Quello “digitale” è pluriverso

di Marco Guastavigna

Nel silenzio dei più, è arrivata la notizia che Google Bard ha abbassato la soglia dei 18 anni per l’accesso – temporaneamente solo in inglese – ai propri servizi.
L’età minima varia da Paese a Paese, in base alle norme locali, ma la proposta globale è chiara: ci si rivolge ai “teens”, gli adolescenti.

E così siamo di fronte a un’altra tappa dell’universalizzazione dei dispositivi tipici del capitalismo cibernetico, che – già dominante da tempo – ha esteso la propria egemonia operativa, professionale e culturale nel periodo del lockdown, della chiusura delle scuole e del distanziamento delle attività didattiche.
Per sfociare nel PNRR, celebrazione della cessione della logistica dell’istruzione alle multinazionali digitali.

Rarissime sono per contro le occasioni per conoscere e apprezzare l’esistenza di altri dispositivi, tipici invece di mutualismo, cooperazione e condivisione conviviale della conoscenza, intesa come risorsa collettiva per lo sviluppo umano e non come voucher individuale per l’auto-imprenditorialità nella competizione globale.

Alla nuova iniziativa egemonica di Google si dovrebbe rispondere non tacendo rassegnati, ma rafforzando il posizionamento critico nei confronti delle concettualizzazioni correnti, ben riassunta dalla diffusissima espressione “il digitale”.
Questo aggettivo assunto a sostantivo, infatti, costituisce una formulazione “ombrello”, che – paradossalmente – accomuna coloro che ne sono fautori e coloro che ne sono oppositori in una (presunta) condivisione ontologica ed epistemologica, consentendo in realtà a ciascun attore di attribuire senso e significato propri e ostacolando perciò qualsiasi ragionamento davvero analitico. Oltre alla ricerca e all’individuazione di eventuali alternative sul piano sia intellettuale sia pratico.

La contrapposizione corretta, infatti, non è “digitale sì” versus “digitale no”, ma quella tra dispositivi digitali finalizzati alla logistica estrattiva della conoscenza, che, come detto, sono attualmente i più diffusi e conosciuti, e dispositivi digitali a vocazione aperta e decentralizzata. I primi richiedono e attivano competenze che vanno nella direzione dell’accettazione e dell’adattamento al loro modello; i secondi capacità e riflessioni che sviluppano emancipazione. Vediamo perché.

Capitalismo cibernetico

I dispositivi a logistica estrattiva (di cui sono paradigmatiche le diverse branche di Alphabet, la holding a cui appartengono Google Bard e Google Search) hanno un’impostazione operativa fondata sulla valorizzazione delle piattaforme del capitalismo cibernetico in nome dell’efficienza e della velocità di comunicazione; inducono a un consumo cospicuo, ostentato, feticista, compulsivo, di apparecchiature prodotte da marchi a massima notorietà e di software a pagamento; il tutto è per di più soggetto a obsolescenza programmata, per garantirsi ripetuti cicli di acquisto oneroso. Forniscono inoltre servizi apparentemente gratuiti perché money free, ma che in realtà mettono in moto un gigantesco scambio ineguale: il tracciamento delle modalità d’uso e la profilazione di ciascun singolo utente accumulano ed elaborano continuativamente materia prima per profitti mediante azioni di marketing.

Ma l’alternativa c’è

I dispositivi conviviali e decentralizzati (di cui sono paradigmatiche le distribuzioni di Linux e piattaforme come Framasoft), invece, valorizzano la vocazione etica delle attrezzature e delle infrastrutture aperte, l’accesso alle quali non comporta profilazione degli utenti.
Propongono free software, per l’impiego del quale non è richiesto il pagamento di royalties e il cui codice sorgente è spesso open, cioè investigabile e modificabile, in nome della condivisione collettiva e di un equo accrescimento della conoscenza. Offrono esempi di “fair device”, in particolare nel campo degli smartphone, preoccupandosi di prolungarne il ciclo di vita mediante modularità e riparabilità dei componenti e di impiegare sistemi operativi e applicazioni con una richiesta di risorse hardware meno onerosa e più stabile nel tempo rispetto a quella dei software proprietari, in particolare Windows e la suite Office. Curano la riservatezza e permettono, anzi, di operare anche nel pieno anonimato. Il monitoraggio e l’aggregazione dei comportamenti d’uso, infatti, vengono attivati solo se considerati utili per un miglioramento delle funzionalità (come nel caso del motore di ricerca DucKDuckGo), con immediata ed equa ridistribuzione del patrimonio di conoscenza ricavato. Allo stesso modo, l’identificazione degli utenti viene chiesta solo a garanzia della partecipazione, per esempio per proteggere di depositi di dati o di file condivisi o di altre elaborazioni del genere.

Diversi approcci cognitivi

Le due opposte impostazioni operative comportano approcci cognitivi molto distanti tra loro. Apprendere per adattarsi all’uso dei dispositivi digitali a logica estrattiva significa infatti porsi come obiettivo l’acquisizione di capacità individuali, oggetto e criterio di selezione, di competizione e pertanto di graduazione gerarchica nell’istruzione, nella cultura e nel lavoro, secondo una matrice abilista. Imparare competenze professionali implica anche l’allenamento alla frammentazione delle prestazioni e al loro asservimento ai macchinari, tipico del comando e del controllo di algoritmi finalizzati alla produttività.
Analogamente si valorizzano l’inserimento in team il cui obiettivo è il successo sui concorrenti e il loro coordinamento: ne sono testimonianza il successo di metodi di matrice aziendalistica come il debate e le escape room, estesi e intensificati mediante comunicazione e interazione digitali.
Apprendere per emanciparsi collettivamente con i dispositivi digitali conviviali vuol dire, invece, cogliere opportunità collettive di inclusione e partecipazione e di estensione e prolungamento nel tempo delle capacità umane, in termini operativi e culturali e secondo il principio generale del mutualismo e della cooperazione.
La logistica estrattiva della conoscenza, del resto, considera quest’ultima capitale, tanto è vero che pone a fondamento delle opere di ingegno la brevettazione e il copyright, mentre principio fondamentale della logica conviviale e mutualistica sono la conoscenza come bene comune, il già citato free software, codice e contenuti aperti.

E’ il mercato, bellezza…

Nulla di cui stupirsi: i dispositivi digitali del capitalismo cibernetico sono del tutto congruenti con una visione antropocentrica, che concepisce il mercato come supremo regolatore dei rapporti tra gli esseri umani e la natura una risorsa separata dalla società, a cui ricorrere senza limite alcuno. Metafore come quella del cloud (nuvola) supportano del resto una visione “leggera”, auto-assolutoria, che ammanta di pseudo-immaterialità i dispositivi medesimi. Le persone, per altro, sono presentate nella doppia veste di competitor e di consumer naturali, in base ad uno pseudo-realismo, che non concepisce altra metrica sociale che la produttività e la crescita, intesa come consumo di merci.
Ne consegue che internet è sempre più un insieme di agglomerati informativi e comunicativi privatizzati, separati e recintati, che agiscono come infrastrutture razionalmente asservite al sistema di relazioni capitalistico e rappresentano la dimensione tecno-economica del solo progresso possibile.
La visione sottesa rafforza e celebra l’evidenza e la conseguente inevitabilità della supremazia cognitiva e culturale occidentale sulle altre culture del pianeta. È in atto una sorta di sovranismo tecno-utilitarista, che in cui una civiltà superiore punta principalmente all’innovazione, in primis tecnologica e concepita come distruzione creatrice, ovvero capace di rilanciare il basilare meccanismo della concorrenza e della competizione.

Coloro che optano per la cooperazione e il mutualismo anche per via digitale scelgono questa strada perché sono invece consapevoli che l’interdipendenza planetaria e l’inter-specismo sono condizioni essenziali per la salvaguardia dell’ambiente e della vita.
Coloro che realizzano e usano software libero, piattaforme aperte e fair device sottolineano infatti quanto è importante tenere conto dell’impatto ambientale del proliferare dei dispositivi a immaterialità mistificata. L’approccio conviviale, inoltre, non solo si contrappone a questa forza distruttiva, ma pratica l’integrità delle persone coinvolte, prefigurandone un’estensione di massa, che vada oltre le minoranze attuali. Internet va infatti restituita alla sua funzione di infrastruttura senza confini, pubblica, sede di intelligenza collettiva aperta e arcipelago di punti di enunciazione, senza gerarchie di potere epistemologico, economico e logistico. Il rinnovamento – tecnologico ma non soltanto – non deve essere un obiettivo, ma uno strumento di sviluppo equo e democratico, capace di ottimizzare sinergicamente mutamento e continuità.

