Ciao maschio …

di Cinzia Mion

Il recente femminicidio che ha visto come vittima una ragazza di 29 anni incinta di sette mesi, di nome Giulia, ha sconvolto il Paese e non solo. Al di là dell’attenzione morbosa che ha suscitato questo evento, dobbiamo sapere che dopo ne sono successi altri e che le statistiche affermano che per mano di un uomo muore una donna ogni tre giorni.

Il femminicidio è un termine specifico che definisce in maniera non neutra gli omicidi contro le donne, in tutte le loro manifestazioni, per motivi legati al genere. Quasi sempre ad opera dei compagni o da parte soprattutto degli ex. Quante volte abbiamo sentito dire: lei lo lascia e lui l’ammazza!
Il termine “genere” sta ad indicare l’identità di genere su cui sarà necessario dare qualche delucidazione perché su questa definizione sono sorte moltissime deformazioni informative, quasi tutte in malafede. Lasciamo da parte per ora il tema dell’orientamento sessuale e quello della “disforia di genere” altrimenti mettiamo troppa carne al fuoco. Ne riparleremo se vi interessa. E tralasciamo anche il problema orripilante degli stupri che richiede un capitolo a parte.

Simone de Beauvoir aveva detto che “femmine” si nasce e “donne” si diventa, ovviamente anche “maschi” si nasce e “uomini “ si diventa. Il passaggio dall’identità sessuale, biologica, all’identità di genere che è invece culturale è lento e dipende dal contesto socio-storico-culturale di appartenenza. Tutti noi sappiamo infatti che per una donna è diversa l’identità di genere in un paese occidentale o, per esempio, in Arabia Saudita.
E’ un’identità che matura, processo che va costruito e accompagnato, al fine di raggiungere delle identità il più possibile rinnovate e lontane dai vecchi stereotipi ma anche critiche nei confronti dei modelli offerti dai media che rischiosamente vengono assorbiti acriticamente dai bambini e dalle bambine se non ci sono i filtri offerti dai genitori o dalla scuola.

Le discriminazioni di genere e gli stereotipi sessisti sono duri a morire anche se l’emancipazione femminile, cominciata lentamente in Italia negli anni sessanta ad opera del movimento femminista, ha permesso di fare notevolissimi passi avanti.
Il fenomeno del maschilismo rimane però ancora fortemente sullo sfondo.

Stereotipi sessisti

Maschio: razionalità, iniziativa, responsabilità, protagonismo, decisionalità, forza (non solo fisica: sesso forte, non aver paura), competitività, machismo, ecc
Femmina: sentimento, emotività, dolcezza, adattamento, accettazione, sensibilità, sottomissione, arrendevolezza, acquiescenza, angelo del focolare, ecc

Questi stereotipi di genere vengono assunti inconsapevolmente fin dalla nascita. Le pratiche di accudimento, i giochi e i giocattoli messi a disposizione, i primi divieti e i permessi, le emozioni legittimate e quelle tacitamente interdette, sono tutte variabili intrise di stereotipi.
Ci sono delle frasi che un tempo, ma secondo me qualche volta anche adesso, vengono pronunciate in famiglia e che vengono recepite dai soggetti in crescita come vere e proprie “ingiunzioni”:
– non piangere, non sei una femminuccia…
– non devi aver paura, solo le femmine hanno paura (in un colpo solo così si svaluta il genere femminile e si costruisce una “gabbia” per quello maschile)…
– gli uomini non chiedono mai…
– eppoi tutta la retorica sulle “brave bambine” che non si arrabbiano e non pestano i piedi…

Oggi i ruoli sociali sono però cambiati: la donna uscendo di casa e andando a lavorare ha scoperto la sua capacità di assumere responsabilità, prendere decisioni, essere protagonista della propria vita, ecc.
In altre parole ha legittimato la sua parte “maschile”.
Ovviamente ora ci aspettiamo che anche l’uomo accetti e legittimi la sua parte “femminile”.

La via, per ora, della nuova virilità è quella della nuova paternità, con la legittimazione della parte tenera.
I nuovi padri, infatti, stanno rifiutando il ruolo storico del padre “autoritario” e punitivo, desiderano assumere il ruolo fin da quando il figlio è neonato: hanno così imparato a prendersi cura di lui e il contatto con il corpo tenero del “cucciolo” fa emergere la loro tenerezza, nascosta da anni all’interno dello stereotipo della “rudezza”.

L’identità di genere e la preadolescenza.

Le ragazzine hanno oggi accanto una madre che comunque rappresenta di fatto un’emancipazione rispetto agli stereotipi storici, sono molto sicure di sé.
A volte forse anche un po’ troppo…
I ragazzini invece, messi in crisi i vecchi stereotipi, appaiono spaesati e disorientati…

Spesso si chiedono: – Sono un vero uomo?
Cosa significa oggi essere veri uomini?
Per non restare nel disagio e nella paura di essere inadeguati alcuni intraprendono la strada del bullismo (in questa tipologia rientrano anche gli stupri di gruppo ostentati nei social) perché la prepotenza dà loro l’illusione di contare, di essere protagonisti, di essere considerati.
Inoltre il tono muscolare contratto, indotto dalla violenza e dalla rabbia, dà loro la sensazione di controllare e dominare la “paura” soggiacente.
Ma i nostri preadolescenti non possono aspettare di diventare padri…allora sono i giovani uomini (25-45 anni) che devono fare delle riflessioni sulla nuova identità maschile, come abbiamo fatto noi mezzo secolo fa (o anche più), ed offrirle come esempi e riferimenti ai ragazzini che stanno crescendo.

A dire il vero l’identità maschile è più difficile da sempre da realizzare.
Infatti Stoller, per affermare questa convinzione, poggia le sue argomentazioni sulla “protofemminilità”.
Questo concetto sottolinea come l’ovulo fecondato, che inizia il suo percorso verso la maturazione biologica, se è XY, quindi destinato ad evolvere verso la mascolinità, per 5/6 settimane risulta però essere femminile. Poi subentrerà l’ormone del testosterone a deviare la formazione delle gonadi embrionali da ovaie a testicoli. In altre parole l’identità femminile è un binario diritto, quello maschile invece “deviato”. Inoltre nato da un grembo femminile, cullato da una voce femminile, impregnato perciò da una gestalt femminile ad un certo momento avverte e ascolta la spinta a differenziarsi. Quasi sempre per caratteristiche declinate però al negativo…non devi, non puoi perché tu sei un maschio, ecc
Inoltre le statistiche dicono che su 10 aborti naturali 7 sono maschili e 3 femminili. Tutte queste considerazioni sostengono perciò la tesi, come dicevo, che l’identità maschile è biologicamente più fragile.

