Cattedre miste, un piccolo segno verso una seria comunità educativa?

di Raffaele Iosa

In questi giorni di calda estate 2023, su facebook da diversi autori è riesplosa (dopo anni di silenzio) la questione delle cd. “cattedre miste”, inerenti una diversa organizzazione più cooperativa tra docenti di sostegno e curricolari. Lo scopo, nelle intenzioni pedagogiche migliori, è di arricchire l’esperienza formativa dell’alunno con disabilità riducendo i rischi di una troppo frequente “didattica separativa” spesso racchiusa in rapporti para-privati con il docente di sostegno ed eventuale educatore fino alla diffusa forma della “copertura totale”.
Il termine dice già tutto sul rischio che l’inclusione diventi una strana isolazione.
La discussione è per ora varia, tra chi esprime entusiasmo perché si riaprano azioni di migliore comunità professionale, soprattutto nelle scuole medie e superiori, a chi ne vede le difficoltà applicative, a chi (come sempre accade) sostiene che il problema è “un altro”.
Personalmente delle cattedre miste ne penso un gran bene: la pluralità dei docenti è un valore se si fa cooperazione e integrazione per tutti i ragazzi. Per quelli con una qualche disabilità possono essere una manna cognitiva, un’esperienza di maggiore socialità, un sentirsi comunità che apprende. Molto meglio la cattedra mista che la cattedra di sostegno tout court, che tende inevitabilmente all’isolazione .
In questo mio commento non entro negli aspetti tecnici e organizzativi né giuridici di come si possano sviluppare forme più ricche di corresponsabilità e organizzazione curricolare flessibile. Vi sono da tempo (fin dal Regolamento autonomia del 1999) ampie possibilità operative di flessibilità, come ostacoli o freni dati da aspetti organizzativi, contrattuali, di abitudini. Vi sono anche, naturalmente, riserve radicali su cosa sia il “sostegno”: se un’attività didattica diffusa che tocca tutti (come insegna la Legge 517 del 1977!!) o non invece una “professione specialistica para-terapeutica” di per sé “altra” dall’educativo.

Vorrei invece qui inserire il tema cattedre miste in un quadro più ricco di questioni sul “contesto socio-pedagogico” complesso e deludente della scuola italiana nei suoi processi di inclusione a vasto spettro, da quella degli studenti con disabilità, alle diverse forme di cd. “BES” sino alla più vasta questione della dispersione scolastica. Questo perché la questione “cattedre miste” non va vista come una questione tecnica in sé, ma uno dei tanti aspetti da curare per superare la crisi di senso ed efficacia della scuola, per la quale da tempo (nei testi giuridici come in quelli contrattuali) si fa riferimento fino all’adulazione al termine “comunità educante” per accentuare la corresponsabilità e la partecipazione di tutti. Il termine comunità rischia di restare però una retorica grida manzoniana, che può voler dire varie cose come il suo contrario. Ebbene: la questione cattedre miste è di per sé un tipico oggetto da comunità educante nel suo farsi concreto. Se la scuola nel suo insieme sarà capace di leggersi e costruirsi come comunità professionale aperta e solidale, con il sano ma anche ottimistico realismo delle cose possibili.

Tre questioni d’insieme , l’intreccio del rischio de-scolarizzazione
Dunque vorrei qui collegare, in breve, la questione cattedre miste con tre grandi snodi del presente sui quali ho in questi anni scritto molto, per vedere la questione cattedre nel quadro di una scuola che va messa in movimento qualitativo per evitare possibili fallimenti fino alla de-scolarizzazione di fatto. Cioè scuole sempre più inutili e meno leve di sviluppo di tutta la società, e il destino di tutti i nostri giovani.

