Meritocrazia, meritorietà, merito e scuola

di Cinzia Mion

Il sociologo Luca Ricolfi si è rifatto vivo con un libro, ‘La rivoluzione del merito’, in cui riprende le sue vecchie tesi sostenendo “che le politiche egalitarie e iper-inclusive nella scuola abbiano danneggiato i figli dei ceti più poveri, privandoli dell’ opportunità di utilizzare il merito scolastico come strumento di competizione”(Tuttoscuola).
Rispolveriamo allora l’argomento che da un po’ di tempo ha ripreso fiato.
Che il nostro sia il paese delle raccomandazioni, delle clientele, del familismo amorale, delle caste, delle oligarchie, delle corporazioni e della mafie non abbiamo dovuto aspettare Roger Abravanel con il suo famoso saggio “Meritocrazia”, per scoprirlo!
Semmai lui ha rigirato il coltello nella piaga per farci sentire, giustamente, inadeguati, vergognosi e con una gran voglia di riscatto.
Siamo tutti d’accordo finché si invoca in Italia la carenza della valorizzazione del “merito”, al fine di attivare il cambiamento invocando un vero e proprio moto di orgoglio. Tale valorizzazione deve avvenire all’interno dell’economia italiana e deve inoltre far emergere la necessità di produrre leader eccellenti sia nel settore pubblico che in quello privato.
Siamo anche d’accordo che “il circolo vizioso del demerito” ha condotto ad una società basata sulla cooptazione anziché sulle competenze. Osserviamo anche che tale dinamica si fonda su fedeltà amicali e familiari, su vari “cerchi magici” che in cambio di sudditanza garantiscono privilegi, malcostume che come ben sappiamo sta maramaldeggiando dentro a partiti ed ora perfino nelle associazioni professionali .

Possiamo senz’altro essere d’accordo su un’idea di meritocrazia proposta da R. Abravanel per cui ”i migliori vanno avanti in base alle loro capacità e ai loro sforzi, indipendentemente da ceto, famiglia di origine e sesso.”
Non tutti siamo però d’accordo sulla meritocrazia intesa come “il POTERE del merito”, ossia sul principio di una organizzazione sociale che fondi ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito.
Effettivamente il sociologo inglese Michael Young che nel 1958 aveva introdotto per primo il concetto di meritocrazia , nel 2001, preoccupato per la piega pericolosa che stava acquistando il concetto, arrivò a lamentarsi che il suo saggio fosse stato interpretato come un elogio della meritocrazia invece che come denuncia di vero e proprio rischio, per cui l’intenzione da parte sua era stata quella di criticarla radicalmente.
Già comunque il filosofo T.Nagel nel 1993 era intervenuto ponendo dei dubbi sull’accettabilità che alcune competenze scientifiche o elevate di produttività, in altri termini le eccellenze, potessero automaticamente essere usate per richieste di pretese politiche o di potere.
Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, a tale proposito afferma “In buona sostanza il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento- come Aristotele aveva chiaramente intravisto- verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano alla lunga alla eutanasia del principio democratico”

Meritorietà, merito e scuola
Ben diversa è invece l’organizzazione sociale basata sul “CRITERIO del merito” invece che sul “potere del merito”
Non è infatti giusto che tutti vengano trattati egualmente, come detta l’egualitarismo, però è importante che tutti vengano considerati e trattati come eguali.
Ben diversi perciò sono i concetti di “meritorietà e merito” a scuola.
Il principio “dell’uguaglianza delle opportunità”, che dovrebbe dal tempo del Rapporto Faure ispirare la scuola e l’educazione, significa che davanti a diverse linee di partenza per censo, vantaggio o svantaggio socioculturale, contesti educativi di provenienza più o meno stimolanti, i bambini e i ragazzi devono incontrare, soprattutto alla scuola dell’obbligo, un gran numero di opportune occasioni di crescita tanto da annullare il più possibile gli svantaggi iniziali.
Diventa perciò imprescindibile offrire all’interno delle aule scolastiche occasioni in cui tutti possano avere a disposizione percorsi individualizzati e personalizzati, assaporare il piacere di conoscere, acquisire competenze, comprendere profondamente ciò che viene insegnato, imparare a padroneggiare il pensiero per cogliere relazioni e nessi tra i dati anche quando sembrano sconnessi, riuscire ad interrogarsi sui grandi perché del mondo e dell’umanità, scambiare dati, informazioni, pareri, crescere insieme, appartenere al gruppo in cui esiste un “posto” per tutti dove tutti vengano riconosciuti e valorizzati.
Questa è la scuola “MERITORIA”.

