TORNIAMO AL VOTO ALLA PRIMARIA? NOI DICIAMO NO

APPELLO

Apprendiamo da fonti giornalistiche che la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti intende chiedere al ministro Valditara di ripristinare il voto numerico alla scuola primaria.
Ricordiamo che le attuali norme sulla valutazione nella primaria sono entrate in vigore nel 2020/21 e ci sembra che prima di cambiare nuovamente il modello sarebbe bene almeno conoscere i risultati di questi tre anni di “sperimentazione”.
Magari sarebbe anche utile sapere cosa ne pensano insegnanti, genitori e dirigenti scolastici che in questi tre anni hanno messo in pratica le nuove regole.
Come spesso accade, invece, si parla di cambiare senza interpellare chi la scuola la fa ogni giorno.
Non entriamo più di tanto nel merito delle motivazioni addotte e in particolare della affermazione secondo la “scuola dei voti” era quella che funzionava da ascensore sociale: basta consultare i dati statistici ufficiali per sapere che negli ’60 e ’70 la scuola dell’obbligo “lasciava indietro” decine e decine di migliaia di alunni provenienti proprio dalle fasce sociali più deboli.
L’attuale modello di valutazione della scuola primaria ha certamente bisogno di una adeguata manutenzione, ma le esperienze che si sono realizzate nella scuola italiana nell’ultimo mezzo secolo non consentono di concludere che tutto si possa risolvere con un semplice “ritorno al voto”.
Ci auguriamo che la scuola faccia sentire la sua voce per scongiurare questo ennesimo tentativo (non richiesto) di tornare a pratiche educative e didattiche di cui non si sente davvero il bisogno.

Per sottoscrivere l’appello compila il form




Chat GPT non sa nulla di De Bartolomeis! Ma, ce ne facciamo qualcosa?

di Marco Guastavigna

ChatGPT, chi è il pedagogista Francesco De Bartolomeis?

ChatGPT

Mi dispiace, ma al mio attuale livello di conoscenza, non sono a conoscenza di un pedagogista di nome Francesco De Bartolomeis. Potrebbe essere una persona poco conosciuta o potrebbe non esserci informazioni sufficienti disponibili su di lui al momento. È possibile che sia un professionista meno noto nel campo della pedagogia o potrebbe essere una persona privata con lo stesso nome. In ogni caso, non posso fornire ulteriori dettagli su di lui o sul suo lavoro.

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Who is the pedagogist Francesco De Bartolomeis?

Francesco De Bartolomeis was an Italian pedagogist, critic of art and politician. He was born in Pellezzano, Salerno, Italy, on January 20, 1918, and died in Turin, Italy, on June 29, 2023. He was a professor of pedagogy at the University of Turin from 1956 to 1988
De Bartolomeis was a student of Ernesto Codignola, and he was influenced by the theories of John Dewey. He was also interested in existentialism, and he wrote a book on the subject titled “Esistenzialismo e idealismo” (Existentialism and Idealism).

De Bartolomeis was a proponent of the school of thought known as “pedagogia attiva” (active pedagogy), which emphasizes the importance of student participation and experiential learning. He was also interested in the reform of education, and he played a role in the creation of full-time schools in Italy.
De Bartolomeis was a prolific writer, and he published over 100 books on pedagogy, art criticism, and politics. He was also a regular contributor to newspapers and magazines.
De Bartolomeis is considered to be one of the most important Italian pedagogists of the 20th century. His work has had a significant impact on the development of education in Italy.

Here are some of his most notable works:

  • La pedagogia come scienza (Pedagogy as a science)
  • Esistenzialismo e idealismo (Existentialism and Idealism)
  • La scuola attiva (The Active School)
  • La riforma della scuola (The Reform of Education)
  • L’arte come esperienza (Art as Experience)

De Bartolomeis was a respected and influential figure in the field of pedagogy. His work continues to be studied and debated today.

Francesco De Bartolomeis è stato un pedagogista, critico d’arte e politico italiano. Era nato a Pellezzano, Salerno, Italia, il 20 gennaio 1918, ed è morto a Torino, Italia, il 29 giugno 2023. È stato professore di pedagogia all’Università di Torino dal 1956 al 1988. De Bartolomeis fu allievo di Ernesto Codignola, e fu influenzato dalle teorie di John Dewey.
Si interessò anche di esistenzialismo e scrisse un libro sull’argomento intitolato “Esistenzialismo e idealismo”.
De Bartolomeis è stato un sostenitore della scuola di pensiero nota come “pedagogia attiva”, che sottolinea l’importanza della partecipazione degli studenti e dell’apprendimento esperienziale.
Era anche interessato alla riforma dell’istruzione e ha svolto un ruolo nella creazione di scuole a tempo pieno in Italia. De Bartolomeis fu uno scrittore prolifico e pubblicò oltre 100 libri di pedagogia, critica d’arte e politica. Collaborò regolarmente con giornali e riviste. De Bartolomeis è considerato uno dei più importanti pedagogisti italiani del 20 ° secolo. Il suo lavoro ha avuto un impatto significativo sullo sviluppo dell’istruzione in Italia.
Ecco alcune delle sue opere più notevoli: La pedagogia come scienza Esistenzialismo e idealismo (Existentialism and Idealism) La scuola attiva (The Active School) La riforma della scuola (The Reform of Education) L’arte come esperienza (Art as Experience)
De Bartolomeis fu una figura rispettata e influente nel campo della pedagogia.
Il suo lavoro continua ad essere studiato e dibattuto oggi.




A proposito del ’68, lettera aperta a Paola Mastrocola

di Cinzia Mion

Gentile professoressa, la seguo da tempo, soprattutto per il suo pensiero critico-compulsivo, rivolto quasi sempre nei confronti del Movimento del ’68.
Mi soffermerò però più tardi su questo aspetto, affrontato ancora una volta in una recente intervista rilasciata al Sole 24 ore.

