I programmi del ’45: 80 anni (o quasi) ma sono modernissimi!

di Franca Da Re

Il 24 maggio 1945, con decreto n. 459 del Luogotenente del Regno, Umberto II di Savoia, furono emanati i primi Programmi per le scuole elementari e materne successivi all’era fascista e alla guerra. L’Italia non era ancora una Repubblica e non aveva una Costituzione democratica, tuttavia il Governo Provvisorio di allora, insediatosi dopo la liberazione di Roma, formato da tutte le componenti del CLN e presieduto da Bonomi, con Ministro dell’Istruzione il liberale Vincenzo Arangio Ruiz, emanò, insieme a molti altri importanti provvedimenti, i nuovi Programmi per la scuola elementare e materna[1].

Tali programmi erano stati redatti con la collaborazione del Comando Alleato e infatti la Commissione incaricata era diretta dal colonnello Carlton Washburne, eminente pedagogista allievo di John Dewey e ideatore dell’esperimento pedagogico condotto a partire dagli anni ’20 nelle scuole di Winnetka, un sobborgo di Chicago dove egli era Sovrintendente.

Nella Commissione lavorarono anche pedagogisti italiani, tra i quali Gino Ferretti. La Commissione Alleata aveva già operato nei territori del Sud liberati allo scopo di defascistizzare la scuola e le sue pratiche e i libri di testo.

L’impostazione generale dei Programmi è ispirata ai principi dell’attivismo pedagogico e attenta all’educazione civile, allo scopo di educare alla democrazia i giovani cittadini nel nuovo Stato. La Commissione aveva licenziato un testo dove l’educazione civile era preminente rispetto all’educazione religiosa che aveva peraltro una valenza pluriconfessionale, ma l’opposizione dei cattolici determinò un testo definitivo di compromesso dove l’educazione religiosa rientrava nell’alveo cattolico e dove anche gli indirizzi metodologici assunsero un carattere più moderato.

Ciò nonostante, il testo dei Programmi del 1945 ci restituisce passaggi di una impressionante attualità, con suggestioni che possono validamente orientare anche anche oggi le pratiche didattiche nelle nostre scuole.

In questo primo contributo esamineremo la Premessa e la parte dedicata all’Educazione morale e civile, ricavandone i suggerimenti utili per l’attualità.

In un contributo successivo riserveremo attenzione alle indicazioni metodologiche nei diversi insegnamenti e alle indicazioni per la redazione dei libri di testo, contenute in uno degli Allegati al Decreto luogotenenziale.

La Premessa e le finalità della scuola

“I programmi che seguono sono sorti dalla necessità, vivamente sentita, di mettere la scuola elementare italiana nelle condizioni più favorevoli perché possa contribuire alla rinascita della vita nazionale, assumendo la sua parte di responsabilità nell’educazione della fanciullezza. Condizione essenziale di tale rinascita è la formazione di una coscienza operante, che associ finalmente le forze della cultura a quelle del lavoro in modo che la cultura non si risolva in sterile apprendimento di nozioni e il lavoro non sia soltanto inconsapevole espressione di forza fisica. (…)
La scuola elementare, pertanto, non dovrà limitarsi a combattere solo l’analfabetismo strumentale, mentre assai più pernicioso è l’analfabetismo spirituale che si manifesta come immaturità civile, impreparazione alla vita politica, empirismo nel campo del lavoro, insensibilità verso i problemi sociali in genere. Essa ha il compito di combattere anche questa grave forma d’ignoranza, educando nel fanciullo, l’uomo e il cittadino.”

Dopo avere auspicato che nella scuola elementare si instaurino sentimenti di viva fraternità umana che superino “l’angusto limite dei nazionalismi” e si concretizzino in serena volontà “di lavorare e di servire il Paese con onestà di propositi”, la Premessa ricorda che tali finalità trovano riferimento in tutte le discipline insegnate, in particolare nella religione, nell’educazione morale, civile e fisica, nella storia e geografia. Il successivo passaggio è particolarmente interessante e attuale, poiché tratta l’unitarietà dell’insegnamento e la necessità di superare la partizione delle materie.

“È da rilevare che con l’educazione morale e civile si mira, più che a una precettistica di vecchia maniera, alla formazione del carattere, con un avveduto esercizio della libertà nella pratica dell’autogoverno. A tal fine è premessa indispensabile l’unità d’insegnamento. La stessa costituzione delle singole materie è sorta da questa esigenza unitaria e dalla critica all’indirizzo dispersivo delle precedenti partizioni, che favorivano un insegnamento frammentario e slegato. Così l’educazione morale e civile, ricostituita come disciplina vera e propria, attira nella sua orbita, non senza significato, la educazione fisica; il lavoro assume valore di attività  sociale; l’insegnamento della lingua italiana si ricostituisce in logica unità; la storia e la geografia si svolgono su di un piano di più concreti rapporti tra l’ambiente e l’uomo; le scienze richiamano nel loro preciso ambito i capitoli dispersi qua e là nelle nozioni varie, che erano l’espressione più patente della trita cultura elementare. Queste materie non debbono essere considerate distinte l’una dall’altra; esse costituiscono un tutto unitario e armonico che si fonde nella coscienza dell’alunno.”

Non solo in questo passaggio si richiama alla necessità di impartire un insegnamento che veda l’integrazione delle diverse discipline per l’analisi della realtà, ma si rammenta anche che ogni insegnamento contribuisce all’educazione morale e civile e tutti insieme contribuiscono alla formazione della persona e del cittadino. L’integrazione dei punti divista disciplinari nell’analisi della realtà fornisce evidentemente gli strumenti perché il giovane sviluppi la capacità di “esercizio della libertà nella pratica dell’autogoverno”.

Tali esortazioni sono tanto attuali quanto scarsamente praticate: la frammentazione disciplinare, solitamente appannaggio della scuola secondaria, sta rapidamente contagiando anche la scuola primaria; gli insegnamenti molto spesso riguardano i contenuti, le teorie, talvolta, non sempre, i metodi, ma non sempre viene evidenziato l’aspetto civico che ogni sapere contiene, ovvero la responsabilità che ciascuno di noi ha nell’utilizzare i saperi per il bene comune e non contro di esso. Autonomia e responsabilità nell’agire conoscenze, abilità, capacità personali e metodologiche sono ciò che caratterizza l’agire della persona competente. Per questo sono necessari spirito critico, capacità di gestire pensiero complesso e tensione etica. Aiutare gli alunni a sviluppare tali dimensioni è ciò che connota educativamente l’insegnamento, distinguendolo dall’addestramento.

La Premessa si occupa anche del profilo del maestro:
“Per l’attuazione di questo piano educativo, che mira soprattutto a preparare il fanciullo alla vita civile, non è quindi sufficiente all’insegnante la sola cultura umanistica, su cui si è fatto finora quasi esclusivo assegnamento per la sua preparazione professionale. Necessita all’educatore un alto senso di responsabilità sociale che l’induca, nella scuola e fuori, ad essere maestro di vita, esempio di probità in ogni sua manifestazione. Solo così egli potrà intendere l’invito, che gli viene da questi programmi, di considerare l’insegnamento come una missione di civiltà. Avrà pure bisogno -sia detto ben chiaro – di una tecnica educativa, cioè di un metodo didattico che dovrà sempre perfezionare, sia meditando sul proprio insegnamento e sui risultati ottenuti, sia partecipando con attivo interesse al movimento pedagogico italiano e straniero.”

L’educazione morale, civile e fisica

“È noto che i soli precetti, le conversazioni e le letture non bastano a formare la volontà morale, perché se possono indicare lavia migliore da seguire, restano pur sempre nel campo dell’astrazione. Ha somma importanza, invece, l’esercizio costante e illuminato della azione, guidata dall’esempio vivente del maestro.
La scuola, ordinata secondo il sistema razionale della libertà disciplinata, deve svegliare nei fanciulli il senso individuale della responsabilità e destare in essi il bisogno dell’ordine, del rispetto, dell’aiuto reciproco (…)”

Per lo sviluppo dell’educazione morale e civile è quindi necessario che gli alunni siano attivamente coinvolti nell’attività della scuola, che possano partecipare alla definizione delle attività da affrontare, nella formazione delle decisioni, anche attraverso forse di referendum e di votazione.

Gli alunni dovranno assumersi responsabilità nella gestione della classe e della scuola attraverso lavori di pulizia, di riordino, di piccola manutenzione, di gestione quotidiana e discuterne collettivamente regole e modalità. Il maestro avrà il compito di incoraggiare la discussione e di orientarla. Così l’alunno potrà affinare il senso del giusto e dell’ingiusto e svilupperà senso etico e si renderà “sensibile al valore delle proprie azioni, viste nel quadro degli interessi generali del suo gruppo”. L’alunno sarà guidato ad osservare le forme di vita associata nella sua comunità e così, accanto al costante esercizio dell’autogoverno e della concertazione all’interno della scuola, egli, nel tempo, desumerà “la necessità delle leggi e delle istituzioni che nello Stato tutelano la libertà di ciascuno e di tutti, rendendo così possibile la civile convivenza”.