Le donne invece incontrano più difficoltà durante il corso dell’esistenza: doppio lavoro, (in casa e fuori casa), donne storicamente destinate al lavoro di cura; la ricerca dell’occupazione; la maternità e il mantenimento del posto di lavoro; dover sopportare spesso molestie nel lavoro; “soffitto di cristallo” sulla la propria testa – sopra il quale camminano gli uomini – rendendo difficile per le donne stesse raggiungere posizioni apicali!

Il virilismo

Sandro Bellassai, il fondatore del sito www.maschileplurale.it, afferma che il genere maschile non ha ancora però elaborato fino in fondo il lutto per il potere perduto, di quel potere trionfale, indiscusso.
“In qualche modo siamo rimasti in mezzo al guado. Dobbiamo fare i conti con un mondo che è cambiato”.
Afferma però anche che nello stesso tempo non c’è ancora una vera uguaglianza, una vera parità, perché quelle ragioni che spingevano gli uomini a difendere la gerarchia, il dominio, il piedistallo del potere nei confronti della donne, sono ancora tutte lì….
E riguardano la paura maschile delle donne, l’incapacità di pensarsi in un ordine “repubblicano e non monarchico
Per questo ogni tanto la frustrazione, l’angoscia, la paura maschile, buttate fuori dalla porta rientrano dalla finestra. E pare che l’uomo si senta rassicurato solo se riconosciuto superiore!
In tutti questi anni di emancipazione lenta ma costante le donne infatti hanno acquistato consapevolezza di sé, del loro valore, attraverso anche l’autorealizzazione. Gli uomini, protetti dal patriarcato invece non hanno lavorato su di sé, sulla loro posizione identitaria. Sono vissuti di rendita.
Ad un certo momento però è come se si fossero svegliati, abbiano preso coscienza della crescita femminile e sono entrati in crisi.
L’esperienza della crisi, mai sperimentata prima, ha disorientato e in alcuni di loro ha fatto aumentare l’arroganza per farvi fronte.
Recalcati dice, a proposito dell’uomo femminicida: “la sua fatica è data dalla difficoltà a riconoscere la libertà della donna…Si tratta di eliminare una esistenza differente, eccedente, irriducibile al potere fallico della ragione maschile”.

Elisabeth Badinter

Badinter si è interessata dell’”identità maschile” (XY L’identità Maschile) con la casa editrice Longanesi nei primi anni 90! E’ abbastanza singolare ma significativo che abbia affrontato questa tematica per prima una donna.
Alla fine del suo intrigante saggio la Badinter scrive: “Fino a quando le donne partoriranno gli uomini, e XY si svilupperà in seno a XX, sarà sempre più lungo e un po’ più difficile fare un uomo che fare una donna. Per convincersene, basta pensare all’ipotesi inversa: se le donne nascessero da un grembo maschile, cosa sarebbe del destino femminile?
Quando gli uomini presero coscienza di questo svantaggio naturale, crearono un palliativo culturale e di grande portata: il sistema patriarcale.
Oggi, costretti a dire addio al patriarca, devono reinventare il padre e la virilità che ne consegue.
Le donne, che osservano questi mutanti con tenerezza, trattengono il respiro….”




Stupri e adolescenti: fine del maschio e infosfera

di Raffaele Iosa

Si parla molto in questi giorni di fine agosto di due terribili storie di  stupri che hanno coinvolto  maschi adolescenti verso ragazze coetanee  fino al limite di bambine (10 e 12 anni). Ne parla la politica, le televisioni grondano  di dibattiti non sempre equilibrati.  Ma non c’è  occasione (informativa o politica) nella quale oltre alle analisi sui luoghi  (in genere “aree a rischio degradate”),  oltre lo  scandalo di registrare e girare via web gli stupri ottenendo migliaia (pare) di giovanissimi guardoni, oltre a tutto questo viene sempre la domanda e la lamentazione: “E la scuola cosa fa?” Cosa potrebbe fare?”.

Di questo vorrei un po’ riflettere qui, perché (che si voglia o meno) la “domanda di scuola educativa” pare stavolta oggetto condiviso come “luogo utile” a formare diversamente i nostri giovani sui costumi  quando questi  sono  così  gravi e sconcertanti.
E sui quali non c’è dubbio che il tema non sia quello banale di una scolastica  “educazione sessuale”, ma di una più complessa “educazione all’affettività e alla relazione”, che innerva la vita quotidiana dei nostri bambini e giovani oltre la sessualità in senso stretto. E che, naturalmente, parte dall’educazione familiare (su cui molti sono i guai del presente), ma che poi potrebbe trovare nella scuola un luogo  di “comunità” che si auto-educa  agendo su valori positivi  realizzati non solo a parole (e certo non con le prediche)  ma nell’agire quotidiano della vita della scuola.

Tra il dire e il fare, due rischi emergono subito ad un lettore che sappia un po’ di scuola. Il primo è di intravedere una nuova “materia”, o nuovi “ docenti esperti” che a scuola in un modo o in un altro intervengano per prevenire e contenere questa specie di follia orgiastica adolescente.
Cioè “lezioni di educazione affettiva” separata dal resto. Questo modo di agire non è nuovo, e in genere ha poco successo.
Il secondo rischio è di  riempire la scuola di “professionisti esperti” che agiscano con diverse forme terapeutiche individuali, di gruppo e così via secondo i guai e le difficoltà di ogni scuola.
In ogni caso entrambi i rischi vedono la questione sesso-affettività come  “altro da sé” dalla scuola, una specie di “emergenza” piuttosto che un tema trasversale (l’affettività e la relazione) che innerva tutta la vita della scuola, dalle lezioni,  ai contenuti disciplinari, alle ricreazioni, alle gite scolastiche, ai  rapporti educativi, all’amicizia tra pari, alla partecipazione delle famiglie.

In attesa che qualche ministro  dell’istruzione dia linee, proposte, burocrazie dedicate, vorrei qui invece sottolineare  due questioni inerenti  questa follia dell’orgia giovanile , che siano strumenti riflessivi di base per gli educatori, qualsiasi siano le azioni che le scuole vorranno, sapranno e potranno voler fare.

LA FINE DEL MASCHIO

La prima ovvia questione da rilevare è  che i “colpevoli” siano giovani maschi. La cosa va detta con realismo e sincerità, per evitare di costruire ancora modelli arcaici di interpretazione per cui alla bambina o alla giovane stuprata si possa dire persino “se l’è voluta”. No, non è così. I maschi sono i colpevoli.