1. L’esplosione iatrogena
Il numero di certificazioni di disabilità è raddoppiato in meno di 20 anni, aumentano di queste la condizione di gravità (il famoso art. 3 comma 3 della Legge 104/92). Non c’è è nel nostro paese un dibattito scientifico e sociale sulle ragioni di questo strano evento di grande complessità. Le più diverse testi cercano spiegazioni a volte fantasiose. Non c’è comunque alcun dubbio che è cambiata la percezione di “difficoltà” e “malattia” sia nelle famiglie che nel mondo educativo sia in quello sanitario. Forse non è un caso che l’aumento delle certificazioni sia inversamente proporzionale al calo demografico: meno bambini che si desiderano troppo “perfetti”?. E’ comunque un tema sul quale l’assenza di ricerca e dibattito scientifico rischia di creare nelle scuole grandi incertezze e confusioni.
Ha accompagnato l’esplosione iatrogena della disabilità l’invenzione clinica dei DSA, giunti in poco più di un decennio quasi allo stesso numero dei compagni di classe 104. E anche in questo caso con una discussione spesso estremizzata da tesi opposte sulla bontà o meno di queste sindromi.
E, infine, dal 2013 la dizione BES come contenitore di diverse condizioni esistenziali, cognitive, sociali cui offrire un trattamento educativo di cura. Non facile da comprendere se BES così diventi uno strumento di aiuto o invece (come temo) uno stigma che nel tempo separa, rassegna e riduce le attese educative.
Dunque, in meno di 20 anni è mutato profondamente il panorama interpretativo e gestionale di tutti i nostri studenti con una qualche difficoltà comunque diagnosticata. Da qui norme, indicazioni, e spesso dolorose forme conflittuali tra scuole e famiglie. Da qui la nascita di “nuovi servizi” (spesso privati) con proposte “riabilitative” quasi chiavi i in mano. Siamo alla centralità del sintomo che sostituisce la persona.
Il nuovo cospicuo blocco di normative sulla disabilità, ad esempio, ha prodotto un monstrum giuridico, tra GLO di cui non è chiara la funzione e il reale potere, un ICF diventato un contatore di ore di sostegno piuttosto che un lettore olistico della persona, e infine il progetto di vita diventato cosa da servizi sociali comunali piuttosto che il quadro di riferimento di sviluppo di ogni persona.
C’è dunque molto da fare, studiare e discutere sulla qualità attuale dell’inclusione nelle nostre scuole. C’è il rischio che l’inclusione si separi dai processi di normalità del processo educativo, che si tenda cioè a forme “speciali” di scolarizzazione, cioè nel tempo a nuove forme di scuole speciali. Non solo per gli studenti con disabilità. E dunque, come non vedere la questione cattedre miste come un antidoto interessante da sviluppare per cambiare la tendenza alla separazione e all’isolazione?

2. La dispersione scolastica, disavventura italiana
Come non bastasse, i dati sugli esiti scolastici dei nostri studenti sono infelici, e le differenze regionali tra nord e sud gridano vendetta ad una società più equa e dinamica. L’Italia ha la più elevata percentuale di NEEDS in Europa. E la povertà è tema conflittuale del dibattito politico con t4ensioni e disparità tra zone del paese intollerabili. Comunque il tema dispersione avrebbe molti interventi, riceve numerosi finanziamenti di cui il recente PNRR ha il massimo sviluppo. Eppure anche questo tema rischia di diventare questione separata dalla scuola nel suo insieme. Si può comprendere, ad esempio, la necessità di professioni più elettivamente capaci di aiuto, ma c’è anche alto il rischio di nuovi “tutor-interventi speciali” o l’utilizzo esagerato del terzo settore come salvatori e delegati, capaci però di produrre loro malgrado (paradossalmente) forme “isolanti” piuttosto che “comunità educanti” in cui tutti, docenti studenti e famiglie, si fanno comunità reale, bella nella sua eterogeneità . Soprattutto non delegando ad altri “esperti” i problemi, e continuando la gran massa a vivere con la propria spicciola “normalità”.

3. Verso il deserto demografico

Quest’anno nasceranno meno di 380.000 bambini. Il calo demografico è ormai clamoroso. Sappiamo già che nei prossimi 10 anni dovremo fare i conti con lo sviluppo territoriale dei singoli istituti, dalle scuole dell’infanzia alle superiori, con il rischio di conflitti per visioni localistiche senza una visione realistica della condizione infantile e della crescita. Penso si debba avere il coraggio di un ripensamento collettivo della geografia scolastica che unisca il numero degli alunni con il territorio nel suo insieme (es. servizi sociali, opportunità, relazioni tra servizi). Meno bambini avremo in un territorio più si dovrà stare attenti ad offrire più opportunità integrate possibili perché il calo demografico non diventi un deserto, in cui bambini soli crescerebbero con poche opportunità intorno a sè. Anche in questo caso, quindi, serve una visione da comunità educativa, in questo caso con la responsabilità di tutti, dagli enti locali alla società civile, all’economia del territorio. Sarà dura. Ma altrettanto sarà realistico comprendere che avere pochi bambini rende necessario perderne il meno possibile. Da qui i tre punti di questo breve testo si sommano nel dovere di una visione integrata e unitaria che abbia a cuore la comunità civica nel suo insieme.
Per queste ragioni io penso che tutte le azioni in cui si costruiscono nei territorio forme di comunità attiva saranno sempre più necessarie, e perfino convenienti. Non solo per i nostri giovani, ma per un patto tra le diverse età della vita che nel prossimo futuro sarà più complesso che ai tempi dell’alta natalità.
Lo scambio tra generazioni sarà più delicatamente complicato, sarà necessario evitare “sprechi” umani e sociali, sarà quindi indispensabile e perfino conveniente fare il più possibile comunità.
Ecco perché, partendo da un aspetto particolare dell’inclusione scolastica qual è la “cattedra mista” , si comprende come ogni più piccolo gesto di partecipazione, corresponsabilità, creatività sarà utili al nostro non lontano futuro.




