Album di famiglia, a proposito del “kennediano di Piadena”

di Enrico Bottero

Una delle ragioni per cui in Italia le pedagogie attive non sono riuscite a incidere nell’Istituzione scuola e la sua pedagogia è la divisione tra due interpretazioni politiche delle stesse: a sinistra c’era chi le considerava un modo importante per cambiare la società a partire dalla scuola e chi, invece, ritenendo prioritaria anche temporalmente la battaglia politica contro il capitalismo, pensava che fosse del tutto inutile, anzi controproducente, cercare di cambiare un’istituzione borghese che sarebbe di per sé repressiva e quindi meritava di sprofondare. Quest’ultima posizione era sostenuta, ad esempio, dai Quaderni Piacentini.
Quaderni Piacentini era una Rivista politica trimestrale fondata da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi nel 1962. E’ stata un’importante rivista della sinistra extraparlamentare.

In questo articolo del 1971 (è pubblicato integralmente sul sito di Gessetti Colorati) Mario Lodi, definito il “kennediano di Piadena” viene accusato di “riformismo didattico”. Il riformismo sarebbe ingenuo e pericoloso perché manipolerebbe i ragazzi con una forma edulcorata di potere invece di renderli consapevoli della lotta di classe in cui l’avversario sarebbe anche l’insegnante (viene alla mente, ad esempio, “Quel brutale, finalmente? “  un classico di quegli anni).
Il rapporto educativo sarebbe di per sé autoritario, dunque la classe cooperativa non sarebbe altro che un mito borghese, un inganno.
Le riforme con cui Lodi (e molti come me) lavoravano negli anni Settanta e le tecniche didattiche sarebbero stati dunque una manovra del potere per mantenere il suo sfruttamento di classe. E via discorrendo. In questo articolo (mancano le firme delle persone, secondo una consolidata prassi per cui non ci si assume la responsabilità personale ma solo quella del collettivo) l’intolleranza ideologica prevale su tutto. Non si lavora per un’educazione alla tolleranza e alla democrazia ma per radicalizzare un conflitto radicale tra il bene e il male, dove il bene sta naturalmente dalla parte degli autori dell’articolo. Tutte le utopie, quando si trasformano in concezioni provvidenziali della storia, finiscono lì.
L’utopia della speranza si trasforma in utopia della certezza, dei detentori della verità. Questo articolo è importante perché, riaprendo l’armadio dei ricordi della sinistra, svela ambiguità presenti ancor oggi e su cui non si è ancora ampiamente riflettuto.
Cadute le illusioni palingenetiche, queste posizioni oggi si ripresentano sotto una veste diversa, quella della deistituzionalizzazione e della critica radicale della scuola in nome di un’idea di rifiuto totale di qualsiasi autorità, considerata di per sé repressiva (rifiuto che, questo sì, è un mito: il rifiuto totale di qualsiasi autorità non elimina l’autorità ma ne introduce una forma più sottile, quella della seduzione).
E’ un rifiuto a cui vengono spesso arruolati educatori come Oury o Freinet, che però non sostenevano affatto queste tesi. Oggi tutti osannano Mario Lodi ma allora molti a sinistra lo condannavano duramente.
Se non vogliamo comportarci come le Chiese laiche o religiose più integraliste (da vivi li condannano come eretici, e dopo morti li fanno santi, tanto non possono più parlare) sarebbe bene ragionare su tutto questo e chiedersi se non siano ancora presenti logiche settarie che non fanno che ostacolare l’impegno comune a favore delle pedagogie attive e dell’impegno per una società più giusta e solidale.




Benvenuto (si fa per dire) Google Bard!

di Marco Guastavigna

Da ieri, il dispositivo di conversazione simulata a scopo estrattivo di Alphabet è disponibile anche nell’Europa comunitaria e di conseguenza in Italia, per tutti coloro che hanno compiuto i 18 anni.
È necessario un account Google e sono esclusi quelli gestiti tramite Family Link o quelli di Google Workspace for Education che risultino appartenere a qualcuno che ha meno di 18 anni.

Al primo accesso veniamo avvisati che le nostre conversazioni con Google Bard potrebbero essere elaborate dai revisori “a fini qualitativi”.
Approfondendo, scopriamo quali sono le misure per la protezione dei dati personali adottate, presumibilmente per evitare osservazioni come quelle fatte dal Garante della privacy, cui a suo tempo ChatGPT rispose bloccando l’accesso agli indirizzi IP provenienti dall’Italia, provvedimento che ancora adesso fior di intellettuali laureati interpretano come un blocco diretto di matrice istituzionale, senza minimamente porsi il problema (che noja, la tecnica!) di come fosse e sia (im)possibile attuarlo.

A leggerlo, il documento sulla privacy è trasparente, in piena coerenza con quanto messo in atto per gli altri servizi a vocazione profilante ed estrattiva: “Google raccoglie le tue conversazioni con Bard, le informazioni relative all’utilizzo del prodotto, le informazioni sulla tua posizione e il tuo feedback. Google utilizza questi dati, in conformità con le sue Norme sulla privacy, per fornire, migliorare e sviluppare prodotti e servizi e tecnologie di machine learning di Google, inclusi i prodotti aziendali di Google come Google Cloud”. Per partecipare alla sperimentazione, insomma, dobbiamo accettare anche in questo caso uno scambio – ineguale – tra servizi ricevuti e lavoro prestato ai fini del raffinamento dei dispositivi.

Per quanto riguarda i singoli utenti, apprendiamo che “Per impostazione predefinita Google memorizza le tue attività di Bard sul tuo Account Google per un massimo di 18 mesi, un periodo che puoi cambiare in 3 o 36 mesi all’indirizzo myactivity.google.com/product/bard.
Anche le informazioni sulla tua posizione, compresa l’area generale del dispositivo, l’indirizzo IP o gli indirizzi di casa o di lavoro nel tuo Account Google, vengono memorizzate nell’attività di Bard. Scopri di più all’indirizzo
g.co/privacypolicy/location”. Il costante tracciamento individuale è dichiarato e verificabile, insomma.