E’ ovvio che al suo interno c’è l’allievo che gratifica di più la fatica, ma anche il piacere di insegnare. Questo non deve indurci a fare una classifica all’interno della classe come tanti invece auspicano. La scuola non è un concorso a premi e nemmeno un concorso per esami e titoli per un posto di lavoro.
La scuola è un’istituzione preziosa e delicata, non può essere piegata a degli slogan di moda senza entrare nelle sue viscere e vedere cosa veramente non va più, cosa deve essere profondamente innovato, quali sono gli aspetti di essa fortemente interrelati per cui se ne tocchi uno puoi travolgerne altri, quali invece vanno tenacemente perseguiti a costo di suscitare rimostranze.
Da parecchio tempo io ritengo che la scuola sia diventata un’istituzione senz’anima.
La passione che la pervadeva negli anni precedenti –dagli anni ’70 fino all’inizio del terzo millennio- si è volatilizzata, tutto è diventato terribilmente faticoso, demotivante, troppo burocratico, senza smalto.

Nel tempo abbiamo assistito ad un decadimento progressivo, ad una disaffezione diffusa che ha travolto e contaminato moltissimi (troppi) operatori scolastici. Non tutti per fortuna ma quelli che continuano a vivificare la scuola non hanno la forza di contaminare tutti gli altri. Il sistema sta boccheggiando.
Passione e senso di appartenenza all’Istituzione
I problemi e le eventuali soluzioni partono dalla consapevolezza della necessità di ridare passione e “senso di appartenenza” a tutti coloro che abitano questa Istituzione che è la più significativa di un Paese. In secondo luogo appare immediatamente le necessità non solo di implementare l’innovazione ma di accompagnarne adeguatamente il suo incarnarsi ed evolvere.
Una buona legge di riforma deve parlare di innovazione ma non solo organizzativa, pur necessaria, ma quella che avviene all’interno del rapporto “insegnamento-apprendimento”.

Una innovazione pregnante e significativa che oggigiorno deve riguardare contenuti e metodi, che tenga presente che a fronte dell’obsolescenza dei contenuti e la facilità di accedere ad Internet ciò che conta è la “comprensione profonda” (Wiggins) ,non superficiale e meccanica delle conoscenze, conoscenze però accompagnate da schemi di mobilitazione tanto da farle diventare competenze che nella vita serviranno a chiarire una situazione o a “risolvere un problema”. Una innovazione che possa definitivamente confinare al posto marginale che merita la prassi della spiegazione, studio individuale e restituzione della lezione – alla base del cosiddetto PENSIERO ROFLETTENTE – o l’abilità procedurale per giungere alla risposta esatta (ciò che risulta più significativo è invece saper problematizzare) o lo smalto spesso illusorio dell’eccessiva enfasi sulla digitalizzazione se questa aiuta a nascondere l’incapacità della connessione “mentale” offerta invece dal PENSIERO RIFLESSIVO.
Anche Edgar Morin nel suo ultimo pamphlet “Svegliamoci!” parla di CRISI DEL PENSIERO.

Non vi stuzzica questo richiamo ai brividi mentali del saper pensare e comprendere profondamente? Lasciamoci contagiare da questa meritevole passione, che va riscoperta, e trasmettiamola ai nostri ragazzi!
E’ questo il MERITO AUTENTICO di cui ha bisogno la scuola e il PAESE.




Intelligenza ri-generativa

di Marco Guastavigna

Una cosa è sempre più evidente: bisogna urgentemente decostruire la visione “strumentale” dell’IA, che ha un approccio adattivo e subordinante.
Da una parte, infatti, valorizza una visione dei dispositivi fondata sull’ottimizzazione tecnocratica del modello socio-economico in atto, assolutizzandone categorie, obiettivi, compatibilità, principi e così via, che si fondano su competizione e profitto.
Dall’altra illude che sia possibile avere il controllo della situazione, usando in modo manipolatorio il concetto di strumento e dimenticando di conseguenza che i dispositivi hanno complementarità attiva all’agire umano: vincoli, regole di ingaggio, prerequisiti, monitoraggio, feedback, determinazione di modi di procedere e ritmi, fino alla sostituzione.

Il contesto italiano, inoltre, si caratterizza – a differenza della produzione culturale di altri Paesi – per assenza di posizionamento critico, soprattutto nel campo dell’istruzione. Anzi: c’è addirittura chi cerca di rinchiudere anche l’attivismo nel “sapere da scaffale” su cui esercitare il potere classificatorio tipico della sussunzione accademica, categorizzandolo come “etica hard”, contrapposta a una più blanda “etica soft”. (Floridi, 2022 – citato da Panciroli, Rivoltella, 2023).

Per fortuna, fuori dai patri confini è più frequente la vigilanza civile e deontologica, quella che caratterizza ad esempio l’ultimo lavoro di Dan McQuillan, “Resisting AI: An Anti-fascist Approach to Artificial Intelligence”.