Aggrava questa condizione maschia il fatto che numerosi eventi di stupro avvengano in gruppo, ripristinando l’orgia collettiva in cui lo scambio maschile funziona da alimentatore. Quindi non maschi soli, ma il branco selvaggio. Ma c’è di più e ancora più grave: un’orgia adolescente pare aver senso se “viene filmata”, se diventa pubblica, se supera i confini del segreto, se insomma fa diventare la vita una forma di “esibizionismo online”, ottenendo persino il successo e la fama, con followers  e imitatori.

Forse è ora, per la scuola (e per la società adulta) di riflettere su un fatto più vasto della sessualità  e genitalità inerente all’attuale condizione dei  giovani maschi nel nostro  paese. Ne ho scritto molto e  ne ho studiato il fenomeno da almeno 30 anni , riscuotendo simpatia ma scarso interesse. La mia tesi è che a partire dagli anni 80 sempre  più è emersa una “crisi esistenziale” della condizione maschile cui la scuola e la società non ha pensato con occhio più attento. Alcuni dati per comprendere di cosa parlo: nella scuola media su 10 bocciati 8 sono maschi, i tossicodipendenti maschi sono l’80% del tossici, altrettanto i ragazzi maschi  con reati penali. Ma anche sulla disabilità e la cd. categoria BES sono molto di più i maschi con certificazione.  Un caso? Una questione biologica? Cosa c’è sotto questa esplosione di “mal maschile”?  Potremmo forse  vedere una relazione tra l’aumento della “crisi dei maschi” e il parallelo sviluppo civile e culturale dell’identità femminile  in chiave “femminista” nel senso di differenza nello stile di vita ma eguaglianza nei diritti individuali e collettivi? Cioè: più le femmine sono diventate a pieno diritto “donne” cittadine più il prototipo maschilista  del  padrone non ha saputo  convertirsi  in maschio fratello e amico, con diversi ma pari stili di relazione tra diritti e doveri.

La questione  è culturale nel senso più vasto e profondo del vivere le diverse identità umane. A cui si sommano anche le nuove questioni esistenziali delle scelte sessuali,  dell’identità individuale,  delle tante nuove sfumature dell’identità sessuale oltre quella  biologicamente sessuata.

Dunque, prima ancora di pensare ad un “progetto scolastico sull’affettività” , suggerisco di riflettere come educatori su cosa sia e faccia la scuola oggi per comprendere meglio e più a fondo l’ “essere maschio”. Ci sono pochi studi sul tema, poche esperienze di riflessione e azione per garantire ai maschi un’educazione più seria e dignitosa in fatto di affettività, più ampia di opzioni sugli stili di vita che non abbiano la competizione orgiastica come fine dominante, ma l’umanità solidale e creativa dell’essere umano con un’identità che sappia legare e amare, non dominare e sottomettere l’altro/a da te.

L’INFOSFERA

L’ex celebre porno attore Rocco Siffredi ha dichiarato, a proposito dell’uso dei social media per far girare i video delle orge giovanili, di essere  pentito di essere stato un produttore di video porno di diversa qualità. Al punto di volersi proporre di uscire dal mercato dei video e eliminare nella rete tutti i suoi prodotti. Segno questo, tra i tanti, di una presa di  coscienza di come il “vedere” sia un elemento scatenante possibile di perversioni imitative. In  giovani menti maschili possono produrre una follia collettiva e individuale che non sa reggere l’equilibrio complesso della sessualità e dell’affettività entro canoni umanamente condivisibili, ma esplodendo anzi in eccessi oltre misura senza alcun limite  etico e perfino estetico.

Dunque si può dire che la cd “infosfera” ( citando Luciano Floridi),  cioè questo mondo tecnologico dove l’online domina sempre più sulla realtà fisica e oggettuale della vita e delle relazioni, stia determinando una nuova follia sociale che pare incontrollabile e sempre più pericolosa. Riflettiamo sul rapporto che c’è tra un adolescente e le tante funzioni del suo cellulare. Queste funzioni  potrebbero non essere più mediate da una visione dialogica e collettiva ma racchiuse in un frenetico mondo istintuale e onanistico che crea relazioni (se le crea) non materiali  ma puramente virtuali. E dunque una possibile follia  del virtuale come realtà che domina e vince. Tema che va oltre la pornografia e che va seriamente discusso nell’evoluzione di tutta la società rispetto all’educazione, al lavoro, alla vita sociale, ai prodotti culturali, e così via.

Dunque, queste orge online aprono alla nostra società adulta e a quella che si occupa di educazione un tema molto serio sui limiti etici, antropologici ed esistenziali che la nostra società (e la nostra educazione) dovrebbero  avere verso il cosiddetto “virtuale”. Saggezza ma prudenza, soprattutto quando si è piccoli. L’online non è un giocattolo come una bambola o una macchinina. C’è di più, molto di più complicato.




La cura dei giovani: spetta alla scuola o alla famiglia?

di Raimondo Giunta

  • SCUOLA E FAMIGLIE: UN RAPPORTO PROBLEMATICO

Le cronache sconvolgenti di violenza giovanile contro le proprie coetanee ammoniscono sul fatto che l’educazione dei giovani, oggi, è diventato un problema serio, grave, che riguarda tutti indistintamente e purtroppo non facile da affrontare, perché la responsabilità educativa è declinata in modo diverso da chi se ne dovrebbe fare carico. La responsabilità educativa nei confronti dei giovani ricade su chiunque per ruolo o per età con loro abbia o sia tenuto ad avere delle relazioni, anche se diverse per gradi di obbligatorietà.
Nessuno, infatti, può essere responsabile nei confronti dei giovani come sono tenuti ad esserlo i genitori. La responsabilità educativa dei genitori costituisce “l’archetipo di ogni responsabilità” (H. Jonas) e si comprende come sia difficile rimediare ai danni procurati quando questa, come sempre più spesso accade, non viene esercitata, perché ai giovani mancheranno la guida, il buon esempio, i consigli e la cura nello sviluppo del proprio carattere, nella costruzione delle capacità di relazione, nella sollecitazione a regolarsi nella vita secondo principi e valori condivisi.