Tornando ai revisori, “Per contribuire alla qualità e migliorare i nostri prodotti, (…) [essi] leggono, annotano ed elaborano le tue conversazioni con Bard. Nell’ambito di questa procedura, adottiamo misure volte a proteggere la tua privacy. Ciò include la disconnessione delle conversazioni con Bard dal tuo Account Google prima che i revisori possano visualizzarle o annotarle. Non includere informazioni che possano essere utilizzate per identificare te o altri utenti nelle conversazioni su Bard”.
La piena protezione dal riconoscimento dei soggetti impegnati nelle conversazioni è quindi a carico degli utenti dei servizi.

Consigliamo di leggere con attenzione tutto il documento da cui abbiamo estrapolato le citazioni e di riflettere su ogni singolo passaggio, limitandoci qui a richiamare ancora la più interessante tra le precauzioni a scarico di responsabilità elencate tra le cose da sapere: “Non considerare le risposte di Bard al pari di consigli medici, legali, finanziari o di altro tipo.”
Abbiamo una sola speranza: che si smetta di appiattire la discussione sulla cosiddetta intelligenza artificiale su ChatGPT, come è avvenuto in modo ingenuo, sensazionalistico e irritante in questi ultimi mesi.

 




Quando la sedicente “sinistra” parlava del “kennediano di Piadena”

Alle volte riaprire vecchie pubblicazioni può essere istruttivo.
Grazie ad un caro amico che me lo ha ricordato, ho ritrovato un numero di Quaderni Piacentini del 1971.
A pagina 162 un articolo a firma di “Collettivo di insegnanti bolognesi” intitolato “Il kennediano di Piadena”: si tratta di una recensione de Il Paese sbagliato.
Leggere per credere. (RP)

Clicca qui per scaricare l’articolo

Chi lo desidera può inviare un proprio commento a info@gessetticolorati.it




PNRR Scuola 4.0. Organizzazione dell’ambiente di apprendimento digitale e ruoli del docente

di Rodolfo Marchisio

Dopo

Organizzazione degli spazi e dei tempi e loro necessaria flessibilità in didattica che usi il digitale.
Didattica digitale: il web e le TIC come ambiente di apprendimento
Dimensione pedagogica- organizzativa: gli spazi
Dimensione metodologica: esperienze e attività finalizzate allo sviluppo di competenze intellettuali e sociali attraverso la diffusione di metodologie didattiche.
Digitale nell’apprendimento: ricerca, esplorazione e scoperta
Ricerca e conoscenza
Apprendimento cooperativo e condivisione
Didattica laboratoriale.
Imparare ad imparare

Si tratta ora di affrontare i temi relativi a

  • Diversi ruoli del docente. Il docente non solo ha un ruolo nuovo, ma deve imparare a giocare diversi ruoli fondamentali
  • Importanza degli aspetti emotivi e relazionali anche, e soprattutto, in ambienti digitali.
  • E spiegare cosa intendiamo quando parliamo in modo insistente di cultura digitale, – contrapponendola all’addestramento all’uso di uno strumento o ambiente – come compito della scuola e quindi anche dei progetti relativi al PNRR.

Valutazione formativa
La valutazione formativa è la bussola che orienta il percorso educativo-didattico. [1]

La valutazione mediante software ha attraversato un momento strumentale con il CAI e il CAD, cioè la valutazione, spesso solo quantitativa, ancora in uso anche nelle Università, alle superiori e nei concorsi. Con questionari spesso a risposta multipla somministrati online e poi valutati con ottica sommativa o dando un peso alle varie risposte col programma stesso (talora poi comunicati in automatico via mail o pubblicati).
Ancora ora una parte della valutazione viene affidata a software ed algoritmi (es: Registro elettronico + tabelloni elettronici degli scrutini ed esami, prove standardizzate…).
Un apprendimento come quello descritto sopra non può invece essere accompagnato e concluso che con fasi di osservazione durante il lavoro, con strumenti e metodologie di valutazione formativa. E con forme di autovalutazione, proprio perché è un percorso personale di esperienza, anche relazionale ed emotiva, condiviso e non una singola performance.
E poi il docente non deve solo rilevare un errore o problema, ma caso mai rifletterci sopra con gli allievi, anche con forme di autovalutazione. E questo la macchina non lo fa. [2]
Il lavoro in ambiente digitale trova la collocazione della valutazione intesa come valutazione formativa in un processo metodologico per competenze che preveda le fasi: Progettazione -> Osservazione -> Riprogrammazione ->Valutazione e autovalutazione-> Documentazione.
Le forme di osservazione e valutazione sono già previste nella progettazione, che, come momenti di verifica, tendono a modificare.[3]

Ancora due annotazioni:
1- la osservazione per la valutazione (del progetto, non solo di singole performance individuali) è fatta di raccolta di informazioni e dati: l’uso di ambienti digitali facilita la raccolta, organizzazione ed elaborazione di dati e fornisce informazioni sul lavoro dei singoli o dei gruppi (chi fa cosa, chi consulta cosa, chi scambia messaggi, risorse…), evidenziando i contributi e documentando i progressi individuali e del percorso.
2- Inoltre l’ambiente digitale facilita, fornendo ambienti e strumenti (prima prassi i siti delle scuole), la documentazione, il rendere pubblico e condivisibile non solo il prodotto, ma il percorso fatto. Documentazione utile a far conoscere il progetto e la ricerca al fine di costruire archivi condivisibili e consultabili, come memoria della didattica ed evitando di fare tutti la stessa ricerca. Auspicabili archivi generali (a livello nazionale e regionale) accessibili.