Assumendo la definizione di fascismo come “ultranazionalismo palingenetico”, egli mette in evidenza che l’IA può a sua volta funzionare come tecnologia di divisione, perché promossa nelle pratiche e nell’immaginario collettivo come soluzione “neutra” – fondata sui “dati” – della crisi sociale con la conservazione di potere e privilegi dei gruppi dominanti, mediante esclusioni, separazioni e discriminazioni computazionali. Con procedure di calcolo che individuano meritevoli e non meritevoli di residui del welfare, interventi sanitari, concessione di crediti, clemenza giudiziaria, per fare solo alcuni esempi.
Da una parte, soluzionismo ultranazionalista, razzializzante, patriarcale, etero-normato in campo sessuale; dall’altra, soluzionismo tecno-sociale. Entrambi per l’eternizzazione dei rapporti di produzione e di proprietà del sistema capitalista, mediante naturalizzazione e intensificazione delle gerarchie esistenti.
L’IA, insomma, non è fascista di per sé, ma, in virtù della propria architettura, si presta a soluzioni fascistizzanti, autoritarie, azzeranti ogni partecipazione dei cittadini, in nome dell’efficienza della Nazione (o dell’Occidente).

Avere un approccio antifascista, quindi, vuol dire in primo luogo comprendere l’esistenza di un processo di rimozione politico-culturale delle possibili alternative al modello socio-economico capitalistico, in nome dell’innovazione tecnocratica.
McQuillan è netto: di fronte a pandemia, guerra, crisi climatica, finanziarizzazione della vita e indebitamento, dobbiamo invece tornare a immaginare il possibile, piuttosto che calcolare il probabile. Le mega-macchine predittive dell’IA, che si basano su correlazioni statistiche individuate nei dati elaborati, sono infatti – per definizione – destinate a concepire il futuro in continuità con il passato, se non come sua ripetizione.

Scopriamo così un’altra ragione per apprezzare il libro: un riferimento diretto, come metodo di analisi, a Freire, il cui posizionamento rispetto all’esistente era esplicito. Si tratta infatti di recuperare la sua indicazione a pretendere di partecipare, porre collettivamente domande sui problemi comuni e determinare che cosa fare.
La pedagogia critica è un mezzo per generare nuove conoscenze per affrontare problemi condivisi e, altrettanto importante nel nostro caso, per disimparare modi precedenti di conoscere che inibiscono la possibilità di cambiamento. (…) La pedagogia critica non riguarda solo l’apprendimento di ciò che sta accadendo, ma anche di ciò che non sta accadendo e dovrebbe essere, in modo da poter riformulare i nostri apparati socio-tecnici come rigenerativi e non semplicemente come meccanismi per razionare la scarsità”. [traduzione in proprio].

Per contrastare non solo gli esiti, ma la logica etica e politica dell’apprendimento automatico delegato alla macchina, obiettivo che implica, come nella pedagogia degli oppressi, il rifiuto della separazione tra osservatore e osservato, McQuillan propone di disimparare i modi precedenti di conoscere, che inibiscono le possibilità di cambiamento.  E di “pensare con cura”. E così il suo ragionamento arriva a María Puig de la Bellacasa, che sostiene che il concetto di “thinking with care” può contribuire a una visione più inclusiva e responsabile della conoscenza. Esso, infatti, individua e valorizza l’interdipendenza e l’interconnessione dei rapporti che permeano il mondo. Invece di vedere il sapere come qualcosa di distante e astratto, il pensare con cura invita a considerare attentamente l’importanza delle relazioni e delle connessioni tra gli esseri viventi.
E quindi richiede l’impegno per una politica e un’etica della cura che includa tutte le forme di vita e le connessioni, sfidando le concezioni tradizionali della conoscenza come qualcosa di distante e astratto, e promuovendo l’importanza dell’attenta considerazione dei contesti e delle relazioni nel processo di conoscenza.

Pensare con cura diventa insomma un modo per contrapporsi alle forme di conoscenza dominanti che sono spesso basate sulla distinzione tra soggetto e oggetto.
McQuillan ne conclude che il pensare con cura e la pedagogia critica indicano con chiarezza l’alternativa al modello riduzionista su cui si fonda, progredisce e accelera l’intelligenza artificiale, affermando e rivendicando un approccio radicalmente trasformativo, che si allinei con valori più ampi, equità e bene comune.

Curiamo insieme la nostra intelligenza condivisa e relazionale.