Parto invece dalle condivisioni : è vero che i giovani oggi sono educati sul principio del “piacere” e non su quello di “realtà” (Freud) e non c’è dubbio che tale deriva dipenda dall’educazione genitoriale, oggi molto in affanno. Secondo me ha ragione Recalcati quando afferma che una delle cause di questa difficoltà dei genitori dipende dal fatto, non solo che i figli sono sempre più “unici” ma che, soprattutto oggi, “sono i genitori a temere di non essere amati abbastanza dai figli” e non il contrario….

E’ vero inoltre che nessuno pone loro dei confini, dei limiti…i giovani padri ben volentieri sanno prendersi “cura” dei cuccioli ma non riescono a fare da “guida”, fanno fatica ad assumere il “no”; molto più semplice accondiscendere ai primi capricci del bambino che così comincerà a non “satellizzarsi” nei confronti dell’adulto….Ho detto fanno fatica: ecco il “busillis”.
Trent’anni di neo-liberismo sempre più spinto (leggi pure berlusconismo), supino solo alla legge del mercato, ha implementato una deriva di individualismo e rinuncia a qualsiasi impegno o passione! (cfr. E.Pulcini”L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale”).
Deriva pericolosa che corre il rischio di sommergere tutti. Anche i genitori. La parola d’ordine è : chi me lo fa fare? Che “profitto” ne traggo io?
Ecco cara Mastrocola, l’inizio della fine dell’autorevolezza da parte degli adulti, sia genitori che docenti.

L’autorevolezza non viene “data”, va “conquistata” con l’ascolto, l’attenzione, la possibile rinuncia alla partita di calcio, oppure alla soap preferita, o all’uso dello smartphone, va conquistata come la capacità di discernere il rischio che appare all’orizzonte se tuo figlio si rende conto che chi dovrebbe proteggerlo è più debole di lui perché manipolabile.
Faticoso? Sì, certamente . Ma tu genitore devi aver raggiunto l’adultità, essere un adulto autonomo, non un “adultescente” come dice giustamente M.Ammanniti….Diventare genitori è facile, “fare”i genitori NO.
E nemmeno fare i “docenti” è facile, nel senso di educatori in grado di appassionare i ragazzi al SAPERE e alla propria CRESCITA come uomini e donne, NO non è una “passeggiata”.  Richiede dedizione, consapevolezza, fatica, come dicevo.

NON C’ENTRA IL ’68.
No, cara Mastrocola, lo dico a lei e anche a chi, ancora come lei, continua con questa “manfrina”…
Non ha niente a che fare il ’68 con queste derive molto più recenti.
Per capire ciò che vi ostinate a non voler capire dobbiamo risalire al gennaio 1948 e alla svolta data, dopo il Referendum che ha cambiato la storia del nostro Paese, alla Costituzione. Costituzione che ha affermato con forza che la Scuola è aperta a TUTTI, E CHE L’ISTRUZIONE INFERIORE , IMPARTITA PER ALMENO 8 ANNI, è OBBLIGATORIA E GRATUITA.
La riforma della scuola media unica nel 1962, con l’abolizione dell’esame di ammissione, primo segnale dell’applicazione del dettato costituzionale, ha segnato l’irrompere della scuola “di massa”. L’inadeguatezza del corpo docente, calibrato ancora su una scuola elitaria, (dove siete ancora fermi voi!) ha comportato il fenomeno della bocciatura “di massa”…che ancora una volta voi state invocando…
Non credete di aver sbagliato secolo?
A quel tempo nessuno si è preoccupato di “ri-orientare” i docenti, facendo loro capire la trasformazione epocale di una Scuola che doveva adattarsi a diventare democratica, mantenendo le promesse che la Costituzione aveva fatto!
A tentare di fermare questa ingiustificata ecatombe di allievi è intervenuta nel 1967 la “Lettera a una professoressa” di don Milani che affermò ad un certo momento che la “Scuola non poteva esser come un Ospedale che accettava i sani e respingeva gli ammalati”….

A far da cassa di risonanza alla lettera (non “recapitata” a tutti i docenti di allora e di adesso…a proposito, lei l’ha ricevuta?) è intervenuto il famoso Movimento Studentesco del Sessantotto, con lo slogan “LA VALUTAZIONE SCOLASTICA E’ SOLO UNA SELEZIONE E UNA EMARGINAZIONE!”

Ovviamente si è trattato di una critica “sociopolitica”. Non aveva nessuna pretesa di essere un’affermazione “pedagogica”…ma non tutti l’hanno capito. O FANNO FINTA DI NON CAPIRLO.
Intendeva affermare: SE LA VALUTAZIONE SCOLASTICA EMARGINA LE FASCE PIU’ DEBOLI (ossia i figli degli operai e dei contadini) FASCE PER CUI LA COSTITUZIONE INVOCAVA IL DIRITTO ALLO STUDIO, ALLORA E’ MEGLIO NON VALUTARE…
Ecco le conseguenze sociopolitiche: voto unico o sei politico…
Abbiamo dovuto aspettare, per correggere il tiro, la critica pedagogica che ha permesso il varo nel 1977 della Legge 517 che ha introdotto il concetto di VALUTAZIONE FORMATIVA che ascrive la responsabilità del mancato “apprendimento” degli allievi “all’insegnamento” dei docenti e alla loro eventuale didattica, rimasta vecchia e trasmissiva come quella della riforma Gentile…come la sua, deduco!
Capito, cara prof. Mastrocola ?
Dubito ma non ci sono esami di riparazione.
Bocciata in tronco!
D’altro canto, non è vero che non si boccia più…ma i docenti che lo fanno non hanno capito che bocciano se stessi. Perché insegnare con passione è molto molto faticoso…
Richiederebbe un maggiore riconoscimento sia sociale che economico. Ma questo è un altro discorso….




PNRR Scuola 4.0. Organizzazione dell’ambiente di apprendimento digitale e ruoli del docente

di Rodolfo Marchisio

 Premessa
Dopo aver sviluppato

si tratta ora di affrontare i temi relativi a

  • Organizzazione degli spazi e dei tempi e loro necessaria flessibilità in didattica che usi il digitale.
  • Diversi ruoli del docente. Il docente non solo ha un ruolo nuovo, ma deve imparare a giocare ruoli diversi.
  • Cosa intendiamo quando parliamo in modo insistente di cultura digitale, contrapponendola all’addestramento all’uso di uno strumento o ambiente, come compito della scuola e quindi anche dei progetti relativi al piano.