Alla responsabilità educativa dei genitori nelle società evolute e complesse si accompagna quella della scuola.  I loro compiti si intrecciano, ma non sono identici. Quelli dei genitori sono relativi alla dimensione personale dei giovani, quelli della scuola, relativi alla dimensione sociale e pubblica, tendono all’integrazione nella società, a sviluppare un rapporto di fiducia con le istituzioni e ad agire nella legalità.
Questo dovrebbe accadere se ognuno facesse la propria parte. I fatti di cronaca, non solo quelli recenti, dicono che qualcosa in questa divisione dei compiti non funziona, perché qualcuno dimentica di assumersi le proprie responsabilità.
Sicuramente negli ultimi tempi funziona molto poco il collateralismo tra scuola e famiglia che nel passato rendeva proficuo e meno difficile il lavoro scolastico; oggi varcano la soglia delle scuole giovani provenienti da ambienti sociali lontani dal sistema di abitudini, di procedure e di valori della scuola e di fronte a questa novità sociologica la scuola incontra difficoltà a reinterpretare il proprio ruolo e a ripensare l’insieme delle proprie finalità.

FINALITA’ EDUCATIVE E SCUOLA

Il problema delle finalità educative presenta molte sfaccettature, perché continuo è il processo di riarticolazione dei “valori” prevalenti in una società che occorre tenere presenti.  Nel merito non ci sono proposte facilmente condivisibili, perché ognuna di esse evoca una propria visione antropologica e una propria concezione della convivenza umana. Si può tentare, però, una soluzione. L’educazione a scuola in una società pluralistica non può essere improntata ai valori dedotti da un’idea astratta dell’uomo o da una particolare antropologia, ma ai principi di regolazione sociale che possono garantire il massimo di libertà per tutti e il massimo di rispetto altrui. L’educazione di cui si ha bisogno ha un senso, se chiunque ne abbia la responsabilità si impegna a far crescere e sviluppare l’umanità che è in ognuno di noi per essere reciprocamente umani, per essere reciprocamente liberi, per essere rispettosi della propria e della dignità degli altri, garanti dei propri diritti e di quelli degli altri. Sono valori che dovrebbero essere di comune accettazione, se si vuole disporre di principi di riferimento per la nostra convivenza.

Ovviamente in ragione di questa scelta vanno esclusi dalla scuola idee e valori che sono contro i diritti inalienabili della persona e che alimentano la violenza, l’odio verso la diversità, l’ingiustizia di qualsiasi specie.

All’interno di questo quadro di obbligazioni morali la scuola definisce le regole che devono governare la vita quotidiana e la convivenza dei giovani che la frequentano: regole che vanno fatte rispettare e difese con energia. A scuola si impara un mestiere e si impara a stare con gli altri; anzi se non si impara a stare con gli altri riesce difficile imparare un mestiere.
La scuola come istituzione ha una propria identità, costituisce un mondo particolare che può diventare significativo per i giovani,  se intorno agli aspetti della vita scolastica si riesce a sviluppare una consapevole attività educativa, ad organizzare un loro percorso di assimilazione(ordine, puntualità, impegno, responsabilità personale, rispetto delle persone e delle cose, ascolto, dialogo, equità, collaborazione, spirito di sacrificio, primato del sapere e della cultura, sensibilità artistica, spirito critico etc).
Nello spazio scolastico si possono giocare partite molto importanti per la promozione della cultura e di valori morali e si può attivare per giovani provenienti da ambienti a rischio un processo di decondizionamento culturale e sociale.

Ad un’educazione così come è stata delineata per grandi tratti negli ultimi tempi è mancato il contributo di tante famiglie, molte delle quali esposte alla precarietà dei propri rapporti interni, disperse e umanamente impoverite nell’anonimato di quartieri senza servizi e senza opportunità di incontro o dove hanno perso capacità di attrazione,  se ancora esistono e resistono :l’oratorio, il sindacato, il partito, l’associazione sportiva etc.
Quartieri dove scompaiono i piccoli negozi e i laboratori artigianali, luoghi dell’umano traffico quotidiano. Questa assenza educativa spesso si trasforma in diffidenza e nell’aperta ostilità dei genitori, interessati a tutelare i propri equilibri familiari e i propri interessi, più che alla crescita e alla formazione dei propri figli. Con la scuola un rapporto forse obbligato, forse utilitaristico, ma non di collaborazione.

Fa fatica a educare i giovani anche la scuola. E questa non è una notizia nuova e tantomeno buona.
E’ il problema dei problemi, perché la maggior parte del tempo dell’educabilità dei giovani trascorre dentro gli spazi degli istituti scolastici. Fino ai 19 anni è più il tempo passato a scuola che quello passato in famiglia e nella società. Le ragioni di questa difficoltà sono diverse e bisognerebbe considerarle ognuna nella propria specificità.
A scuola si cerca in genere di fare educazione alla cittadinanza, ma emerge dai fatti di cronaca la necessità di andare oltre, perché non si ha bisogno solo di questo. Su questo argomento nelle scuole si è spesso solo a livello di esigenza, ma non di convincimento forte e corale e si dimentica quanto è possibile fare partendo, come è stato detto sopra, dagli aspetti della vita quotidiana a scuola.
E’ un dato di fatto che la funzione educativa della scuola non abbia avuto il rilievo che avrebbe dovuto avere. A scuola si è spesso occultato lo spazio delle finalità e si è avuto quasi fastidio ad usare il lessico pedagogico che rinvia a temi etici e che propone il compito della responsabilità educativa.

Per alcuni insegnanti e operatori della scuola l’educazione morale, quella affettiva e l’educazione come sapere stare al mondo o in comunità spetta ai genitori.
E’ lunga la tradizione che vuole gli insegnanti solo come professionisti della trasmissione dei saperi e la scuola come luogo eletto degli apprendimenti delle conoscenze e delle tecniche.
E’ forte l’avversione per attività che si ritengono di altrui competenza. Ma se anche il sapere, le conoscenze fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, l’attività scolastica è un’attività comunitaria e questa si può sviluppare con beneficio di tutti se alcune regole, che non possono essere se non regole di ordine morale, vengono rispettate da tutti.
L’insegnante non può essere solo uno specialista che insegna la propria disciplina, in grado di possedere e di dominare una certa area di conoscenza e di controllare tutti gli aspetti della comunicazione ad essa relativi.
L’insegnante deve sapere non solo cosa insegna e come, ma anche chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che ambienti e in quali famiglie vivono, in che genere di società crescono. In altre parole la cura degli alunni, l’attenzione ai loro problemi, l’accompagnamento nei loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti necessari e senza di essi non si genera la formazione, non si genera la crescita umana.