Valorizzazione e diverso ruolo del ruolo del docente

 L’ambiente di apprendimento non può prescindere da coloro che lo abitano; in esso i docenti rivestono un ruolo essenziale. ibidem
In ambiente digitale il docente ha ruolo di proposta, di discussione, di progettazione, di mediazione, di coordinamento, di stimolo alla riflessione che deve avvenire durante e dopo il lavoro (meta riflessione). Senza consapevolezza di quanto si è fatto, imparato, dei problemi emersi o scoperti, delle dinamiche relazionali attivate non c’è formazione di competenze digitali utili. Quindi non basta far lavorare i ragazzi, se poi non li si fa riflettere sul percorso, sulle esperienze, sulle dinamiche, sui prodotti. Rivoltella. Inoltre il docente ha una funzione di esempio, di proposta, di co-costruzione del progetto, di coordinamento, di osservazione organizzata delle dinamiche, dei problemi, delle nuove strade che si aprono (ma anche di attenzione e stimolo rispetto ai temi della sicurezza online).

4- DIMENSIONE RELAZIONALE: CLIMA RELAZIONALE D’APPRENDIMENTO E COSTRUZIONE PARTECIPATA DI REGOLE CONDIVISE DI CONVIVENZA

Valorizzazione delle esperienze degli allievi.
Le esperienze di vita degli allievi rappresentano il terreno fertile su cui far crescere nuovi apprendimenti. ibidem
L’ esperienza di esplorazione e collaborazione in forme nuove spesso poco conosciute, con problemi tecnici da affrontare non può avvenire se il docente si ferma ad un atteggiamento di paura: paura di non dominare le tecnologie, di non dominare il processo o le cose sconosciute che si possono incontrare in rete, di dominare o scoprire insieme i due “fronti” quello tecnico-operativo e, in contemporanea, quello formativo ed operativo con la classe.
O se è demotivato o manca di fiducia nelle competenze, tecniche e non solo, in divenire, degli allievi; è utile essere consapevoli del fatto che queste competenze implicite non sono sufficienti a dominare il web e non esserne dominati. I nativi digitali non esistono – Attivissimo ed altri.

Spesso però la collaborazione fra competenze tecniche implicite degli allievi e competenze formative di progetto, di stimolo, meta riflessione e consapevolezza dei docenti per quanto riguarda la cittadinanza digitale, cioè il lavoro collaborativo con due diversi ruoli è esperienza formativa vincente e significativa dal punto di vista relazionale ed emotivo per gli allievi. Perché il docente si è messo in gioco con loro, pur conservando il suo ruolo di controllo, formativo, di organizzatore e tutor, ma accettando il contributo di altre esperienze e integrandosi con esse. Promuovendo gradualmente e consapevolmente autonomia.

Inclusione delle diversità

Per attivare procedure inclusive all’interno della classe ed evitare che le diversità si trasformino in disuguaglianze: è opportuno adottare specifiche strategie. ibidem

Ci sono tre modi per essere “diversi” nell’uso delle TIC e del web:
a- quella della disabilità o di BES cui le TIC offrono da decenni aiuti molto concreti sia in ottica aumentativa che in ottica sostitutiva e o di adattamento dei compiti. In questo il digitale è una risorsa storica e non un problema. Sempre che i docenti siano formati e capaci di usare in modo utile gli strumenti offerti. I disabili spesso se li portano da casa o li hanno usati nelle scuole precedenti. Li conoscono già.
b- Quella del divario digitale fra chi ha, anche a casa, le TIC e la rete e chi no e non può permetterselo (circa il 25  % degli Italiani non ha la connessione o non se la può permettere. Mentre tutti (94%) hanno uno smartphone. I dispersi della DaD (ca 30%) sono stati i disabili e i ragazzi in difficoltà socio-economica, anche perché si vergognavano di farci entrare a casa loro. Questo evidenzia differenze sociali ed economiche all’interno della classe.
Per questo occorre molta attenzione sia nel richiedere agli allievi di portare da casa strumenti digitali che la scuola non può offrire, sia nell’assegnare compiti/lavori a casa che alcuni allievi ed alcune famiglie non possono affrontare. È un problema educativo sulla strada della integrazione, solo in parte e solo a certi livelli di scuola (superiori) aggirabile con l’uso di smartphone, maggiormente, ma non universalmente diffusi. In DaD si è lavorato su questo, il PNRR oltre la spesa tecnologica compulsiva ha un filone apposta. Vedremo.
c- Dell’utilità delle TIC per l’inclusione: le TIC agevolano la possibilità di diversificare i contributi dei singoli allievi all’interno della classe o del piccolo gruppo di lavoro, permettendo quindi la valorizzazione dei vari diversi contributi ed abilità degli allievi, con i loro diversi stili di apprendimento e l’apprendimento tra pari.

Clima emotivo di classe
L’apprendimento avviene attraverso una relazione di empatia; ecco perché il clima della classe determina la qualità dei percorsi educativi-didattici. ibidem
Gli aspetti emotivi e relazionali sono, in “ultima analisi”, determinanti nell’apprendimento che “passa” attraverso il rapporto docente-allievo e tra gli allievi della classe. All’interno di quello che B. Losito ha spesso chiamato il “clima di classe”.[4]
L’apprendimento (e l’insegnamento) sono esperienze emotive, non solo concettuali e il clima emotivo condiziona fortemente (in positivo o in negativo) la riuscita in ogni gruppo di lavoro.
Gli ambienti e le tecnologie sono ambienti emotivi oltre che relazionali e la introduzione di ambienti e strumenti nuovi, da sempre provoca dinamiche di entusiasmo in pochi e di paura e disorientamento in molti  docenti, più ancora che tra gli allievi.
L’empatia da raggiungere dei docenti verso la classe e l’imbarazzo nei confronti di ambienti e strumenti nuovi sono da sempre, un ostacolo alla introduzione delle tecnologie. È quindi un obiettivo da raggiungere, attraverso la scelta condivisa, la formazione (non addestramento) e la esperienza tutorata. Ogni nuovo ambiente di apprendimento porta delle paure di essere incapaci di affrontarlo e potrebbe invece invogliare all’empatia il gruppo che lo affronta insieme.