All’educazione morale e civile contribuisce direttamente l’educazione fisica, attraverso la disciplina del corpo e dei suoi movimenti e l’esercizio delle regole nei giochi di squadra. Nei giochi gli allievi svilupperanno comportamenti di salvaguardia della salute e impareranno i valori della lealtà, del rispetto reciproco, della solidarietà, sperimentando, nel contempo, i propri limiti ed esercitando costantemente la responsabilità. L’educazione civica contribuirà a costruire la socialità e il cameratismo. Il maestro cercherà di attenuare l’esasperato spirito agonistico che potrebbe minacciare gli equilibri del gruppo e scoraggerà in tutti i modi “ogni forma di quel caporalismo che tanto ha mortificato lo spirito della giovinezza nel recente passato”.

In conclusione, nei programmi del 1945 troviamo richiami diretti alla formazione di cittadini tesi al bene comune, alla solidarietà, alla convivenza democratica.

L’unitarietà dell’insegnamento, con il superamento delle partizioni disciplinari è vista come misura imprescindibile per perseguire gli obiettivi dello sviluppo della coscienza morale, civile, etica e dello spirito critico. Tutti gli insegnamenti devono concorrere a queste finalità educando gli alunni alla responsabilità nel proprio agire.

La vita scolastica dovrebbe essere regolata attraverso l’autogoverno, la diretta partecipazione degli allievi, i quali si assumeranno responsabilità nella gestione delle attività quotidiane e nelle scelte di lavoro. Dovrebbero essere costantemente incoraggiate la discussione e l’assunzione di decisioni attraverso meccanismi condivisi e democratici.

Crediamo che le indicazioni dei programmi del 1945 siano ampiamente condivisibili tutt’oggi e siano coerenti con le Indicazioni Nazionali e le Linee Guida. Con animo sereno dovremmo però anche chiederci in quale misura nelle nostre scuole, all’alba del 2024, tali costumi didattici e relazionali siano diffusi, praticati e incoraggiati.

[1] Programmi della scuola elementare, 1945, in: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1945-08-21&atto.codiceRedazionale=045U0459&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario

 




Sei un mito?

di Marco Guastavigna

Supponiamo che venga assegnato un compito come quello riprodotto in figura:

 

 

 

 

Supponiamo anche che il medesimo sia uno di molti e che si determini quindi un caso di sovraccarico cognitivo…

Supponiamo infine che le vittime della situazione (non in età per usare direttamente il dispositivo) si ricordino di disporre di parenti con una certa dimestichezza con gli accrocchi della cosiddetta intelligenza artificiale…

… Ecco un possibile sviluppo della vicenda.

  1. “ChatGPT ci può aiutare?”, didascalia della foto dell’esercizio inviata via WhatsApp.
  2. Avvio di una conversazione con ChatGPT: “Ora ti fornisco un racconto che tu dovrai completare tenendo presenti le caratteristiche del racconto mitologico”.
  3. Risposta di ChatGPT: “Certamente! Sarà un piacere aiutarti a completare il racconto mitologico. Per favore, forniscimi il tuo racconto o un inizio, e io lo completerò con elementi e stile tipici di un racconto mitologico.
  4. Dettatura della consegna di lavoro a Microsoft Word e copia e incolla della medesima come prompt: “Zeus era follemente attirato da una donna, Metisi, e voleva farne la sua sposa. Metis era una creatura speciale: figlia di un potente titano di una titanessa generata dalla madre terra, ella era saggia e astuta. Quando Metis si accorse che Zeus la voleva solo per sé, decise di non cedergli di fuggire, sfruttando la propria capacità di trasformarsi. Inseguita da Zeus si tramutò dapprima in un agnello, poi nel vento e infine in un cespuglio di rovi punto ma Zeus non si lasciò ingannare e
  5. Risposta di ChatGPT “perseguì Metis con determinazione. L’ardore di Zeus era insaziabile, e la prospettiva di avere Metis come sua sposa lo spinse a non arrendersi di fronte alle sue trasformazioni. Mentre lei si trasformava da un essere all’altro, Zeus si trasformava anch’egli, seguendola in ogni metamorfosi. Il cielo si riempì di un’aura divina, mentre Zeus e Metis si contendevano attraverso le forme di animali, elementi naturali e oggetti inanimati. La lotta durò giorni e notti, e il mondo intero fu testimone della loro sfida titanica. Alla fine, Zeus si trasformò in un’aquila, e Metis, esausta e sconfitta, si rifugiò nella sua forma originale. Realizzando di non poter sfuggire al potere di Zeus, Metis decise di accettare il suo destino. Si trasformò in un piccolo insetto e si posò sulla mano di Zeus, il quale la prese delicatamente tra le dita. Zeus, colpito dalla determinazione e dall’ingegno di Metis, le chiese di diventare sua consorte, promettendo di rispettarla e onorarla. Metis, con la saggezza di una creatura antica, accettò la proposta di Zeus, sapendo che aveva guadagnato il suo rispetto.
    Da quel giorno, Metis divenne la consorte di Zeus, e insieme regnarono sugli dèi dell’Olimpo. La loro unione portò alla nascita di una figlia, Atena, la dea della saggezza e della guerra strategica, che ereditò l’intelligenza e la determinazione di entrambi i suoi genitori. La storia di Zeus e Metis divenne una leggenda mitologica, celebrata come un esempio di come il rispetto e l’uguaglianza possano prosperare tra gli dèi e gli uomini.
  6. Prompt: Scrivi un testo più semplice, come un ragazzo di 11 anni.
  7. Risposta di ChatGPT: ma Zeus non si è arreso. Lui si è trasformato anche lui, seguendola. La lotta tra Zeus e Metis è andata avanti per giorni e notti, con entrambi che cambiavano forma. Alla fine, Zeus si è trasformato in un’aquila e Metis, esausta, ha deciso di arrendersi. Si è trasformata in un piccolo insetto e si è posata sulla mano di Zeus. Zeus ha visto quanto fosse coraggiosa e intelligente Metis e le ha chiesto di sposarlo. Metis ha accettato, e sono diventati una coppia molto importante tra gli dèi. Hanno persino avuto una figlia chiamata Atena, che è diventata la dea della saggezza e della guerra strategica. La storia di Zeus e Metis ci insegna che il rispetto e l’uguaglianza sono importanti, sia tra gli dèi che tra le persone. E così, Zeus e Metis sono diventati una leggenda mitologica che ci ricorda l’importanza di trattare gli altri con rispetto.
  8. Prima riscrittura del testo copiato e incollato da parte di Canva Scrittura Magica: Zeus non si arrese alla lotta con Metis, ma invece la seguì trasformandosi insieme a lei. La loro battaglia durò giorni e notti, entrambi mutando forma. Alla fine, Zeus si tramutò in un’aquila e la stremata Metis decise di arrendersi. Si trasformò in un piccolo insetto e si posò sulla mano di Zeus. Attraverso la sua dimostrazione di coraggio e intelligenza, Metis conquistò il rispetto di Zeus, che le chiese di sposarlo. Insieme divennero una coppia molto importante tra gli dèi, e la loro figlia, Atena, divenne la dea della saggezza e della guerra strategica. La leggenda di Zeus e Metis ci insegna l’importanza del rispetto e dell’uguaglianza, sia tra gli dèi che tra le persone. Rappresenta un simbolo di convivenza pacifica e di considerazione degli altri, e ci ricorda l’importanza di trattare con rispetto coloro che ci circondano.
  9. Seconda riscrittura da parte di Canva Scrittura Magica: Zeus non si arrese nella sua lotta con Metis e la inseguì, trasformandosi insieme a lei. I due combatterono per giorni, cambiando forma continuamente. Alla fine, Zeus si mutò in un’aquila e la stremata Metis si arrese, diventando un piccolo insetto e posandosi sulla mano di Zeus.
Attraverso la sua abilità e coraggio, Metis guadagnò il rispetto di Zeus, che la chiese in sposa. Insieme diventarono una coppia importante tra gli dèi, e la loro figlia, Atena, diventò la dea della saggezza e della guerra strategica.
La leggenda di Zeus e Metis ci insegna l’importanza del rispetto e dell’uguaglianza, sia tra gli dèi che tra le persone. Rappresenta un simbolo di convivenza pacifica e di considerazione degli altri, e ci ricorda l’importanza di trattare gli altri con rispetto.
  10. Invio dei testi via WhatsApp
  11. Adattamento finale da parte di una delle destinatarie dell’intermediazione con i dispositivi digitali: si trasformò anche lui, seguendola. La lotta tra Zeus e Metis andò avanti per giorni e notti, con entrambi che cambiavano forma. Alla fine, Zeus si trasformò in un’aquila e Metis, esausta, decise di arrendersi. Si trasformò in un piccolo insetto e si posò sulla mano di Zeus. Zeus vide quanto fosse coraggiosa e intelligente e le chiese di sposarlo. Metis accettò e divennero una coppia molto importante tra gli dei. Ebbero una figlia chiamata Atena, che divenne la dea della saggezza e della guerra strategica.

11bis. Adattamento finale da parte dell’altra destinataria dell’intermediazione con i dispositivi digitali: continuò a insistere giorno e notte finché Metis non poté far altro che arrendersi e si trasformò in un fiore che Zeus colse e tenne con sé come un oggetto prezioso. Zeus era innamorato della bellezza e del coraggio di Metis se voleva sposarla. Insistette così tanto che Metis alla fine accettò e, dopo un po’ di tempo, ebbero una figlia, la dea Atena della sapienza, della guerra e dell’intelligenza.

Lettrici e lettori giudichino ora del tutto liberamente se, di fronte a una proposta di “scrittura-grugnito”, si sia verificata a un’orribile e imperdonabile truffa o se invece ci troviamo in una delle fattispecie raccolte nello schema che segue, ovvero la delega a un assistente artificiale di un compito che si deve essere capaci di valutare per efficacia rispetto ai propri obiettivi e – addirittura! – per congruenza con le proprie effettive capacità.