L’approccio didattico conseguente alla subalternità infrastrutturale, operativa, culturale e professionale all’impianto materiale e ideologico del capitalismo cibernetico assume come finalità soprattutto la preparazione degli studenti al mercato del lavoro, a volte anche precoce. È intessuta di sperimentalismo, senza verifiche di efficacia, e spesso gli obiettivi coincidono in modo davvero banale con le modalità d’uso delle apparecchiature materiali (si pensi ad esempio alle stampanti 3D) o degli applicativi usati.
Vive di episodi ammantati di sensazionalismo, per esempio il volo di un drone nel cortile della scuola; è competitiva ad oltranza, con siti-vetrina, fiere, expo, sfide, pitch, contest inter-scolastici e perfino intra-scolastici.
Del resto, è nel DNA delle furerie digitali scolastiche concorrere per ottenere finanziamenti fondati sulla scarsità e sulla concorrenza. Solo il PNRR sembra andare controcorrente, per introdurre – come già fatto presente – altri tipi di vincoli. In tutte queste articolazioni, si usa un lessico che si riduce per lo più a un gergo subalterno, ricco di slogan, trivializzato, manipolatorio e opacizzante.

L’alternativa: una didattica autenticamente sperimentale

Una didattica con obiettivi emancipanti è ancora assolutamente minoritaria, ma può avere alcune caratteristiche ben precise, che emergono per opposizione.
In primo luogo, deve essere davvero sperimentale, ovvero proporre e verificare ipotesi definite e prevedere impieghi in contesti i cui bisogni formativi siano stati rilevati con attenzione. Si deve porre di volta in volta il problema della scelta consapevole dei dispositivi più adatti alla situazione in cui opera, considerando anche le alternative. Deve conseguentemente operare la decostruzione della visione e delle pratiche mainstream, perché deve utilizzare, costruire e diffondere invece un linguaggio autodeterminato, ovvero analitico, capace di significato autenticamente professionale e demistificante l’approccio tecnocratico e il tecno-entusiasmo acritico.

La recente irruzione dell’intelligenza artificiale nel campo della conoscenza e dell’istruzione, del resto, prospetta un altro campo di confronto e scontro tra l’approccio maggioritario, subordinato alle nuove magnifiche sorti e progressive dell’oligopolio digitale, e un minoritario posizionamento critico, emancipato ed emancipante. Di fronte alle mega-macchine predittive fondate su modelli a correlazione statistica, il primo atteggiamento magnifica l’efficacia della traduzione di processi complessi in materiale computabile, in nome dell’efficacia.
L’intelligenza di un dispositivo viene infatti misurata su base prestazionale, ovvero in rapporto ai risultati ottenuti: ontologia ed epistemologia scivolano nel marketing concettuale dell’entusiastico ricorso all’oracolo digitale di turno. Da questa visione derivano comportamenti di massa acritici, in particolare – una volta superata (con grande fatica!) l’idea che ChatGPT rappresentasse l’intero settore – l’esplorazione compiaciutamente empirica delle varie funzionalità delle applicazioni etichettabili come “AI”.
Insomma: la privatizzazione della conoscenza collettiva, l’esaltazione del soluzionismo tecnologico competitivo e dirompente e l’algocrazia (il controllo e la regolazione dei comportamenti umani mediante mega-macchine di calcolo a comando capitalistico) hanno riportato una nuova esaltante vittoria culturale e antropologica.

Il secondo approccio ha invece come focus la decostruzione dell’IA: interpreta la riduzione statistica e la ricerca della computabilità come vincoli, che spingono a naturalizzare e perpetuare il modello socio-economico corrente, a immaginare il probabile anziché il possibile, il modificabile.
In questo campo sono quanto mai necessarie concettualizzazioni autonome e analitiche, che disertino ogni standardizzazione della mentalità, e la denuncia dell’agire oligopolistico delle corporation di settore, la cui capacità di elaborazione di BigData e di costruzione di BigCorpora dinamici dipendono da una potenza di calcolo e infrastrutturale ineguagliabile da altri soggetti. Così come vanno poste domande in campo algoretico: non solo “cosa?” e “come?”, ma anche “perché (finale e causale)?” e “se”, inteso come vaglio delle potenziali conseguenze di ciascuna scelta o di ogni soluzione, senza dare nulla per scontato.

L’approccio subordinato caratterizza del resto anche l’attuale formazione massiva degli insegnanti e del personale scolastico in genere. L’innovazione è un obiettivo e un metodo, non più uno strumento da usare con ragionevolezza ed equità. La soluzione di continuità dirompente una finalità strategica. Ad affermare il primato tecnocratico campeggia il riferimento al Syllabus STEM come riferimento principale per le capacità da acquisire e da sviluppare nella didattica. A gerarchizzare definitivamente i ruoli concorre poi la recente – e grottescamente sessista – differenziazione in 6 livelli (Novizio, Esploratore, Sperimentatore, Esperto, Leader, Pioniere), per altro perfettamente congruente con quanto avvenuto in precedenza, dall’esaltazione dell’empirismo delle (presunte) buone pratiche all’emulazione delle cosiddette “avanguardie educative”.

L’approccio emancipante alla e della formazione è in questo periodo assolutamente minoritario e frammentato. Anche in questo caso sono però individuabili per contrasto gli aspetti più importanti per il recupero e la riaffermazione del diritto all’autodeterminazione professionale, intellettuale e culturale, collettiva prima ancora che individuale. La formazione deve infatti essere assegnazione autonoma e dialogica di senso e significato dell’utilizzo di dispositivi digitali analizzati e – se necessario – decostruiti, in rapporto a contesti definiti con certezza e lucidità in termini di bisogni e di potenziali valori aggiunti.
L’analisi dei dispositivi deve prestare attenzione alla potenziale dequalificazione dell’agire cognitivo, rifiutando, per esempio, ogni possibilità di sostituzione da parte di dispositivi di intelligenza artificiale, non per un’astratta difesa della categoria dei docenti, ma perché si tratterebbe di un impoverimento delle relazioni umane e della creatività in favore della maggiore probabilità, dell’omogeneizzazione che appiattisce. Impostare percorsi di formazione di questo genere significa perseguire – e prima ancora accettare – l’Ibridazione del sapere richiesta dalla trattazione non di skill e/o di applicativi in chiave funzionale, ma di temi generatori di riflessione e consapevolezza. Un contributo in questa direzione può arrivare dall’impostazione Stepwise, una proposta di educazione scientifica direttamente finalizzata all’azione civica per il recupero dei danni sociali ed ambientali, che si contrappone a pratiche neoliberiste quali la sterilizzazione dell’educazione STEM dagli aspetti economici ed etici e dal rapporto tra sfera pubblica e finanziamenti ed interessi privati.
Vi sono almeno due temi che possono essere oggetto di formazione secondo questa modalità, entrambi già citati: smartphone e intelligenza artificiale, in un quadro che ne affronti non solo la dimensione tecnico-funzionale, ma tutti gli intrecci culturali, sociali, economici, psicologici, giuridici, etici, geopolitici e di impatto sull’ambiente.




Scuola bene comune, un libro che spiega perché la nostra scuola è malata e cosa fare per farla stare meglio

di Stefano Stefanel

È uscito da poco un libro di Aluisi Tosolini, dal titolo molto intelligente: “Scuola bene comune” (Edizioni EMI, Brescia 2023), che parla di scuola e sulla scuola. Che la scuola sia realmente un “bene comune”, come l’acqua, è cosa molto chiara all’Europa, ma molto meno chiara all’Italia, dove riforme raffazzonate e politiche incomprensibili hanno supportato gli interventi della politica, nel complesso tutti tesi a smontare quello che il compianto Luigi Berlinguer aveva costruito. Prevenendo e prevedendo la crisi sistematica dei sistemi dell’istruzione l’Europa ha avviato percorsi di analisi (i “libri bianchi” ed “Education at Glance”, il “periodico” annuale sulla scuola dell’OCSE), poi programmi ambiziosi (Lisbona 2010, EU 2020 e l’attuale Next Generation Eu da noi ribattezzato, chissà perché, PNRR), infine linee di progetto con ampi finanziamenti al seguito. In Italia la risposta è stata inizialmente ottima con la trasformazione della scuola italiana nell’ambito di un’autonomia di rango costituzionale per poi perdersi dentro riforme partitiche, settoriali, casuali. L’Europa ha fatto il suo percorso con una linearità e una consecuzione che Aluisi Tosolini ricostruisce mirabilmente, rimandando ad una serie di importanti documenti con grande precisione e attenzione. Se si segue la linea narrativa di Tosolini si può ricostruire con attenzione il quadro d’insieme che ha portato l’Italia dove è ora (cioè, nelle parti basse dei sistemi dell’istruzione dell’area Ocse). Ma si può anche comprendere come il sistema scolastico italiano, dentro i suoi quotidiani contorcimenti tra modalità ripetitive e ferrei diritti sindacali difficilmente potrà in tempi brevi uscire dalla crisi.