GLI OSTACOLI

Se anche la scuola volesse sul serio farsi carico dei compiti educativi che le spettano, compresi quelli nuovi che emergono dai fatti di cronaca, bisogna vedere a quali condizioni sia possibile farlo. Non mancano, infatti, gli ostacoli che si frappongono all’assunzione e allo svolgimento di questi compiti.  Il più serio di questi ostacoli è costituito dall’organizzazione stessa degli istituti,  così come la si è voluta configurare negli ultimi anni :

A) La dimensione prescritta degli istituiti per avere e per conservare l’autonomia comporta per il dirigente scolastico un aggravio consistente dei compiti gestionali, che anche involontariamente possono essere svolti a scapito di quelli culturali e pedagogici;

B) Non pochi interventi legislativi hanno messo a dura prova gli equilibri interni e la logica stessa della scuola come comunità educativa, perché alimentano non casualmente i conflitti e rischiano di mandare fuori orizzonte la preoccupazione educativa;

C)La precarietà di parte significativa del personale docente rende aleatori i legami dentro i consigli di classe, unici luoghi di armonizzazione degli stili professionali e di attenzione educativa. E se non funzionano i consigli di classe ogni preoccupazione educativa diventa superflua;

D)L’organizzazione del tempo scolastico diventa ogni giorno sempre più incompatibile con quella del tempo di lavoro e del tempo vissuto nella famiglia e questo causa una contraddizione sempre più stridente tra quotidianità e scuola, tra bisogni vitali della famiglia e organizzazione scolastica;

E)L’assenza in molte scuole di spazi,  di tempi e di strutture di convivialità, che non aiuta a praticarsi,  ad accettarsi e a rispettarsi. Ci sono scuole senza palestre e senza cortili…

Non sono solo le questioni gestionali e organizzative dei singoli istituti a rendere complicato e a volte evanescente il compito educativo. Qualcosa va ricercato anche all’interno della stessa struttura curriculare.
L’affollamento delle discipline, ma con relativa diminuzione di quelle umanistiche, allontana le possibilità di un apprendimento riflessivo e quindi di maturazione intellettuale e di fatto impedisce l’applicazione di metodologie collaborative nei tempi limitati dell’orario settimanale di lezioni: risorsa fondamentale per motivare, responsabilizzare e fare crescere nella capacità di ascolto. L’ossessione valutativa che si accanisce sulla scuola fa il resto del lavoro, perché finisce per dare rilievo solo ai risultati di apprendimento, costi quel che costi.

PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI O EDUCATIVI?

L’educazione è fatta di buone testimonianze e di esortazioni; è fatta di divieti, di regole da rispettare e di sanzioni per chi non li rispetta, che devono essere funzionali all’educabilità, ma anche al regolare andamento della vita scolastica. A scuola ci sono minorenni e ci sono maggiorenni e questo dato impone una diversificazione degli eventuali provvedimenti disciplinari. Di fronte a fatti ripetuti che incidono sulla sicurezza e l’incolumità delle persone o come si deve talvolta constatare sulla dignità delle istituzioni e di chi le rappresenta, se le norme disciplinari interne si rivelano insufficienti, bisogna ricorrere ad altre norme. E nelle proprie norme non si può escludere l’allontanamento dalla scuola, quando dopo tutti i tentativi messi in opera questa misura è l’unica alla quale affidarsi per tornare alla normalità in una classe o in un istituto.
Non si può restare disarmati rispetto a chi deliberatamente vuole fare del male alle persone con cui divide lo spazio di una classe e di un istituto e per farlo deliberatamente non è necessario essere maggiorenni.

Se un istituto deve avere delle norme interne di vivibilità, questo non comporta l’installazione di telecamere nelle classi e nei corridoi per facilitare il compito; una scuola non deve diventare un istituto di sorveglianza. Le norme di vivibilità hanno bisogno solo di adulti che le rispettino costantemente, come proprio compito e che dimostrino nei fatti e quotidianamente di amare il proprio mestiere e di volere il bene delle persone che loro sono state date in affidamento.

Il dramma è proprio questo.
Una scuola che non si curi o che non è messa nelle condizioni di curarsi dei giovani rischia di non potere assolvere i compiti di formazione delle competenze e di trasmissione dei saperi, per i quali istituzionalmente esiste. Il compito educativo che le compete, però, non può essere svolto nel pieno di una costante campagna di delegittimazione o con l’ostilità crescente dei genitori. Il compito educativo a scuola è un compito plurale e di collaborazione e la collaborazione non è la competizione, la corsa al primato individuale che si è voluto innestare nel corpo professionale.

Deve essere pensato e progettato nel collegio dei docenti e svilupparsi nei consigli di classe.
E’ l’intero istituto che deve porsi come luogo di accoglienza e di reciproco rispetto. Per educare non è necessario inventarsi l’ora di educazione morale o di quella affettiva, ma solo far vivere nei gesti quotidiani di ogni attività scolastica, a partire da quella didattica, il rispetto di sé e degli altri.




Generale Vannacci, Luca Ricolfi lo difende

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di CinZia Mion

Lettera aperta a Luca Ricolfi.

Mi ha colpito moltissimo, prof. Ricolfi, il suo intervento apparso sul Gazzettino il 25 agosto dal titolo “Quale potere può limitare la libertà di pensiero”.
Il riferimento è presto detto: il caso del generale Vannacci.