Ispettori e autonomia scolastica: quando diventeranno davvero una risorsa per il sistema?

Stefaneldi Pietro Calascibetta

Si fa un gran parlare del fatto che la bozza del regolamento che dovrebbe disciplinare il concorso per dirigente tecnico con funzione ispettiva sia una svolta per adeguare tale figura alla scuola dell’autonomia.
I posti non saranno più suddivisi tra settori e sottosettori perché si opterà per una figura “generalista” come è stato per il dirigente scolastico.
Si tratta sicuramente di una novità positiva che giunge in ritardo, ma a mio avviso non rappresenta la vera svolta nell’utilizzo di questa figura come risorsa realmente fruibile dalle scuole come risorsa.
Ho recuperato a proposito il contributo di Mario Maviglia in questo sito 
perché mette ben in evidenza due elementi che ostacolano un vero cambiamento nell’utilizzo degli ispettori: il numero esiguo a livello nazionale, direi ridicolo, rispetto al numero degli istituti scolastici e il loro impiego prevalente nella funzione di controllo che li rende più una risorsa del Ministero per attività amministrative e per le emergenze che una risorsa che le scuole possono realmente utilizzare in modo diretto e continuativo.
Apparentemente parlare di ispettori potrebbe sembrare un argomento per addetti ai lavori, invece riguarda tutti, per questo vorrei aggiungere qualche ulteriore considerazione sul ruolo che gli Ispettori possono svolgere proprio per rilanciare l’autonomia scolastica.
Io credo che gli Ispettori possano costituire uno di quei tasselli mancanti per l’attuazione dell’autonomia a patto di poterli (ripeto, poterli) utilizzare realmente come una risorsa di sistema per le scuole piuttosto che come longa manus del Ministero o come tappabuchi negli organici degli Uffici territoriali per coprire i posti dei dirigenti amministrativi man mano che vanno in pensione come è stato negli ultimi anni.
La prendo da lontano perché altrimenti è difficile capire la valenza che il corpo ispettivo può avere per il rilancio dell’ autonomia.
L’autonomia, come tutti sappiamo, non è stata varata per importare il liberismo nella scuola, né per favorire le scuole private, ma per dare la possibilità ai collegi di ciascuna scuola pubblica di costruire i percorsi più adatti e su misura ai bisogni formativi dei propri studenti e per rendere così effettivo il diritto allo studio superando la scuola come catena di montaggio con un programma uguale per tutti e con la pretesa che ogni alunno, svolto il programma, possa uscire anno dopo anno formato automaticamente. La conseguenza è che chi non ce la fa finisce come lo sfrido della catena di montaggio nel novero di quella che oggi si chiama eufemisticamente dispersione, come se il diritto allo studio sia solo il diritto alla frequenza di una scuola.
La novità dell’autonomia non sta “nell’autonomia” stessa perché esisteva ed esiste la libertà di insegnamento, ma nell’articolo 6 del Regolamento (275/99) considerato dai più un optional, ma che finalizza l’autonomia didattica e organizzativa non alla libera concorrenza, ma alla “ ricerca, sperimentazione e sviluppo” di percorsi su misura che tengono “conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali ”.
Per poter adeguare l’azione didattica e formativa ai bisogni degli studenti è necessario quindi che ciascun collegio faccia non un semplice menù di offerte chiamato PTOF, ma un progetto vero e proprio con un’ipotesi pedagogica, didattica e organizzativa per adeguare il servizio scolastico ai propri utenti e si domandi periodicamente se le scelte che ha compiuto siano state efficaci, dove hanno funzionato, dove vanno migliorate e come vanno cambiate in base anche al turnover degli studenti che ovviamente non sono sempre gli stessi.

Questa perenne ricerca, sperimentazione e miglioramento/adeguamento al mutamento del contesto richiesto dall’applicazione dell’autonomia ha nella autovalutazione di istituto il vero motore. Non c’è autonomia senza autovalutazione e riprogettazione.
Vi è un altro aspetto importante. Contrariamente a quanto vorrebbe qualcuno, i singoli istituti non sono monadi vaganti in libertà, ma costituiscono un sistema vero e proprio e interdipendente.
L’attuazione del dettato costituzionale a livello di Paese, in altre parole l’efficacia della riforma, dipende dall’efficacia del processo sopra descritto in ciascun istituto e dalla capacità del sistema stesso di migliorare tale processo a livello nazionale.
E’ quindi importante che vi sia una governance di questo processo non tanto e non solo che controlli l’applicazione delle norme, ma che aiuti le scuole a migliore la qualità dei propri processi di autovalutazione e di riprogettazione perché è lì che si attua l’autonomia, non nel numero di corsi extrascolastici o dei progetti che offre o nel pedissequo rispetto formale delle norme.
Il sostegno alle scuole, l’aiuto nell’attuazione dell’autonomia sono attività che hanno un peso significativo nello sviluppo di un sistema scolastico nazionale.

E qui arriviamo al ruolo degli Ispettori.
Il Sistema Nazionale di Valutazione ( DPR 80) che avrebbe dovuto costituire l’intelaiatura portante di una governance nazionale è venuto finalmente alla luce solo nel 2013 (il che la dice lunga sul sospetto di un sistematico boicottaggio dell’attuazione dell’autonomia).
Il SNV istituisce i Nuclei di Valutazione esterni ciascuno dei quali composto da un Ispettore e due esperti con il compito di supportare gli istituti individuati dall’INVALSI con un’attività di vero e proprio tutoraggio non solo perché realizzino piani di miglioramento più efficaci di quelli utilizzati, ma anche per aiutarli ad acquisire il know-how per farlo in modo efficiente.
Il SNV attraverso gli Ispettori avrebbe dovuto svolgere un ruolo centrale nel miglioramento della qualità dei processi di autovalutazione di istituto e di formazione in situazione dei docenti. Questo è avvenuto su larga scala o si sono tappate solo le falle nei casi più gravi, visto il numero esiguo di ispettori? Conoscere questi dati sarebbe interessante visto il fatto che molte scuole invece di cercare nella propria riprogettazione le soluzioni per migliorare la situazione hanno dovuto ricorrere abbondantemente ad attività di recupero extrascolastico in collaborazione con Associazioni del terzo settore con i fondi destinati alla dispersione. .

Ciò che è importante sottolineare è che la creazione dei Nuclei in sé introduce comunque il principio di un tutoring istituzionale di sistema per le scuole dell’autonomia riconoscendo in questo processo il cuore dell’autonomia stessa.
Se non funziona bene il sostegno all’autovalutazione, non funziona la riforma.
I dati che ci fornisce Maviglia sull’attuale organico ispettivo lasciano “basiti”, come direbbe qualcuno.

Tutta questa enfasi sulla novità del concorso nasconde la messa a bando di un numero di posti ridicolo che rende questa un’operazione di facciata che non farà che costringere, per ragioni di cose, un utilizzo degli ispettori in mansioni amministrative o ispettive piuttosto che di sviluppo ricerca e sostegno ai processi di cui all’art. 6 . Non trovo altra spiegazione ad una scelta così miope.

Invece di incrementare l’organico degli Ispettori per l’attuazione del SNV dal 2013 si è lasciato che il loro numero si riducesse ai 191 attuali da cui dobbiamo togliere gli Ispettori assegnati a ruoli amministrativi d’ufficio, i prossimi pensionamenti e aggiungere ora la straordinaria cifra di 146 unità costituita dai posti che dovrebbero essere messi a bando.
E’ un bel dire che finalmente si copre per intero l’organico del corpo ispettivo, ma l’organico del corpo ispettivo è adeguato al compito?
In altre parole si è fatta la scelta ieri e si è confermata oggi indipendentemente dai governi di lasciare le scuole a cavarsela da sole interpretando ancora una volta l’autonomia come un liberi tutti e non un dispositivo didattico-strutturale per permettere ai singoli istituti di individualizzare e personalizzare i percorsi dentro un sistema nazionale unitario e solidaristico che si prende cura dei propri istituti non con la pretesa di dirigerli, ma di incentivare e sviluppare quel empowerment professionale diffuso a cui mirava l’autonomia proprio con l’art. 6, da coltivare come risorsa di sistema.

La retorica di una difesa formale dell’autonomia degli istituti, la convinzione che un istituto vale un altro e che ciascun collegio è libero e nessuno può mettere il naso in quello che fa, stride con il fatto che l’autonomia delle singole scuole è tale all’interno di un sistema nazionale.
Se leggiamo il recente decreto n. 41/2022 sulla ridefinizione della “funzione tecnico-ispettiva da parte del corpo ispettivo ministeriale” che tenta timidamente di porre le premesse di un cambiamento, ci accorgiamo che l’Ispettore è sì definito come una “risorsa professionale del Ministero dell’istruzione” (sarebbe stato meglio definirlo una risorsa del sistema delle autonomie di cui anche il Ministero fa parte , “bontà sua”), ma che il compito assegnato è di “ sostiene le scuole nel miglioramento della qualità dei processi e nel perseguimento dei traguardi”. Come?