MA COS’E’ QUESTA CRISI

Lasciamo la parola a Tosolini: “il quadro complessivo segnala oggi un aumento significativo a livello mondiale della disuguaglianza in tutti gli ambiti e settori” (pag. 35). Questa disuguaglianza fa il paio con la drammatica ascesa delle povertà educative: “la correlazione tra povertà e povertà educativa è nota e conclamata” (pag. 44) e tutto questo porta ad una progressiva perdita di learning loss, ovvero “perdita di apprendimento” (pag. 45). Questo corto circuito sta avvelenando i sistemi dell’istruzione, a cominciare dai più fragili, cioè da quelli come il nostro. E tutti i soldi che vengono trasmessi oggi alle scuole, senza un quadro di riferimento chiaro, poco potranno fare. Ma come può esserci un quadro di riferimento chiaro, quando il percorso narrato da Tosolini è sconosciuto alla gran parte dei dirigenti e dei docenti italiani, ancora alle prese con le modalità didattiche ed educative sedimentatesi negli Anni Settanta del secolo scorso? Su questo Tosolini è molto chiaro e preciso: senza una comprensione chiara dello scenario digitale e globalizzato in cui è inserita la scuola si può poco o nulla. Tosolini rimanda agli obiettivi dell’OCSE e ne isola due: “la definizione di global competence e l’aggiornamento del concetto di competenza” e “la rivisitazione del concetto di apprendimento e ambiente di apprendimento” (pag. 89). È chiaro che, mentre l’OCSE modifica i suoi parametri, in Italia stiamo tornando ai dibattiti sui voti, sui contenuti, sulla didattica trasmissiva, sulle bocciature, siamo cioè ripiombati nell’altrove più lontano da quelli che sono gli elementi di progresso cognitivo, dentro il poderoso avanzamento della serrata difesa dell’insegnamento da qualunque attacco portato dalle obiettive necessità dell’apprendimento.

Interessante come Aluisi Tosolini analizza l’Obiettivo n° 4 dell’Agenda 2030: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Questo obiettivo, all’apparenza ovvio, contiene un elemento di grande profondità che modifica gli equilibri dei sistemi formativi. Nell’obiettivo si citano la qualità, l’equità, l’inclusività e le opportunità di apprendimento, ma non si parla di eguaglianza? Perché ci si domanda allora? E il libro di Tosolini fornisce il percorso per comprendere come rispondere a questa domanda: perché l’eguaglianza si costruisce dentro una cultura della pace, dentro uno sviluppo delle competenze, dentro un’equità che permetta a tutti di essere inclusi. Purtroppo, quindi, dentro un percorso lontano da quello che prevede il sistema dell’istruzione italiano, in cui all’eguaglianza dichiarata non corrisponde una vera equità di fatto: come si dice spesso, l’ascensore sociale ha smesso di funzionare. Se la scuola è un bene comune che va rafforzato ecco che allora è necessario riprendere in mano le modalità di costruzione dell’apprendimento: “vanno incoraggiate condizioni di autonomia, flessibilità e agire collaborativo”, cioè quegli elementi che le classi di concorso, i rigidi orari, le valutazioni docimologiche, il rapporto irrisolto col sapere informale e non  formale condizionano in maniera decisiva in ogni serio tentativo di far uscire il sistema scolastico italiano dalle secche delle sua difficoltà. E infatti Aluisi Tosolini ci riporta alla necessità di “rispondere alla crisi globale dell’istruzione, che riguarda l’equità e l’inclusione, la qualità e la pertinenza” (pag. 73) e quindi non verso una generica eguaglianza dichiarata da tutti e praticata da pochi, con richiami costanti a don Milani di maniera e non di contenuto, ma dentro un sistema equo e riflessivo, più professionale (pag. 72: “l’insegnamento deve essere ulteriormente professionalizzato”).

L’EDUCAZIONE TRASFORMATIVA

Un passaggio essenziale del bel libro di Tosolini è quello che richiama la necessità e l’importanza di ragionare in termini di “educazione trasformativa” (pag. 77), cioè di un sapere sempre in movimento dentro i due grandi elementi della nostra contemporaneità, che Tosolini affronta in due appositi capitoli: il digitale e la pace. Se non comprendiamo che quella del digitale è una sfida ineludibile e quella della pace una cultura che va costruita, ci limiteremo a sperare che improvvisamente gli smartphone spariscano dalla scuola e a constatare che la pace è solo una bandiera colorata da sventolare alle manifestazioni. In realtà il percorso trasformativo della conoscenza passa attraverso la trasformazione di un sapere statico ed autoreferenziale in un sapere trasformativo che può cambiare le cose.  Troppo puntuale per essere eludibile il libro di Tosolini ci aiuta a capire che cosa è successo con una mole documentale che dovrebbe diventare patrimonio comune per farci costruisce quella “scuola bene comune” che poggia su solide fondamenta e che non affonda, invece, nella melma di un dibattito pubblico veramente avvilente.

 




Concorso ispettivo: legulei ed esperti di contabilità dovranno accertare competenze socio-pedagogiche

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Mario Maviglia

A breve (la locuzione avverbiale “breve” nel lessico della burocrazia ministeriale ha un significato del tutto diverso dal linguaggio comune degli umani…) dovrebbe essere emanato il bando di concorso per l’assunzione a tempo indeterminato di 145 dirigenti tecnici con funzioni ispettive del Ministero dell’istruzione e del merito. Data la rarefazione di questo evento (paragonabile, nel nostro sistema politico-istituzionale, alla nomina, ogni sette anni, del Presidente della Repubblica…), l’attesa è quanto mai spasmodica, e infatti molti studi legali si stanno già organizzando per assistere efficacemente i candidati che verranno “bocciati” nell’inevitabile contenzioso che ne scaturirà.

Tutti si augurano, ovviamente, che le cose si svolgano nelle forme più regolari possibili per evitare ricorsi e contenziosi vari, ma siamo in Italia, patria del diritto, e insomma un contenzioso non lo si nega a nessuno.

C’è un aspetto che però i vari legulei forse non considereranno abbastanza nelle loro azioni legali (non si chiede alcun compenso per il suggerimento che ne facciamo qui…) e riguarda la correlazione (match, direbbero gli anglofoni) tra le competenze richieste per svolgere la funzione tecnico-ispettiva (per come si evince dalla bozza di Schema di Regolamento che il MIM ha trasmesso al CSPI per il previsto parere) e la composizione della Commissione giudicatrice del concorso (sempre secondo quanto previsto dallo Schema di Regolamento). Infatti, se si analizzano le competenze richieste ai candidati dirigenti tecnici, troviamo sei settori di competenze molto ben strutturati sul piano tecnico-professionale e che fanno riferimento essenzialmente ad ambiti di tipo socio-psico-pedagogico: a) competenze in ambito educativo, pedagogico e didattico; b) competenze finalizzate al sostegno, alla progettazione e al supporto dei processi formativi; c) competenze finalizzate a supportare il processo di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche; d) competenze – sotto il profilo tecnico-scientifico – nelle attività di analisi, studio, ricerca sui processi educativi nazionali e internazionali a supporto dell’Amministrazione; e) competenze nell’ambito degli accertamenti ispettivi, con particolare riferimento agli aspetti didattici, organizzativi, contabili e amministrativi, anche nell’ambito del monitoraggio, del controllo e della verifica della permanenza dei requisiti previsti per il funzionamento delle istituzioni scolastiche paritarie e delle scuole non paritarie; f) competenze nell’ambito relazionale.