Dopo una dotta introduzione in cui lei ha addirittura fatto riferimento al concetto hegeliano di “eterogenesi dei fini” (che stringi stringi non significa altro che ottenere risultati opposti a quelli desiderati) lei entra nel merito della sua tesi.
Le dico subito che se non si fosse già esposto con un saggio sulla Scuola, insieme alla moglie, la prof.ssa Mastrocola, probabilmente non avrei letto l’articolo.
Non ero d’accordo con la vostra tesi espressa in quel saggio e non sono d’accordo con quello che ha argomentato lei a lungo in difesa di Vannacci, nell’articolo succitato.
Mi presento: sono un’anziana dirigente scolastica che ha speso la vita molto oltre all’età della pensione per la Scuola. Non per la scuola elitaria come fate voi, ma per la scuola più difficile, quella faticosa che richiede passione, non solo per il Sapere, ma passione per i ragazzi, anche quelli caratterizzati da “povertà educativa”, quelli che hanno bisogno di docenti motivati profondamente e indefessamente alla ricerca della didattica più adeguata per farli arrivare non solo all’apprendimento ma al piacere della “comprensione”, a quell’effetto illuminante che io descrivo come brivido mentale.
Ma ritorniamo più pedestremente alla questione del “Generale” e al suo diritto a dire quello che pensa.
Se Lei non fosse una persona che discetta di scuola non avrei raccolto la provocazione. Ma lo ha fatto e lo farà ancora per cui sento il dovere di intervenire. Mi ha colpito sentire che in primis connota i media che ne hanno dato notizia come “progressisti”, usando questo termine chiaramente con una punta di sarcasmo spregiativo (poi si capirà, perché l’intenzione sarà quella di contrapporre a questa espressione quella di “conservatore” nella connotazione nobile) ma poi continua in punta di diritto per cercare di individuare chi mai può permettersi di porre dei limiti alla libertà di espressione. La ricerca si infrange sulla domanda retorica : dove si colloca il reato? E lì comincia una sfilza che ovviamente non riprendo per arrivare alla conclusione che non si ravvisa nessun reato.
Io credo fermamente invece che ciò che ha violato il Generale sia l’articolo 3 della Costituzione, nei suoi aspetti più profondi e delicati, vale a dire ha attaccato in modo indecoroso il concetto di “diversità” negandone il pieno diritto all’”uguaglianza”. Non sarebbe grave se fossero concetti espressi solo dall’uomo della strada, magari non acculturato, allevato in un terreno di coltura pieno di stereotipi, non dico di cultura conservatrice ma di destra, quella più sboccata, senza freni inibitori (vedansi le espressioni riferite agli omosessuali, oppure alle persone di colore) non avvezzo ad interrogarsi, abituato ad esprimersi come si fa con gli amici al bar (dopo aver sbevazzato, però). Ma sono concetti espressi da un personaggio con funzioni pubbliche e come tale con vincoli di “etica pubblica”, senza tralasciare il dovere di “disciplina e onore”.
In un certo senso difendendolo, sia pure a livello giuridico, lei professore si è comportato però nello stesso modo, ossia non ha preso in considerazione uno dei “valori” fondamentali della nostra Costituzione!
Esimio professor Ricolfi, so che lei si occupa di “psicometria” e quindi non può non sapere che il paradigma culturale che caratterizza i nostri tempi è quello della “COMPLESSITA’”, che richiede il superamento della logica binaria e del pensiero dicotomico (normale o anormale, per es.). Non può non sapere che in questo clima culturale, chiamato anche postmoderno, le certezze sono saltate e dobbiamo fare i conti sempre con la riflessività per riorientarci in questo mare di incertezza. Non può non immaginare che i ragazzini che frequentano oggi la scuola abiteranno ancora di più sia la complessità, all’interno della quale dovranno imparare a coniugare le logiche anche contrapposte, sia l’incertezza e il dubbio.
Non può non sapere che le identità personali, per non andare in pezzi, dovranno crescere in modo da essere forti nel senso di resilienti, ma “flessibili”, per essere in grado di vivere nella tolleranza e accettazione dell’altro, il “diverso” appunto.
Non può non sapere che dall’anno 2012 le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo e le Linee guida per la Scuola secondaria raccomandano di formare alla capacità di decentrare il proprio punto di vista per poter vivere da “protagonisti partecipi” in una società sempre più multiculturale, multietnica, multireligiosa.
La società che vagheggia il soggetto che lei difende non solo è monoculturale, ma anche immobile nel tempo, non direi nemmeno vecchia ma ormai inesistente….
Contento lei di avere sprecato il suo tempo, contenti tutti.
Io ho speso il mio per mandare un messaggio alle persone di scuola, a quelle più fragili che potrebbero sentirsi tentate di appoggiare una tesi come quella di cui stiamo parlando perché “deresponsabilizza”, richiede meno “riflessività”, è facile e può trarre in inganno.
Se non avesse vinto la destra con questo largo margine non mi sarei preoccupata. Avrei pensato

: ma i docenti non si fanno ingannare da un simile “cantastorie” ma oggi, purtroppo, non ne sono più sicura come un tempo…
Impieghi il suo tempo prezioso, professor Ricolfi, per qualche obiettivo più nobile, come saprà fare senz’altro. Credo che abbia scritto questo articolo su commissione. Non mi piace pensare che l’abbia fatto spontaneamente. E questo torna a suo favore.




Diplomi facili e lacrime di coccodrillo

di Mario Maviglia

Puntuale come un orologio atomico di ultima generazione, ogni anno, a conclusione degli esami di Stato, scopriamo che alcuni istituti paritari registrano un andamento anomalo nel numero di diplomati. Una sorta di bolla speculativa ciclica, ampiamente prevedibile, drammaticamente tollerata. Il fenomeno è ben noto ed esiste da decenni; io stesso (quando ero in servizio come ispettore scolastico) presi parte come consulente tecnico, nel 2004, all’operazione “Diplomi no problem”, coordinata a livello nazionale dalla Procura di Verona (magistrato Papalia) e coadiuvai gli inquirenti ad Agrigento nell’indagine che interessò una delle 32 scuole superiori oggetto di indagine in tutta Italia.
Ecco perché è quasi commovente la meraviglia con cui i vari commentatori ancora oggi presentano notizie simili e desta empatica vicinanza la rituale promessa del Ministro di porre fine allo scandalo[1].

La rivista Tuttoscuola[2] dà un resoconto ben documentato di quanto è successo quest’anno in occasione degli esami di Stato 2023. I risultati sono stati ripresi dal quotidiano Repubblica[3], soprattutto in riferimento alla particolare situazione di alcuni istituti paritari della Campania, e segnatamente di Napoli.
Il meccanismo è molto semplice e, peraltro, del tutto legittimo, oltre che ampiamente noto. In sostanza, nel passaggio dalla classe quarta alla classe quinta (ossia, la classe terminale del secondo ciclo di istruzione) alcuni istituti paritari registrano un andamento del tutto anomalo nelle iscrizioni (la bolla speculativa di cui sopra).
In particolare, Tuttoscuola ha individuato 92 istituti paritari (che rappresentano il 6,5% dei 1.423 istituti paritari che portano studenti all’esame di maturità) dove gli iscritti tra il quarto e il quinto anno registrano incrementi che vanno da +1.500% a +6.800%. (Avete letto bene! Da  1.500 a  6.800% in più di incremento).

