Intelligenza artificiale a scuola: argomento di moda o tema da approfondire?

di Rodolfo  Marchisio

Il tema di gran moda quest’anno è quella della IA. Come se non esistesse già prima. Naturalmente quando c’è un tema alla moda (o un problema purtroppo…) lo si vuole subito associare o meglio iniettare nella scuola. Fioriscono i primi convegni, i molti libri, soprattutto le case editrici non si fanno sfuggire l’occasione di essere tra le prime ad offrire corsi e webinar su questo argomento.

Conoscere per capire

Vorrei chiarire che il mio modo di ragionare da sempre è che di fronte a cose nuove e complesse “non è il caso di dividersi (pro vs contro) ma di conoscere di più per capire meglio”. Le osservazioni che farò spero servano a questo e derivano dalla mia esperienza di docente che si portava negli anni 80 i “computer” (allora ZX 81 o Vic 20 solo poi Spectrum o C 64) da casa e li attaccava alla TV. Che per 25 ha fatto l’”animatore digitale”, organizzato laboratori e ambienti di apprendimento “digitali”. Domandandosi quali competenze di docenti e allievi venivano messe in gioco. Come fare e perché. E che conseguenze avrebbero avuto su di noi come persone e cittadini. Poi come formatore dal 1982 (dal PSTD a Scuola 4.0) ha seguito tutte le costose iniezioni di tecnologie che la scuola ha subito – non richiesto – come mercato di riserva delle tecnologie da ufficio, non progettate secondo le sue esigenze. Una per Ministro, nella colpevole illusione che le tecnologie potessero risolvere i problemi della scuola e sostituire una riforma della stessa. Innovazione al posto di progetto. Tecnologie al posto di idee. Iniezioni mai monitorate, spese mai verificate dal ministero, come ha raccontato Gui e come posso testimoniare. Cercando, come formatore, di mediare tra le paure delle tecnologie prima e poi tra il saper usare e sapere come e perché funziona così verso la necessità di formare competenze di cittadinanza e cultura digitale. Il web nel frattempo è molto cambiato (“Non riconosco più la mia creatura”, dice T.B. Lee). Gli studi OCSE 2014, 15 e studi seguenti hanno rilevato che “Le tecnologie di per sé non modificano la qualità dell’insegnamento/apprendimento”. I “buoni docenti si. L’ideale sarebbe dare “buone” tecnologie” in mano a “buoni” docenti, che non solo le usino, ma che si domandino “come funziona e perché funziona in questo modo e che conseguenze ha su di noi”. Come richiesto anche dal Sillabo del MI nel 2018, in cui si scriveva: la situazione attuale del web è complessa, i ragazzi devono sapere cosa succede sulla loro pelle in rete, perché cambiare è ancora possibile. È anche l’anno in cui sono state ridefinite le competenze chiave a livello europeo introducendo le competenze digitali, collegate alle competenze di cittadinanza in Italia che con le prime si identificano: perché tutte  le competenze chiave sono competenze di cittadinanza e viceversa (come ci spiega Bruno Losito). Questo mi interessa visto che dobbiamo formare le persone ed i cittadini e orientarli nel mondo.

Per essere più chiaro ce l’ho coi padroni della rete (Rampini), col capitalismo degli oligopoli digitali che ci sfruttano e riducono i nostri diritti (Schiavi del clic, Casilli) e con quegli insegnanti che, per moda o per stanchezza, si concentrano sull’insegnare ad usare e non sull’insegnare a riflettere. Può essere utile leggere un articolo di Marco Guastavigna che condivido in pieno. Un esempio: la sciagurata scelta delle piattaforme per la DaD, in prevalenza Google (Zoom, Class room e simili) da cui però siamo ancora, dopo quattro pronunciamenti duri dell’allora Garante della privacy Soro, dipendenti.

Il compito della scuola non è quello di insegnare a usare solo, ma di insegnare a conoscere e smontare il giocattolo web per una cultura e cittadinanza digitale.  Se chiudo mia figlia in garage a giocare coi comandi non è che impara a guidare. (Attivissimo, A. O. Ferraris)

La legge 92/19 definisce in modo simile gli obiettivi della Ed. Civica: alla fine il ragazzo deve raggiungere obiettivi legati alla cittadinanza, in genere, non all’uso (cfr. art 5.2.) «Usare il digitale andrebbe insegnato nella scuola sin da piccoli e non parlo di come funziona uno smartphone ma dei sistemi sociali, politici, economici che sono alle spalle» (Soro, ex Garante privacy). L’EC ci ha insegnato che viviamo in contemporanea in 3 ambienti: Sociale, Naturale, Digitale intrecciati tra di loro. Il nostro mondo.

IA è una novità?