Leggiamo che gli Ispettori offrono o dovrebbero offrire, se fossero in numero adeguato aggiungo io, “supporto, assistenza e consulenza; formulano proposte e pareri sui temi dello sviluppo dei curricoli, della progettazione didattica, delle metodologie di insegnamento, della valutazione degli apprendimenti”

Dovrebbero poi occuparsi delle “ scuole presenti in aree a rischio educativo e di marginalizzazione sociale, cui andrà indirizzato particolare sostegno”.
Dietro questo sottovalutare l’importanza degli Ispettori e il loro ruolo da parte del governo destinando risorse residuali in un compito così importante , dietro un diffuso disinteresse da parte del personale scolastico per la sorte degli ispettori, vi è troppo spesso una visione culturalmente distorta del ruolo e della figura dell’ispettore nella scuola di oggi che non è più quella deamicisiana.

Accanto alla funzione di controllo, di cui non si discute la necessità, sia con il SNV che con il decreto 41, si fa strada una funzione ben diversa di sostegno e di consulenza esperta alle scuole e ai suoi dirigenti.
Come ex preside non disdegno affatto una tale collaborazione perché non interferisce con le prerogative del dirigente né dei collegi, ma è molto utile se impostata come collaborazione professionale tra soggetti con competenze diverse per evitare il rischio sempre presente di autoreferenzialità, per facilitare le relazioni di rete con le altre scuole e per mantenere un rapporto non burocratico con il Ministero, avendo gli Ispettori una visione di insieme dei territori in cui operano.
Giancarlo Cerini non era forse un Ispettore? Probabilmente sono state più le occasioni in cui è entrato in una scuola come esperto e formatore chiamato dai collegi piuttosto delle volte in cui è entrato mandato dal Ministero per qualche incombenza burocratica. Lo stesso può dirsi per tanti altri Ispettori.
Già questo può far riflettere.

Non si capisce perché l’attività di tutoring svolta dai docenti sia considerata così essenziale nel supportare gli studenti a raggiungere i loro obiettivi e a sviluppare le loro competenze e la stesso approccio tutoriale non possa essere preso in considerazione per supportare i collegi dei docenti e/o i consigli di classe o i dipartimenti disciplinari per raggiungere i loro obiettivi di miglioramento . Per gli studenti questa si chiama valutazione formativa.
Sarebbe una svolta epocale liberarsi una volta per tutte dallo stereotipo dell’Ispettore visto solo come il controllore, come scrive Maviglia, che vidima i registri, spulcia tra le carte o che viene chiamato per dirimere controversie tra genitori, docenti e dirigenti. Oddio, arriva l’ispettore!

Poter tradurre in pratica quanto recita il decreto 41 permetterebbe di distinguere la tradizionale funzione ispettiva di controllo da quella di “ tutor” o consulente di cui l’autonomia ha bisogno come ho scritto.
Sarebbe un primo passo per farne uno degli snodi operativi di sistema in grado di contribuire a migliorare i processi di miglioramento non solo nelle scuole in difficoltà come prevede il SNV, ma più in generale nelle scuole di un dato territorio assegnando ad esempio ad un ispettore o, meglio, al Nucleo stesso di valutazione il ruolo di consulente per un numero ristretto di istituti scelti secondo criteri funzionali a permettere di svolgere adeguatamente questo ruolo, penso alle aree di povertà educativa ad esempio.

Basterebbe agire sui criteri che l’INVALSI deve adottare per individuare gli istituti da seguire trovando una modalità che possa permettere ad un numero più ampio di istituti di utilizzare il Comitato di valutazione come risorsa.
D’altronde si sottolinea nel decreto 41 che “la funzione di studio, di ricerca e consulenza tecnica costituisce asse strutturale della funzione tecnico-ispettiva”.

Un cambiamento di prospettiva nell’utilizzo degli Ispettori non può non prevedere dunque un aumento significativo nell’organico del corpo ispettivo e non un ridicolo incremento come quello che pare sia previsto dal Ministero nostrano, a fronte, come ci ricorda Maviglia, di ben 3.789 Ispettori in Francia.
Affinché il decreto 41 non sia carta straccia non basta abolire la settorializzazione della figura dell’ispettore, ci vuole ben altro con un ritocco coordinato della normativa perché gli ispettori possano svolgere quella funzione auspicata.
Come si fa ad attuare il profilo previsto con un organico siffatto. Il solito argomento dei tagli e delle difficoltà di bilancio è fin troppo abusato quando si tratta di investimenti per qualcosa di determinante per il futuro.
Vi è poi un altro elemento che trovo interessante per stabilire un rapporto più organico degli ispettori con l’autonomia.
Perché non cogliere l’occasione per cominciare a parlare di carriera dei docenti in servizio offrendo loro uno sbocco nel corpo ispettivo trasformando in crediti il curricolo di ricerca?
Ci si è dimenticati della famosa figura del “docente esperto” uscita dal cappello del PNRR senza prospettive di avanzamento neppure in funzioni di middle management all’interno del proprio istituto.
Con una revisione dei percorsi formativi speciali previsti dalla Legge 79/2022 potrebbe ben confluire almeno come esperto nel Nucleo di Valutazione.
Forse è chiedere troppo ai Ministri di avere una visione di insieme del sistema e di cercare di creare sinergie tra le risorse già presenti invece di vedere i vari segmenti come parti a sé? . Sarebbe un “merito” riuscire a vedere finalmente la scuola come un sistema e utilizzare strategie di sistema per governarla.

La proposta di Treelle, a cui fa rifermento Maviglia nel suo contributo, potrebbe costituire un’interessante base per dare a questa figura una vero e proprio ruolo strutturale e organico come proponevo nell’aiutare le scuole ad ’utilizzare in modo efficace ed efficiente la loro autonomia .
Questa proposta potrebbe essere una possibile alternativa in grado di compensare la prematura scomparsa dell’ANSAS nata allora per prendere il posto degli IRRSAE in questo compito.
Senza ANSAS e senza gli IRRSAE che un sostegno alle scuole del territorio lo stavano dando da anni soprattutto nell’innovazione, le scuole sono state lasciate sole proprio nel momento in cui sono diventate autonome e si è chiesto di basare la loro flessibilità sulla ricerca e l’innovazione.
E’ stato anche questo un caso ?




Psicopatologia del voto

di Giovanni Fioravanti

C’era il professore di fisica che l’aveva interrogato sulla puleggia, ma lo studente aveva fatto scena muta e quindi era stato rimandato al posto con due. Eppure conosceva tutto sulle carrucole, ma non sapeva che puleggia e carrucola fossero la stessa cosa.
Da questo aneddoto molti anni fa, erano gli anni novanta del secolo scorso, prendeva l’avvio uno dei primi libri, pubblicati nel nostro paese, sulla valutazione scolastica del docimologo Gaetano Domenici. Docimologia è la scienza degli esami, termine introdotto dallo psicologo francese Henry Piéron, quando iniziò le sue prime ricerche sugli esami di licenza elementare nel lontano 1922.
Si  poneva così la questione della valutazione scolastica e della sua affidabilità sulla base della quale docenti e responsabili del governo della scuola avrebbero dovuto strutturare le loro decisioni.

È che la valutazione come consapevolezza dei processi d’apprendimento e dei loro risultati ha sempre faticato a trovare cittadinanza nello spirito delle nostre scuole e del nostro insegnamento, timorosi d’essere contaminati dal germe dell’aziendalismo, tanto che ancora troppi sono i docenti, e non solo, che guardano con sospetto, quando non con ostilità, ai dati forniti di anno in anno dai test Ocse Pisa e da quelli dell’ Invalsi.

In compenso resistono i voti, con i loro ingredienti di soggettività ed emotività, di giudizi morali, di effetti pigmalione che nulla c’entrano  con la misurazione degli apprendimenti e dei processi scolastici. I voti per cui, se sei anche un campione in fisica, ti abbasso il voto perché la tua condotta scolastica lascia a desiderare.
Ora il voto è imputato di produrre ansia e stress ed ogni discorso sulla validità e finalità delle valutazioni scolastiche passa in secondo piano.
Dalla scuola del merito all’ansia da prestazione degli studenti, al burnout degli insegnanti. La nostra scuola sempre più si avvia ad essere una maionese impazzita. Da un lato un ministro che ripristina lo spirito di competizione, dall’altro studenti e docenti che non reggono, che denunciano tutta la loro fragilità.

Studenti stressati dall’essere valutati,  insegnanti, sempre più immiseriti nel loro ruolo,  che, perdendo lo strumento del voto, temono di vedere ancora più svilita la loro funzione, dall’altra parte i genitori restii a rinunciare al voto che resta comunque l’indicatore prioritario per esercitare il controllo sull’andamento scolastico dei figli.

Psicopatologie, dunque, stati d’animo, stress dei protagonisti come se il teatro e il testo della commedia da mettere in scena ogni giorno poco contassero.
Dopo la pandemia da Covid il voto è divenuto l’imputato numero uno delle psicopatologie di tanti studenti, tale da indurre taluni istituti a relegarli esclusivamente al termine dell’anno scolastico.
Una sorta di tregua sul campo di battaglia che resta la scuola, una cura psicoterapica per consentire all’adolescenza di riprendersi dai traumi scolastici.

Curioso, perché nel frattempo l’antico ministero della pubblica istruzione ha perso l’aggettivo “pubblica” per recuperare il sostantivo “merito”.
Questo vezzo tutto italiano di affrontare i problemi del sistema scolastico a spizzichi e bocconi, tipo il liceo quadriennale sperimentale, ora la sospensione di voti e quadrimestri, lasciando inalterato tutto il resto come se ogni parte non fosse funzionale al tutto, come se si fosse potuto fare a meno di voti e quadrimestri o trimestri anche prima. E allora perché non si è provveduto per tempo? Perché alcuni sì ed altri no? Perché nascondere i voti per un intero anno scolastico per poi farli ricomparire al termine di esso? Farli ricomparire all’esame di stato?