 

Riferimenti bibliografici

 Floridi L., “Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide”, Raffaello Cortina Editore, 2022
McQuillan D., “Resisting AI. An Anti-fascist Approach to Artificial Intelligence”, Bristol University Press, 2022
Panciroli C. – Rivoltella P. C, “Pedagogia algoritmica. Per una riflessione educativa sull’Intelligenza Artificiale”, Scholé
Puig de la Bellacasa M., “Matters of Care: Speculative Ethics in More than Human Worlds”, University of Minnesota Press, 2017




Grammatica valenziale: di che si tratta?

Una delle attività formative di maggiore interesse fra quelle proposte dalla nostra associazione riguarda la grammatica valenziale.
Di recente la nostra esperta Daniela Moscato ha rilasciato alla rivista DIRE FARE INSEGNARE una intervista in cui spiega le basi di questo approccio ancora poco frequentato, precisandone i vantaggi didattici e alcuni possibili contesti di applicazione.




Fame di vita vera

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

La vitalità, attitudine a vivere in modo autonomo, serve ad affrontare con grinta difficoltà e imprevisti nella quotidianità, e consente di gustare appieno scoperte, sorprese, conoscenze. Ma cosa l’attiva? Quali trigger la innescano? Ho visto, piuttosto accidentalmente, un video in cui un medico asiatico rianimava un neonato…

Quasi ipnotizzata, ho osservato lui e la sua equipe compiere atti rapidissimi, senza fermarsi un attimo, sinché il bimbo non ha cominciato a reagire tossendo ed ha iniziato finalmente a piangere. La vita è esplosa in lui quasi come per incanto, una specie di on/off, prima non c’era e poi d’improvviso è stato, era vivo.

In un viaggio caotico in treno verso il mare ho visto due giovani, pieni di desiderio, arrotolati l’uno nell’altro, baciarsi avidamente: la vita pulsava di passione.
Quella stessa energia vitale sembrava animasse una piantagione di granturco verdissimo sotto il sole di mezzogiorno. Ma era vita vera, ci avrei giurato, anche quella nei piedi di due anziani per mano, con l’acqua di mare alle caviglie, alla luce della luna, dolcissimi, freschi come teenagers.

L’ho avvertita anche nelle foto inviatemi da una giovane paziente: mi rendicontava una piccola vacanza costruita nelle avversità della separazione, conflittuale, dei genitori. Mi descriveva angoli lacustri rintracciati con tenacia nei pressi dell’abitazione di una zia e mi ricordava con ardore d’essere in partenza per una vacanza studio in Scozia, impresa per cui aveva combattuto con i denti sino allo stremo delle forze. Che spettacolo!
Vitalità, energia, cercala dove ti pare. Ma cercala. Non smettere mai di cercarla. Il nostro cervello ne ha bisogno per portare il corpo là dove vuole andare, per realizzare i sogni di ogni giorno, per amare, creare, imparare, costruire. Anche questo nessuno ce lo insegna. Forse un tempo non era così necessario ma ora sembra davvero utile, quasi indispensabile, sapere dove e come recuperare vitalità, energia psichica.

È suggestiva, in questo senso, la proposta di Kawaguci (2022) con ‘Il primo caffè della giornata’: “Dentro ciascuno di noi esiste la capacità di superare ogni genere di difficoltà. Ognuno possiede quell’energia. Ma a volte, quando questa energia sfugge attraverso la valvola dell’ansia, il flusso si restringe. Più grande è l’ansia, più forza serve per aprire la valvola che libera energia. Questa forza è potenziata dalla speranza. Anzi, si potrebbe dire che la speranza è il potere di credere nel futuro”.

Un primo trigger allora potrebbe essere un evento gradito o favorevole che si realizza, un’aspettativa, un’aspirazione, un sogno che si avvera. Come la vacanza insperata della giovane Giada, la piccola gioia procurata dalla percezione dell’acqua alle caviglie dei due anziani, ma anche la promozione inaspettata di Giorgio, ragazzo con disturbi specifici di apprendimento, ammesso all’esame di maturità con riserva, che esplode nelle prove, esprimendo al massimo le sue potenzialità, perché un docente gli esterna tutta la fiducia che ha in lui! I trigger, dunque, non sono solo casuali, ma possono essere creati intenzionalmente.

In una ricchissima mostra dedicata ai progetti svolti dai ragazzi durante l’anno, c’era una sezione dedicata ad un’attività incentrata sul benessere e sulle emozioni. I ragazzi avevano realizzato dei podcast direi su una decina di emozioni anche se una sola era positiva, la gioia. Ci avevano lavorato insieme, non era stato facile ed ora era lì a portata di orecchio per chiunque avesse la pazienza e curiosità di sedersi un attimo ed ascoltare, assorto, essere travolto e cominciare a sorridere, a sperare che i nostri ragazzi ce la potranno fare, dopo l’estate e forse anche più in là.