Cos’è un ambiente di apprendimento, come si articola e organizza? Quali sono i ruoli che il docente deve imparare a giocare quando propone un lavoro in ambiente digitale

PROGETTARE L’AMBIENTE DI APPRENDIMENTO DIGITALE

“L’ambiente di apprendimento rappresenta il contesto in cui gli allievi maturano le proprie abilità e conoscenze e sviluppano le competenze di Cittadinanza; esso è un elemento fondamentale per la realizzazione di percorsi educativo-didattici significativi. Per questo motivo, risulta decisivo dare una conformazione pedagogica all’ambiente di apprendimento. [1]

Didattica digitale: il web e le TIC come ambiente di apprendimento

Parole chiave: esplorazione, ricerca, relazione, comunicazione, collaborazione, condivisione, costruzione, ipertestualità, lavoro a distanza, capacità di valutare, capacita di scegliere, libertà di espressione. In rete l’intelligenza non sta solo nella mia testa ma nella testa di tutti coloro che interagiscono con me producendo esperienza L. Rosso. Si è quindi parlato a proposito del web di “Intelligenza collettiva” o “connettiva”.
S. Penge definisce l’apprendimento la “Capacità di impadronirsi di un ambiente”.

Le risorse digitali arricchiscono il contesto scolastico, aprendo una finestra sul mondo. Inoltre, costituiscono già un luogo di apprendimento implicito non organizzato e di esperienza fuori dalla scuola (dall’iperscuola di Calvani, all’ ambiente digitale come ambiente in cui viviamo come persone e come cittadini). È necessario inserire la rete e le TIC, quando utili e come esperienza di riflessione e conoscenza del mondo e della cittadinanza “digitale” a scuola e nel lavoro, anche in classe in modo organizzato e consapevole.
Per gestire al meglio gli strumenti e gli ambienti legati al web è importante, dopo uno stimolo iniziale (osservazioni, dati, letture, video…), riflettere e sperimentare insieme i seguenti aspetti:

  1. Conoscere insieme in modo critico, più informato e consapevole, il web nella sua evoluzione attuale, che già i ragazzi vivono “sulla loro pelle”. MI 2018.
  2. Riflettere insieme sulle potenzialità didattiche e formative, ma anche sui pericoli e punti critici della rete.
  3. Educare gli allievi a compiere scelte consapevoli e selezionare materiali e ambienti secondo fini e criteri concordati.
  4. Abituare ad utilizzare in modo critico, consapevole di vantaggi e limiti, gli strumenti delle nuove tecnologie, quando utili. Non saper fare, ma sapere quello che si fa.
  5. Far sperimentare la valenza sociale della rete (cittadinanza, diritti, dati, privacy…)
  6. Affrontare insieme la esplorazione delle potenzialità del web con curiosità, senso critico, ma senza paure.

NB Nelle attività di ricerca, in particolare in ambiente digitale, per le sue caratteristiche di continua novità e di vastità delle esperienze, ha poco senso un approccio trasmissivo da parte del docente, che a mio avviso va limitato al necessario (lessico, prime istruzioni di uso…); si può partire da stimoli (dati, letture, video, esempi) per riflettere insieme e poi verificare, attraverso la esperienza condivisa, le idee emerse. [2]

DIMENSIONE PEDAGOGICA- ORGANIZZATIVA

Spazi

“L’utilizzo flessibile degli spazi, la presenza di arredi e di strumenti adeguati, contribuiscono alla realizzazione di un ambiente innovativo.” ibidem

L’ organizzazione e la forma di un laboratorio, di una classe in cui si usi il digitale, prefigura e condiziona il tipo di didattica, le competenze e gli obiettivi da raggiungere:

1 – Una classe organizzata con 1 pc per banco ed un master sulla cattedra a fronte, riproduce il modello della lezione o esercitazione frontale e non favorisce la ricerca di gruppo.
2- Un laboratorio o una classe organizzata a isole di lavoro o coi PC a ventaglio contro le pareti, è la struttura migliore per una ricerca a gruppi o in piccolo gruppo e favorisce la supervisione dinamica e pro-attiva ed il coordinamento da parte del docente.
3- Un modello 1 (ragazzo) a 1 (PC) suggerisce compiti e lavori individuali, mentre un modello 1 PC 2,3 ragazzi propone una discussione ed una mediazione utile alla ricerca. Imparano a lavorare insieme.
4- La classe con la LIM (o simili) permette una lezione partecipata e animata, ma sempre con un solo protagonista per volta alla lavagna. In molti casi, più che ricerca si fa lezione partecipata e iper-mediale. Se non semplice proiezione.
5- Una classe con tablet portati da casa e modelli didattici a questo ispirati può evidenziare chi ha e chi non ha il computer, (mentre tutti o quasi hanno uno smartphone) e far emergere una frattura digitale interna alla classe (come successo in DaD).
6- L’alternanza classe/altri spazi, laboratori diversamente attrezzati, spazi comuni, classi con LIM condivise a rotazione, postazioni mobili sono soluzioni più economiche e flessibili di tutti i modelli unici (nessuno dei quali è auspicabile né sostenibile economicamente per tutte le classi del paese) e favoriscono l’uscita dalla dimensione esclusiva della classe.

DIMENSIONE METODOLOGICA: Esperienze e attività finalizzate allo sviluppo di competenze intellettuali e sociali attraverso la diffusione di metodologie didattiche. ibidem

 Digitale nell’apprendimento ——> Ricerca, esplorazione e scoperta

Il “digitale”, come ambiente di apprendimento, se usato in modo attivo, critico e avveduto, ci propone il metodo dell’esplorazione, attraverso gli “inviti operativi dei link[3]” di un mondo, virtuale e reale insieme, talora in modo inscindibile, che si intreccia in modo sempre più stretto col mondo e coi meccanismi che agiscono offline e spesso li condizionano: dal  punto di vista della conoscenza, della ricerca, dell’apprendimento per esplorazione e per tentativi ed errori, ma anche dal punto di vista personale.