Il docente

Il ruolo del docente nel determinare il clima di classe è fondamentale, perché i ragazzi imparano da ciò che noi siamo e dalle esperienze significative che facciamo insieme, soprattutto se hanno una componente emotiva. Ovviamente il tipo di relazione si giudica sul lungo periodo (coerenza) e non in base ad episodi temporanei.
È utile al clima di classe ad esempio che un docente:

1. dimostri un atteggiamento di disponibilità all’ascolto
2. dimostri empatia e capacità di tollerare i problemi, per poi cercare di risolverli
3. valorizzi la positività dei propri allievi piuttosto che sottolinearne le carenze
4. sia disponibile al dialogo e all’accettazione di pareri diversi dal suo se li ritiene utili
5. dimostri coerenza e sia trasparente nelle decisioni che riguardano allievi e classe e nella valutazione ibidem

Il tipo di lavoro attivo, collaborativo e cooperativo di una ricerca o di un’esperienza digitale col docente che lavora insieme agli allievi, con competenze e ruoli diversi, ma tendenti allo stesso fine comune non può che rafforzare la conoscenza reciproca, il senso di comunità di apprendimento e quindi il clima del gruppo. Anche cercando insieme le soluzioni e accettando tutti i suggerimenti utili. Diverso è se il docente, in aula o in laboratorio, “porta i ragazzi a lavorare” e poi non si mette in gioco con loro fino in fondo. Il lavoro col digitale esce dai sentieri conosciuti, tende all’esplorazione, al nuovo e quindi alla scoperta di percorsi e problemi nuovi e comuni. Una vera ricerca sa dove comincia, ma non sa come finisce.

Domande
Non è il digitale anche secondo gli studi OCSE 2014, 2015 e più recenti[5], che aggiunge valore di per sé e migliora l’apprendimento, ma il buon docente, il suo atteggiamento nel lavoro e nella relazione e le sue scelte metodologiche.
Ideale sarebbe dare “buone” tecnologie in mano a buoni docenti, ma se queste riflessioni sono condivisibili:
1- PNRR scuola 4.0 e relativa formazione sono su questa strada?  Oppure avremo la solita formazione tecnica orientata al “saper usare” un giocattolo nuovo e stupefacente (pareti e tavoli “immersivi” …)?
2- I docenti, in generale, una volta che la scuola avrà fatto la obbligatoria spesa digitale, sono poi disponibili aiutati e motivati a questa costosissima nuova situazione? O la subiranno, insabbiandola?
3- Avremo fatto un passo avanti ragionevole nella evoluzione dell’uso del digitale a scuola (da parte di tanti) o avremo buttato via un sacco di soldi?

——————————————————————-

[1] Lo schema generale di questo contributo si rifà al lavoro, oggi da me aggiornato ed integrato, del gruppo di Cittadinanza e Costituzione dell’Istoreto, allora coordinato da R. Marchis; in particolare lo schema è stato elaborato da F. Ceriani e R. Marchisio e discusso con L. Truffo, M. Carello, F. Bilancini e le altre colleghe del gruppo. Prendiamo a prestito lo schema generale per riflettere oggi sulle implicazioni educative del Piano PNRR.

[2] Dobbiamo molte nuove idee e nuovi stimoli sulla valutazione formativa attuata in ambiente digitale al libro di S. Penge
https://www.edizionianicia.it/prodotto/valutare-negli-ambienti-digitali/

[3] Il concetto di circolarità del curricolo didattico è presente da tempo, ad esempio nei lavori di Nichols e Nichols, ma ha trovato una definizione più completa nella proposta metodologica del lavoro per competenze, peraltro spesso osteggiato, mal compreso o deformato nella scuola. Collegata è la esperienza di valutazione formativa nella primaria (talora non bene compresa e attuata) OM 172/20.

[4] Oltre a B.Losito, Goleman, Intelligenza emotiva

[5] Vedi anche Gui, Il digitale a scuola, https://www.mulino.it/isbn/9788815283207




Francesco De Bartolomeis: la pedagogia oltre la pedagogia

di Renzo Stio

È davvero ampio, non solo come arco temporale, il contributo di Francesco De Bartolomeis alla pedagogia della seconda metà del ‘900 e degli anni a seguire. Molti temi sono noti, tanti ancora da esplorare. Avendo avuto la fortuna di stringere con lui un rapporto di sincera amicizia, vorrei provare a tratteggiare il profilo dell’uomo, e dell’uomo di scienza, attraverso qualche nota che va oltre, pur rimanendo assolutamente coerente, l’ambito strettamente pedagogico.

De Bartolomeis è noto nella storia della pedagogia italiana come uno dei principali interpreti dell’attivismo e come il teorico dell’”antipedagogia”, intesa come antidoto alla mera trasmissione del sapere quando questo serve solo ad affermare l’egemonia di una cultura dominante classista e reazionaria.
Molti di meno sono quelli che hanno conosciuto il De Bartolomeis attratto dal mondo fatto di problemi, enigmi, domande, esplorazioni, sperimentazioni di cui si nutre l’esperienza artistica.
Insignito a 99 anni del titolo di “Accademico ad honorem” della storica Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, è stato tra i più attenti estimatori e studiosi del genio di Lucio Fontana[1], col quale trascorse lunghe giornate a osservarlo nel suo studio per comprenderne il lavoro.