Un altro modo sperimentato di trasformare l’ansia in energia positiva è quello di prendere di petto i problemi e affrontarli in modo radicale e deciso. Se agisci il prima possibile, accelerando i tempi, riduci le possibilità di ripensamento, eviti quel continuo ruminare di pensieri che è alla base di eccessive preoccupazioni.
In diverse occasioni mi sono trovata nella stanzetta dedicata allo sportello d’ascolto o nel mio studio ad aiutare i ragazzi nell’organizzazione dello studio per superare l’angoscia di non farcela. Ogni volta sorpresa dal fatto che non sapessero che potesse aiutarli contare le pagine da studiare, dividerle per il numero di giorni che precedevano la verifica, o non avessero mai riflettuto su quale fosse il momento del giorno più favorevole allo studio, o come utilizzare i motori di ricerca, che loro subiscono, passivamente, ogni giorno, per recuperare, invece, attivamente, riassunti, sintesi, film, lezioni brevi…insomma tutto ciò che esiste sulla rete per poter arrivare più preparati alle interrogazioni nel minor tempo possibile, padroneggiando davvero gli argomenti di studio. E, durante quei venti o quaranta minuti di colloquio ho potuto vedere tante volte le loro guance riprendere colore, distendersi i lineamenti… tornare a vivere, per poi reincontrarli sorridenti nei corridoi o alla seduta successiva soddisfatti dei propri risultati o miglioramenti.
Come dice spesso provocatoriamente Matteo Lancini, psicoterapeuta che si occupa da tempo di adolescenza, forse non bisognerebbe proibire l’uso dei cellulari ai ragazzi ma insegnar loro veramente ad usarli per affrontare il futuro.

Nell’ultimo corso di educazione all’affettività, quest’anno, la proiezione nel futuro dei ragazzini di quinta, espressa attraverso il disegno, riguardava soprattutto e per la prima volta, il tempo libero anziché, come negli anni passati, tanti anni passati, la realizzazione lavorativa o familiare e relazionale. Questa è l’eredità lasciata dal lock down, la scoperta del tempo per sé stessi.
Durante i colloqui con i ragazzi che stentavano a riprendere lo studio o non riuscivano ad entrare o restare a scuola, dopo la fine della didattica a distanza, ricorreva il loro spiegarmi che avevano bisogno di tempo per le loro cose da fare, le loro passioni, spesso on line, come vedere video, ascoltare musica, leggere libri (ma non quelli indicati dai docenti), oppure stare con gli amici, uscire, stare fuori casa, costruire e rompere legami, piangere per le persone perse.

“È come se le persone,” come denuncia con chiarezza Natalia Aspesi (La Repubblica 4 agosto 2023) “in mezzo a una guerra, alla paura dell’atomica, alla fine della Terra, al futuro pauroso, sentissero il bisogno di verità” di vita vera, di un sapere scelto autonomamente o piuttosto, addirittura “di un dolore umano e comprensibile, di una disperazione vera.”
Queste preziose considerazioni sembrano collimare con quanto emerso in un progetto sulla dispersione scolastica[1] nel torinese.

Erano stati condotti incontri di gruppo con composizione eterogenea per cercare di lavorare alla costruzione di una comunità scolastica permanente e i ragazzi avevano vissuto esperienze guidate di apprendimento tramite competenze trasversali (danza, sport, arte, cultura).
Durante gli incontri i ragazzi avevano, cioè, sperimentato attività non competitive in sport e danza, attività sull’identità personale e sulla dispersione, avevano riflettuto sulla propria percezione di scuola, lavoro e futuro. Durante il follow up sono emerse alcune interessanti opportunità di apprendimento derivate dalle attività: saper lavorare insieme e confrontarsi grazie all’interazione con persone di età diversa dalla propria, essere più motivati grazie ad attività pratiche e nuove, imparare (facendo, più che scrivendo o ascoltando) a comportarsi, ad ascoltare e conoscere gli altri, a capire ‘com’è la vita’.
Stare con i compagni di età diverse aveva permesso loro di confrontarsi su percezioni diverse, di capire come affrontare l’ansia del futuro ascoltato i più grandi, più navigati. Si era verificato un passaggio di consegne rispetto alla gestione della scuola che i grandi avrebbero lasciato a breve, c’era stata una trasmissione di esperienze nel fronteggiamento dello stress dei docenti, ma anche la costruzione del sogno di una scuola migliore, più green, più attiva e laboratoriale, meno orientata alla prestazione e più al benessere collettivo. Una curiosità? Alla domanda se fosse utile la presenza dello psicologo nella scuola, in mezzo al grande assenso, un’affermazione condivisa: ne hanno bisogno persino i docenti perché sono sempre troppo stressati!

