall’ambiente, di organizzare le conoscenze e maturare le nostre funzioni superiori: ragionamento, memoria, attenzione, elaborazione delle informazioni.

Ce n’è abbastanza per mandare sul lettino dello psicanalista la scuola e il suo personale, compreso lo psicologo di cui il ministro vorrebbe rifornire le scuole.