Concorso ispettivo: chi ha tempo aspetti tempo

di Mario Maviglia

 Si farà? Non si farà?

È la domanda che in questi giorni attraversa imperiosamente l’Italia togliendo il sonno a tante persone. Sembra però che questa sia la volta buona: dopo tanta spasmodica attesa, finalmente si arriverà al dunque, qualunque cosa ciò voglia dire. Ma un po’ di cautela è d’obbligo; d’altro canto per fare le cose per bene ci vuole del tempo. Non dimentichiamo che anche il Padreterno (non so se rendo l’idea…) per fare il mondo ci ha impiegato sei lunghi giorni e al settimo si è addirittura riposato! Ed era Lui!
La domanda inziale non si riferisce al Ponte sullo Stretto e nemmeno alla lotta all’evasione fiscale. In fondo questi interventi sono quisquilie rispetto all’impresa titanica che attende il Ministro dell’Istruzione (e del Merito, non dimentichiamolo!): l’emanazione del bando di concorso per ispettori tecnici! (Anzi, più correttamente, per dirigenti tecnici con funzioni ispettive. Le parole sono importanti in un’epoca in cui tutto tende a confondersi e a slabbrarsi, qualunque cosa ciò voglia dire…).
Pensate che l’ultimo concorso si è concluso dieci anni fa, dopo un iter durato cinque anni.Non affrettatevi però a dire che è durato troppo o che è passato troppo tempo da allora! Fareste un torto alla vostra intelligenza. Se si vogliono fare bene le cose ci vuole il tempo che ci vuole, qualunque cosa ciò voglia dire… D’altro canto non pensiate che l’Amministrazione in questi lunghi dieci anni non abbia fatto nulla: ha elaborato idee, ha fatto studi e progetti, “è andata in giro, ha visto gente, si è mossa, ha conosciuto, ha fatto delle cose” (cfr. Ecce bombo).

Adesso sembra che tutto sia pronto per il bando che recluterà ben 146 dirigenti tecnici con funzioni ispettive.
L’attuale pianta organica degli ispettori prevede 191 unità a livello nazionale, quelli di ruolo ancora in servizio sono circa una decina. Nel corso di questi anni molti sono andati in pensione, qualcuno è passato a miglior vita, tanti hanno sposato i figli, magari hanno conosciuto l’emozione di tenere in braccio i nipoti. Così è la vita. Sareste comunque malfidenti a pensare che i 191 ispettori (sulla carta) siano pochi. Sì, è vero, i cugini francesi, con una popolazione scolastica appena superiore alla nostra, hanno 3789 ispettori [1], ma quelli sono ammalati di grandeur! (Anche se davanti a Bartali “si incazzano e le palle ancora gli girano…” cfr. Conte).
L’Italia ha fatto una scelta diversa, all’insegna della razionalizzazione delle risorse, della valorizzazione delle (poche) professionalità e soprattutto del risparmio (che però non ha riguardato in egual misura i dirigenti amministrativi… chissà perché). I 696 ispettori del 1989 sono diventati 440 nel 2001 fino ad arrivare agli attuali 191[2].

Andando avanti di questo passo, troverà finalmente attuazione quella storiella che racconta di un contadino che volendo risparmiare sulla biada da dare all’asino ne diminuiva progressivamente la razione finché il povero asino tirò le cuoia con grande disappunto del contadino: l’asino era morto proprio nel momento in cui aveva imparato a non mangiare… Il Ministro Valditara sicuramente conoscerà questa storiella.

Quando io ho cominciato a fare l’ispettore, nel 1991, in quel di Brescia eravamo assegnati cinque ispettori solo per quella provincia (quattro per la scuola primaria e uno per quella dell’infanzia, oltre ad altri colleghi che operavano a livello regionale presso la Sovrintendenza Scolastica). Oggi in tutta la Lombardia sono in servizio circa cinque ispettori per tutti i gradi scolastici. Quando furono istituite le Direzioni Regionali (all’inizio del 2000) tutti gli ispettori furono collocati funzionalmente presso gli USR; in Lombardia eravamo circa cinquanta ispettori: c’era la sede, ma spesso mancavano le sedie… Adesso le sedie sono in eccedenza.

Questo dimagrimento progressivo può avere varie ragioni, alcune del tutto inverosimili, altre più realistiche, anche se politicamente scorrette. Tra le ragioni inverosimili possiamo citare il risparmio della spesa pubblica. Gli ispettori in effetti costano, anche se non tutti mangiano poi così tanto… Comunque, calcolando una media di stipendio annuo lordo di 100 mila euro (per eccesso) si ha una spesa di circa 19.100.000 euro annui per tutti i 191 ispettori.
Il Sole 24-ore ha calcolato che un caccia militare F-35 costa all’Italia circa 99 milioni di euro (F-35A) e 106,7 milioni di euro (F-35B). La legge di Bilancio 2023 prevede una spesa militare del 2% del Pil corrispondente a 38 miliardi di euro all’anno (quasi il doppio dei 21,4 miliardi di euro spese nel 2019, prima della pandemia).
Se comprendiamo bene, all’interno delle varie voci di spesa della contabilità pubblica alcune sono in rialzo (spese militari) altre sono in ribasso (spese per l’istruzione). Non si tratta quindi di un problema di spesa in sé, ma di scelte politiche, di visioni del mondo, di concezioni etico-culturali.