È stato anche tra i pochi a dichiarare con onestà e senza infingimento alcuno, che i famosi “tagli” dell’artista – tratto di riconoscimento divenuto marchio internazionale – ad un certo punto hanno assunto interesse da supermercato a dispetto di tanti altri ambiti di ricerca di Fontana molto più promettenti sul piano della capacità di indagine dei problemi formali dell’arte. Un atteggiamento che lo ha sempre portato ad esprimersi con radicale e autentica onestà rispetto alla qualità dell’arte e degli artisti, con quella stessa limpidezza mentale e di coscienza che lo condusse a sviluppare argomentazioni critiche sull’idealismo di Benedetto Croce, il quale pure gli scrisse “… il suo lavoro è ben altro che dei soliti” [2], rintracciando peraltro una consonanza col suo pensiero che in verità De Bartolomeis non ha mai avuto. Ma erano tempi in cui, probabilmente, l’onestà intellettuale e la sincerità dei rapporti avevano un valore almeno pari alla tensione all’affermazione di sé e delle proprie idee.

Ha scritto tanto di arte e – come ebbe a dichiarare in un breve saggio [3] – ha dipinto anche lui, proprio per quella sua tendenza a discutere solo di ciò di cui “realmente” aveva contezza. Oltre al merito di aver contribuito alla conoscenza del lavoro di Fontana, è opportuno ricordare saggi quali: L’esperienza dell’arte (1989); La tridimensionalità nell’arte contemporanea (2004); Con l’arte con gli artisti, amici, parole, segni (2004); Arte oggi: il nuovo, il banale, l’offensivo (2007); Insieme agli artisti cerco di capire (2017); Se Lucio Fontana non avesse fatto buchi e tagli (2021); La cultura dell’arte (2022); La realtà dell’arte (2022); I bambini, l’arte, la cultura (2022).

Per tornare al lavoro di pedagogista e formatore, a lui si devono alcune “invenzioni” come la formula ante litteram scuola dell’infanzia sostitutiva dell’anacronistica e fuorviante scuola materna; l’idea del sistema formativo integrato, anticipatore dei concetti di continuità orizzontale e verticale; l’idea di una scuola-laboratorio, che traduce l’attivismo in forme di lavoro cooperativo attraverso quelli che oggi chiamiamo “compiti di realtà”; la necessità di considerare come corpo unico il sistema 0-6, oggi all’attenzione delle riforme finanziate con il PNRR. E ancora giova ricordare le collaborazioni con Ernesto Codignola – di cui fu assistente –, Lamberto Borghi, Loris Malaguzzi. Non vado oltre per non lasciare dietro tanti altri nomi di spicco del panorama nazionale.

Mi sia consentito di ricordare un episodio che forse racconta meglio di ogni altro esempio il profilo umano – non dissociabile da quello scientifico – di Francesco De Bartolomeis. Il 15 novembre del 2005 ebbi il mio primo incontro con Francesco. Ebbi la fortuna e l’onore di averlo ospite a Salerno nell’ambito di un convegno, del quale curai l’organizzazione, dal titolo “Pedagogia, arte, epistemologia”. Nel corso del convegno ci fu spazio anche per la presentazione di un mio libro appena pubblicato che trattava proprio delle intersezioni tra pensiero artistico e prospettive pedagogiche. Fu l’ispettore Umberto Landi, al quale non finirò mai di essere grato, a proporre di invitare De Bartolomeis, sapendo del suo interesse per l’arte. Con mio stupore e piacere, accettò l’invito anche perché fu per lui l’occasione di ritornare nei suoi luoghi di origine (Pellezzano, Comune in provincia di Salerno). Si trattenne qualche giorno e, ovviamente, volle visitare il suo paese. Era la sera che precedeva l’evento. Un saluto istituzionale del Sindaco nella Casa Comunale e poi la visita al luogo della sua casa natia. Quando arrivammo sul posto l’edificio – una sorta di casolare di campagna – era ancora lì. Francesco lo osservò attentamente, poi mi guardò e disse: “Lo ricordavo più piccolo, sarà la mia tendenza a ridimensionare ogni cosa”.
Una risposta che va decisamente contro l’esperienza comune di ogni adulto che, a distanza di anni, rivede i luoghi della sua infanzia, inevitabilmente sovradimensionati nella percezione fisica ed emotiva di un bambino. Una risposta “controcorrente”, come la sua antipedagogia. Una risposta intrisa di umiltà, modestia, senso della realtà, consapevolezza dei limiti delle nostre tesi.

Da quel momento ci siamo incontrati diverse altre volte a casa sua a Torino. Il piacere di ascoltare il racconto di un secolo di storia della cultura del nostro Paese dalla viva voce di chi quegli episodi li aveva vissuti dall’interno e con grande coinvolgimento, era per me un incredibile dono. In tutti questi anni gli ho scritto spesso e ogni volta, puntualmente, mi ha risposto col linguaggio asciutto di chi sa che è sempre meglio dire con dieci parole ciò che vorremmo dire con cento. Abbiamo discusso di scuola, di politica e di arte. Non gli ho mai telefonato. Con una sorta di implicito accordo, abbiamo costruito il nostro dialogo coltivando l’esperienza sempre più marginale e sincopata della scrittura epistolare, capace di dare la forma migliore alle idee prima di esprimerle, dotandole di quel senso che altrimenti rischierebbe di evaporare.

Francesco De Bartolomeis ci consegna il testimone di una ricerca senza fine. Temi su cui continuare a riflettere, “Pensieri su cui pensare” (De Bartolomeis, 2022) e per i quali vale la pena continuare a spendersi.

[1] F. De Bartolomeis, Segno antidisegno in Lucio Fontana, Edizioni d’arte Pozzo, Torino, 1967.
[2] F. De Bartolomeis, Percorsi educativi nelllo spazio e nel tempo, Zeroseiup, Città di Castello, 2022, p. 8.
[3] F. De Bartolomeis, Io e l’arte. Riflessioni Fantasie Disorientamenti, Comune di Pellezzano, novembre 2005.