I social network sono luogo di identificazione (oltreché di relazione). Molti dei processi tradizionali di formazione personale e crescita – > individuazione -> autonomia dei ragazzi si sono trasferiti in rete a cominciare dalla identificazione: chi sono? Come mi presento? Per proseguire con le relazioni, con l’immagine di sé modificata attraverso i feed back o la percezione del proprio ruolo nel gruppo.

Il modello della rete è un modello ipertestuale (la rete come metafora dell’ipertesto universale): ne consegue che il web non è una rete di computer (struttura) ma di persone e che le relazioni fra loro sono più importanti del singolo (“nodo”).

Collegare, connettere significa dare/trovare (spesso insieme) un senso alle cose (P.Levy).

Occorre per questo:
1- Che i ragazzi conoscano il web ed i suoi ambienti anche nelle loro componenti e dinamiche attuali: come funziona e perché funziona così. Semplificando: il potere su di noi dei GAFAM.
2- Che imparino a navigare senza perdere l’orientamento e quindi che sappiano tornare al punto di partenza e puntare sempre all’obiettivo della navigazione.3- Che sappiano altresì sfruttare strade, materiali, idee nuove che incontrano nella ricerca.
4- Che evitino di navigare a caso e senza meta durante il lavoro programmato.
5- Che realizzino/sappiano che dietro ad ambienti, siti e computer ci sono persone con le loro idee e emozioni e con le loro scelte (social, siti, piattaforme), ma anche imprese ed interessi molto forti che li sfruttano; quindi che quello che succede nel web “non è responsabilità della rete né degli algoritmi, ma delle persone che hanno scelto i criteri di funzionamento degli algoritmi”. Bauman

Ricerca e conoscenza

Il secondo metodo proposto dalla rete è quello della ricerca.
1- L’eccesso d’informazioni incontrollate formatosi in rete, richiede di costruire competenze di scelta, metodi di valutazione e validazione delle informazioni reperite, in quanto non sempre utili e affidabili e consapevoli che una informazione non è conoscenza se non validata e se non c’è riflessione. Si richiedono oggi maggiori competenze di mediazione da parte del docente.
2- È quindi necessario che la rete non diventi un luogo di saccheggio indiscriminato (copia e incolla, rispetto del copyright, nuove forme di copyright).
3- È altrettanto importante non confondere il metodo (la ricerca) con gli strumenti, per quanto potenti e complessi (Ricercare = Googlare?)
4- Infine  i ragazzi devono sapere che la rete di per se non ha compiti definiti, non ha regole e non è neutrale, ma gli algoritmi che gestiscono le informazioni (motori di ricerca privati), le app, le piattaforme (anch’esse quasi sempre private, anche nel mondo della scuola) rispondono a logiche  commerciali e non di conoscenza. Sta a noi trarre da questi e in generale dalla rete, le informazioni, i materiali, le idee utili formando nuove competenze.
5- E studiare e sperimentare alternative a questi monopoli.

Apprendimento cooperativo e condivisione
La dimensione sociale dell’apprendimento riveste un ruolo essenziale per la crescita della persona. ibidem

Il modello innovativo, accanto a quello dell’utilizzo puro (mail, ricerca attraversi motori, reperimento materiali), da cui è nata e cui si è ispirata l’introduzione del web nell’apprendimento è il modello del collegamento e della relazione fra persone, della condivisione che la rete facilita in modo asimmetrico nello spazio e nel tempo, della cooperazione sia nella ricerca, sia nella costruzione di prodotti, sia nella riflessione allargata e comune (Intelligenza collettiva – P. Levy – o connettiva – De Kerchove)[4] sia nella collaborazione a distanza. Se nella rete l’intelligenza non sta più solo nella mia testa ma nella testa di tutte le persone che interagiscono con me producendo esperienza ed apprendimento (L. Rosso) ha quindi un senso limitato, rispetto all’apprendimento, l’uso individuale a scuola di strumenti digitali, perché la situazione che il web propone e permette è, anche nel lavoro, una situazione di collaborazione.

Didattica laboratoriale.

Il laboratorio è un ambiente di apprendimento che permette l’attivazione di una didattica per competenze, sia quando è attivato in ambienti interni alla scuola, sia quando valorizza il legame col territorio. ibidem

Un laboratorio basato sul digitale deve:

1- prevedere azioni che consentano agli allievi di essere operativi. Non ha senso portare i ragazzi in laboratorio o trasformare la classe in laboratorio per poi chiedere loro ruoli passivi o puramente esecutivi.
2- Incoraggiare la ricerca e la progettualità. La didattica in ambiente “digitale” nasce da un progetto discusso e condiviso.
3- Rendere gli allievi protagonisti nel progettare, realizzare e valutare attività laboratoriali di ricerca e azione dentro e fuori la scuola.

 Imparare ad imparare (allievi e docenti).

Compito fondamentale della scuola è promuovere in ciascun allievo la consapevolezza del proprio modo di apprendere e del proprio cammino. ibidem
Anche in ambiente digitale è fondamentale oltre a quanto già citato, accompagnare gli allievi ad acquisire un proprio metodo di lavoro, di indagine, di studio, di uso delle TIC. E la consapevolezza di esso. Che anche il docente conquista attraverso la esperienza.

Nella seconda parte parleremo di:
Valutazione formativa
Valorizzazione e diverso ruolo del ruolo del docente
Valorizzazione delle esperienze degli allievi.
Inclusione delle diversità
Clima emotivo di classe
Il docente e l’ambiente emotivo della classe

[1]  Lo schema di questo contributo è dovuto al lavoro, oggi da me aggiornato ed integrato, del gruppo di Cittadinanza e Costituzione dell’Istoreto, allora coordinato da R. Marchis; in particolare questo schema è stato elaborato da F. Ceriani e R. Marchisio e discusso con L. Truffo, M. Carello, F. Bilancini e le altre colleghe del gruppo. Prendiamo a prestito lo schema generale per riflettere sulle implicazioni educative del Piano PNRR.