Tra le ragioni (politicamente scorrette) possiamo sicuramente annoverare il fatto che da sempre il sistema scolastico italiano ha un’impronta fortemente burocratica e dunque i “veri” dirigenti sono quelli amministrativi, la spina dorsale del sistema. Che poi tale management ne capisca anche di curricula, di valutazione, di dinamica dei processi di apprendimento questo è del tutto irrilevante. Le figure tecniche, all’interno di tale sistema, sono considerate degli intralci o degli incompetenti o – nelle espressioni più avanzate – dei civil servant utili per dare un qualche supporto alla stesura della circolare di turno.

C’è poi una ragione più profonda, una sorta di spettro che si aggira per l’Italia (tranquilli, nulla a che fare con lo spettro che si aggirava nel 1848 in Europa…): lo spettro del controllo.
L’Italia è un Paese ontologicamente refrattario ad ogni forma di controllo (e, ovviamente, alle figure che lo interpretano). D’altro canto, ad un popolo che “devasta il territorio, imbratta, trasgredisce le regole, usa il bene pubblico come terra di nessuno, confonde sistematicamente il pubblico col privato”[3], le strutture che, almeno sul piano civile (diverso è il discorso per quello militare), sono adibite al controllo non possono godere di grande considerazione. Se poi questo “controllo” si fonda su dati tecnici è ancor più malvisto.

Detto in altre parole e trasponendo il discorso sul piano scolastico, avere un numero adeguato di ispettori che “controllino” le scuole o le supportino nella valutazione del servizio e nei processi di insegnamento-apprendimento, sembra che non interessi nessuno.
Ancor meno interessa avere un corpo ispettivo autonomo, con un proprio programma di lavoro e una propria struttura ordinamentale, secondo la proposta formulata qualche anno fa dall’Associazione Treellle[4], che si concretizzava nell’istituzione di una Direzione Generale per l’Ispettorato con funzioni di:
a) valutazione esterna delle scuole;
b) valutazione dei dirigenti scolastici;
c) ispezioni disposte per sospette patologie professionali individuali;
d) consulenza tecnica per il Ministero
e) autogoverno del corpo ispettivo.
Ma Santo Iddio, una categoria di professionisti così concepita rischia di sottrarre “potere” alla dirigenza amministrativa! E senza il faro giuridico-amministrativo onniveggente del management amministrativo il sistema scolastico è destinato ad andare alla deriva, in balìa del caos, del disordine, a non garantire le nomine dei docenti nei termini, a non indire i concorsi in modo regolare. Insomma, si rischierebbe di non godere più di quella paradisiaca situazione di ordine ed efficienza che ben conosciamo.

Ogni sistema umano, per quanto perfetto, ha i suoi difetti: il corpo ispettivo è uno di questi per il nostro sistema scolastico. Il concorso per dirigenti tecnici con funzioni ispettive può attendere.

[1] C. Evangelisti, I “corpi ispettivi” nella scuola francese. Un sistema articolato per garantire la qualità di tutte le scuole, Scuola7, n. 333, 14/05/2023

[2] E. Acerra, La funzione ispettiva nel sistema scolastico italiano, in A. Giannelli, M. Faggioli (a cura di), Concorso a dirigente tecnico 2021, Guerini e Associati, Milano, 2021.

[3] R. Simone, Il paese del pressappoco, Garzanti, Milano, 2005, p. 141

[4] Associazione TreeLLLe, Un nuovo Ispettorato per assicurare la qualità di tutte le scuole, Quaderno n. 14 dicembre 2017, scaricabile da http://www.treellle.org/files/lll/Quaderno%20Q14.pdf




Non ci sono più bambini

Il calo demografico ha ormai raggiunto livelli drammatici e le conseguenze sul sistema scolastico non sono forse state ancora ben comprese da tutti.
In realtà la questione non è recente e, a ben vedere, ha origini lontane nel tempo: se ne parlava già negli anni ’90, poi l'”ondata” migratoria ha attenuato non poco gli effetti della diminuzione delle nascite di bambini italiani.
Adesso il problema si sta ripresentando in tutta la sua evidenza.
Sul tema pubblichiamo un vecchio articolo di Raffaele Iosa uscito sulla rivista Valore Scuola nell’ottobre del 1993, ma ancora molto attuale.