Altroché psicopatologia del voto, qui siamo di fronte alla schizofrenia scolastica.
Preoccupa la cultura nelle cui mani è oggi posta la nostra scuola, dal ministro ai dirigenti, agli insegnanti.
Ma siete proprio onestamente convinti che siano i voti la vera causa del disagio di tanti studenti? Ci credete davvero? Le alte percentuali di abbandono e di dispersione scolastica non riescono a suggerirvi altro? È davvero preoccupante, perché significa che la nostra scuola non è nelle mani giuste.
Dovrebbe essere chiaro da anni che il problema dei voti è solo un aspetto, un sintomo di una crisi più vasta del nostro sistema formativo, con il suo seguito di modello docente prevalente, di  cattedre, di interrogazioni, pagelle ed esami ed altro ancora. Tutto coerente con la filosofia persistente dell’ organizzazione gentiliana del nostro sistema scolastico, che ci si ostina a voler mantenere, quando da alcuni addirittura non si pretenderebbe di ripristinarne l’antico splendore, a dispetto  dell’usura dei tempo.

Una struttura scolastica che ancora fa degli esami, anche questi di emanazione gentiliana, non solo il momento finale del processo, ma un fattore di condizionamento di tutto il processo, una motivazione che si sovrappone ad ogni altra motivazione, una gara che esalta il clima competitivo della vita scolastica e l’individualismo conseguente.
Un modello di insegnante che, essendo l’emanazione di questa struttura scolastica, finisce col subordinare alla funzione giudicatrice ogni altra funzione, collocando in essa la sostanziale motivazione dell’insegnamento, quando non la sua gratificazione.
Allora il disagio degli studenti è il sintomo di una contaminazione, di una infezione prodotta da una scuola disagiata e a sua volta disagiante, è l’espressione più eclatante della crisi della sua funzione, quella che dovrebbe essere oggi, rispetto ai bisogni formativi qui e ora, e non quella di ieri, di epoche che non ci sono più.




Quando Mario Lodi e Bruno Ciari si incontrarono

Nel collage (in alto: Massimo Bondioli, Donatella Merlo, Enrico Bottero; in basso: Giorgio Testa e Pamela Giorgi)

 

 

 

di Massimo Bondioli (*)

Mario Lodi e Bruno Ciari si incontrarono la prima volta nel novembre del 1955 al Congresso della Cooperativa della Tipografia a Scuola (due anni dopo cambierà il nome in Movimento di Cooperazione Educativa) e il loro rapporto di amicizia e collaborazione durò fino alla morte di Ciari.

Addentrarsi nella conoscenza di questo rapporto vorrebbe dire toccare temi come la corrispondenza interscolastica, la Biblioteca di Lavoro, la comune visione del ruolo del MCE, l’azione da condurre sul terreno più direttamente politico e tanti altri che hanno segnato la ricerca didattica e il dibattito pedagogico del secolo scorso. Non è un caso che siano stati percepiti dagli insegnanti e dall’opinione pubblica più sensibile ai problemi dell’educazione come le figure più rappresentative del Movimento di Cooperazione Educativa.

Dato il tempo a disposizione, mi limiterò a 3 “spigolature” che ricavo dal lavoro di ricerca che ha accompagnato la scrittura della biografia di Mario Lodi (Mario Lodi e Piadena. Una vita tra educazione e impegno in un microcosmo padano, Editoriale Sometti, 2022).

Schedati e sorvegliati

Rinaldo Rizzi, uno dei dirigenti storici del MCE, nel ricostruire la storia del Movimento, scrive:
Ferveva così un grande entusiasmo in quest’opera di rivolgimento dell’attività didattico-organizzativa, nonostante le molteplici difficoltà per questa avanguardia pedagogica che iniziava ad attirare su di sé lo sguardo sospettoso del potere.

 A quel tempo gli insegnanti progressisti, e quelli del MCE in modo particolare, erano non solo guardati con sospetto, ma schedati e sorvegliati.
Una conferma delle “attenzioni” riservate dalle autorità di pubblica sicurezza agli esponenti del MCE l’ho trovata nei documenti conservati nell’Archivio di Stato di Cremona.
Il 3 agosto 1963 il Questore di Macerata inviava una segnalazione al Ministero dell’Interno sulle attività del Movimento di Cooperazione Educativa e la richiesta a 14 Questure di informazioni sui partecipanti al corso estivo di Frontale.

Eccone uno stralcio:

Lo scopo del convegno-soggiorno, al pari dello scorso anno, sarebbe quello di mettere in pratica ed incrementare, su larga scala, il metodo di insegnamento “Freinet” per permettere lo scambio delle osservazioni e delle esperienze degli alunni tra scuola e scuola, anche di Stati diversi. I partecipanti si sottopongono a lunghe ore di lezioni teorico pratiche e rimangono quasi sempre nell’abitazione del TAMAGNINI senza frequentare persone del luogo. Sebbene non si siano, finora, esposti politicamente, si ritiene che la maggior parte di essi siano orientati verso i partiti di sinistra dal momento che frequentano il TAMAGNINI, il quale, pur essendosi dimesso dal P.C.I. in seguito ai fatti Ungheria, continuò a manifestare sentimenti favorevoli alle correnti di estrema sinistra […]. Il TAMAGNINI fa anche pubblicare e diffondere, in qualità di direttore responsabile, un opuscolo mensile dal titolo “Cooperazione Educativa” […] Al convegno partecipano le sottonotate persone, sul conto delle quali le Questure in indirizzo sono pregate di fornire, direttamente al superiore Ministero e qui per conoscenza, le informazioni di rito.

Seguiva l’elenco dei 18 partecipanti, tra i quali figuravano i nomi di Mario Lodi, Aldo Pettini, Brunello Ciari, Ermelinda Criscuolo, Armando Novelli, Dino Zanella, ecc.

Da osservare che questo documento è interessante anche perché rappresenta una involontaria testimonianza della totale dedizione al lavoro dei partecipanti, concentrati nelle loro attività in un ritiro quasi monastico.

 La vicenda del “Razzo”

Un capitolo del rapporto tra Lodi e Ciari poco conosciuto ruota attorno all’attività delle Edizioni Avanti! e, successivamente, delle Edizioni del Gallo. Provo a riassumerlo per sommi capi.
Nel 1959 Mario Lodi era entrato in contatto con Gianni Bosio, direttore delle Edizioni Avanti!, la casa editrice ufficiale del Partito Socialista per proporgli la pubblicazione di Cipì.
Tra i due nacque subito un intenso rapporto di collaborazione.
In una riunione del gennaio 1961 Bosio annunciò l’intenzione di voler aprire una collana di libri per ragazzi, per la quale erano già disponibili due titoli. Uno di questi era il Cipì di Mario Lodi.  Da subito, Lodi divenne di fatto e poi formalmente il responsabile della collana.
Dopo una prima riunione organizzativa tenutasi in giugno presso la Biblioteca Popolare di Piadena, Lodi presentò a Bosio una lista di possibili nomi da dare alla Collana e sottopose al suo vaglio alcune ipotesi di testi da pubblicare, tra i quali figurava “Il razzo” di Bruno Ciari.

Scriveva Lodi: “Potrei far portare il materiale a Ciari quando ci vedremo a Frontale e lo aiuterei a completarlo in modo da terminarlo entro agosto”.§
Aggiungeva poi che il libro più adatto, nel caso fosse stato scelto “Universale Ragazzi” come titolo della collana (titolo che poi venne effettivamente scelto), gli sembrava proprio “Il razzo” e che prima di scrivere a Ciari attendeva un cenno di conferma da Bosio.
Pochi giorni dopo, Adele Faccio, che lavorava allora per la casa editrice, scriveva a Lodi una breve lettera nella quale affermava che “Bosio vuole assolutamente il razzo”.
Lodi rispondeva che “A Frontale Ciari ha promesso di mandare il razzo in… orbita entro settembre”.
Già, perché il razzo di cui parlava Lodi non era soltanto un libro, a cavallo tra la narrativa e l’educazione scientifica, a cui teneva tantissimo, ma si trattava di un vero razzo in miniatura costruito da Ciari.
Si era in un momento storico particolare: da pochi mesi il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin era diventato il primo essere umano a raggiungere lo spazio sulla navetta Vostok 1; quattro anni prima aveva avuto inizio la corsa allo spazio con il lancio del satellite sovietico Sputnik 1. Questi eventi avevano impressionato fortemente l’opinione pubblica mondiale segnando un capitolo decisivo nel contesto della guerra fredda tra i due blocchi.
Questo spiega bene anche l’interesse editoriale per l’argomento trattato nel libro di Ciari.
A Frontale il razzo non decollò. Lodi tornò a parlarne a novembre. Riferendosi all’annuale convegno MCE tenutosi a Certaldo qualche giorno prima, scriveva a Bosio:

A Certaldo c’era tutto pronto per il lancio definitivo del razzo, che sarebbe stato, di fronte a tutti gli amici del convegno, la migliore propaganda per il prossimo libro, ma per il mancato arrivo del propellente, il lancio è stato rimandato di qualche giorno.