Se ne parla perché c’è. Vero, ma c’era in varie forme già prima. Allora come parlarne e perché? Molti ricordano i primi test di Turing, qualcuno ricorderà il chatterbot Eliza (1966) che dialogava come uno psicoanalista, rispondendo ad una domanda con una domanda che catturava una nostra frase chiave. Ricordo i sistemi esperti in medicina, quando insegnavo pedagogia, psicologia e un po’ di informatica agli Infermieri professionali dei corsi parauniversitari della Regione Piemonte. I sistemi esperti riproducevano, seguendo un diagramma di flusso, il comportamento di un medico umano: 1- Sintomi, 2- anamnesi, 3- ipotesi probabilistica della malattia da diagnosticare, 4- Nuovi accertamenti e dati da immagazzinare, 5. Ipotesi di diagnosi e 6- proposta di cura. Oggi la potenza di incorporare dati ed elaborarli è molto maggiore, ma continuo a pensare che sarebbero un ottimo assistente per gli amici medici, cui però dovrebbe spettare l’ultima parola, perché sono quelli che possono pensare: tutto porterebbe a…ma in base alla mia esperienza e conoscenza del paziente ho la sensazione cheIA è già tra noi: a partire dagli algoritmi di google e dei social di cui però non siamo né consapevoli né padroni se mai vittime o consum-attori.

Una operazione di marketing?

Ma perché tutti parlano di Ai? Perché è un’eccezionale operazione di marketing, una delle meglio organizzate degli ultimi anni. Su questa, le imprese della Silicon Valley si stanno giocando il tutto per tutto, per invertire il trend negativo fatto di tagli al personale e cambi drastici dei loro programmi di sviluppo. Intelligenza inesistente, Borroni Barale. Wired parla di “corsa all’oro”.

Quale intelligenza? Quante definizioni di intelligenza e quante di IA?  In un saggio del 2007 Legg e Hutter elencarono 53 definizioni di intelligenza umana e 18 di Intelligenza Artificiale (Floridi).

Cosa vuol dire intelligenza? Io mi tengo strette le idee di Gardner, sulla pluralità delle intelligenze e quella di Goleman sul rapporto tra intelligenza ed emozione. In base alla mia esperienza, intelligenza, apprendimento e contesto relazionale ed emotivo, clima di classe sono fortemente collegate. Si apprende (e si cambia) soprattutto in un gruppo, con esperienze emotive comuni e significative.

Mi sembra che la situazione sia piuttosto complessa e la semplicità non esiste se non come prodotto della riflessione sulla complessità. Vogliamo approfondire insieme?




Quando l’educazione all’affettività si faceva anche senza Valditara e senza gli influencer

di Nicola Puttilli       

Alcuni giorni fa un’insegnante della scuola che dirigevo a Nichelino, realtà allora particolarmente problematica dell’hinterland torinese, mi ricordava con un messaggio che più di una ventina di anni fa istituimmo nella scuola elementare un laboratorio di educazione all’affettività e alla sessualità, osservando, con una punta di ironia, come già allora fossimo all’avanguardia, anche senza il supporto degli influencer.

Influencer o meno l’avvio del laboratorio fu reso possibile grazie a quel poco di organico funzionale e di risorse aggiuntive (L 440/97) che accompagnò la prima attuazione dell’autonomia scolastica, voluta dall’allora ministro dell’istruzione, recentemente scomparso, Luigi Berlinguer.
Il laboratorio, così come lo stesso tentativo di dare vita a una vera, per quanto iniziale, autonomia, ebbe breve vita. Il ministro che, come non bastasse l’autonomia, si era messo in testa di riformare anche gli ordinamenti scolastici, sostanzialmente risalenti alla riforma Gentile, fu presto trafitto dal fuoco amico e costretto alle dimissioni.

Dal 2001, ministro Letizia Moratti, cominciarono gli anni delle vacche magre: tagli indiscriminati, di finanziaria in finanziaria, fino a praticamente dimezzare in poco più di un ventennio la quota di PIL destinata all’istruzione. Operazione, quest’ultima, in cui si distinse per accanimento e perseveranza la ministra Gelmini.

L’autonomia scolastica si tradusse presto nello scarico verso le scuole di tutte le procedure burocratiche e amministrative che prima facevano capo ai provveditorati agli studi. Gli organici funzionali furono rapidamente dimenticati e nella scuola primaria tagliate drasticamente  le compresenze sul tempo pieno, rendendo sempre più difficili quelle preziose esperienze laboratoriali che ne avevano caratterizzato la nascita negli anni’70.
Negli altri ordini di scuola è costantemente lievitato il numero di alunni per classe e per converso drasticamente diminuito il numero di autonomie scolastiche (istituzioni oggi per lo più sovradimensionate, cariche di compiti amministrativi, con il dirigente scolastico sempre più lontano dai temi educativi e didattici che dovrebbero invece maggiormente caratterizzarne la dimensione professionale).