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Lamberto Borghi, un grande pedagogista da non dimenticare


Educazione e autorità nell’età moderna
 è il titolo di un importante libro di Lamberto Borghi pubblicato per la prima volta nel 1951 ma riproposto di recente in una nuova edizione curata da Carmen Betti e Franco Cambi.
Lamberto Borghi è stato uno dei più noti pedagogisti italiani del secondo dopoguerra, autore di saggi di straordinario interesse.
Profondo conoscitore del pensiero di John Dewey si deve proprio a lui il merito di aver diffuso in Italia le opere del grande pedagogista statunitense.
Essendo di origine ebraica alla fine degli anni ’30 emigrò negli Stati Uniti e rientrò in Italia solamente nel 1948 iniziando subito a collaborare con Ernesto Codignola sia presso l’Università di Firenze sia per il lavoro editoriale con Nuova Italia.
Lamberto Borghi era un convinto difensore dell’attivismo pedagogico e della laicità della scuola; era lontano dall’idealismo gentiliano ma anche dai rischi del dogmatismo “di sinistra”.
Quella di Borghi può essere considerata un pedagogia “libertaria” tanto che alcuni lo considerano un pedagogista anarchico.
Risale al 1964 un altro suo importante volume (Scuola e comunità) in cui mette in evidenza il ruolo della scuola e dell’educazione rispetto allo sviluppo sociale e la necessità di promuovere l’autonomia della scuola e delle strutture educative in modo da garantire un corretto rapporto fra scuola e società.
Di Borghi, del suo pensiero e della sua opera parliamo in questa bella intervista a Carmen Betti, già docente di pedagogia all’università di Firenze.




Esami di Stato e prove Invalsi

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

E’ difficile sperare che della scuola si possa parlare con giudizio e razionalità sulla base di una adeguata conoscenza della sua realtà, dei suoi meccanismi, della sua cultura, delle sue finalità e anche del suo personale. Ogni occasione è buona per parlarne come di un mondo modesto e bizzarro in balia di se stesso, sempre pronto a scandalizzare per quello che vi succede platee affollate di immancabili censori ora per l’incuria delle sue strutture, ora per la supposta imperizia dei docenti, ora per l’incorreggibilità degli studenti, ora per l’arretratezza dei curricoli, ora per l’avversione al mondo aziendale.
Non può sfuggire in questo genere di letteratura l’occasione offerta annualmente dalla differenza tra i dati emersi nell’ indagine INVALSI e quelli riscontrati negli esami di maturità appena conclusi. Nelle regioni del Sud, nelle quali gli studenti dell’ultimo anno nell’indagine INVALSI avevano denunciato carenze in più discipline, si sono avuti agli Esami di Stato risultati ampiamente diversi e migliori.

E allora ci si chiede quali dati siano davvero affidabili sulla preparazione degli studenti e ancora se un esame che fa tutti promossi dappertutto sia davvero un esame che può darci informazioni sul funzionamento dell’attività didattica delle scuole. Mettere in contrasto i dati INVALSI e quelli degli Esami è un gioco facile e si sa in anticipo come va a finire.

Va a finire con la demonizzazione del lavoro degli insegnanti, con la riprovazione della loro incerta etica professionale, con la perorazione di nuove e più incisive forme di valutazione della scuola e degli insegnanti. Per il bene della scuola, invece, vanno migliorati sia gli scopi e i metodi delle indagini INVALSI, sia soprattutto l’architettura degli Esami di Stato.
Il vizio di fondo degli Esami di Stato, che compromette qualsiasi buona intenzione e che va cancellato, è costituito dalla composizione delle commissioni. Fino a quando le commissioni saranno composte paritariamente tra membri interni e membri esterni; fino a quando i commissari devono essere scelti solo tra gli insegnanti della provincia in cui ha sede un istituto i risultati saranno sempre gli stessi. Tutti promossi e tutti con voti più o meno alti, soprattutto dove è difficile e complicato sottrarsi all’ambizione di potere documentare un ricco palmares della propria scuola e talvolta alle sollecitazioni interessate di autorevoli patrocinatori delle sorti degli alunni.




Ritorna la manfrina dei dati Invalsi

di Cinzia Mion

Premetto subito che non sono tra i detrattori delle prove Invalsi. Anzi. Ho sempre preso sul serio il grido di allarme inoltrato a suo tempo dal linguista Tullio De Mauro sul cosiddetto “analfabetismo funzionale” del 70 % degli italiani adulti, ripreso poi sistematicamente appunto dalle Prove Invalsi, rispetto ai ragazzi a scuola.
Il riferimento è al fatto che i ragazzi a scuola leggono (competenza strumentale) ma fanno fatica a capire il “senso” di ciò che leggono.
Le cause secondo me sono molteplici. Non intendo però affrontare qui l’annoso problema della formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria, carentissima soprattutto in “psicopedagogia o psicologia dell’apprendimento scolastico”, dopo la soppressione delle SSIS. Mancano inoltre da morire tutti i laboratori, i tirocini, all’interno dei quali sollecitare proprio la formazione professionale del docente ad uscire dalla propria auto-referenzialità. Stupisce che non sia l’Università stessa a richiedere, se fosse in grado per prima di “autovalutare se stessa”, una revisione adeguata dei propri piani di studio finalizzati a rivedere le carenze che sono ormai sotto gli occhi di tutti.