Intelligenza artificiale, libri di testo, riassunti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Stefano Stefanel

L’intelligenza artificiale e, soprattutto, il suo uso umanistico ha preso alla sprovvista tutti. La scuola, come sempre avviene, tende ad arretrare davanti ad ogni novità e la scandaglia con i crismi della conservazione, chiedendosi, piuttosto attonita, in che modo la sua tradizionale concezione del sapere venga scossa da ogni nuova “diavoleria” in arrivo. L’intelligenza artificiale, sotto le spoglie nemmeno troppo anonime di Chapt A.I., sta dando alle certezze della scuola una scossa quasi pari a quella data dalla pandemia, che ha trasformato in una settimana gli insegnanti in “esperti” sull’utilizzo delle piattaforme digitali, con modalità di apprendimento molto veloci anche se un po’ caserecce e artigianali.

La prima domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa alla proprietà di un testo e quindi al confine che deve esistere tra plagio, citazione, rielaborazione. Il plagio è quando copio qualcosa da qualcuno e non dico che l’ho copiata; la citazione è quando copio qualcosa da qualcuno ed evidenzio chiaramente che cosa ho copiato e dico pubblicamente da chi l’ho copiato (di solito in nota), la rielaborazione è quando prendo spunto da qualcosa scritta o detta da qualcuno, la rielaboro e me ne approprio (e a volte “questo qualcuno” lo cito, mentre altre volte non lo cito). Personalmente sono stato convinto da quanto sosteneva San Tommaso D’Aquino, l’ho imparato all’Università quasi cinquant’anni fa, non ho mai avuto dubbi che alla base di ogni corretta pedagogia ci fosse quel pensiero.
Durante i quolibet all’Università di Parigi nel Trecento gli studenti dovevano sostenere una discussione su un tema introdotto dal San Tommaso. Lo dovevano fare appoggiandosi alle autorità del passato classico o alla contemporaneità del sapere cristiano, spesso contaminata da elementi arabi.

Su una cosa San Tommaso non transigeva: lo studente doveva citare la fonte da cui aveva tratto la sua argomentazione. Se non lo faceva veniva punito duramente o addirittura espulso dall’Università parigina perché aveva peccato contro Dio che lo favoriva facendolo studiare e contro la sua famiglia che pagava gli studi.
E aveva peccato di un peccato gravissimo per San Tommaso: l’arroganza di ritenere, da studente, di aver pensato qualcosa di originale, che qualche grande maestro del passato o del presente non aveva mai pensato prima. Quindi per San Tommaso l’unico sapere vero è quello che si riferisce ad una fonte, autorevole (nel caso suo spesso anche un po’ troppo autoritaria) e certa. Quindi bisognava copiare, dire cosa si aveva copiato e da che autore ci era “abbeverati”.

Questa idea non è quella della scuola italiana, che invece pare amare l’originalità degli adolescenti, spesso costruita su orribili argomentazioni nate non si sa bene dove ed ha orrore assoluto della copiatura, sia questa un ingiustificabile plagio, sia questa una corretta citazione. La scuola italiana ritiene che il riassunto sia invece ciò che produce apprendimento. Il libro di testo manualistico è un riassunto, le citazioni antologiche toccano i punti salienti di un testo e quindi ne riassumono i tratti essenziali, la spiegazione frontale del docente è un riassunto spesso di un altro riassunto (il manuale). Tutto insomma si tende a fare a scuola, tranne un sano lavoro sul testo senza mediazione alcuna.

Su questo meccanismo che continua a ritenere che la lezione frontale sia il metodo migliore per trasferire apprendimenti da una testa ben piena (quella del docente) ad una testa ben vuota (quella dello studente) si è abbattuta l’intelligenza artificiale e soprattutto Chapt A.I. che, a velocità irraggiungibile per qualunque essere umano (sulle possibilità dei replicanti si sa poco), produce testi ben scritti, corretti, banali, informati. Testi che comunque possono far prendere bei voti, perché spesso sono molto migliori di quelli prodotti con grande fatica da molti studenti. Personalmente ritengo che se un testo qualcuno lo scrive meglio di me sia corretto che lo scriva lui o lei e non io. Se poi l’intelligenza artificiale mi aiuta a produrre relazioni o testi divulgativi che io poi rielaboro e faccio miei non avrò scrupoli ad usarla, magari citando in calce l’aiuto che ho ricevuto. In questo momento sto scrivendo di mio pugno, anche perché sto esponendo una tesi che trovo molto difficile far interagire con Chapt A.I.

La tesi è questa: perché studiare su un libro di testo (manuale) che riassume qualcosa sia migliore che interrogare Chapt A.I. (o un motore di ricerca) su un qualunque argomento?
Personalmente sono da sempre contrario ai libri di testo e alla loro adozione, perché in un’ottica curricolare non capisco che cosa si possa realmente apprendere dentro un sapere stantio e immobile prodotto altrove in rapporto molto stretto con i vecchi programmi ministeriali. Ma ai docenti italiani piace il libro di testo (manuale), piace spiegarlo, piace risentirlo raccontato dai propri studenti, piace decidere di non utilizzarlo anche se è stato fatto comprare, piace corredarlo di molte fotocopie. E allora perché non piace anche l’intelligenza artificiale, che trasmette, in tempo reale, il libro di testo nella sua realizzazione più immediata e aggiornata? Questa domanda permette di entrare nella logica della scuola (non solo italiana) dove il sapere è controllo e non ricerca.
Una delle idee-base è che è necessario riferirsi ad un sapere certo e codificato per poterlo trasmettere, perché la base dell’apprendimento è comunque di tipo trasmissivo. Da qui ci si sposta poco e lentamente: un salto era stato fatto con la pandemia che aveva imposto idee nuove e nuovi orizzonti. Ma la fine della pandemia ha prodotto il più grande tentativo di restaurazione della storia della pedagogia italiana: tentativo molto forte che sta producendo danni irreparabili ed esiti di apprendimento con molti elementi critici.
A chi chiede un ritorno indietro (magati al 1967) bisogna rispondere che il ritorno c’è già ed è forte, ma trova qualche impedimento e l’intelligenza artificiale, nel campo umanistico, è uno di questi.