In realtà le prove d’esame, come sottolinea lo Schema di Regolamento, sono volte anche ad accertare le conoscenze del candidato in vari ambiti e materie, puntigliosamente riportati negli Allegati B) e C) dello Schema, e fortemente marcati in senso giuridico-amministrativo, tanto che il CSPI nel suo parere ha suggerito, in vari passaggi, di dare maggiore spazio a materie quali didattica generale, pedagogia generale e sociale, pedagogia e didattica speciale, sociologia generale, a scapito di materie afferenti lato sensu al diritto. Ma è facile immaginare che saranno soprattutto le conoscenze di tipo giuridico a fare la parte da leone nell’economia complessiva della valutazione dei candidati e questo per un motivo molto semplice legato alla composizione della Commissione d’esame. Infatti, dei cinque membri previsti dallo Schema di Regolamento, tre sono scelti tra i dirigenti appartenenti ai ruoli del Ministero che ricoprano o abbiano ricoperto un incarico di funzioni dirigenziali generali ovvero tra i professori di prima e di seconda fascia di università statali e non statali, i magistrati amministrativi, i magistrati ordinari, i magistrati contabili, gli avvocati dello Stato, i prefetti; e due vengono scelti fra i dirigenti non generali dell’area delle funzioni centrali appartenenti ai ruoli del Ministero. Non viene contemplata esplicitamente la presenza di un dirigente tecnico tra i commissari d’esame, anche se può essere fatta rientrare tra i “dirigenti non generali”. In ogni caso, c’è da chiedersi come può la Commissione verificare il possesso dei sei ambiti di competenze descritti sopra se al proprio interno non vi sono le competenze professionali specifiche. Il problema sembra peraltro tenuto presente dalla stesso Schema di Regolamento laddove prevede che “la commissione esaminatrice e le sottocommissioni possono essere altresì integrate ciascuna anche da membri aggregati esperti in selezione e valutazione del personale e/o in psicologia e/o in risorse umane.” Ma allora perché non inserire questa figura già all’interno della Commissione in forma stabile e non solo come possibilità?

Per tutti questi motivi, è facile prevedere che – come al solito – ciò che maggiormente interesserà i commissari sarà l’apparato burocratico delle conoscenze dei candidati, con buona pace del complesso delle competenze socio-psico-pedagogiche descritte sopra. D’altro canto, se tra i commissari figurano magistrati amministrativi, ordinari, contabili, avvocati dello Stato, prefetti o dirigenti amministrativi, non è azzardato supporre che il loro orizzonte professionale è costituito da norme, leggi e architetture istituzionali. Risulta difficile immaginare che abbiano dimestichezza con Dewey, Vygotskij o De Bartolomeis, o con campi del sapere come il socio-costruttivismo, la pedagogia attiva, le neuroscienze in campo educativo, o la valutazione di sistemi complessi ecc., a meno che, per strane alchimie epistemologiche, nel loro percorso professionale non siano venuti a contatti con questi ambiti. Ma nella selezione di figure così fortemente contrassegnate sul piano tecnico-professionale quali sono i dirigenti tecnici ci si può affidare a esaminatori così fortemente addentro in altri ambiti collaterali? È come se un’azienda nel selezionare psicologi si affidasse a esaminatori come ingegneri nucleari o esperti di marketing o avvocati professionisti.

Una possibile ragione di tutto ciò può essere la seguente: il management politico-amministrativo che ha redatto lo Schema di Regolamento del concorso per DT ha una visione giuridico-amministrativa della scuola, e non può che essere così in quanto quello è l’orizzonte culturale all’interno del quale si muove a proprio agio. Che questo orizzonte sia in grado di selezionare i futuri bravi dirigenti tecnici della scuola è come pensare che un architetto urbanista sia in grado di selezionare i macchinisti dei tram urbani.




I programmi del ’45 – Le indicazione metodologiche

di Franca Da Re 

Clicca qui per leggere la prima parte di questo saggio

Le indicazioni metodologiche nei programmi della scuola elementare del 1945[1]

Nella Premessa dei Programmi, oltre alle finalità connesse alla formazione del cittadino nel nuovo Stato democratico, si insiste molto sulla necessità di mantenere unità nell’insegnamento, superando la partizione tra materie. Si raccomanda di valorizzare il lavoro di gruppo, la collaborazione tra scolari, l’apprendimento basato sull’esperienza, lo sviluppo delle capacità di autogoverno dei ragazzi, che comprende anche la possibilità che essi partecipino alla definizione delle attività da realizzare.

Non si prescrive ai maestri alcun metodo particolare; essi saranno liberi di utilizzare le tecniche e le strategie che più riterranno opportune, a patto di raggiungere le finalità educative prefissate. Al maestro si raccomanda di “intendere l’intima connessione esistente tra i problemi della cultura e quelli del lavoro”.

I Programmi determinano le materie di insegnamento: 1) Religione; 2) Educazione morale, civile e fisica; 3) Lavoro; 4) Lingua italiana; 5) Storia e geografia; 6) Aritmetica e geometria; 7) Scienze e igiene; 8) Disegno e bella scrittura; 9) Canto.
Non fissano, però un orario delle lezioni predeterminato, richiamandosi proprio all’unità di insegnamento, pur raccomandando ai maestri di formulare un accurato piano di lavoro:

“L’unità dell’insegnamento, che sta alla base di questi programmi e la necessità, da parte dell’insegnante, di svolgere la sua opera in rapporto alle reali condizioni della scolaresca e alle esigenze locali, non hanno consigliato la formulazione di un orario ufficiale delle lezioni. Ciò non toglie che l’insegnante debba seguire un piano di lavoro e formulare un orario settimanale e giornaliero delle lezioni stesse. Nella preparazione di tale piano, e sopratutto nelle inevitabili varianti suggerite dalle circostanze, gli alunni potranno esercitare il diritto d’iniziativa, che consiste nella libertà di proporre al maestro lo svolgimento di particolari argomenti o attività in rapporto a loro reali e sentite esigenze. Così ad esempio un gruppo di alunni potrà prospettare il desiderio di svolgere una determinata attività manuale o di organizzare una data ricerca, provocando in tal modo la revisione del piano di lavoro. (…)

Per quanto concerne le votazioni, l’Educazione morale, civile e fisica comprende anche la condotta. Non si assegnano voti di Lavoro, Storia e geografia, Scienze e igiene, Canto nelle prime due classi.”

Per quanto riguarda la Religione, ricordiamo che il carattere originariamente interconfessionale e laico del testo, più orientato all’educazione religiosa previsto dalla Commissione Alleata, fu rimaneggiato su pressione dei cattolici presenti nel Governo provvisorio. Il testo definitivo, pertanto, è ricondotto pienamente nell’alveo della confessione cattolica. I contenuti si riferiscono alle Scritture, alle preghiere più comuni, alla vita di Gesù e dei Santi, ai Sacramenti e alle Opere di misericordia, alle principali feste religiose e alle tradizioni agiografiche locali. Tuttavia, si raccomanda che:

“Nulla di pesante turbi la spiegazione delle parti dogmatiche del programma. La norma religiosa derivi da una spontanea adesione dello spirito ai principi del Vangelo e dall’evidenza dei rapporti fra tali principi e la legge morale e civile. L’insegnante può trarre argomento di educazione religiosa anche dalle altre materie del programma. Apposite figurazioni e soprattutto riproduzioni di capolavori d’arte sacra, possono giovare all’efficacia di questo insegnamento.”

Dell’educazione morale, civile e fisica si era detto in un precedente contributo.