L’affondo che intendo portare avanti ora è nei confronti della sottovalutazione, anche da parte dei detrattori delle Prove Invalsi, di un atteggiamento che dovrebbe essere la spina dorsale della professionalità docente: la consuetudine all’”autovalutazione” che ogni insegnante dovrebbe mantenere sempre vigile. Un’autovalutazione che dovrebbe seguire sempre una semplice ma salutare autointerrogazione: cosa ho trascurato nella mia progettazione, ed attivazione poi della didattica, nei confronti dei processi cognitivi e metacognitivi dei “miei” ragazzi se non sono in grado di affrontare questa prova? Come mai questi sono in difficoltà rispetto alla “comprensione del senso”?

E se i docenti non trovano la risposta bisogna andare subito nel sito Invalsi e cercare nei “Quaderni di approfondimento” la risposta a questa domanda. Ovviamente poi però urge aggiustarsi cercando di adeguare la propria didattica, attraverso, per esempio, una salutare “formazione in servizio” (che non è un’idea blasfema!) in grado di affrontare tale problematica.

Se vogliamo essere più precisi diventa indispensabile rispolverare anche il concetto di “valutazione formativa”-  spesso citato a vanvera, giusto per far vedere che non è dimenticato, sorvolando però sul cuore stesso dello stesso – nel senso che la responsabilità del mancato successo formativo dei ragazzi, da ascriversi in primis alla didattica del docente, deve far scaturire in quest’ultimo uno stringente autofeedback  formativo. Da questa visione della valutazione scopriremo essenziale il sorgere di una “trasformazione adeguata e ineludibile,” pressante e disincantata, scevra da meccanismi di difesa. Una trasformazione salutare a 180 gradi.
Ci si fionda invece sull’attivazione del senso di responsabilità “dell’educando” invitato e sollecitato lui da più parti all’autovalutazione. Intendiamoci: sacrosanta ma… “vivaddio” verrà sempre dopo di quella del docente…O no?

Come fa un docente ad educare al “recupero dell’errore” se lui stesso non lo sa fare su di sé? Che  esempio può dare? Tutti noi sappiamo che si insegna in modo più pregnante con il nostro modo di essere che  penetra più profondamente  di qualsiasi altra sollecitazione verbalistica.

Torniamo a noi: i miei allievi non sono in grado di affrontare una delle prove Invalsi?
E’ la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo, che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, ci sono dei saggi fondamentali che possono essere utilizzati: i testi di Wiggins sulla “teoria” e sulla “pratica” per l’acquisizione della competenza della comprensione significativa e profonda .
A proposito di ciò sottolineo come all’interno della tassonomia indicata da Wiggins spicchi in modo molto forte il passaggio “all’autoconoscenza”, altro modo per sollecitare l’autovalutazione di cui sopra!
Nella fattispecie poi, lungo la linea più pragmatica, segnalo il meno recente saggio dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio .
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” (A.Collins,J.Brown,S.E.Newman) e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per insegnare a cogliere e capire il SENSO di ciò che si legge! (Palincsar-Brown: La comprensione del testo scritto, all’interno “dell’Insegnamento reciproco della lettura”)

Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se  qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al Dito.




Il Codice di Camaldoli, 80 anni dopo

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raimondo Giunta

E’ giusto che si torni a parlare del Codice di Camaldoli, del suo significato e della sua possibile attualità, soprattutto nella fase politica in cui si proclama di volere mettere ancora una volta mano alla Costituzione, per farla diventare altra da quella che è e da quella che era stata pensata e desiderata.

Il Codice di Camaldoli è a distanza siderale dalla situazione di oggi, dalle scelte di oggi, dallo spirito di oggi, dagli uomini di oggi.

CLICCA QUI PER LEGGERE IL TESTO DEL CODICE

Parlare di Camaldoli non è però inutile.
Significa parlare del modo in cui si fa una Costituzione, del modo in cui si pensa una Costituzione e anche del tempo che ci vuole per avere UNA BUONA COSTITUZIONE.
Tutto comincia in una settimana del mese di Luglio del ‘43. Parte del mondo cattolico sente ”l’urgenza di prendere posizione di fronte alle più vive e dibattute questioni sociali ed economiche”(Codice) per essere preparata, quando si sarebbe presentata l’occasione, a dare soluzioni ai problemi di una nazione, che già era prostrata da tre lunghi e sanguinosi anni di guerra e si trovava le truppe straniere in casa.