Gli esiti di questa fallimentare politica scolastica purtroppo li conosciamo bene: risultati di apprendimento insoddisfacenti, deficit relazionali e comportamentali, dilagante analfabetismo di ritorno, tassi di abbandono e dispersione tra i più alti d’Europa e con fortissimi squilibri regionali e territoriali.

Con l’eccezione della legge 107/15, anch’essa peraltro declinata burocraticamente, dopo Berlinguer i governi e i ministri che si sono succeduti hanno praticamente rinunciato a occuparsi di scuola, considerandola una riserva di caccia per le leggi finanziarie e limitandosi a interventi di piccolo cabotaggio (chi ricorda il “cacciavite” di Fioroni?) o, peggio, tesi a lasciare una qualche traccia purchessia della propria presenza (per onor del vero c’è stato anche il caso del ministro Fioramonti che si è dimesso perché gli investimenti promessi non erano stati confermati, o almeno così ha dichiarato, caso unico per quel che riguarda le dimissioni, regola confermata per i mancati investimenti).

Si sono così ripetute, a seconda degli echi di cronaca del momento, le misure, più o meno andate a segno, tese ad imporre dall’alto ore aggiuntive praticamente su tutto. Dall’educazione stradale in caso di incidenti gravi, all’educazione motoria cara al ministro già insegnante di educazione fisica, nella primaria. Dall’orientamento quando la pubblica opinione discute del disallineamento tra offerta formativa delle scuole ed esigenze del mondo imprenditoriale, all’educazione civica se il tema del giorno è quello del bullismo, fino all’ educazione alle relazioni e ai sentimenti (per la sessualità si può sempre aspettare) in caso di femminicidio, senza dimenticare le ore di religione cattolica già presenti dal 1984.

Nella mente dei nostri ministri continua a prevalere l’idea dei vasi da riempire, come se i comportamenti derivassero più dalla quantità dei contenuti appresi che dalla qualità degli stessi e, soprattutto, dalla qualità degli approcci metodologici e delle relazioni che gli insegnanti sono in grado di impostare fin dalla scuola dell’infanzia e a prescindere dalla specifica disciplina di insegnamento, in ogni istante del loro rapporto con gli studenti.

I problemi della scuola italiana sono enormi e strutturali, a poco servono interventi- immagine e ore aggiuntive distribuite qua e là. Anche se le riforme di sistema, nella scuola in particolare, non hanno mai pagato politicamente, sarebbe forse ora di assumersi la responsabilità di ritornare a una visione generale, a un progetto di grande respiro in grado di dare speranza alla nostra scuola.
Le vie individuate da Luigi Berlinguer più di venti anni fa possono ancora  essere un importante punto di riferimento: sia la riforma dei cicli utile a contrastare la selezione precoce e la successiva dispersione scolastica sia, e soprattutto, una vera autonomia scolastica.

Più di vent’anni fa a Nichelino IV circolo eravamo stati in grado di intercettare le esigenze del territorio e di fornire risposte significative, senza imbeccate ministeriali e tanto meno interventi di influencer o simili dell’epoca. La scuola italiana ha bisogno di investimenti importanti, dalla sicurezza delle scuole alla  qualità degli ambienti di apprendimento, fino alla formazione del personale- Non sarebbe male cominciare con il rispedire agli uffici ministeriali territoriali scartoffie e pratiche burocratiche varie e dare fiducia e mezzi, in termini di organici funzionali e di risorse, ai nostri insegnanti e ai nostri dirigenti scolastici, riprendendo, là dove l’avevamo lasciata, la strada di una vera autonomia scolastica.




Valutazione formativa e voto numerico possono convivere

di Roberto Trinchero

Ringrazio gli amici che mi hanno segnalato alcune posizioni critiche sulla valutazione descrittiva in itinere (da alcuni chiamata “valutazione senza voti”). Vediamole in dettaglio, con relativa replica:

P1: “La valutazione descrittiva e formativa da una parte e i voti numerici dall’altra sono un’alternativa inconciliabile”.
R1: Valutazione descrittiva e voti numerici non sono alternative inconciliabili, semplicemente svolgono funzioni diverse: la valutazione descrittiva è utile in itinere per aiutare l’allievo a capire i punti di forza e i punti di debolezza della sua preparazione e i modi per migliorare. Essa rappresenta uno strumento irrinunciabile per una valutazione che possa dirsi realmente “formativa”.
I voti (ma anche i livelli, nel caso delle certificazioni delle competenze) sono utili per far un bilancio finale di quanto acquisito, quindi sono strumenti adeguati per una valutazione “sommativa”. Ciò che è poco sensato è utilizzare uno strumento adeguato per la valutazione sommativa (i voti numerici) pensando che abbia una funzione “formativa”.