Molto spesso intellettuali, docenti e giornalisti irridono l’intelligenza artificiale perché fornisce risposte sbagliate. E’ balzato alle cronache mondiali un avvocato americano che ha citato in dibattimento sentenze inventate dall’intelligenza artificiale, che, successivamente interrogata sul motivo della sua trasmissione di dati falsi, ha chiarito  che aveva solo fatto un esempio tecnico di come si doveva strutturare una mozione che facesse riferimento a vecchie sentenze, che erano state inventate per meglio esemplificare. Tutti sostengono che la mente umane sia più profonda dell’intelligenza artificiale, anche se nessuno sostiene che è più veloce. Ma allora chiedo io: perché il libro di testo sì e l’intelligenza artificiale no? Visto che entrambi non vanno direttamente alla fonte se non in forma antologica o riassuntiva, non vanno direttamente sul testo ma lo selezionano antologizzandolo? Tra un riassunto manualistico e un riassunto dell’intelligenza artificiale c’è solo una differenza:   il manuale trasmette ciò che gli autori sanno mentre lo scrivono, l’intelligenza artificiale sa ciò che i suoi “gestori” in quel momento hanno immesso, e che cambia e si alimenta ogni giorno. Perché il riassunto del sapere posseduto dal soggetto che scrive il libro di testo vale più del sapere posseduto da un motore di ricerca o dall’elaborazione fatta in questo momento dall’intelligenza artificiale?

Il problema dell’apprendimento è stato messo a nudo da Chapt A.I.: se non si va direttamente al testo, si deve procedere per riassunti e tutti i riassunti, vanno rielaborati, analizzati, compresi, rifatti. Il problema si sposta dalla trasmissione del sapere riassunto all’elaborazioni di una argomentazione che poggia su un sapere conosciuto.
Mi sfugge perché le scuole adottino manuali di storia e non semplicemente Wikipedia (facendo risparmiare un sacco di soli ai propri studenti), che in tempo reale, può portarci dentro l’argomento che in quel momento ci interessa. Non mi soffermo su una dato certo: i manuali contengono più errori di Wikipedia, infatti nessuno adotta il manuale nell’edizione del 1998, ma sempre quella del 2023 per il semplice motivo che quella del 1998 è un’edizione con troppi errori, imperfezione, cose superate. Che però sono state insegnate fino a poco prima. Chapt A.I. fa lo stesso: è un manuale a domanda, che interagisce col soggetto che fa le domande. Si tratta di passare dalla valutazione dell’elaborazione e della sua originalità, alla valutazione delle competenze di controllo e rielaborazione. Quindi lo studente non deve “ripetere”, ma deve rielaborare e argomentare imparando a citare correttamente la fonte.

Il passare dal sapere trasmesso al sapere costruito, dalla riscrittura o ripetizione del riassunto alla gestione argomentata del riassunto, dalla staticità delle informazioni ad informazioni in movimento, dai dati acquisiti ai dati cercati può essere aiutato e non poco dall’intelligenza artificiale. Allora forse è il momento di rimuovere la diffidenza verso la tecnologia per far comprendere agli insegnanti la tecnologia e il suo uso, dentro formazioni di senso e non procedure “fai da te”. Credo si debba riflettere su questo: l’intelligenza artificiale è un libro di testo che risponde solo alle domande che vengono fatte. Quindi bisogna insegnare a farle.

Ah, dimenticavo, poi ci sono i testi. La Critica della ragion pura di Kant non teme l’intelligenza artificiale. E’ stata scritta così e così va letta. E’ perfetta perché non c’è nulla da cambiare. Ma questa è, veramente, un’altra scuola.

 




T come tempo scuola e tempo pieno

di Giancarlo Cavinato

Nella pedagogia Freinet assume grande rilevanza l’organizzazione della classe e della scuola, quindi l’uso degli spazi e dei tempi.
Bambini che vivono in un ambiente ‘disordinato’ come i piccoli alunni di borgata del maestro Albino Bernardini  negli anni 60 in cui ‘imparano che i “duri” resistono meglio degli altri” o viceversa in un ambiente iperorganizzato in cui i ritmi e i diversi momenti sono tutti eterodiretti attraverso un’organizzazione cooperativa interiorizzano gradualmente e fanno propri dispositivi e ritmi che consentono collaborazione e sforzo comune. Quanto l’organizzazione del contesto e di ‘sistemi’ diversificati incidano sullo sviluppo umano è stato dimostrato dalle ricerche sull’ecologia dello sviluppo di U. Bronfenbrenner.[1]

L’organizzazione non è neutra ma incide sul sistema di aspettative, sulle interazioni, sull’autostima, sulla fiducia in sé e negli altri, sulle risorse personali e del gruppo.
Nelle scuole francesi ai tempi di Freinet e anche oltre il ritmo della giornata era costituito da un orario antimeridiano di tre ore e un ritorno pomeridiano di due ore in 5 o 6 giorni. Con un unico maestro, spesso in piccole scuole rurali.
Un’organizzazione analoga la condividevano i maestri della cooperazione educativa fino agli anni 70: era l’esperienza di Mario Lodi, di Bruno Ciari, di Giovanna Legatti e tanti altri. Ma con il diffondersi del movimento, della sensibilità nella società civile, di una conoscenza pedagogica adeguata ai tempi dello sviluppo economico e sociale negli anni 60-70, si pose il problema delle grandi scuole cittadine, dell’inurbamento  dalle campagne e dell’emigrazione dal sud di grandi masse che approdavano al mondo dell’industria.
Se a una parte dei bambini che frequentavano la scuola dell’obbligo, scriveva Francesco Tonucci, era garantito il rifornimento culturale composto di antipasto, pasto e dessert, per un’altra gran parte al massimo si prospettava un primo scarso. I primi possedevano già i codici, erano già immersi in cornici culturali omogenee e quanto la scuola offriva (per loro era una specie di surplus), per i secondi l’esperienza e le richieste erano spesso di spiazzamento e incomprensione, così da farli ritenere ‘disadattati’.