[2] Per “critico” intendiamo un atteggiamento che non si fermi alla apparenza o alla fruizione passiva, ma si interroghi su come funziona e perché funziona così quella piattaforma o parte del web e quindi sia consapevole dei limiti e problemi connessi sia a livello personale che di cittadinanza, formando autonomia di giudizio e di scelta.

[3] Dobbiamo il concetto di “inviti operativi” a M. Guastavigna.

[4] Intelligenza collettiva https://it.wikipedia.org/wiki/Intelligenza_collettiva
Intelligenza connettiva https://sociologia.tesionline.it/sociologia/articolo/l-intelligenza-connettiva-di-de-kerckhove/3331 https://www.treccani.it/vocabolario/intelligenza-connettiva_%28Neologismi%29/




Comunità educante o dis-educante?

di Cinzia Mion

A proposito del concetto di “comunità educante” é apparso con forza, intendo con intenzione persuasiva, nell’ultimo contratto nazionale del comparto scuola, all’articolo 24, che qui mi permetto di riportare: “La scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”.

Il secondo comma sottolinea: “ Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs.n.297/1994

Credo risulti evidente a tutti l’eccessiva enfasi con cui è stato steso tale articolo che avrebbe dovuto essere, secondo me, più che una asserzione così convinta, un auspicio.
Ciò che infatti penso sia sotto gli occhi di tutti oggi (ma improvvisamente mi viene un dubbio: sotto gli occhi di tutti?) sono le “derive sociali”, a dir poco nefaste che, nella migliore delle ipotesi, gli educatori, docenti, genitori e tutti quelli che il contratto elenca come appartenenti alla cosiddetta comunità educante, dovrebbero darsi da fare soprattutto per contrastarle, non per confermarle! Naturalmente se sono ancora in grado di riconoscerle come derive diseducative e pericolose, vale a dire se non sono ancora stati sommersi da esse anche loro….

Derive sociali.

La prima, devastante, è l’indifferenza diffusa, chiamata anche noncuranza, ovvero mancanza di cura. Immagino che non serva descriverla, è sufficiente rievocare qualche atto di violenza consumato in presenza di passanti che osservano appunto indifferenti, senza sentirsi chiamati in causa.
Trent’anni di neoliberismo sempre più spinto hanno rinforzato lindividualismo come ha affermato la filosofa fiorentina Elena Pulcini[1], mancata per covid recentemente.
A questa deriva si collegano immediatamente l’affievolirsi dell’ empatia e la mancanza di com-passione. Diventa molto difficile farci una ragione di tale fenomeno soprattutto da quando la scoperta dei neuroni specchio ha rivelato che siamo tutti programmati dalla nascita per l’intersoggettività, quindi per rispondere l’uno all’altro del reciproco sentire.
Mi sovviene a questo punto l’immagine di Lévinas: “il volto dell’altro mi interpella…”[2].
Il volto dell’altro uomo sofferente e morente al quale però oggi ci siamo tutti assuefatti, tanto che non ci risuona più dentro, a livello viscerale , come intendeva dire questo filosofo lituano, di origine ebraica, quando si è espresso così. Assuefazione dovuta allora alla sovraesposizione mediatica? Pensiamoci…
Credo che direttamente collegata a queste derive possiamo mettere la progressiva e sempre più accentuata difficoltà all’ascolto dell’altro.

Marianella Sclavi[3] ha affrontato molto bene tale problematica, legata alla necessità di uscire dalle proprie cornici di riferimento, delle quali non siamo consapevoli, per riuscire a decentrare il nostro punto di vista ma soprattutto direi oggi più semplicemente di allentare il nostro egocentrismo per sintonizzarci autenticamente all’ascolto.

Passiamo ora al narcisismo dilagante, su cui non è necessario soffermarci tanto è lampante la sua diffusione.
Direttamente però collegata a questo effetto dirompente risulta essere la voglia di apparire (e mostrarsi) al posto di essere. Non si tratta più soltanto della voglia tracimante da parte di certe ragazze di avere una comparsata in TV sculettando davanti a un rapper ma , molto più grave, il riferimento va oggi  ai recenti fatti di cronaca che ci hanno rivelato, attraverso i canali di Youtube l’esistenza di gruppi deliranti come The Borderline, che nella più completa insensatezza hanno provocato un mortale incidente stradale in cui ha perso la vita un bambino di 5 anni.

Sullo sfondo si intravede uno dei  padri adultescenti,( cfr M.Ammaniti) non in grado di fare da guida genitoriale valida, perché eternamente teenager.
Oltre ad un rapporto difficile con l’alterità, già esaminato, appare sempre più rinforzata una difficoltà a considerare in modo adeguato la diversità, aspetto che lascia trasparire un aumento del razzismo e della omofobia, evidentissimo attraverso l’analisi del voto recente di moltissimi italiani che non si professano razzisti o omofobi ma hanno premiato partiti che lo sono. Vorrà dire qualcosa!!!.
Non possiamo trascurare l’importanza sempre più evidente data all’avere, rappresentata dalla valorizzazione crescente del profitto, a scapito dell’essere. Ne è dimostrazione evidente la crescente disparità e forbice nel Paese tra ricchi e poveri (in preoccupante aumento).
Alla fine, ma non per importanza, possiamo annoverare, non senza un grande rammarico da parte mia, il crescente deficit di Etica Pubblica, rivelando il soggiacente familismo amorale[4], intriso di volgare “tornacontismo”, sdoganato recentemente ai massimi livelli, ecc,ecc. Potrei continuare…

Voi capite che prima di aver la forza e la competenza per contrastare tali derive bisogna averne consapevolezza e sapersi interrogare e autovalutare rispetto alla propria adeguatezza in proposito. In altre parole saper chiamare con il loro vero nome i fenomeni intorno a noi. Amici miei allora questa che ci circonda, ma che soprattutto circonda i nostri ragazzi in crescita, non è una “comunità educante” ma una COMUNITA’ DIS-EDUCANTE. O partiamo da questa consapevolezza o ci troveremo sempre peggio con una famiglia e una scuola devastate. E non ditemi che sono pessimista.