Venne organizzato un convegno nell’Eremo di Camaldoli, cui partecipò una trentina di studiosi laici ed ecclesiastici. I partecipanti ai lavori, che durarono una settimana, si proponevano di dare forma organica e scientifica e anche sintetica alle enunciazioni del Magistero della Chiesa sui principali problemi della vita economica e sociale; di sceverare tra le affermazioni quelle più adatte alle contingenze del tempo con particolare riguardo ai problemi della ricostruzione di un ordine sociale dopo il collasso della guerra; di tentare una prudente opera di esegesi e di interpretazione e se necessario di integrazione e sviluppo del pensiero espresso nei documenti ufficiali.

Inizia in quei giorni un percorso che si concluderà nel Dicembre del ‘47 con l’approvazione del testo della Costituzione, che sarà promulgata nel primo giorno del mese di Gennaio del ‘48.
Gli anni 43-47 nella storia contemporanea dell’Italia sono stati anni di rara vitalità intellettuale e politica. In quel tempo per grandi linee venne definito il destino dell’Italia Repubblicana e non mancò il contributo importante del mondo cattolico che “non viveva chiuso in un recinto, ma ormai in confronto diretto e in certi casi in alleanza con le forze della sinistra operaia e della democrazia laica” (P.Ingrao).

Si ebbe una politica democristiana che agiva a favore di uno sbocco democratico. La scelta delle istituzioni liberal-democratiche per la nuova Costituzione non può essere considerata senza significato e non era un esito scontato, perché si dovette superare un insieme di forze (apparati dello Stato, Monarchia, industria, truppe occupanti, settori della Chiesa) che avrebbero preferito avere un assetto conservatore-oligarchico.
Lo scontro tra questi diversi orientamenti si concluse a favore delle forze progressiste, perché in quegli anni ci fu un accostamento tra ceti vissuti per lungo tempo nella separazione; ci fu un contatto con le correnti politiche avanzate, che diede vita all’esperienza unitaria della Resistenza (P.Ingrao).

Cattolici e Sinistra lavoravano per fare della democrazia l’unico quadro della vita della nazione, l’unico metodo per dare soluzioni ai problemi della società. Per tutti e due i mondi politici era una conquista e l’inizio di un nuovo cammino politico, che per i comunisti non fu privo di incertezze e contraddizioni.
Dice P.Scoppola: ”La Chiesa non aveva mai accettato il principio liberal-democratico, ossia che fini e contenuti della vita sociale fossero affidati alla libera auto-determinazione della società stessa in un’aperta concorrenza di idee e di forze, cioè al consenso degli individui e in definitiva al numero nelle forme proprie del sistema di governo parlamentare”.
In quegli anni viene superata la tradizionale indifferenza della dottrina sociale cattolica nei confronti della democrazia.

Il gruppo dei “professorini” che faceva capo a Dossetti assunse il ruolo di guida della Democrazia Cristiana nei lavori della Costituente (E.Ragionieri).
La Costituzione uscita fuori dal confronto delle diverse culture politiche dei padri Costituenti era diversa da quelle liberali; era una Costituzione impegnata a definire e a tutelare oltre ai diritti di libertà, anche i diritti sociali. A difesa di queste alte finalità fu disegnata un’architettura delle istituzioni, che apriva molti spazi agli sviluppi democratici e si reggeva su un sapiente equilibrio dei poteri dello Stato.
Determinante il contributo dei cattolici democratici.
La sinistra, dice Ragionieri, non aveva una pari e salda cultura delle istituzioni.

La Costituzione del ‘48 è stata un vero miracolo di saggezza politica. Definita proprio mentre si sfilacciava l’unità antifascista; messa al riparo dalle vicende politiche contingenti e da qualsiasi scelta del Governo. Non si ebbero né sostituzione autoritaria di commissari, né espedienti per impedire il confronto, né voti di fiducia.
Non può e non deve essere sottovalutato il fatto che alla scrittura della Costituzione lavorò un’Assemblea costituente eletta dal popolo col sistema proporzionale.
Non può e non deve essere sottovalutato che la Costituzione del ‘48 è stata approvata a larghissima maggioranza.

All’Assemblea Costituente i cattolici, che si affermarono per il contributo dato al confronto delle idee e alla stesura del testo costituzionale, sono stati quelli che si erano formati nel lungo e fecondo tirocinio, iniziato con la settimana di studio di Camaldoli e concluso con la pubblicazione nel 1945 del testo ”Per la Comunità Cristiana-Principi dell’Ordinamento Sociale “ (Ed.Studium).
Ne furono curatori E. Vanoni-S.Paronetto-P.Saraceno- G.Capograssi: uomini che saranno protagonisti in molti fatti importanti della storia repubblicana, fatta eccezione per Paronetto, deceduto precocemente all’età di 34 anni, prima di aver potuto mostrare per intero il suo grande valore. Coautori e ispiratori del testo furono uomini di forte personalità come La Pira, Fanfani, Taviani, Vanoni, Saraceno, Paronetto, Dossetti, Gonella, Capograssi, Nosengo, Moro: quasi tutti giovani e qualcuno giovanissimo. Provenienti dalla Fuci, dal Movimento dei laureati cattolici, dall’Università Cattolica.