A proposito della disciplina Lavoro, esso è distinto in tre tipologie: lavoro artigiano, lavoro agricolo, lavoro femminile. La finalità della disciplina è straordinariamente coerente con le previsioni che la nuova Costituzione conterrà a proposito del lavoro. Si afferma che è necessario che le nuove generazioni riconoscano nel lavoro la principale risorsa per l’economia e il mezzo più efficace per la rinascita nazionale. Solo con il lavoro, si dice, si possono stabilire saldi e pacifici rapporti di collaborazione tra i popoli. I lavori proposti ai ragazzi dovrebbero sempre rivestire carattere di utilità. I piccoli lavori di artigianato dovrebbero vertere su semplici sussidi, manufatti a supporto delle materie di studio, arnesi per il lavoro in classe. Il lavoro deve avere sempre valenza educativa: educare l’occhio, la mano, il gusto, l’immaginazione e nello stesso tempo la tensione a fare da sé. Nel lavoro, si dice, confluiscono tutti gli insegnamenti, specialmente quello del disegno, che permette l’ideazione e la progettazione di manufatti precisi. Quando il lavoro lo consente, si incoraggi la costituzione di cooperative tra ragazzi che attuino semplici forme di lavoro collettivo per squadre o per serie progressive. Il lavoro agricolo potrà essere attuato negli appezzamenti di terreno nelle pertinenze delle scuole e potrà essere di supporto anche allo studio delle scienze. La realizzazione di semplici esperimenti agricoli potrà aiutare i futuri piccoli coltivatori ad affrontare il lavoro su un piano più tecnico e razionale. Si potranno anche effettuare visite alle aziende agricole.

Il lavoro femminile dovrà contribuire alla formazione della donna, non solo per l’utilità alla vita domestica, ma anche per la sua funzione rasserenatrice, poiché, si dice, i lavori di cucito, di maglieria, di ricamo, inducono alla calma e richiedono cura e attenzione. La maestra non disdegni il rattoppo e il rammendo, utili all’economia domestica e tenga conto che principalmente alla donna è affidata l’economia della casa. Si evitino, comunque, le mostre dei lavori degli alunni. I manufatti dovranno avere utilità pratica e potranno essere destinati anche a scopi di assistenza sociale.

Con riferimento alla lingua italiana, si raccomanda di dare impulso all’apprendimento della lingua attraverso la lettura e la scrittura. Per l’apprendimento della lettoscrittura non viene prescritto un particolare metodo, ma si raccomanda di tenere sempre sotto controllo il progredire di tutti gli alunni, anche con l’organizzazione di gruppi omogenei, ma senza pretendere di livellare la classe.

Il primo periodo di scolarizzazione sia dedicato alla familiarizzazione con l’ambiente attraverso il disegno, giochi, canti, conversazioni. Le letture e le conversazioni serviranno anche ad introdurre il lavoro sulla lingua. Nel progredire del lavoro, si sconsiglia il dettato ortografico e la correzione collettiva. Il brano da scrivere sarà scelto possibilmente dall’alunno e avrà significato logico. La correzione dovrà privilegiare lo sforzo dell’alunno stesso a trovare l’errore e ad autocorreggerlo. La conversazione ordinata e corretta dovrà essere incoraggiata in tutte le classi, perché il tempo ad esso dedicato “è utilmente impiegato”. Si incoraggi la lettura e si dia molta cura alla biblioteca scolastica, con libri adatti all’età e buoni giornalini. Il prestito dei libri anche a casa, sia dato senza restrizioni, perché “è meglio vedere libri che per l’uso si sono sgualciti, piuttosto che una bella collana di volumetti immacolati e intonsi.” Il maestro dia esempio di buona lettura e abbia cura di educare all’espressività, correggendo false cadenze, enfasi, monotonia, sciatteria. La lettura e la scrittura serviranno anche allo sviluppo delle conoscenze grammaticali e sintattiche. Si raccomanda di non trattare la grammatica con apprendimenti mnemonici di classificazioni e con esercizi privi di significato, ma di reperire dal testo le corrette forme e di riflettere su di esso per evidenziare le strutture della frase e le parti del discorso. La composizione dovrebbe sempre avere senso e significato: una lettera familiare o di affari, una domanda di impiego, una relazione, telegrammi o fonogrammi, tutti scritti con chiarezza e precisione. Dal punto di vista dell’educazione sociale, sarà utile incoraggiare gli alunni a curare da soli la redazione e pubblicazione di un giornalino.

Per quanto riguarda la storia e la geografia, il testo dei programmi è chiaro nell’esplicitarne la finalità.

“La necessità di un’intima connessione tra l’insegnamento della storia e quello della geografia deriva, più che da un semplice e ormai riconosciuto legame di interdipendenza delle due discipline, da una loro profonda concomitanza di fini in rapporto alla vita civile e sociale. Infatti sia la storia che la geografia – quando la prima non si risolva in una cronologia di guerra e di vicende dinastiche, e la seconda in un’arida nomenclatura – mirano a seguire e a spiegare il cammino della civiltà, considerando la terra come la sede dell’uomo. Ne consegue che il maestro dovrà costantemente esaminare i fatti storici nella loro intima connessione con quelli geografici, illustrando al fanciullo, sia pure in forma intuitiva elementarissima, i rapporti del mondo umano con quello naturale. Riuscirà tuttavia vano ogni sforzo per liberare l’insegnamento della storia dal suo groviglio di guerre e di tirannie, di rivalità dinastiche e di sterili combinazioni politiche, se non supereremo, una volta per sempre, la passione nazionalistica che nel recente passato riuscì a sviare anche la geografia dall’obiettiva valutazione delle forze economiche mondiali con la concezione delle utopie autarchiche. L’insegnamento della storia e della geografia dovrà finalmente diventare un insegnamento morale dopo la tragica esperienza sofferta dall’umanità. (…)

È evidente che i motivi programmatici indicati vogliono anche essere un invito rivolto al maestro di rinnovare la propria preparazione storico-geografica nel senso sopra esposto, condizione necessaria questa perché’ l’insegnamento risulti attraente, vivo e veramente efficace per l’educazione morale e civile. Il maestro intelligente saprà, inoltre, fare uso di tutti quei sussidi che contribuiscono alla concretezza di tale insegnamento, come cartine storiche, carte geografiche e topografiche, plastici, illustrazioni e letture scelte, poesie di contenuto storico, visite a monumenti e musei, escursioni d’interesse storico-geografico, osservazione di oggetti caratteristici del passato, corrispondenza interscolastica, esame e valutazione dei fenomeni naturali in rapporto all’economia locale, ecc. Per la geografia, in particolare, si raccomanda l’uso costante della carta geografica, che l’alunno dovrà saper leggere con sicurezza. Ed è inutile aggiungere che anche per questi insegnamenti occorre far leva sull’iniziativa, la spontanea volontà di ricerca e di studio degli scolari.”

 Anche per quanto concerne l’Aritmetica e la Geometria, i Programmi sono attenti all’ aderenza della disciplina all’esperienza concreta e allo sviluppo dell’autonoma capacità di analisi e ragionamento dell’alunno. La matematica, pur con l’attenzione al rigore concettuale e metodologico, è vista come disciplina necessaria alla vita e alla soluzione di problemi e le sue strutture dovrebbero essere acquisite proprio a partire dalle situazioni e dai problemi stessi.

L’insegnamento dell’aritmetica e della geometria, principalmente nelle prime classi, deve tener nel dovuto conto le immagini e le intuizioni di grandezza, di numero, di forma e di distanza che animano e arricchiscono il mondo in cui il bambino si va formando. Contare le cose a giudicarle quantitativamente, rilevare linee e figure è per il bambino esercizio gradito, dal quale deve partire e a cui deve continuamente riferirsi il lavoro di scoperta che egli compie in collaborazione con il maestro e i condiscepoli, in forma libera e autonoma, nuova, varia, attuale, più conversando che scrivendo. Negli esercizi di calcolo, nello studio del sistema metrico, delle frazioni, della geometria, nell’acquisto delle cognizioni di computisteria, nella formazione e risoluzione dei problemi, è necessario che il maestro valorizzi al massimo le possibilità intuitive degli alunni.