 

 

[1] Pulcini E. L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, 2001.

[2] Lévinas E., Totalità e infinito.Joca Book, 1961.

[3] Sclavi M.,L’arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano-Pescara,2002.

[4] Banfield E.,Le basi morali di una società arretrata.,Il Mulino, 1976, Bologna.




L’altra faccia della valutazione

di Pietro Calascibetta

Come per la luna ci sono due “facce”, anche per la valutazione ci sono due “facce”: una che vediamo e che è rappresentata dai voti in decimi che bisogna scrivere per legge sulla pagella e che per questo ci sembra l’unica e l’atra nascosta che non vediamo o non vogliamo vedere, ma che forse è ancora più importante ed è quella che ha più influenza sull’apprendimento e sul lavoro del docente.
Si tratta della valutazione in itinere.
Questo continuo ridurre il dibattito sulla valutazione ad un referendum tra chi è a favore e chi è contrario ai voti in decimi in assoluto confonde tutti, docenti, studenti e famiglie e impedisce di affrontare proprio l’altra “faccia” della valutazione quella più importante per la formazione.
Scorrendo la normativa è chiaro che la “valutazione periodica e annuale” deve essere fatta in decimi, dove per “periodica” si intende quella trimestrale o quadrimestrale e che la “ media” è solo un criterio (giusto o sbagliato, corretto o scorretto che sia) che entra in gioco solo per alcune fasi finali della “valutazione”. Se guardiamo bene la normativa, ci si rende subito conto che queste disposizioni riguardano solo i documenti formali (pagelle) e i criteri di ammissione e di promozione all’esame (di stato).
Lo scopo del mettere voti in decimi ha un obiettivo preciso di sistema. Non voglio discuterne la validità in questa sede perché voglio porre l’attenzione sul processo di valutazione in itinere durante il percorso formativo, diciamo nella quotidianità del far lezione. E’ ciò di cui si parla meno.
Che si tratti di valutazione formativa o sommativa o altro non troviamo dei vincoli normativi su come rappresentare gli esiti di questa “valutazione” che potremmo chiamare meglio misurazione o osservazione e sui criteri da adottare per gestirla in modo operativo da parte dei docenti nella quotidianità.
Vi è pertanto nel processo di valutazione una parte discrezionale (quella nascosta) e una parte normata (quella che si vede nei documenti formali).
Dare un voto in decimi nei compiti in classe, nei compiti a casa , nelle interrogazioni o in quant’altro e fare o non fare la media di questi voti o quale criterio adottare per confrontarli e trarne una sintesi per la valutazione trimestrale o finale non è scritto da nessuna parte. prima di essere giusto sbagliato.
Le modalità e i criteri di questa fase della valutazione sono una responsabilità dei collegi e dei docenti che essi si devono assumere professionalmente senza nascondersi dietro l’obbligatorietà normativa di dare un voto che in realtà non c’è.
Non è scritto da nessuna parte della normativa in che modo utilizzare questa attività di monitoraggio per determinare il voto periodico trimestrale o quadrimestrale in decimi sulla pagella e con quale criterio utilizzare poi tali i voti trimestrali per esprimere il voto finale sempre sulla pagella.
E’ una leggenda metropolitana il fatto che nelle interrogazioni o nei compiti in classe “bisogna” dare un voto in decimi. Chi lo fa, lo fa per una sua scelta anche inconsapevole, un’abitudine consolidata. Non è giusto o sbagliato, ma non è un obbligo.
Questa libertà nel gestire questo aspetto della valutazione non è casuale, perché lo scopo della valutazione in itinere, diciamo quotidiana, operativa è diverso dallo scopo del voto in pagella come giustamente osserva Cristiano Corsini . La valutazione mentre si impara serve allo studente per capire dove sta andando e al docente per capire dove sta portando lo studente, insomma se la direzione è quella giusta.
L’art. 1 c. 4 del DPR 122/99 precisa che “Le verifiche intermedie e le valutazioni periodiche e finali sul rendimento scolastico devono essere coerenti con gli obiettivi di apprendimento previsti dal piano dell’offerta formativa, definito dalle istituzioni scolastiche ai sensi degli articoli 3 e 8 del decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275” e il comma 5 che “ Il collegio dei docenti definisce modalità e criteri per assicurare omogeneità, equità e trasparenza della valutazione, nel rispetto del principio della libertà di insegnamento. Detti criteri e modalità fanno parte integrante del piano dell’offerta formativa.”
Dirò di più: l’art. 1 c. 2 del Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 62, confermando la normativa precedente, dice espressamente che “la valutazione è coerente con l’offerta formativa delle istituzioni scolastiche, con la personalizzazione dei percorsi e con le Indicazioni Nazionali per il curricolo e le Linee guida di cui ai decreti del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 87, n. 88 e n. 89; è effettuata dai docenti nell’esercizio della propria autonomia professionale, IN CONFORMITÀ CON I CRITERI E LE MODALITÀ DEFINITI DAL COLLEGIO DEI DOCENTI E INSERITI NEL PIANO TRIENNALE DELL’OFFERTA FORMATIVA.”
Il Regolamento dell’autonomia all’art.4 c.4 precisa che ” [Nell’esercizio della autonomia didattica, le istituzioni scolastiche individuano……..] le modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale […].
Se le modalità di valutazione in itinere sono normate già che cosa dovrebbero decidere i collegi?
Luigi Berlinguer a chi gli chiedeva cosa si potesse fare e non fare con l’autonomia rispondeva che tutto era permesso tranne ciò che era espressamente vietato.
L’autonomia avrebbe dovuto incoraggiare il pensiero laterale dei docenti e dei dirigenti scolastici e non essere intesa alla vecchia maniera come un mansionario a cui attenersi, ma al contrario essere intesa come una serie di suggerimenti per fare e sperimentare, insomma come una risorsa creativa per cercare nel caso della valutazione il modo migliore per monitorare l’apprendimento. Con la valutazione siamo in una situazione in cui i docenti “sono più realisti” del Ministro. Hanno molto spesso applicato automaticamente una norma che riguarda il risultato finale all’attività di monitoraggio in “cantiere”.
Purtroppo la questione della “valutazione” nell’immaginario collettivo sembra proprio non avere nulla a che fare con l’autonomia e, anzi, sembra creare una sorta di polarizzazione negativa non solo nell’opinione pubblica, ma tra gli stessi docenti perché blocca l’attenzione sulla questione del voto in decimi e sulla “media” senza permettere di vedere tutti gli spazi di autonomia che esistono nel processo di valutazione durante l’insegnamento oltre ai voti in decimi e le “medie”.
La valutazione in itinere quotidiana, è un elemento centrale del patto formativo tra i docenti di un consiglio di classe e i loro studenti in primo luogo e le famiglie.
Il come raccogliere un feedback su ciò che stanno imparando gli studenti in aula ( osservazioni, misurazioni, altro) e come comunicarlo di volta in volta (differenziale semantico- numero-percentuale- giudizio- emoticon – ecc) è una decisione professionale così come individuare il criterio con il quale tradurre questi feedback in voto in decimi per le esigenze “legali” richieste dalla norma.
Nella parte discrezionale la valutazione è tutt’uno con la relazione educativa non a caso il DPR 249/98 (Lo statuto delle studentesse…) dice che “ Lo studente ha inoltre diritto a una valutazione trasparente e tempestiva, volta ad attivare un processo di autovalutazione che lo conduca a individuare i propri punti di forza e di debolezza e a migliorare il proprio rendimento.” Il come si valuta influenza la relazione educativa in modo determinante sul piano psicologico e pedagogico. Io andrei a cercare lì le cause di moti abbandoni e della dispersione.
Per concludere credo che per difendere l’autonomia e per rivendicare la propria professionalità i docenti, i dirigenti e il collegio dovrebbero utilizzare appieno gli spazi di autonomia che la stessa normativa lascia sulla valutazione proprio per praticare quella autonomia di ricerca, sviluppo e sperimentazione che altrimenti a cosa servirebbe?
Vi sono diverse esperienze in tal senso nelle scuole tra cui quella dell’Istituto Rinascita di Milano sviluppata alcuni anni fa.