[1] Star bene a scuola per costruire il futuro. Un progetto di educazione comunitaria per contrastare la dispersione scolastica. Due incontri esperienziali tra arte, cultura, psicologia, sport e danza per approfondire i senso dello star bene a scuola e…nel mondo. IC Settimo II.




Lacrime di coccodrillo e sei in condotta

di Giovanni Fioravanti

 Ho letto e riletto l’articolo di Eraldo Affinati, L’importanza di un “no”, relativo al voto in condotta, pubblicato su la Repubblica del 20 settembre.

Non sono d’accordo. Intanto non ritengo che il sei, come il cinque in condotta, siano una necessità, un provvedimento “necessitato”, anche se accompagnato dall’ammissione muta di una sconfitta come insegnanti. Non abbiamo saputo fare di meglio, è un provvedimento a cui non ci possiamo sottrarre perché abbiamo a cuore la tua crescita.
Ti bastono, le bastonate fanno più male a me che a te, ma un giorno capirai che quelle bastonate sono state una cura benefica.
Non interviene il sospetto dell’anacronismo? Dell’ombra inquietante di una sorta di pedagogia nera? No, Eraldo cita don Milani, quello di L’equivoco don Milani scritto da  Adolfo Scotto di Luzio, la nuova vulgata di chi vede la così detta “pedagogia progressista” come il fumo negli occhi.
L’affetto manesco, semmai senza mani, l’educazione preventiva che si nutre della  stessa sostanza, come ineluttabili.

E allora il voto in condotta, portato all’estremo del sei e del cinque, e magari la convocazione davanti al giudice a partire dai dodici anni, il daspo urbano, il carcere preventivo, tutto necessitato, sebbene gli adulti avvertano di essere i veri sconfitti, ma questa è la cura per il bene dei giovani che sgarrano.
Se di fronte a provvedimenti punitivi, come sostiene Affinati, sono gli adulti ad aver fallito, equità vorrebbe che a pagare non fosse sempre solo il giovane, il più debole,  ma anche l’adulto.
Il giovane punito con il sei in condotta, con la bocciatura e l’adulto, insegnante, o altro che sia, cosa fa, come risponde?

È possibile che Affinati non si renda conto della fragilità del suo ragionamento?
Quella condotta, che a scuola si vuol sanzionare duramente, ha sempre una storia che travalica il suo protagonista, l’ambiente e le persone con cui entra in relazione, emettendo condanne, non si fa altro che aggiungere pagine nere ad altre pagine nere.
A che serve “Insegnare al principe di Danimarca”, se poi esperienze come quelle raccontate da Carla Mellazzini e Cesare Moreno non si traducono mai in prezioso insegnamento per chi è chiamato a governare un’istituzione come la scuola, a chi a contatto con i giovani per crescere e formarsi insieme non sa ritornarvi con la mente?

Non ho ragione di dubitare della sensibilità educativa di Eraldo Affinati, tutt’altro, e forse per questo il suo articolo, soprattutto in questo momento che sta attraversando il paese e la scuola, non me lo aspettavo.
Pensavo che un educatore dovesse prendere posizione di fronte all’assurdità del voto in condotta, rispetto alla complessità dell’animo dei giovani, degli adulti e della loro relazione, complessità che soprattutto a scuola dovrebbe trovare cittadinanza per essere esplorata, sviscerata, compresa, mai catalogata da una censura e da una punizione.

Che non vuol dire che la scuola, come ogni altra comunità, non debba avere le sue regole necessitate dalla funzione di quel luogo che è lo studio e l’apprendimento, regole che di conseguenza devono essere rispettate se si vogliono raggiungere i fini per cui si frequentano le scuole.
Ma tutta la vita è una regola, ogni cosa per essere realizzata richiede che si seguano delle norme e questo si apprende da quando si nasce, fa parte della cultura della relazione tra noi e l’ambiente, che è una relazione obbligata da norme di comportamento.

C’è una educazione proattiva che nasce e si forma al di fuori della scuola. Se vuoi imparare ad andare in bicicletta devi apprendere a tenere l’equilibrio pedalando, se vuoi giocare al calcio devi essere in grado di coordinarti con i compagni di squadra, se vuoi studiare ti devi impegnare, e se le regole non si rispettano se ne pagano le conseguenze.

A scuola no, a scuola c’è “la condotta” che sarebbe il comportamento, ma il termine “condotta”, che sa d’antico, è più pregnante perché richiama un dovere etico, risponde ad un’idea di conformità morale e civile, di modello da eguagliare. Una volta c’erano gli studenti modello additati alla classe come esempio da seguire e premiati con la medaglia della bontà. Ora si addita e si punisce con la medaglia della cattiveria.