Il Codice di Camaldoli si fa apprezzare ancora per autorevolezza e organicità.
I suoi cardini erano:
1) primato della persona rispetto alle istituzioni. Lo Stato non crea, ma riconosce i diritti e li tutela;
2) forte accentuazione del ruolo della Comunità Politica, come garante e promotrice dei fondamentali valori di giustizia e di uguaglianza fra i cittadini;
3) funzione sociale della proprietà;
4)Insufficienza del mercato, anche se necessario, come istituzione della vita economica;
5) necessità dell’intervento dello Stato per sopperire alle deficienze del mercato;
6) piena occupazione e programmazione economica;
7) redistribuzione del reddito attraverso la progressività delle imposte;
8) collaborazione tra le classi sociali nell’organizzazione del lavoro.
Queste idee sono del Codice, ma, se si osservano bene le cose, sono anche idee della Costituzione del ‘48.

In poche parole il Codice afferma la priorità dei fini sociali rispetto agli interessi economici privati e la priorità dei fini morali su quelli sociali e politici. Se si legge bene quel testo, ma a mio parere anche la Costituzione, ne viene fuori una terza via tra società ad economia privata capitalistica e società ad economia statalizzata. Viene proposto un modello di società che fa della piena occupazione, della dignità del lavoro e dei lavoratori il suo più importante fondamento.
Della giustizia sociale la sua stella polare.

La democrazia ha un prezzo alto e inevitabile: quello di garantire ad ognuno le stesse opportunità, il proprio spazio vitale.
Conosce un solo metodo per farlo pagare: la partecipazione senza impedimenti e limitazioni alle scelte che contano: rappresentanti e contenuti politici. Purtroppo è cresciuto e si è rafforzato da tempo il fronte di quelli che non intendono più pagarlo.
Attraverso leggi elettorali di stampo maggioritario si è fatta strada una specie di tendenza oligarchica, che con le mentite spoglie della necessità di decidere ha ridotto gli spazi e le occasioni di rappresentanza, di partecipazione e di confronto politico.

Il mito della democrazia che decide ci perseguita da più di 30 anni e vuole celebrare altri trionfi Ma il problema non è prendere decisioni, perchè se ne prendono a centinaia; il problema è quello di renderle esecutive e questo problema è di pertinenza della Pubblica Amministrazione.
Non c’è bisogno di sfigurare la Costituzione.
Si vuole chiudere una volta per sempre la stagione del riformismo democratico che aveva puntato sull’allargamento della partecipazione popolare e dei luoghi in cui questa si potesse esercitare .Una stagione che comincia con la Costituzione del ‘48,prosegue con l’impianto della Corte Costituzionale, l’istituzione delle Regioni, lo Statuto dei lavoratori, gli organi collegiali della scuola, la delega dei poteri ai Comuni, l’esercizio dei referendum, l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali.

A partire dalla metà degli anni ‘80 è iniziato il percorso che ci sta portando inesorabilmente dalla cittadinanza alla sudditanza. Per 30 anni si è auspicato e alla fine si è avuto un riformismo adattivo alle esigenze attuali degli interessi forti e prevalenti del sistema economico, allergici ai principi democratici.
Un riformismo che allontana il cittadino dal controllo della Cosa Pubblica e che radica il suo fondamento nella violazione del principio costituzionale dell’uguaglianza del voto dei cittadini.

Le Costituzioni sottolineano i passaggi più significativi della storia di una nazione e ne riassumono, se lo si vuole, il passato e ne prefigurano il futuro. Non sono eterne, ma esprimono lo spirito del tempo.
Quella del ‘48 è la Costituzione della rinascita, dei diritti, della libertà e della giustizia sociale.

Ci vorrebbe un nuovo Dossetti per gridare come nel ’94 ”Sentinella, quanto resta della giornata?”.
E’ alta la scommessa .Nel Novecento democrazia e stato sociale sono andati di pari passo. Se smonti la prima, finisce anche il secondo come sua naturale conseguenza.
La democrazia è il luogo in cui i conflitti sociali si esprimono e si risolvono nella mediazione. Il suo ridimensionamento è il risultato della scelta di lasciare ai rapporti di forza e solo a quelli la soluzione dei problemi sociali.
Questo significa abbandonare a se stessa una parte consistente e crescente della società.
Quella in difficoltà.

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