(…) Così, ad esempio, le idee di spesa, ricavato, guadagno e dei rapporti relativi a quelle riguardanti l’entità di un lavoro, il numero delle persone ad esso adibite, il tempo necessario all’esecuzione e i rapporti tra tali dati, ben determinate che siano, costituiranno il mezzo sicuro per la risoluzione di ogni questione affine. Nella formulazione di problemi ed esercizi, lavoro da farsi anche questo possibilmente dagli scolari, gioverà utilizzare, correggendole se del caso, le conoscenze che i fanciulli hanno sui prezzi delle cose, sulle tariffe di trasporto, sui salari, sugli stipendi, sui compensi della mano d’opera, ecc., perché’ possa, anche così, stabilirsi una piena aderenza tra la scuola e la vita. Ciò che più importa, nella pratica dell’aritmetica, è di farne intuire il valore sociale, mettendo l’alunno in condizione di vivere reali situazioni di carattere economico, affinché’ possa padroneggiarle. Particolarmente indicate, per questo, sono le forme di cooperativismo scolastico.  Si avrà cura che l’enunciato dei problemi e degli esercizi sia chiaro, per evitare deviazioni ed errori nella risoluzione. Ogni problema venga prima risolto per intero mediante un processo atto a rivelare e formare le possibilità ragionative dello scolaro, il quale soltanto in un secondo momento passerà all’esecuzione delle operazioni. In ogni caso gli alunni saranno condotti a controllare le loro risposte, mediante tipi di domande logiche e progressive, che li inducano alla riflessione sulle soluzioni proposte. Solo così essi riusciranno a costruirsi un sistema coerente, a raggiungere cioè una tecnica aritmetica personale, nei limiti della loro esperienza. Per gli esercizi di numerazione e di calcolo intuitivo nelle prime classi, il buon senso ha ormai condannato il vecchio pallottoliere, come tipica espressione dei sussidi didattici preformati e usati fino alla noia, con scadimento di qualsiasi interesse. Il vario, il nuovo, l’occasionale e tutti i mezzi sussidiari che rispondono a questi requisiti saranno meglio indicati per i predetti esercizi, che possono pure giovarsi dei giochi, del disegno e del lavoro. Anche l’insegnamento del sistema metrico deve essere liberato dai formalismi del passato e dal peso degli interminabili esercizi scritti di riduzione. Oralmente, e sempre per le vie delle misurazioni pratiche, del giudizio e del ragionamento, si riuscirà meglio e più presto a chiarire i concetti di valore ed entità di ciascuna misura e dei rapporti corrispondenti.”

Particolarmente interessante, per contestualizzare la scuola nell’epoca, è il richiamo all’importanza della computisteria e alla tenuta di scritture contabili.

Scienze ed Igiene sono insegnamenti che particolarmente si prestano agli orientamenti dei programmi diretti alla valorizzazione dell’esperienza, all’apprendimento per scoperta e per ricerca e all’acquisizione del metodo scientifico e della capacità di pensare razionalmente, basandosi su dati.

“L’esercizio continuato all’osservazione attenta e alla riflessione, alle prove e agli esperimenti, induce ad essere cauti nelle ipotesi, prudenti nelle affermazioni, equilibrati nel giudizio, a ricercare con pazienza le cause dei fenomeni, a dedurre gli effetti, eliminando quelle forme di superficialità, leggerezza e faciloneria proprie non soltanto dell’età infantile. Occorre quindi che questo insegnamento non si riduca alle consuete classificazioni, alla enunciazione di leggi e di definizioni proprie di altre età e di gradi superiori di studio. Non ha importanza che il fanciullo sappia ripetere meccanicamente determinate nozioni; l’essenziale è che egli vi pervenga attraverso uno sforzo e un contributo personale di ricerca, stimolato da un desiderio di sapere e di ordinare meglio e chiarire le proprie intuizioni.”

Soprattutto dalla classe terza, l’insegnamento si baserà su esperimenti, ricerche, osservazioni sistematiche, escursioni, tenuta di quaderni di campagna, raccolta e classificazione di reperti. Anche per le scienze, si richiama l’importanza delle esperienze di lavori agrari, attraverso le visite alle fattorie e la tenuta dell’orto scolastico.

Molta attenzione è dedicata alle norme di igiene personale e all’educazione a stili di vita sani. Particolare attenzione si riserva alla riflessione sull’igiene e la sicurezza sul lavoro e quindi alla prevenzione di infortuni durante le attività di movimento e di lavoro. Il maestro curerà anche l’esplorazione degli ambienti, proprio alla ricerca di possibili fonti di pericolo e relativi comportamenti di prevenzione. Particolarmente interessante l’indicazione di tenere un quaderno della salute dove gli alunni potranno realizzare questionari e annotare le osservazioni relative all’esplorazione degli ambienti. Infine, i Programmi richiamano all’importanza di sviluppare negli alunni il metodo scientifico e della ricerca.

A Disegno e bella scrittura è riservata un’attenzione non meno importante che agli altri insegnamenti. Si raccomanda ai maestri di curare particolarmente la precisione, accuratezza, chiarezza della scrittura. Attraverso l’esercizio della calligrafia, si eserciteranno anche l’autocontrollo, l’ordine, la pulizia, il senso estetico.

Il disegno partirà nei primi anni dall’espressione libera, via via affinata nella cura delle forme e dei colori, per passare poi al disegno dal vero su soggetti scelti dallo scolaro. Il maestro affinerà le espressioni artistiche dei ragazzi insegnando a correggere le storture, ad usare la prospettiva, come ottenere scorci, gamme di scolori realizzare figure in movimento… Non ci saranno lezioni formali, ma sarà la stessa opera degli alunni la fonte dei progressivi insegnamenti. Il disegno sarà di supporto ai diversi insegnamenti, dalle raffigurazioni utili in storia, ai disegni per le scienze, alla redazione di carte in geografia, di schemi e rappresentazioni di quantità in matematica, al disegno tecnico nel lavoro.

Il Canto, come libera espressione del bambino, sarà progressivamente educato attraverso il canto corale, fino a diventare espressione artistica. Il canto corale verrà esercitato con la riproduzione di canti tradizionali, religiosi, patriottici e di opere dei grandi musicisti. Il canto “educa il sentimento sociale, affratellando gli animi attraverso una forma collettiva d’espressione artistica.”

Particolarmente interessante è l’Allegato B ai Programmi, che detta prescrizioni su come dovrebbero essere organizzati i libri di lettura e i sussidiari.
Anche in questo caso, il richiamo è sempre a realizzare opere accattivanti nei colori e nelle immagini, ad evitare aride classificazioni e invece privilegiare buoni brani di lettura, scritti in buona lingua e che stimolino la riflessione, contribuendo all’educazione morale e civile.

“I sussidiari, quindi, allontanandosi dai sistemi prevalenti del passato, dovranno offrire larga copia di spunti all’iniziativa dello scolaro, di stimoli al suo lavoro di ricerca e problemi pratici perle esercitazioni individuali e per gruppi, a scuola e più ancora a casa. L’ordine e la gradazione con cui onesti motivi, esercizi, quesiti e problemi saranno presentati nel volume, corrisponderà logicamente alla progressione delle relative conoscenze e abilità pratiche. Alle regole e alle definizioni il fanciullo dovrà naturalmente pervenire, attraverso un processo personale e con l’aiuto dell’insegnante, per un bisogno di chiarificazione e di sistemazione del sapere. È inutile aggiungere che, come le singole materie non debbono procedere isolate nell’insegnamento, così nei sussidiari la trattazione esercitativa di ogni singola disciplina deve richiamarsi alle cognizioni relative alle altre. “

In conclusione, pur dovendoli contestualizzare nel periodo, i Programmi del 1945 raccolgono le più avanzate istanze pedagogiche che anche nei decenni successivi animeranno i dibattiti nelle comunità professionali.
I successivi Programmi del 1955 rappresenteranno, a parere di chi scrive, un ritorno indietro rispetto all’idea di alunno, di apprendimento, di metodologia. Soprattutto su pressione delle istanze cattoliche, l’insegnamento religioso viene considerato come   fondamento   e coronamento di tutta l’opera educativa. Scompariranno le tensioni all’apprendimento cooperativo, all’autogoverno, l’imparare facendo si mantiene presente, ma molto sfumato. L’attenzione viene riportata prevalentemente all’individualità del fanciullo, sfumando notevolmente i richiami alla funzione della scuola per la formazione del cittadino alla vita democratica, così presente nei Programmi del 1945.

[1] Programmi della scuola elementare, 1945, in: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1945-08-21&atto.codiceRedazionale=045U0459&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario

 

 




Un voto non si nega a nessuno

di Stefanio Stefanel

Ha fatto molto scalpore in questi giorni la questione del Liceo Morgani di Roma, dove il Collegio docenti con una votazione pressoché paritaria (37 a 36), ha eliminato la sezione “senza voti” operativa da anni.
Personalmente ritengo un grave errore aver portato una simile questione in collegio docenti, visto che stava già nel PTOF che si chiude il 31 agosto 2025 e, inoltre, non andava ad intaccare la valutazione finale che deve per legge essere numerica.
Rimane il messaggio molto esplicito che questa scelta ha trasmesso, cui credo abbia molto nuociuto l’esposizione mediatica data alla sperimentazione in una sola sezione, che ha trasformato, per l’opinione pubblica, tutto il Liceo Morgani di Roma in una scuola senza voti, creando, dunque, una presa di posizione avversa dei docenti che non condividevano la scelta fatta da quella sezione.