È facile immaginare che per questi istituti paritari gli esami di Stato costituiscono un vero e proprio business, e infatti il costo per conseguire un diploma va da 2.500-4500€  (sempre secondo i dati forniti da Tuttoscuola), ma in alcuni casi si arriva a 8.000 o addirittura 10.000 €.
Se a tutto ciò si aggiunge che tra recupero degli anni scolastici (da 1.500 a 3.000, più tassa di iscrizione da 300 a 500 €) ed esami di idoneità (da 1.500 a 3.000 €), c’è da chiedersi se questi istituti più che fornire istruzione non siano meri (e costosi) distributori di diplomi, con buona pace del “merito” così di moda in questo periodo. Questa situazione arreca danno non solo al sistema nazionale di istruzione in sé, in quanto “droga” il mercato (per usare una metafora economicistica), ma soprattutto a quelle scuole paritarie (e sono tante) che svolgono un lavoro serio e di qualità e che rischiano di essere percepite dall’opinione pubblica come centri di malaffare a causa di queste mele marce.

La cosa interessante, peraltro, è che le scuole “palancaie” sono ampiamente conosciute e dunque potrebbero (volendo) essere tenute sotto stretta sorveglianza, anche per quanto concerne il piano fiscale o altri aspetti inerenti il funzionamento.
Ma più in generale si potrebbero introdurre delle modifiche legislative per stroncare il mercimonio dei diplomi; una, ad esempio, potrebbe prevedere una percentuale massima di iscrizioni nelle classi finali in rapporto agli iscritti della classe precedente (10% in più?). Per essere concreti: chi ha solo 11 studenti in classe quarta può accogliere solo il 10% in più in classe quinta (ossia uno studente in più). In tal modo verrebbe rotto l’artificioso meccanismo dell’aumento degli studenti nel passaggio dalla classe quarta alla quinta e correlativamente il giocattolino del produci-soldi.
C’è da chiedersi però quale Ministro abbia voglia di intraprendere un’azione moralizzatrice di questo tipo, mettendosi contro gruppi di potere consolidati. Il problema è politico. Ed è per questo che l’anno prossimo, di questi tempi, saremo ancora qui a presentare e discutere i risultati scandalosi di questo mercimonio. Il merito può attendere.

[1] https://tg24.sky.it/cronaca/2023/07/29/diplomi-facili-ministero-indagine

[2] Tuttoscuola, Maturità, boom di diplomi facili, 14 agosto 2023 in https://www.tuttoscuola.com/maturita-boom-diplomi-facili-dossier/

[3]ttps://napoli.repubblica.it/cronaca/2023/08/25/news/scuola_la_campania_felix_della_maturita_facile_linvasione_dei_23_mila_iscritti_solo_al_quinto_anno-412181393/

 




A proposito di whisky facile e taxi gratis …

di Cinzia Mion 

Senza scomodare Platone e il rapporto tra Etica e Politica – aspetto che fin da giovane ho vagheggiato e anche creduto come possibile – non pensavo però che si arrivasse alla spudoratezza di emanare provvedimenti così dis-educativi e pericolosi per la salute come l’ultimo partorito da Salvini, che non ha nemmeno la scusante dell’insolazione….

Si tratta, come avrete già capito, del taxi gratis per i ragazzi reduci dalla discoteca, qualcuno direbbe alticci, ma diciamo pure ubriachi. Alticci potrebbe essere stato prima di questo strampalato, o meglio farneticante, provvedimento. Ora qualche sprovveduto, e intemperante soggetto, sentendosi autorizzato e nello stesso tempo coperto rispetto al rischio di incorrere in qualche incidente stradale, senz’altro alzerà di più il gomito….
La filosofia del male minore non solo è miope ma pericolosa.
Già i nostri giovani spesso sono affetti da quella che viene chiamata dis-regolazione emotiva; mettici accanto una educazione ricevuta il più delle volte troppo permissiva da parte di genitori che non sanno più gestire il “no”, fin da quando i figli sono piccolissimi, perché temono in questo modo di non essere più amati dai figli stessi, (quando un tempo succedeva il contrario); aggiungi il fatto che di fronte alle frustrazioni o alle difficoltà troppo spesso ricorrono alle droghe perché nessuno ha loro insegnato che nella vita bisogna imparare ad affrontare gli ostacoli non ad evitarli, e arriva sempre prima o poi la necessità di stringere i denti; e la politica come finale emana un provvedimento del genere?
Pardon …non la Politica !
Diciamo un politicante alla ricerca spasmodica di visibilità! Il fatto è che siamo diventati tutti così indifferenti, e pure acritici, che invece di inalberarci di fronte a tale inaudito “editto” ci limitiamo al massimo a farci sopra dei frizzi.

Io sono veneta e so come l’alcool sia dannoso per la salute e vedo all’ora dell’aperitivo “quanto” i giovani bevano e come l’età dell’iniziazione si stia abbassando sempre più.
Tale provvedimento è già scattato nel recente fine settimana a Jesolo (Ve) all’uscita della famosa discoteca “Il muretto”…

Caro Salvini, prima di uscirtene ancora con una trovata del genere, pensa ai tuoi figli, che nomini sempre, e chiedi al tuo medico di fiducia quali sono i danni dell’alcool , informandoti anche sul numero dei ricoveri di giovanissimi/e al Pronto Soccorso per abuso di alcool.
Se avrai la fortuna della resipiscenza affrettati almeno a correggere questa castroneria.
Per es. il taxi può essere lì, (servizio) se il ragazzo/a non se la sente allora viene portato a casa ma… paga la famiglia!
Oppure : il taxi è lì, (servizio) bisogna però passare al test alcoolico in uscita dalla discoteca con conseguente intervento ma…il servizio diventa obbligatorio per le discoteche.
In tutti e due i modi si potranno evitare eventuali incidenti. Con l’aggiunta che entrambe le soluzioni dovrebbero risultare deterrenti perché né la famiglia né il gestore saranno felici di rimetterci.
Se lo farai saremo così contenti per i nostri giovani – che così dovranno piuttosto imparare ad auto-contenersi che ad aspettare le “toppe” dagli adulti – che non ti chiederemo nemmeno di scusarti.