Non capita mai a nessuno? Non sfiora la riflessione che l’unico luogo della vita in cui si dà un voto in condotta, in cui la condotta è trattata come una materia senza statuto, è la scuola?
Ovunque si giudica il comportamento di una persona, a scuola invece si assegna un voto. Fuori della scuola, nella vita di ogni giorno ci sono le regole, se le violi sei in qualche modo sanzionato direttamente o indirettamente.
A scuola c’è una voto in condotta, che non è una necessità dello studio, perché in altri luoghi di apprendimento come l’università non esiste.
E allora quel voto che continua a stazionare nella scuola non è di per se stesso un messaggio di minorità nei confronti delle studentesse e degli studenti? È come valutarli, ancora prima di conoscerli, come incapaci di gestire se stessi? Di stare alle regole che sono necessarie allo studio e a chi nello studio vuol riuscire? È una dichiarazione di sfiducia a priori da parte degli adulti, in questo caso gli insegnanti. Non è un buon auspicio d’accoglienza.

Dunque, l’I Care di don Milani non necessita dell’affettività manesca del sei in condotta, ma di formazione alla coerenza a partire dagli adulti nel rispetto delle regole e nel pagare le conseguenze se vieni meno ai tuoi doveri.
Ma il rispetto delle regole si apprende dalla primissima infanzia non perché si è puniti, ma perché nella relazione con gli altri, nella relazione con l’ambiente se vuoi raggiungere il tuo obiettivo, ottenere un risultato è obbligatorio adattare e modificare i propri comportamenti.

Al contrario la schizofrenia degli adulti, a cui spesso assistiamo, è quella di ritenere che i piccoli non debbano avere limiti nei loro comportamenti perché devono crescere liberi e creativi, permettendo loro di tutto, con il risultato che non apprendono le regole dalle condizioni che ogni ambiente di vita impone e, improvvisamente, divenuti adolescenti, quegli stessi adulti, che sanno d’aver fallito,  gli rifilano un sei o un cinque in condotta, il daspo urbano e il carcere preventivo per il loro bene.




Scuola: sorvegliare e punire. Problemi complessi, risposte semplici

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Mario Maviglia

Nel recente decreto Caivano, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 settembre scorso per contrastare il disagio giovanile e la criminalità minorile, vi sono alcune misure che riguardano anche la scuola e i minori. In particolare, viene introdotta la pena fino a due anni di reclusione nei confronti di quei genitori che si rendono responsabili dell’abbandono scolastico dei figli; gli stessi genitori possono andare incontro anche alla revoca dell’assegno di inclusione, qualora destinatari. Com’è noto, attualmente i genitori che si rendono responsabili dell’evasione scolastica dei figli rischiano un’ammenda di 30 euro, come previsto dall’art. 731 del codice penale.

Una vasta letteratura (anche ministeriale) ha dimostrato che i fenomeni di abbandono scolastico nascono in quelle situazioni caratterizzate da degrado sociale, economico e culturale all’interno delle quali le figure che dovrebbero esercitare una funzione educativa di guida e di sostegno ai ragazzi nel loro sviluppo di crescita (i genitori, in primo luogo) non appaiono in grado di assolvere adeguatamente a tale compito. Pensare che un inasprimento delle pene previste possa risolvere o attenuare un problema così complesso è pura utopia, o, forse più correttamente, astuta demagogia.

La lotta all’abbandono scolastico implica infatti il coinvolgimento di diversi soggetti istituzionali e richiede interventi di vario tipo che vanno dall’offrire opportunità di incontro e socializzazione nel territorio per i giovani; alla possibilità di esprimere i propri interessi sportivi, musicali, culturali, ludici, espressivi, di tempo libero ecc. in spazi socialmente definiti e organizzati; alla disponibilità di edifici scolastici accoglienti e attrezzati; a una didattica attiva e personalizzata; a misure di sostegno (anche economico, es. libri di testo o di consultazione gratuiti) per chi ha difficoltà sotto questo profilo; alla possibilità di fare ricorso ad educatori di strada per creare ponti tra contesti di vita dei ragazzi e ambiente scolastico. E altri interventi ancora, che prevedano anche il coinvolgimento del terzo settore o comunque delle agenzie educative e sociali radicate nel territorio e che possono esercitare una funzione di promozione sociale nei confronti dei giovani a rischio.

La lotta alla dispersione scolastica è tremendamente complicata proprio perché non è solo scolastica, anche se la scuola purtroppo talvolta vi contribuisce attraverso forme di didattica che non riescono ad intercettare gli interessi dei ragazzi. Quando a scuola si sta seduti per ore, o si susseguono i vari docenti in un carosello di discipline il cui senso sfugge ai ragazzi, quando ci si annoia o si ha la percezione che il tempo non passi mai, o quando non ci si sente coinvolti, motivati o ascoltati nella gestione dell’impresa educativa, è facile supporre che i ragazzi più fragili o problematici si sentano estranei e la tendenza all’allontanamento dalla scuola non è solo fantasticata ma agita. E questo soprattutto quando il contesto familiare e sociale di riferimento non appaiono in grado di sostenere e motivare i giovani nel loro processo di crescita e apprendimento.