La querelle sul Liceo Morgani fa, però, il paio con le varie prese di posizione di esponenti politici della destra, che da tempo vogliono il ritorno dei voti numerici anche nelle scuole primarie, aboliti dall’Ordinanza Ministeriale 172 del 2020, andata a regime nell’ambito di una grande azione formativa del Ministero conclusasi da poco.

Ci sono poi vari personaggi pubblici apertamente conservatori come Paola Mastrocola o apparentemente progressisti come Viola Ardone che lodano il “2” e la sua potenza salvifica e benefica.
Diciamo che le truppe dei donmilaniani sono ben agguerrite, ma in palese fase di ritirata più o meno strategica.
Reginaldo Palermo in un simpatico intervento (Ci vuole una regola chiara: si usa il voto quando governa il centro-destra e il giudizio con il centro-sinistra, 2 novembre 2023, su “Tecnica della scuola”) ha scritto che, quando governa il centro sinistra nelle scuole primarie si valuta con i giudizi, quando governa il centro destra con voti.

Chi propugna una scuola senza voti (ad esempio Valentina Grion, Cristiano Corsini, Vincenzo Caico) vorrebbe una scuola in cui la trasparenza del giudizio prevalga sull’opacità del voto, anche perché il voto tende a misurare un prodotto (compito in classe, interrogazione, test), mentre il giudizio descrittivo deve addentrarsi nel problema dell’apprendimento.
Faccio notare un piccolo paradosso: molti studenti con voti negativi vengono ammessi alla classe successiva nel secondo ciclo attraverso il così detto “voto di consiglio” (la materia è insufficiente, ma il consiglio decidendo la promozione, autorizza perciò la trasformazione del voto in positivo, magari con un asterisco che indichi l’”aiuto”).
È logico tutto questo? Direi proprio di no: io penso sarebbe più semplice e serio promuovere lo studente, sostituendo quel voto falso (“6 per voto di consiglio”), con una descrizione precisa delle lacune rimaste e da colmare, che mostri palesemente come l’alunno sia stato promosso nell’ambito di una valutazione generale che nulla ha a che vedere con una singola materia.

Questa descrizione c’è, ma è svogliata, e soprattutto non la legge nessuno, perché, messo in tasca il 6, uno guarda solo avanti e non indietro. Tra l’altro questo aprirebbe anche la questione, che è connessa al concetto di didattica orientativa, sull’opportunità di mantenere la struttura di apprendimento tuttologica anche per studenti che si sono già orientati in maniera definitiva (sia verso il mondo del lavoro, sia verso il mondo universitario, sia verso il nuovo e grezzo mondo degli ITS).

Personalmente ritengo che gli argomenti per uscire dalla logica dei voti e trasferirsi in quella di una valutazione complessiva delle materie generaliste, di quelle di indirizzo, dell’educazione civica e del comportamento, dei PCTO, delle progettualità, degli Erasmus, dei corsi per l’ampliamento dell’offerta formativa, dell’orientamento, dovrebbe avere una chiara organizzazione descrittiva ed arrivare ad una trasformazione in crediti al solo fine dell’esame di stato conclusivo.
Il voto di diploma dovrebbe essere integrato da una descrizione completa dello studente, non da una statica e non letta certificazione delle competenze. La valutazione senza voti è destinata a modificare la scuola italiana, che così non può più andare avanti, ma non nei prossimi anni: questo, però, avverrà solo quando sarà chiaro che il sistema della valutazione numerica produce dispersione e non la combatte, condiziona gli studenti verso il voto e non verso l’apprendimento, non aggiunge conoscenza sugli studenti e il loro percorso, ma solo appiccica numeri nel registro elettronico. A quel punto il “2” terapeutico e l’esame di stato nozionistico potranno anche essere sostituiti da prove di resistenza e maturità, sullo stile di quello che fanno i marines nell’addestramento. Prove che forgiano, ma poi l’apprendimento, anche per i marines, è altro. Faccio per dire, ovviamente, perché al giorno d’oggi bisogna stare attenti: si è presi sul serio anche quando si esagera per farsi capire meglio.

Una domanda, alla fine, me la devo porre: ma se è così chiaro che il voto e le modalità con cui viene assegnato producono più danni che altro e poiché le motivazioni di chi propone una scuola senza voti sono più che convincenti, perché si rafforza l’idea che il voto è oggettivo, migliore, utile, chiaro? Se l’attuale governo ripristinerà i voti nella scuola primaria (magari lasciando intatti gli obiettivi: sarebbe un vero capolavoro di astrattismo cubistico) io credo che i genitori degli scolari delle primarie saranno quasi tutti contenti, i commentatori che hanno spazio nei giornali e nelle televisioni plauderanno, molte maestre e qualche maestro (sono molti meno) tireranno un sospiro di sollievo. C’è dunque qualcosa che sfugge a chi ritiene che la pedagogia sia una cosa seria, che l’apprendimento non coincida con l’insegnamento, che la valutazione non sia misurazione. Anche perché l’opinione pubblica ha potere sulle professioni quando le professioni sono deboli, lo si è visto sui vaccini anti-Covid, ma lo si vede anche in altri settori: chi discuterebbe su come si costruisce un grattacielo mettendo sullo stesso piano il gradimento popolare e la progettazione dell’opera? Nella scuola sta avvenendo questo: i progettisti e costruttori di grattacieli (l’apprendimento di bambini e ragazzi) sono messi sullo stesso piano di coloro che in quei grattacieli vorrebbero essere al sicuro da crolli e pericoli senza però sapere nulla di ingegneria (genitori, opinione pubblica, commentatori, politici).
E allora cosa succede realmente? Succede che è il mondo della scuola a volere i voti, ad agognare le verifiche, a godere dei compiti in classe, ad appassionarsi alle interrogazioni dove a domanda si risponde come vuole chi ha fatto la domanda.

Tutto questo avviene – in questo caso ne sono certo, quindi non scrivo: a mio parere – perché la gran parte dei docenti senza voto non sa proprio come fare. Non come fare a valutare, perché ogni docente sa valutare i suoi studenti con una sufficiente profondità, ma proprio come fare: come fare tutto. Senza voto un numero enorme di docenti non saprebbe come e cosa insegnare, come vivere in classe, come verificare, come valutare in maniera trasparente, come correggere, come correggersi, come formarsi, come aggiornarsi. Il voto, soprattutto negativo, certifica che l’insegnante è in grado di vedere il fallo, e certifica anche il suo potere, attraverso voti negativi disciplinari, di poter decidere il futuro dello studente (promosso o bocciato). I docenti ritengono che la loro professione alla fine debba avere un confine e questo confine è proprio il voto, pena l’ingovernabilità del sistema. Il voto è complicato e per questo piace ai docenti, perché è un rapporto personale che non descrive nulla, riferito a standard personali ed esoterici, dentro criteri d’istituto per lo più inutili perché permettono davanti alla medesima prova di assegnare sia “4” che “7” (come Corsini ha dimostrato nel disinteresse generale della scuola).

Su questa questione si è poi innestata la propaganda sul merito non descritto come giusto riconoscimento di chi è bravo (cui il sistema non da nulla di diverso da chi bravo non è), ma come contraltare al “demerito”, per cui “il sei te lo devi meritare” diventa una frase emblematica di una scuola dove si deve studiare per avere i voti non per apprendere e dove anche se apprendi questo non vale nulla finché al tuo apprendimento non viene appiccicato un voto. Tra l’altro per molti docenti insegnare la propria materia è una missione e, come ogni missionario (Pizarro incluso), ritengono che, se non si riesce ad insegnare con le buone le cattive vanno benissimo (da lì i “2” salvifici, che aprirebbero la conversione allo studio di tutti quelli che li prendono).

Dunque, che fare in questo caos? Direi lavorare molto e tacere ancora di più: lavorare nelle scuole con coscienza e saggezza, cercando di fare emergere su giornali, televisioni, social niente o quasi, come avviene per gli ingegneri che non pubblicano sui social i progetti dei grattacieli che progettano e che poi ditte specializzate costruiscono nel silenzio mediatico più assoluto.