Ho avuto fra le mani il perfetto ordigno, curato nei minimi particolari; l’abbiamo smontato e ricomposto: è veramente un eccezionale lavoro, portato avanti con una meticolosità straordinaria. Il razzo dovrebbe salire a duemila metri ed essere ricuperato a mezzo di paracadute contenuto nella punta. Sarà fotografato e filmato il lancio.
Il libro sarà illustrato con fotografie e disegni. Siamo rimasti d’accordo, per non appesantire il racconto, di mettere in appendice una relazione tecnica con tutti i dati occorrenti per ripetere l’esperimento. Alla fine di dicembre il libro dovrebbe essere pronto.

Ma all’inizio di marzo dell’anno successivo, il 1962, il libro di Ciari non era ancora pronto e Lodi scriveva a Bosio che “Dato il ritardo del Razzo”, sarebbe stato favorevole a precederlo mandando in tipografia un altro libro.

Sempre in marzo, altra lettera di Lodi a Bosio:

Ciari mi scrive che il libro ha subito un rallentamento essendo egli stato ammalato. “Abbiamo comunque continuato e sviluppiamo le esperienze pratiche (di ieri un lancio discretamente riuscito con parabola compiuta dal razzo che torna a terra infilandosi di punta); i miei appunti sono ricchissimi, un po’ di pagine sono abbozzate. Ma arriverò in fondo, a ogni costo. Il problema sta tutto nella ‘forma’, che sento sta tornando”. Aggiunge che ha altre idee: tra l’altro una storia dell’uomo, a cominciare dall’antropoide delle foreste del terziario.

Nonostante i continui rinvii, non ci si rassegnava a rinunciare alla pubblicazione di quel testo. In una riunione del Comitato di Redazione dell’agosto 1962, Bosio stesso propose come strenna della collana ragazzi il libro di Ciari definendolo l’optimum e prevedendone la conclusione già per la fine di agosto. Ma, anche questa volta, il testo non arrivò.

A novembre, in uno scritto per la Redazione, Lodi ripercorreva la vita della collana per ragazzi e ne indicava i possibili sviluppi. Elencava poi le novità già in programma, tutte quante assai coraggiose per i tempi, a iniziare da Come nascono i bambini, che affrontava il problema dell’educazione sessuale dei bambini. Ancora una volta, prospettava per l’immediato futuro la pubblicazione del “Razzo” di Ciari.

A quanto mi risulta, fu questo l’ultimo riferimento al libro “fantasma” di Ciari.

Il tentativo di pubblicarlo durò dunque almeno un anno e mezzo, con una insistenza inusitata che fa comprendere quanto Lodi ne apprezzasse sia l’idea sia l’autore.

Ma la collaborazione sul versante editoriale non finì qui.
Nel 1964 le Edizioni Avanti! si resero autonome dal Partito Socialista e cambiarono il nome in Edizioni del Gallo, sempre sotto la direzione di Gianni Bosio.
Molti filoni di ricerca rimasero sostanzialmente gli stessi, ma già dall’inizio del ’64 cominciarono ad assumere un peso crescente la ricerca sul canto popolare, la produzione discografica sotto l’etichetta “I dischi del Sole” e l’organizzazione di rassegne e spettacoli nell’ambito dell’attività del Nuovo Canzoniere Italiano fondato da Bosio e da Roberto Leydi.
Tra le iniziative a cui guardava il nuovo progetto editoriale vi era quella di dare vita a una collana dei Dischi del Sole destinata ai ragazzi, la cui responsabilità sarebbe stata affidata a Mario Lodi e Bruno Ciari.

Il 31 agosto del 1965 in una lettera a Michele Straniero, Lodi esponeva il programma concordato con Ciari, che comprendeva diversi lavori di Lodi, di Ciari e della moglie di questi Marcella Bufalini. In particolare, venivano citati “Nasolungo e Orecchiofino” di Bruno e i “Canti di Bambini” curato da Marcella.

A una prima riunione tenutasi il 2 novembre 1965 Lodi, Ciari e la moglie Marcella portarono delle registrazioni effettuate nelle rispettive classi, ma queste non convinsero Bosio, Straniero e gli altri presenti e il progetto non andò in porto.
La vicenda del razzo, libro e modello autocostruito, credo meriterebbe un approfondimento e una più puntuale ricostruzione.

Più di una amicizia

Lodi parlò di Ciari in più occasioni, nel corso di convegni, in testi e interviste.
In un’intervista riportata nel volume del 1978 Animazione e conoscenza di Elisa Salvatori Vincitorio, ne tracciò un ritratto vivo, profondamente umano, carico di affetto e stima.

Eccone alcuni stralci:

Il mio primo incontro fu in quel novembre a S. Marino […].
Nativo di Certaldo, possedeva il dono discorsivo direi boccaccesco, esuberante carico di umorismo, per cui ciò che raccontava era pregnante, avvincente, in quel linguaggio vivo toscano. Nello stesso tempo sentivi l’autodidatta dalla mentalità scientifica che si manifestava anche nelle piccole cose. Dall’allevamento dei criceti […][alla] costruzione dell’acquario che faceva con i suoi ragazzi […].
Lui era contrario alle cose comperate finite e perfette; era invece per la costruzione materiale degli strumenti che servono alla ricerca e all’osservazione. Diceva che “si vede con la mente, non si vede con gli occhi”. E, tutte queste cose le raccontava quasi scherzando e noi eravamo presi da questo suo modo di raccontare […]. Aveva una mente scientifica e filosofica, completa e coerente. […] Il suo aspetto esteriore non rivelava la ricchezza interiore: era dimesso, semplice, distratto. […]
Fu lui che pose il problema dell’organicità delle tecniche, che sono valide non per i risultati che danno isolatamente, ma se fanno saltare il sistema scolastico, ponendo un’alternativa globale.

Proseguendo, Lodi arrivava ad affermare che
Bruno Ciari fu una di quelle persone dalle quali presi molto perché non ero come lui. Lui era una mente scientifica, io ero più intuitivo, per questo ci completavamo a vicenda. Infatti lui cercava me e io cercavo lui e insieme eravamo come un’unica persona con una più ampia dimensione umana e culturale.

Raramente è dato trovare un’amicizia e una intesa così profonde e solide da generare quasi una fusione tra due individui. Uno stile di vita, di relazione e di lavoro che ha saputo tradurre in pratica fino in fondo i valori in cui hanno creduto e per cui si sono battuti.

(*) Questo articolo è una rielaborazione dell’intervento dell’autore al convegno promosso da Gessetti Colorati e dall’MCE svoltosi a Ivrea il 5 ottobre 2023 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lettera del Questore di Macerata al Ministero dell’Interno – Direzione Generale della P.S. – Divisione AA.RR. – Sez. 2ª e alle Questure di Roma, Milano, Torino, Brescia, Varese, Ancona, Perugia, Cremona, Treviso, Campobasso, Cagliari, Reggio Calabria, Pesaro, Firenze, 3 agosto 1963, ASCR, Questura, b. 26.

 

 

 




Le buone parole della scuola: EFFICACIA ED EFFICIENZA

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Il modello della scuola efficace ed efficiente è quello che in un certo momento, dopo le riforme che hanno segnato il mondo dell’istruzione a partire dagli anni sessanta fino a tutti quelli degli anni ottanta del secolo passato, ha incominciato a mietere consensi tra i responsabili delle politiche scolastiche.
In poche parole, dandosi per risolto il problema dell’equità con l’irruzione in massa delle nuove generazioni nelle classi dell’istruzione secondaria e nei corsi dell’ università e ritenendo economicamente ingiustificabile un aumento costante delle spese per l’istruzione, si è cominciato a porre il problema di razionalizzare sia la spesa pubblica per l’istruzione, sia l’organizzazione del sistema scolastico e anche le stesse procedure didattiche per avere a parità di costi e di risorse impiegate migliori risultati.
Si è passati da una situazione in cui si pensava che ci fossero solo obblighi di fornire mezzi e risorse alla scuola per espanderla ed arricchirla ad una situazione in cui si è incominciato a pensare che la scuola debba essere obbligata a dare precise risposte in termini di risultati socialmente apprezzabili, su cui commisurare la bontà dei finanziamenti e delle politiche scolastiche.
Raggiungere i risultati sperati e programmati, utilizzando nel modo migliore i mezzi disponibili, dovrebbe far parte del buon senso e della buona amministrazione. La spesa pubblica dell’istruzione deve essere commisurata ai compiti che gli vengono assegnati e alle sue crescenti e nuove responsabilità; sicuramente non dovrebbe essere ridotta, anche se ragionevolmente può essere modificata nella sua composizione.
Una politica scolastica, d’altronde, concentrata solo sulla razionalizzazione dei costi e dell’impiego delle risorse può incidere negativamente sulla portata e sul significato sia dei problemi educativi, sia dei problemi di democrazia e di giustizia a scuola. Rimanendo solo in un ambito di economia dell’istruzione non è difficile perdere di vista le finalità che deve perseguire il sistema di istruzione; è facile dimenticare che l’istruzione è un bene comune che va tutelato e reso disponibile per tutti.
La spesa per l’istruzione non può essere giustificata solo per il contributo che darebbe alla costituzione e allo sviluppo del capitale umano di cui deve alimentarsi una società proiettata nella competizione mondiale dei mercati. Una considerazione del genere può giustificare l’espansione dei costi dell’istruzione, ma può anche alimentare il convincimento della necessità di una stretta subordinazione del sistema d’istruzione e formazione a quello economico. Una tendenza (mai allontanata…) che ridurrebbe il valore della cultura e del sapere e che comporterebbe una strumentalizzazione dei saperi a danno della ricchezza e varietà delle esigenze di sviluppo e di crescita della persona e della società.
In questo intreccio di problemi si nasconde il rischio che la scuola perda la sua vera autonomia, perché perderebbe il controllo del proprio programma culturale, perchè accetterebbe una logica di adeguamento e di condiscendenza che la priverebbe di molte delle sue necessarie funzioni.
Il sistema di istruzione deve procedere, invece, ad una logica di integrazione con la società e con altri centri e agenzie di formazione; fatto che è reso possibile solo se mantiene la capacità di proporre criteri di riferimento per stabilire la gerarchia dei valori e dei saperi e la capacità di dettare codici di comportamento, di organizzazione delle procedure di apprendimento e le regole proprie di comunicazione.
Dal paradigma riformistico dell’efficacia e dell’efficienza sono scaturite alcune scelte delle amministrazioni degli ultimi anni. Vanno citate la riorganizzazione territoriale del servizio scolastico; la ridefinizione del management delle singole scuole, la razionalizzazione degli indirizzi di studio e dei gradi di istruzione, la razionalizzazione degli obiettivi pedagogici, la misurabilità dei risultati scolastici.
Ognuno di questi argomenti meriterebbe una esposizione, adeguata e separata, ma in questa sede ci si limita a delinearli nei tratti essenziali.