Il decreto Caivano, per la verità, prevede il potenziamento dell’organico dei docenti nelle scuole del meridione caratterizzate da alta dispersione scolastica, ma il problema – lo ripetiamo – non è esclusivamente scolastico: è soprattutto sociale e se non si interviene su questo versante si rischia di fare il solito buco nell’acqua. Le misure repressive danno una risposta semplice a un problema complesso, anche se presentano il vantaggio (sul piano politico) di offrire all’opinione pubblica l’immagine di un intervento pronto e deciso, secondo il consolidato modello pavloviano S-R (Stimolo-Risposta). D’altro canto, questo paradigma repressivo sembra informare tutto il decreto governativo: il daspo urbano, ossia l’allontanamento obbligatorio da una città, prima applicato solo ai maggiorenni, adesso può riguardare anche i quattordicenni; si abbassa anche l’età per ricevere l’avviso orale del questore (da quattordici a dodici anni) a comportarsi bene per evitare il carcere da uno a tre anni. Insomma, le decisioni in materia dell’attuale Governo, come acutamente nota Giuseppe Rizzo, “ci riportano allo splendore di quei supplizi, come li chiamava Michel Foucault, ovvero al buio della galera per i minorenni.”[1]

Si tratta, com’è intuibile, misure che danno un vantaggio effimero, che placa momentaneamente la richiesta di giustizia o di ordine dei cittadini, ma passato il blitz del momento i tanti Caivano d’Italia rimarranno con i loro endemici, irrisolti problemi. Anzi, con un problema in più, come qualcuno ha ironicamente messo in luce: nel caso in cui i genitori, in base alle nuove norme, vengano effettivamente arrestati per abbandono scolastico, chi accompagnerà i ragazzi a scuola?

[1] https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/giuseppe-rizzo/2023/09/11/decreto-carcere-minori; M. Foucault, sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976

 




Questioni intelligenti e per nulla artificiali

di Marco Guastavigna

OpenAi – l’azienda di ChatGPT – ha appena dedicato all’insegnamento uno spazio specifico del proprio blog. Tra i vari temi trattati, la questione del plagio. Del resto, questo è stato il vertice della diffidenza di molti docenti: “Con i chatbot gli studenti e le studentesse copieranno in modo ancora più facile che con un motore di ricerca”.

La fiducia nelle famiglie, del resto, è la stessa di molti filosofi-opinionisti e/o commentatori di sentenze dei TAR che vanno per la maggiore nella ciclica rissa mediatica sulla scuola.
Il fatto che Google Bard sia interdetto prima dei 18 anni e che ChatGPT preveda la soglia dei 13 e successivamente il permesso dei genitori o del tutore per utilizzare la piattaforma, infatti, in genere non è noto e comunque è considerato una barriera insufficiente.
Il problema dell’attribuzione, per altro, è questione generale, non di carattere tecnico, ma etico e deontologico, che va ben oltre la malvagità adolescenziale.

Vi sono infatti dispositivi (uno tra molti, Adobe Firefly, generatore di immagini) che applicano su quanto hanno realizzato in base alle indicazioni dell’utente credenziali molto chiare, che dichiarano la provenienza e la non utilizzabilità a fini commerciali del prodotto.
Alcuni, invece, non appongono alcuna marcatura.
Per contro, altri (per esempio, Gamma), arrivano a proporre una versione “premium” (a pagamento) che dà la possibilità di rimuovere il badge apposto sul lavoro e di presentarlo quindi come proprio.
Altra questione – questa totalmente sottaciuta – è quella della titolarità e dei costi di eventuali licenze d’uso: molti dispositivi usano infatti la policy della doppia versione. Una è free e prevede in genere soltanto l’acquisizione di credenziali di accesso. L’altra è appunto “premium” e consente a seconda dei contratti un accesso costante o privilegiato alla piattaforma, maggiore velocità di esecuzione, più funzionalità, una maggiore quantità di elaborazioni, esclusività dei prodotti e così via. Non mi sembra corretto che le spese – che per altro da tempo riguardano anche dispositivi di campi diversi dall’assistenza artificiale e/o fuori dalle avvenute colonizzazioni da parte di Alphabet, Microsoft, Zoom – siano a carico dei singoli insegnanti e/o delle famiglie, per cui riterrei utile che nelle scuole si discutesse questo tema e si decidessero politiche di spesa.