Ma la maieutica funziona ancora?

di Giovanni Fioravanti

Leggo su Education Week l’articolo di un ricercatore, direttore degli studi sulle politiche educative presso l’American Enterprise Institute. Un articolo dedicato alla riscoperta del metodo socratico, che evidentemente pare essere stato dimenticato dalle scuole americane. Possibile che altrettanto valga per quelle italiane, non dispongo di dati in merito, sempre che si praticasse.

Quando studiavo pedagogia alle magistrali la maieutica socratica andava forte, cioè, ci spiegavano, l’arte della levatrice, quella di fare nascere il sapere dal di dentro dell’alunno, del resto l’etimologia di educazione, l’insegnante ricordava, è ex ducere, cioè condurre fuori. Le implicazioni poi di questo modo di concepire il sapere e l’insegnamento si perdevano nella nebbia del nozionismo scolastico.

Insomma, l’idea che il sapere per essere estratto, o meglio, per essere portato a galla, dovesse essere in qualche modo già posseduto, non era oggetto né di riflessioni né di approfondimenti.
D’altra parte il Socrate che noi si studia è quello che ci ha raccontato Platone col suo iperuranio, le anime che cadono per via dei cavalli imbizzarriti e la conseguente metempsicosi.

Non è che poi ti facevano leggere il Menone, sostanzialmente la dimostrazione pratica di come Socrate metteva in atto attraverso l’arte del dialogo, domanda e risposta, la sua maieutica.
Menone, schiavo illetterato, sollecitato dalle domande del filosofo, giunge a risolvere complessi problemi di geometria. Chi l’ha letto ricorderà che Socrate pone al giovane schiavo un quesito: “Se io ti disegnassi un quadrato, sapresti trovarmi un quadrato dall’area esattamente doppia del primo?” Menone, che nulla sa di geometria, d’istinto risponde: ”Il quadrato con l’area doppia lo ottengo creandone uno nuovo che abbia per lato il doppio del lato del primo quadrato”.
La risposta è sbagliata, ma lo schiavo riflettendo, sollecitato dalle domande del maestro, giunge a dare  quella corretta.
Il dialogo, dunque, è l’esplicazione di come funziona la maieutica socratica. Potremmo dire che Socrate è stato il precursore di ciò che noi oggi chiamiamo problem solving.
Fra parentesi, per coloro che non avessero letto il Menone e fossero curiosi di conoscere la soluzione del problema posto da Socrate, consiglio di disegnare un quadrato e di tracciare le due diagonali, a questo punto la risposta dovrebbe essere intuitiva.

Abbiamo pagine di psicologia e di pedagogia che avrebbero dovuto facilitare la familiarizzazione della didattica con le tecniche del problem solving, rendere naturale il dialogo tra docente e studenti, il saper porre le domande da parte dell’insegnante e il saper ricercare le risposte a sua volta da parte dello studente senza il timore di sbagliare.

La vivacità dialettica non mi sembra un connotato delle nostre classi. Se vogliamo anche per comprensibili ragioni pratiche, come fai a gestire una didattica del dialogo con una classe di venticinque alunni, meno consistenti sono le osservazioni che così facendo non porteresti a termine il programma.
Meglio teste ben fatte, per dirla con Morin, che teste infarcite come uova.

Ma la questione è di grande attualità, la formazione al problem solving, la richiede per primo il mercato del lavoro, ma a prescindere da questo, e per evitare critiche di aziendalismo, pensiamo per davvero di poter formare e crescere generazioni di giovani che non abbiano familiarità e confidenza con la problematizzazione della realtà?  Con l’abitudine a ricercare le risposte, accedere alle banche dati, alle fonti del sapere che possono fornire gli strumenti per confezionare le risposte stesse?
Qualcuno ha parlato, ci ha scritto pure, di risveglio della classe creativa, ma è inconcepibile che ci sia ancora chi pensi che il progresso nel sapere, nella conoscenza, nella ricerca scientifica non richieda di sviluppare forti capacità creative, intelligenze capaci di pensare la realtà oltre la realtà stessa, di interrogarla e formulare ipotesi.

Le televisioni commerciali con la creatività ci fanno i soldi. I giovani devono capire ed essere attrezzati a fare della creatività il loro futuro e non soggiogare le loro menti ai prodotti più deteriori della commercializzazione della creatività umana.
La ricerca scientifica consiste nel risolvere problemi, la vita è costituita da problemi da risolvere e, quindi, apprendere a risolvere problemi significa apprendere a vivere, scriveva Karl Popper, come già più di un secolo fa John Dewey teorizzava la didattica per problemi, per non parlare di quello che è venuto dopo nel campo della ricerca. Ma noi abbiamo fatto la scuola dello spirito, la scuola dell’umanesimo dimenticando di allenare e tenere esercitate le menti dei nostri giovani, troppo faticoso.

E qui viene il dunque, che per praticare la maieutica, il problem solving non solo bisognerebbe organizzarsi in maniera differente da come sono strutturate le nostre scuole, e questo è già un problema, perché menti che lavorano hanno bisogno di laboratori, ma bisogna anche essere competenti, essere preparati.

Se non si è mai fatto, nessuno te l’ha insegnato come fai ad averlo imparato.
Forse è questa la ragione vera per cui nelle scuole americane la maieutica non ha radicato, come del resto nelle scuole di casa nostra, la maieutica moderna intendo, il problem solving, quello dell’insight alla Wertheimer.
Noi al massimo pratichiamo la maieutica del fai da te come canta in Spazio Tempo Francesco Gabbani.

La didattica della nostra scuola è ancora quella delle risposte, le risposte da apprendere dalla voce dell’insegnante, dalle pagine dei libri di testo, le risposte da riferire nelle interrogazioni, da esercitare con i compiti, da verificare con i  test, con le prove oggettive a risposta multipla. Ma formulare le domande giuste per interrogarsi e ricercare è tutta un’altra storia.

E allora il metodo socratico diventa complicato, difficile da applicare bene. Il metodo socratico, osserva l’autore dell’articolo a cui facevo riferimento all’inizio, richiede che un insegnante abbia una profonda conoscenza dell’argomento specifico, una biblioteca di analogie rilevanti, una padronanza delle strade che il dialogo può prendere e la capacità di interpretare l’avvocato del diavolo.
Fare tutto questo bene richiede tempo e pratica, entrambi elementi che scarseggiano per gli insegnanti che corrono per portare a termine il programma, anche questo vecchio retaggio gentiliano.
Pertanto il problema più grosso che ha la nostra scuola e il suo futuro è quale profilo docente sia necessario progettare. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui lo sviluppo professionale, se adeguatamente disegnato può fare una grande differenza.

Oggi, naturalmente, alla faccia della maieutica socratica e della sua versione più moderna, quasi nessun insegnante ha ricevuto nemmeno un briciolo di tale formazione.




Un ricordo di Luigi Berlinguer

Luigi Berlinguer al convegno Tablet School

E’ morto poco fa Luigi Berlinguer.
Pubblichiamo il primo ricordo che ci è arrivato.

di Marco Campione

Con la morte di Luigi Berlinguer se ne va uno degli ultimi esponenti della più grande stagione di riforme in ambito scolastico seconda solo a quella di Giovanni Gentile.
Per questo lo ricorderanno nei prossimi giorni i suoi compagni di partito e qualche avversario. Spero non con lingua biforcuta: non se lo meriterebbe.
Per me però se ne va un secondo padre, un maestro, un mentore. È stata probabilmente la persona, esclusi i legami familiari o di coppia, alla quale mi legava l’affetto più profondo.
Due cose, in particolare, che ho appreso, anzi compreso, da te sono ancora oggi la guida del mio agire politico e tecnico: la scuola è per gli studenti; governare vuol dire trovare soluzioni, risolvere problemi.

Ecco, tecnico e politico: giocavamo ogni tanto su questo mio stare sempre un po’ di qua e un po’ di la della linea che divide questi due miei modi di intendere il lavoro per la scuola. Secondo te è l’unico modo per occuparsi seriamente di scuola essere un po’ tutte e due le cose.
La tua prefazione al libro che ho curato con Emanuele Contu è un esempio, l’ennesimo, di questo e molto altro.
Grazie Luigi per tutto quello che mi hai insegnato, che è molto di più e che tengo per me.
Grazie per aver contributo a fare di me l’uomo che sono.

Mancherai. A me certamente.