AUTONOMIA SCOLASTICA

L’autonomia scolastica è uno dei cardini del paradigma dell’efficacia/efficienza, ma anche il tema delle maggiori preoccupazioni sulle sorti del sistema d’istruzione. Con l’autonomia si crede di risolvere il problema dell’inefficienza di un’organizzazione che non riesce più a dare prestazioni di servizio di qualità a milioni di persone e ad amministrare centinaia di migliaia di dipendenti, ma anche quello di flessibilizzare i curricoli per dare spazio alle problematiche locali
Con l’autonomia scolastica il territorio non dovrebbe essere più un ambito di colonizzazione culturale da parte di uno stato nazionale che vuole determinare valori e saperi per tutti, ma un partner educativo in quanto spazio specifico di conservazione di culture, di valori, di simboli e di saperi che vanno conosciuti e compresi e non più censurati e sviliti come nel passato, anche perchè determinanti ancora nella condizione e nei vissuti degli alunni.
L’autonomia dovrebbe consentire di mediare tra le esigenze nazionali e le emergenze locali, che possono essere di natura sociale, culturale, economica. La scuola si può arricchire, perchè si possono recuperare gli elementi di continuità e di contiguità col mondo circostante; la scuola può diventare luogo di ricostruzione della memoria e delle tradizioni locali, può aiutare a fare emergere negli alunni la consapevolezza della propria appartenenza ad una comunità e della propria identità.
L’autonomia è un’idea che funziona, se funziona il rapporto tra singolo istituto, amministrazione centrale ed enti territoriali (Comune e Regione). Allo stato attuale non sempre si è vicini ai risultati sperati sia per le difficoltà che gli enti locali spesso incontrano nella definizione della propria politica scolastica e culturale e nella formulazione delle esigenze di formazione e di istruzione delle comunità amministrate, sia per le difficoltà che incontrano le scuole, anche quando sono in rete, nel costituirsi come partner credibili non solo degli enti locali ma anche delle realtà economiche, sociali e culturali di un territorio.

DIRIGENZA SCOLASTICA

Ad una scuola autonoma si è fatto corrispondere un dirigente scolastico con più poteri e un regolamento di contabilità più flessibile rispetto a quello del passato per rendere più agevole e rapida la realizzazione di una decisione. L’esiguità dei fondi disponibile si è premurata di ridimensionare le ambizioni di questa scelta. L’incongruenza di queste innovazioni sta tutta nell’avere privilegiato gli aspetti generali e amministrativi della funzione direttiva a danno di quelli specifici di controllo epistemologico e pedagogico del curriculum come avveniva con i “dismessi” presidi di un tempo. Succede allora che per un’autonomia che qualcosa concede in termini di integrazione dell’offerta formativa si prefigura un dirigente che può saper fare tutto e non padroneggiare l’ambito culturale e professionale di un curriculum, dei cui risultati sarebbe tenuto a rendere conto. A questa intrinseca debolezza si affianca il fatto che nella scuola le figure intermedie tra dirigente e corpo docente non abbiano un preciso statuto professionale e dipendano dall’aleatorietà o peggio ancora dall’arbitrarietà delle scelte collegiali o dirigenziali.

RAZIONALIZZAZIONE DEGLI INDIRIZZI DI STUDIO E DEI GRADI DI ISTRUZIONE.

E’ stata un’esigenza diffusa nella società e tra gli operatori della scuola che si procedesse, come è stato fatto con i nuovi regolamenti degli ultimi anni sul riordino dell’istruzione secondaria, ad una semplificazione dell’aggrovigliato panorama di indirizzi e di corsi di studio che si era venuto a creare con il DPR 419/74 sulla sperimentazione. Un certo modo di intendere e di praticare il riformismo a scuola di fatto aveva prodotto una crescita costante di ore di lezioni, di discipline e una proliferazione di curricoli e di proposte formative, che a volte avevano fondamento solo nell’immaginazione dei collegi di docenti.
Permane ancora dopo il riaggiustamento delle superiori il problema del ruolo dell’istruzione professionale, costituitasi nel tempo nel sistema statale d’istruzione quando ancora le regioni non esistevano e mantenuta ancora in esso per l’evidente incapacità nel passato di molte amministrazioni regionali di darle respiro, funzionalità, organizzazione e qualità. Nonostante le modifiche curriculari e l’impegno a darle una forte e distinta fisionomia l’istruzione professionale è ancora relativamente diversa rispetto a quella tecnica; non solo, deve anche verificare sempre in modo corretto e funzionale il rapporto che deve avere con la formazione regionale.
A rigore il sistema duale di istruzione e formazione sarebbe più razionale rispetto a quello che si è venuto a costituire in Italia, ma per l’accettazione di questo modello sorgono le obiezioni fondamentali dell’inerzia e dell’incapacità di un bel numero di regioni e la tradizione seria degli istituti tecnici statali, una specificità del sistema scolastico italiano, che dopo la breve parentesi dell’era morattiana nessuno si sente più di cancellare.
Sempre in funzione di questa esigenza di efficienza e di efficacia si è decisi di dare sistematicità all’istruzione terziaria, nè scolarizzata, nè accademica, istituendo gli istituti tecnici superiori, rimodulando gli IFTS.
La preparazione finale dell’istruzione secondaria nel terzo millennio necessariamente si realizza nel livello della professionalità di base, perchè ragionevolmente si assegna al nuovo segmento dell’istruzione terziaria il compito di mettersi in sintonia con i bisogni di competenze del complessivo sistema economico.
Non è ancora risolto, a mio parere, il rapporto tra scuola primaria e secondaria di primo grado; nei fatti per la riduzione della popolazione scolastica le scuole medie autonome sono in via di sparizione, ma ce ne vuole si strada per un curriculum che sia unitario e si differenzi nello stesso tempo per l’età che va dai sei anni ai tredici.

LA RETE SCOLASTICA

E’ in qualche modo un corollario dell’esigenza di razionalizzazione del sistema dell’istruzione che contestualmente si sia proceduto e si continui a procedere ad un riassetto delle sedi scolastiche per potere garantire investimenti adeguati nelle tecnologie e in dotazioni di alto livello (biblioteche, laboratori, spazi aperti, mense etc) e per disporre di un numero sufficiente di alunni per classe e per sede scolastica. L’eccessiva dispersione eleva il costo d’impianto e di gestione, anche se per certi gradi di istruzione la prossimità della sede garantisce un migliore servizio alla persona e tutela il diritto alla formazione meglio di qualsiasi “ricchezza tecnologica”.
Le modalità scelte per razionalizzare la rete scolastica a volte hanno provocato un deterioramento organizzativo e gestionale della vita scolastica e l ‘abbassamento della qualità dei processi di apprendimento e spesso non hanno avuto altra giustificazione se non quella del raggiungimento del parametro numerico per l’assegnazione o il mantenimento dell’autonomia ad un istituto scolastico.

RAZIONALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI PEDAGOGICI

A partire dagli anni ’90 è cresciuta nel mondo della scuola un’esigenza di precisione e di efficacia nelle attività formative per potere disporre di risultati d’apprendimento certi e non aleatori. Sia nella pedagogia degli obiettivi che nel più recente approccio per competenze è evidente l’accoglimento della sollecitazione a rendere rigoroso il procedimento di insegnamento, a esplicitare in termini di compiti precisi, accessibili, osservabili i risultati d’apprendimento, a selezionare e a standardizzare gli elementi del sapere congrui con questo scopo e a individuare i modi esatti per valutare la corrispondenza tra ciò che era atteso e ciò che viene accertato. E tutto questo in un quadro rigoroso di contingentamento dei tempi per ogni sequenza d’insegnamento, comunque viene la voglia di nominarla(unità didattica, unità d’apprendimento, modulo, unità formativa capitalizzabile etc.).
Sia la pedagogia per obiettivi, sia l’approccio per competenze delineano un progetto di razionalizzazione dell’organizzazione didattica; la pedagogia degli obiettivi, in particolare, lascia in eredità a qualsiasi altro indirizzo che voglia cimentarsi con il paradigma dell’efficacia e dell’efficienza una teoria generale dell’azione che non propone alcun valore se non quella dell’efficacia operatoria e per questo esalta i valori dell’operazionalità delle mete educative. L’approccio per competenze svolge la sua missione razionalizzatrice ponendosi come funzione di mediazione, come interfaccia tra esigenze del sistema produttivo e istituzioni formative.
Ma è davvero razionale il progetto di potere dominare e controllare l’insieme delle relazioni che si instaurano nel rapporto educativo?
La razionalizzazione completa delle relazioni pedagogiche comporta la cancellazione del faccia a faccia in classe, la disumanizzazione in un mestiere che di più umano non ce n’è. Programmare le azioni educative non è programmare la produzione di un bene industriale; non ci vuol molto a capire che il percorso formativo non è rettilineo, senza scarti e resistenze e che senza questa consapevolezza si rischia di rasentare la follia(D.Hameline).
In pedagogia bisogna rassegnarsi.
“E’ impossibile aprire il registro delle certezze”(Ph.Meirieu).