L’educazione del giovane fascista si fa sul lago di Garda

di Mario Maviglia

Si scrive “campo estivo” si legge “formazione fascista”. È quanto emerge dall’articolo che Paolo Berizzi su Repubblica dedica al campo estivo organizzato dal 21 al 23 luglio 2023 sul lago di Garda da Gioventù Nazionale-Azione Studentesca[1]. L’iniziativa, giunta alla sesta edizione, è denominata Agoghè (ἀγωγή, guidare). Nel greco antico questo termine indicava l’ammaestramento degli animali; nell’antica Sparta veniva usato in riferimento al processo di addestramento dei ragazzi per prepararli a diventare maschi robusti sul piano fisico e pronti ad affrontare la guerra. (Agoghè è il titolo di una collana editoriale delle edizioni Passaggio al Bosco il cui editore Marco Scatarzi è stato uno dei relatori al raduno oltre che autore di un testo dedicato proprio a Sparta[2]. Passaggio al Bosco è la casa editrice “di riferimento dei giovani camerati che pubblica testi apologetici del fascismo, inneggianti al nazionalismo e alla difesa della razza bianca”[3])
Qualcosa di analogo era già stato organizzato lo scorso anno in una casa scout di Montecolombo, nelle colline riminesi, a cura dell’associazione Evita Perón (braccio “femminile” del movimento di estrema destra Forza Nuova)[4].

Il raduno organizzato quest’anno sul lago di Garda ha registrato l’autorevole presenza della Sottosegretaria del Ministero dell’Istruzione e del Merito, Paola Frassinetti, che non ha mai nascosto le sue simpatie verso l’estrema destra.
Da quel che è dato capire, queste manifestazioni riesumano, sotto mentite spoglie, le attività che il partito fascista organizzava tramite l’Opera Nazionale Balilla, istituita nel 1926, “con il compito di controllare tutta l’attività giovanile, all’interno di un apparato strutturato per fasce di età: Figli della Lupa (6-8 anni), Balilla (8-14 anni), Avanguardisti (14-18 anni), iscritti ai Fasci giovanili di combattimento (18-21 anni). Queste organizzazioni svolgevano attività ricreative, sportive e assistenziali, con lo scopo di inquadramento e indottrinamento dei giovani. Nel 1937 confluirono tutte nella Gioventù Italiana del Littorio (GIL), che aveva 8 milioni di aderenti e dipendeva direttamente dal segretario del PNF, Achille Starace. Nel 1941-42 il 99,9% degli studenti delle scuole superiori risultava iscritto a queste organizzazioni.”[5]
È facile immaginare che nel nuovo clima politico creatosi oggi in Italia queste manifestazioni, di chiaro stampo parafascista, abbiano maggiori opportunità di manifestarsi e addirittura di avere l’imprimatur di figure istituzionali.

Non abbiamo notizie sui programmi di formazione di questi campi estivi, ma, leggendo i documenti reperibili in rete e analizzando l’apparato iconografico disponibile, è facile inferire che tutto sia incentrato sull’esaltazione della forza e dell’obbedienza, parenti prossimi di quel mito della violenza studiato dagli storici[6] e ancora fortemente presente nelle organizzazioni di estrema destra. Un altro dato è il disprezzo verso la diversità, soprattutto di tipo culturale. È emblematico che nella colonia estiva di Montecolombo non venissero accettati i ragazzi stranieri. E d’altro canto il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, in un intervento tenuto al congresso del sindacato Confederazione italiana sindacati autonomi lavoratori (Cisal) il 18 marzo 2023, ha paventato il pericolo di una “sostituzione etnica” parlando di denatalità in Italia. Il terreno di coltura di queste idee è l’ideologia della supremazia ariana sulle altre razze, teorizzata tanto dal fascismo[7] quanto dal nazismo[8].

Nel campo estivo tenuto sul lago di Garda tutti i partecipanti erano di sesso maschile; il posto delle femmine, ça va sans dire, è a casa, ad accudire alle faccende domestiche e a procreare per la Nazione per evitare la “sostituzione etnica” di cui sopra.
Tra le attività proposte ai ragazzi, la parte da leone viene svolta dall’attività fisica, in tutte le sue varie forme: esercizi ginnici, gare, prove di resistenza e di coraggio. Per quanto riguarda la parte “spirituale”, è facile desumere che l’indottrinamento ideologico sia alla base degli interventi degli autorevoli relatori, tutti esponenti di estrema destra e soprattutto di Fratelli d’Italia (Frassinetti, Mollicone, Roscani, Punzio, Maschio, Donazzan, Scatarzi).
In maniera del tutto arbitraria e sapendo di fare una forzatura (ma qualche politico del passato aveva detto che “a pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”[9]), possiamo immaginare gli argomenti prediletti da tali esponenti, almeno a livello inconscio: a) Dio, Patria, Famiglia; b) Credere, Obbedire, Combattere; c) L’olio di ricino e i suoi derivati; d) Gli ariani e i rapporti con le sottospecie umane; e) L’obbedienza come forma suprema di identità col capo; f) Vitalità della destra vs pappamollismo della sinistra; g) La violenza come atto naturale e viscerale di controllo politico[10]; h) Foibe e faziosità dei libri di testo; i) Gli eroi della RSI; j) La disuguaglianza contro l’omologazione.
La sottosegretaria Frassinetti avrà sicuramente tratto molti spunti che le torneranno utili per la gestione del sistema scolastico italiano. Le vogliamo solo ricordare un piccolo particolare che le consigliamo di condividere con i giovani che incontra nei campi estivi: l’Italia è una Repubblica democratica e antifascista nata dalla Resistenza.

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[1] P. Berizzi, Coraggio e addestramenti: così i campi estivi in stile ‘Sparta’ formano i baby-patrioti della destra meloniana, “La Repubblica”, 1 agosto 2023, https://www.repubblica.it/politica/2023/08/01/news/giovani_destra_meloni_campi_estivi_lago_di_garda-409685661/

[2] M. Scatarzi (a cura di), L’ esempio di Sparta. Storia, eredità e mito di una civiltà immortale, Passaggio al Bosco, Roma, 2021

[3] P. Berizzi, op. cit.

[4] C. Tadini, La “colonia estiva fascista” dove i bambini intonano inni patriottici e gli stranieri restano fuori,
https://www.today.it/cronaca/colonia-estiva-fascista-ravenna.html

[5] https://www.istitutostorico.com/la_fascistizzazione_dei_giovani

[6] E. Gentile, Storia del fascismo, Editori Laterza, Bari-Roma, 2022

[7]Oltre alle leggi razziali approvate dal regime fascista nel 1938, si veda il Manifesto della razza, pubblicato, con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, il 14 luglio 1938 su Il Giornale d’Italia, e la rivista quindicinale La difesa della razza, diretta (5 agosto 1938) da Telesio Interlandi e pubblicata dal 1938 e fino al 1943

[8] R. Cecil, Il mito della razza nella Germania nazista. Vita di Alfred Rosenberg, Feltrinelli, Milano, 1973

[9]https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-05-06/pensare-male-altri-peccato-144959.shtml?uuid=Abb06WtH&refresh_ce=1

[10] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014