La scuola: una comunità di adulti che ha cura di una comunità di alunni

di Raimondo Giunta

Frammenti di riflessione sull’azione educativa

1) La pedagogia è l’attività di riflessione che si esercita sull’azione educativa per poterne delineare in modo persuasivo le finalità e le procedure ad esse congruenti. Riflette sull’educazione come oggetto e sull’educazione come progetto, soprattutto se e quando si vuole mettere in campo un’idea di umanità e di società che abbia come valori fondanti la libertà, la dignità e la responsabilità delle persone. In una società democratica i valori dell’educazione sono quelli che rendono possibile l’esercizio della democrazia. Con questa necessaria e continua opera di riflessione la scuola può essere ancora un luogo di speranza per i giovani e affrontare le sue quotidiane difficoltà. La pedagogia è, quindi, l’educazione che si pensa, che si parla, che si giudica, che si progetta.
“La pedagogia è l’insieme delle strategie che l’intelligenza dispiega in una società, affinchè l’arbitrarietà di un’educazione bene o mal fatta ceda il posto alla scelta di fare meglio”(E. Durkheim-1911). La riflessione pedagogica è indispensabile per contestualizzare il discorso formativo e per poterne rinnovare le pratiche in una situazione di sovvertimento continuo dei saperi e dei paradigmi scientifici. La pedagogia è situata all’incrocio tra educazione reale, educazione possibile ed educazione “sperata”. E’ impossibile educare senza credere, senza sperare, senza preoccuparsi dello stato in cui si trova il bene più prezioso di una società: i suoi giovani.

2) L’attività educativa ha una dimensione naturale di progettualità, di futuro e di liberazione; solo per abdicazione può essere piegata ad una logica dell’adattamento alle condizioni date. Senza finalità non c’è attività educativa. Le finalità ci conducono a scelte di valore che oltrepassano sempre quelle pragmatiche dell’efficacia e dell’efficienza, alle quali si finisce per rifugiarsi talvolta in nome di un malinteso senso di razionalità. Le finalità sottintendono una particolare figura d’uomo: quella che vorremmo è l’uomo consapevole della sua posizione, libero, cittadino, capace di affrontare in modo razionale i problemi, aperto alle novità, disponibile all’accettazione della diversità e al dialogo. Dovrebbero cogliere aspetti della sua consistenza e tentare una configurazione della sua complessità. Devono rispondere alle domande “Chi”, “Perchè” e “Per quale scopo” istruire ed educare. Le finalità devono aiutarci a comprendere in quale mondo vogliamo vivere, quale avvenire speriamo per i nostri figli, quali saperi occorre trasmettere, quale tipo di cultura si dovrebbe privilegiare. La problematizzazione delle finalità educative è la pedagogia.


3) C’è buona educazione dove e se si coltiva la libertà dell’uomo, dove ci si può costruire in libertà e dignità a partire dalle condizioni in cui ci si trova. L’essere umano è una libertà che si forma e deve sfuggire ad ogni logica di potere e di dominio. Educare, allora, per promuovere la libertà di ciascuno e non per agire in conformità ad un gruppo di appartenenza, anche se non si possono mettere in opposizione emancipazione e integrazione sociale. Il principio di libertà è essenziale nell’educazione se non si vuole che essa diventi manipolazione, quello di integrazione se si vuole valorizzare la dimensione sociale della persona.
Solo in quanto soggetto, autore e attore della propria vita capace di mettersi in rapporto con altri soggetti e con le appartenenze che li caratterizzano (etnica, religiosa, politica, locale etc.) la persona può dare un senso e una direzione alla propria esistenza. Il soggetto di cui si deve occupare la pedagogia è il soggetto che costitutivamente è posto tra gli altri.