MISURABILITTA’ DEI RISULTATI SCOLASTICI

Dire qualcosa con certezza sui risultati d’apprendimento è stato l’obiettivo perseguito per decenni dalle varie correnti di docimologia che hanno coltivato il sogno della misura esatta nella valutazione.
Si è cercato di risolvere il giudizio di valore nel giudizio di realtà, ma ridotta a poche o addirittura ad una sola dimensione;si è voluto espellere dalle operazioni di valutazione la dimensione ermeneutica, quantificando ciò che non è assolutamente e sempre ponderabile.
Il raggiungimento di questo obiettivo è ritenuto funzionale per migliorare le decisioni sull’apprendimento degli alunni, per migliorare la qualità dell’insegnamento, per dare garanzie sulla credibilità dei titoli di studio rilasciati. Disporre di valutazioni esatte per potere regolare sia i processi di apprendimento, ma anche per potere regolare il sistema di istruzione nel suo insieme. Un rigoroso e puntuale sistema di accertamento dei risultati di apprendimento viene ritenuto il fondamento necessario di tutte le azioni di politica scolastica; sorregge il bisogno di informazione sul funzionamento del sistema scolastico, ai fini di una considerazione dell’efficacia e dell’efficienza degli investimenti pubblici destinati ad esso. Qualsiasi società non può non chiedersi se un sistema di istruzione funzioni e quale sia il contributo che ha dato e deve dare alla costruzione della società della conoscenza e all’economia della conoscenza. La scuola non è un’azienda, ma senza dubbio è un’organizzazione che deve essere valutata nelle sue procedure e nei suoi risultati.
Con l’autonomia la valutazione delle procedure e dei risultati di ogni singola scuola dovrebbe essere considerata un servizio per tutti: operatori, utenti, istituzioni.
Il modello della scuola efficace ed efficiente viene formalmente condiviso da tutti, ma i costi che comporta non convincono e non vengono accettati da molti.
L’inefficienza, però, del sistema scolastico e formativo con la quale si convive da tempo comporta danni sociali di una certa gravità: costi elevati senza rendimento, modeste opportunità per coltivare e sviluppare le proprie attitudini, incongruenza con le esigenze della società. Bisogna farsene una ragione: l’aggravamento e la durata delle difficoltà e delle inefficienze della scuola rischiano di mettere in discussione l’esistenza dell’istruzione pubblica e rendono incerta la sua difesa e la sua salvaguardia. Evidentemente alla scuola per essere servizio sociale, istituzione pubblica, luogo di trasmissione dei saperi e di formazione della cittadinanza non può bastare l’economia dell’istruzione; ad essa servono idee sul futuro della società e idee sull’umanità che vorremmo per i nostri giovani.
Il fine primario del sistema scolastico, la sua redditività per usare il lessico economico, è la formazione, l’educazione dei giovani nella più ampia e varia accezione del termine.




Le buone parole della scuola: EQUITA’

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raimondo Giunta

E’ uno dei nodi più difficili da sciogliere nelle scelte di politica scolastica, perchè in genere si intende giocare la sfida dell’equità contro quella ricorrente dell’efficacia, come se non potesse essere garantito quanto è necessario in termini di qualificazioni elevate ed utili alla società, consentendo a tutti pari opportunità di formazione, non lasciando nessuno indietro.
E’ questo un problema che hanno fatto emergere la consapevolezza dell’importanza dell’istruzione nei processi di mobilità sociale e l’insofferenza verso tutte le forme di privilegio sociale, in qualche modo confermate dalla preclusione ad alcuni corsi di studio.
L’istruzione come bene comune è un principio di democrazia che si è fatto strada lentamente nella società ed ha alimentato nei decenni precedenti le lotte politiche tese a renderlo disponibile in una scuola aperta a tutti. L’universalizzazione del diritto all’istruzione e all’educazione è un bisogno della società; è un bisogno di ogni singola persona.
Molti sono stati i modi per affrontare il problema dell’equità a scuola.
La misura ricorrente e iniziale per fare della scuola un’istituzione equa è quella di abbattere ogni forma di barriera al diritto di accesso ad ogni corso di studio.
Non ci sono motivi per sostenerne le ragioni e anche per poterle camuffare.E contro la proclamazione di questo diritto il fatto che si vengano a costituire indirizzi di studio che si distinguono non per le caratteristiche dei propri curricoli ,ma secondo le classi sociali di appartenenza degli alunni che li frequentano. Lo sono anche e soprattutto le cosiddette forme di selezione “cognitiva” (la cui arbitrarietà dovrebbe sempre essere denunciata)per accedere ai corsi a numero chiuso, perchè impediscono a molti giovani di potere dare corso alle proprie aspirazioni e perchè negano il diritto di potersi confrontare con saperi ritenuti importanti per la loro vita. Oltre a questi ostacoli, ma anche se non ci fossero, le vere limitazioni al diritto allo studio e quindi all’equità sono quelle di natura economica-sociale, che impediscono a molti giovani di scegliere o di prolungare la propria carriera scolastica. Basti guardare alle iscrizioni all’università e ai licei, scuole nominalmente e per convenzione sociale più adatte per la carriere accademiche.
La ristrettezza degli aiuti economici (borse di studio, buoni libro) e la mancanza di adeguati servizi (alloggi, mense, trasporti) consolidano questo permanente aspetto dell’iniquità del mondo della scuola e dell’istruzione.
Altro modo per rendere la scuola un’istituzione equa è l’elevamento della scolarità dell’obbligo. C’è un periodo di formazione nella vita di ogni giovane che non può essere negato a nessuno e che necessariamente si dilata nel nostro tempo.
L’innalzamento dell’obbligo scolastico è misura necessaria e adeguata alla società della conoscenza, che rischia di essere inefficace se non viene unita ad una lotta serrata e convinta alla dispersione e se non si dà corso ad un’ampia manutenzione dei curricoli e della didattica.
La permanenza più lunga dentro le aule non risolve da sola il problema di una più estesa e qualificata formazione di tutti i giovani.
La scolarizzazione di questo diritto/obbligo spesso è essa stessa causa di dispersione. L’assenza di un’offerta di formazione professionale articolata, ricca di contenuti, legata al territorio e al mondo del lavoro impedisce di ridimensionare il fenomeno della dispersione e di garantire ad alcuni strati della popolazione giovanile le risorse necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro e per esercitare i diritti di cittadinanza.
Si è ritenuto per molto tempo,oggi un pò meno,che il differimento più lontano possibile delle scelte definitive del tipo di studi fosse una misura per l’equità,che lo fossero i curricoli quanto più possibili unitari.
Molte riforme e molti tentativi di riforma sono stati ispirati da questo convincimento e non solo in Italia.
La differenziazione non è, però, un’invenzione del diavolo; trova spiegazione nella storia dello sviluppo delle istituzioni scolastiche e della società e può essere una soluzione adeguata per valorizzare la pluralità e la differenza dei talenti e delle vocazioni. Trova una sua forte legittimazione solo se ogni indirizzo di studi viene adeguatamente valorizzato e se ogni indirizzo consente di potere proseguire ,se ce ne sono le condizioni, il corso di studi ;se da un indirizzo si possa transitare ad un altro senza particolari difficoltà e se ogni indirizzo è in grado di assegnare a chi lo frequenta il bagaglio necessario per affrontare la navigazione della vita.
C’è un problema di cultura; c’è un problema di orientamento e c’è un problema di stratificazione sociale , quest’ultimo non sempre alla portata della scuola, che bisogna risolvere.
Il rischio di avere indirizzi di studio, socialmente dedicati e frequentati, è dietro l’angolo e non sono solo i curricoli a determinarlo.
C’è sempre un modo per inventarsi un segmento di istruzione che non è alla portata di tutti ed è buono per mantenere intatte le distanze sociali tra gli alunni.
I modi per affrontare il problema dell’equità non sono a costo zero nè per l’amministrazione, nè per il mondo della scuola e dai tentativi messi in atto si vede quanta sensibilità ci sia e quanta volontà per trovare le migliori soluzioni.
Sono di impedimento a volte le regole stesse dell’organizzazione del lavoro e della carriera dell’insegnante.Se non si assegnano gli insegnanti migliori e più esperti con adeguate incentivazioni e tutele alle scuole in zone di disagio sociale difficilmente si può parlare di lotta alla dispersione: i buoni e motivati insegnanti sono la prima E INDISPENSABILE DOTAZIONE TECNOLOGICA PER VINCERE LA BATTAGLIA DEL SUCCESSO SCOLASTICO E DELLE PARI OPPORTUNITA’.