La risposta che il mondo della scuola, della ricerca, la nascente sindacalizzazione degli insegnanti e associazioni come il MCE, grazie anche all’immissione di giovani insegnanti disponibili a mettersi in gioco seppero elaborare fu il tempo pieno.
Già nell’esperienza di Lodi e altri/e il tempo scuola risultava insufficiente per sviluppare attività significative che lasciassero traccia negli alunni costruendo reali strumenti di lettura, comprensione e intervento sulla realtà. I maestri del Movimento spesso rientravano a scuola nel pomeriggio con i loro alunni (il doppio tempo, antimeridiano e pomeridiano, era ormai residuale nelle zone rurali; nelle cittadine e nelle città spesso si doveva ricorrere ai doppi turni, quindi o un orario di 4 ore al mattino o di tre ore al pomeriggio a mesi alterni). Si ‘preparavano’ andando a ricercare fonti e materiali, svolgendo una preindagine d’ambiente. Cercavano ‘testimoni’ da portare a scuola e da far intervistare dai ragazzi.

Il tempo pieno, cioè la costituzione di una giornata ricca, varia, stimolante, con attività diversificate al suo interno, con l’apertura delle classi, la contitolarità di due docenti, l’uso di strumenti e tecniche moderne sembrò la risposta alle povertà educative e all’isolamento e alla sopravvalutazione dei ragazzi dei ceti abbienti per una integrazione di modalità, codici, strategie. Una giornata completa di otto ore (forse una formula un po’ ‘operaistica’) comprensiva del tempo mensa (non la ‘mensa dei poveri’ del doposcuola comunale) ritenuto estremamente importante sia per un avvicinamento di gruppi umani spesso incomunicanti una volta adulti sia per il valore educativo del mangiare insieme, del condividere, del superare resistenze e gusti.

Facciamo parlare a questo proposito il grande pedagogista Francesco De Bartolomeis con il suo ‘Scuola a tempo pieno’ del 1972, l’anno successivo all’entrata in vigore della legge 820 che istituiva non il tempo pieno ma posti docenti per ‘attività integrative pomeridiane’ e ‘insegnamenti speciali’. Una formula che venne totalmente rovesciata dalla mobilitazione di insegnanti, famiglie, associazioni e sindacati attraverso lotte che portarono alla formula organica con due insegnanti, attività ‘strumentali’ e laboratori, alternanza dei due docenti senza separatezze mattina-pomeriggio, anche sulla base delle preoccupazioni espresse da pedagogisti quali De Bartolomeis.

De Bartolomeis lucidamente metteva in guardia dai rischi e dagli ostacoli.
[…] Si chiede (alla ricerca) di fare proposte attuabili. Ma a chi? A una classe politica che ha come programma di attuare soltanto la perpetuazione del suo potere di parte. […] L’avvio del tempo pieno nel nostro paese non promette sostanziali rinnovamenti, anzitutto a causa di un tipo di organizzazione sociale che non può esprimere una scuola che lo neghi. Effetti di questo impedimento di base sono, tra l’altro, l’assenza di una impostazione sperimentale, di un piano e di iniziative per la riqualificazione degli insegnanti o per la formazione di nuovi insegnanti, la permanenza della gerarchizzazione tra materie fondamentali e attività integrative. Se manca un rapporto critico con i problemi di radicali mutamenti sociali e politici, entra nel gioco delle deformazioni e delle riduzioni didattiche la richiesta, del resto generica, di definire nuovi contenuti e nuovi metodi, e di provvedere a una diversa organizzazione dello spazio educativo. […] Questa la contraddizione più grave: la scuola di una società classista dovrebbe lavorare contro il classismo.

Alcune delle condizioni per un tempo pieno che quanto meno limiti i danni di una scuola del consenso sono indicati da De Bartolomeis nell’ordine: […] considerare il modulo organizzativo della scuola in termini di struttura fisico-spaziale (aule laboratorio, spazi per la socialità,..)
[…] è in questione non l’insegnante singolo ma la progettazione educativa del gruppo di insegnanti e di altri esperti, e l’insieme dei materiali, degli strumenti e delle procedure indispensabili per l’attuazione
[…] i problemi dei rapporti interpersonali e della dinamica di gruppo. La trattazione di questi problemi richiede tra l’altro una competenza psico-pedagogica (conoscenze e abilità) capace di vedere nella cosiddetta normalità le difficoltà di adattamento, i conflitti, le contraddizioni, le frustrazioni, l’ansia, le difese dall’ansia,.ecc.
[] non una dilatazione dell’orario che lasci immutato tutto il resto: scuola senza classi, collaborazione degli insegnanti in compiti non solo di educazione ma anche di programmazione, grande varietà di attività,  conformità ai ritmi biopsichici, nuovi contenuti, ricerca, sostituzione delle aule  con i laboratori, vita sociale abolizione di un orario avverso ai processi di incubazione, a quella che possiamo chiamare creatività temporaneamente improduttiva
[…] la collocazione di ogni individuo nel sistema sociale, quindi la sua mobilità in esso, le aree di attività e di decisione che può raggiungere [2]

Forti di questo viatico, giovani insegnanti neoimmessi in ruolo, ci accingemmo all’opera. Con molti dubbi e interrogativi. Ad esempio. Quello che funzionava così bene nella classe di Mario Lodi o di Bruno Ciari, il piano di lavoro, la discussione, la corrispondenza, il testo libero, la stampa, il calcolo vivente, la ricerca… ma con ragazzi di ambienti molto disomogenei, classi numerose, in città, avrebbe funzionato lo stesso? E come si componeva con gli orari della nuova scuola, le attività di classe e i laboratori?

[1] Bronfenbrenner U. (2002) Ecologia dello sviluppo umano Il Mulino, Bologna
[2] De Bartolomeis F. (1972) Scuola a tempo pieno, Feltrinelli