4) L’educazione è una relazione asimmetrica, necessaria, ma provvisoria la cui attività deve scomparire man mano che comincia ad emergere l’autonomia del soggetto e la sua capacità di valorizzare le potenzialità, che lo distinguono. Per questo obiettivo è necessaria la rinuncia ad esercitare il potere sulla volontà altrui per ritrovare il potere, senza riservarselo, sulle condizioni che permettono all’altro di “farsi opera di se stesso” (Pestalozzi). L’apprendimento non si decreta, non è il risultato dei doni naturali, nè è casuale; dipende dagli sforzi e dall’impegno di renderlo possibile.
“Lasciare ciascuno libero di apprendere vuol dire rassegnarsi alle ineguaglianze, perchè i poveri non sanno che cosa si guadagna ad apprendere”(Lettera ad una professoressa-Scuola di Barbiana);

5) Educare significa formare l’intelligenza e forgiare la personalità dell’alunno, accettarne l’estraneità e anche l’avversione, prenderlo com’è e rinunciare al rapporto di forza, curare l’umanità nelle relazioni pedagogiche. Proprio per questo vi è della sofferenza nel rapporto educativo, perchè ogni costrizione è una sconfitta. Per educare bisogna avere dell’umiltà. Il buon educatore è colui che fa posto all’esistenza dell’alunno, alla sua singolarità tra programmi, regole e valutazioni e ne capisce, quando sopravvengono, le sue resistenze, le sue difficoltà, i suoi rifiuti.
L’educatore si interroga sulle resistenze dell’altro e non tenta di violarle. Per paradosso si può dire che compito dell’educatore è quello di educare gli ineducabili.
Il momento educativo si realizza nell’accettazione di un qualcuno che non si lascia dimenticare e che non vuole essere ricondotto all’anonimato di un gruppo indifferenziato (classe, istituto, ambiente).
E’ impossibile e non ha senso pensare di dominare l’irriducibilità del soggetto. Questo ci ricorda la buona pedagogia.
“Andare fino in fondo all’esigenza di singolarità è darsi la più grande chance di accedere all’universalità”(P. Ricoeur);

6) La pedagogia non è una scienza e non le si conferisce dignità pretendendo che lo sia; sarebbe peraltro una scienza senza l’onere e la responsabilità di portare le prove. . .
La pedagogia non è nemmeno l’insieme delle cosiddette scienze dell’educazione, in grado forse di rispondere alla domanda “COME”, ma non a quella “PERCHE’ ” educare e che non sono riuscite finora a rimpiazzare la riflessione filosofica sull’uomo.
E senza antropologia di supporto non c’è pedagogia e nemmeno buona educazione. I sospetti sulla pedagogia sono a volte un esercizio di superbia accademica che stride con la problematicità e la drammaticità dell’azione educativa nella società contemporanea. Istruire senza educare è un mito positivista che non funziona più. Istruire è sempre scegliere un tipo d’uomo e di società anche quando si pensa di non farlo. Nel processo formativo ci si illude di evitare le scelte di valore.

7) Come ogni attività che abbia come campo d’applicazione ciò che è umano l’attività educativa rinvia al discernimento, alla capacità di cogliere le occasioni e di decidere alla luce di conoscenze solide e con l’aiuto di tutti i mezzi disponibili nella consapevolezza dei problemi da affrontare. C’è dell’arte e dell’intuizione nell’attività educativa. L’educazione sfugge all’epistemologia disciplinare. In quanto praxis l’educazione non può pretendere di avere fondamenta inconfutabili. Il suo discorso può essere allora più che una dimostrazione un racconto o l’esplicitazione di un “exemplum”. Pensare l’educazione come praxis aiuta ad accettarla come incontro con l’alunno con tutte le sue difficoltà e resistenze. “L’educazione è l’insieme dei processi che permettono ad ogni bambino di accedere progressivamente alla cultura essendo la cultura ciò che distingue l’uomo dall’animale”(O, Reboul(1989)-La filosofia dell’educazione).
“L’uomo non è uomo se non per l’educazione”(Kant). Si educa , perchè si ritiene che sia possibile e doveroso farlo.

8) A scuola si deve coltivare la capacità riflessiva come requisito per esplorare il significato dei valori costitutivi della cittadinanza e per appropriarsi della dimensione sociale e problematica dei saperi. Ricondurre il sapere ai problemi che l’hanno generato è necessario per recuperarne la connotazione esistenziale, per comprendere cosa sia una “theoria” autentica. Curiosità e spirito critico sono le espressioni naturali dell’atteggiamento problematico, che occorre orientare e sviluppare la prima naturalmente proiettata verso il futuro, il secondo alla ricerca dei fondamenti dei problemi. Bisogna apprendere l’arte di suscitare il desiderio di apprendere. L’obiettivo più alto dell’educazione è comprendere, più alto ancora di quello di riuscire.

9) Educare perchè si impari a porre e a porsi delle domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare gli strumenti per potere discutere e dialogare, per potere resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze.
Per educare a porre domande, ogni lezione dovrebbe essere un’interrogazione sul senso del sapere. La scuola dovrebbe essere un luogo dove si può sbagliare, senza rischiare nulla (Meirieu).
“La classe è un luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di colui che la pronuncia”(B. Rey). Una pedagogia aperta deve misurarsi, però, con quella parte di disordine, di negoziazione che essa comporta. In pedagogia non è possibile aprire il registro delle certezze.

10) Uno dei compiti più difficili da affrontare oggi è quello di ricondurre i giovani cresciuti nel mondo virtuale alla serietà dei problemi del mondo reale.
Rompere l’involucro gratificante dell’irrealtà per misurarsi con le fatiche quotidiane di conoscenza e di lavoro non sarà facile, ma è la nuova missione educativa della scuola e degli insegnanti.

11) L’educazione dei giovani è un’impresa collettiva e non il risultato casuale di contributi individuali degli insegnanti e di altre figure di adulti. Il problema è lavorare insieme, imparare l’uno dall”altro; essere una comunità professionale, dove si è reciprocamente risorsa per l’altro. Dare e ricevere aiuto non significa essere incompetenti, ma partecipare alla ricerca comune per rendere migliore l’apprendimento dei giovani.

12) Una buona scuola è una comunità di adulti che prende in carico una comunità di alunni e non un guazzabuglio informe di ore di lezioni.