P2: “Abolizione dei voti e abolizione del valore legale del titolo di studio sono due questioni legate tra loro”.
R2: Non si vede proprio come possano esserlo. Nessuno propone di abolire il voto numerico come forma di valutazione sommativa, semplicemente se ne sottolinea l’inadeguatezza in un’ottica di valutazione formativa.

P3: “I voti in itinere dicono chiaramente se la direzione in cui sta lavorando va bene oppure no”
R3: Questa informazione la dà anche la valutazione descrittiva, in maniera molto più efficace.

P4: “Quando i docenti oggi danno un voto lo accompagnano sempre con una spiegazione”
R4: La valutazione descrittiva non fa altro che rendere maggiormente sistematica, e soprattutto resa per iscritto, questa spiegazione. E’ per questo che non dovrebbe essere difficile per i docenti passare alla valutazione descrittiva in itinere, dato che non fa altro che formalizzare una prassi ampiamente consolidata.

P5: “E’ difficile passare da una serie di descrizioni a un voto numerico a fine percorso, senza averne mai dati prima”
R5: No, se è chiara la corrispondenza tra obiettivi di apprendimento raggiunti dallo studente e voto finale assegnato. Ciò che non è sensato è assegnare un voto finale come media delle singole prove: le singole prove insistono su obiettivi differenti, quindi fare la media dei voti implicherebbe il sommare grandezze non omogenee tra di loro (detto volgarmente: “sommare le carote con le pere”).

P6: “Abolire i voti numerici in itinere e assegnare poi un voto numerico finale aprirebbe contenziosi”
R6: Qualsiasi voto numerico che non sia “trasparente”, ossia associabile a un insieme preciso di obiettivi di apprendimento raggiunti dallo studente, apre contenziosi, perché non rispetta in maniera palese quanto descritto dal DPR 249/1998, Statuto delle Studentesse e degli Studenti della Scuola Secondaria (art. 2, comma 4). La valutazione descrittiva e la corrispondenza “voto finale – obiettivi di apprendimento raggiunti” renderebbero espliciti i criteri di valutazione (che ovviamente vanno resi noti allo studente fin dall’inizio dell’anno scolastico) e quindi renderebbe molto meno plausibile l’apertura di contenziosi.

P7: “I sostenitori della valutazione formativa vogliono l’abolizione dei voti”
R7: Nessuno chiede l’abolizione dei voti. Semplicemente si chiede di non attribuire ai voti una funzione che non hanno: quella formativa. Se il voto numerico viene utilizzato con presunta funzione formativa (es. “Do 4 all’allievo perché si impegni di più”) si fa un doppio errore: non si aiuta l’allievo a migliorare il proprio modo di apprendere e si corre il rischio di demotivarlo.

P8: “Non si capisce chi dovrebbe definire il livello di rigore dei ‘riscontri descrittivi in itinere’”
R8: Il rigore dei riscontri descrittivi in itinere è definito dalla loro corrispondenza con gli obiettivi di apprendimento definiti, che devono esplicitare con chiarezza le prestazioni cognitive richieste dallo studente e i contenuti su cui lo studente è chiamato a compierle.

P9: “I fautori del passaggio a una valutazione descrittiva in itinere dicono che ‘I voti bloccano l’apprendimento’”
R9: Nessuno dei fautori del passaggio a una valutazione descrittiva in itinere fa affermazioni così radicali. Si sottolinea solamente il fatto che non siano lo strumento giusto per promuoverlo e, dove non sia chiaro allo studente cosa debba fare per migliorare (non basta dire “Deve studiare di più”), lo può portare a demotivazione verso lo studio (il “blocco” va inteso in questo senso, come “blocco emotivo”).

P10: “Gli insegnanti già oggi si prendono sempre l’impegno e la responsabilità di dare indicazioni chiare agli studenti sull’andamento del lavoro e sull’acquisizione di conoscenze”
R10: E’ un’ottima cosa. Non si vede allora perché dovrebbe disturbare il mettere per iscritto queste indicazioni e collegarle in modo esplicito agli obiettivi di apprendimento.

P11: “L’abolizione dei voti in tutti gli ordini di scuola e la loro sostituzione con una certificazione di competenze standardizzata sembra perfettamente funzionale al superamento della scuola della conoscenza che istruisce ed educa attraverso degli importanti contenuti culturali, e alla burocratizzazione della stessa relazione educativa attraverso tabelle di valutazione standardizzate”
R11: E’ esattamente il contrario: il passaggio a una valutazione descrittiva in itinere centrata su obiettivi di apprendimento in cui siano chiari i contenuti da apprendere e processi di pensiero da applicare su di essi intende rafforzare sia la conoscenza dei contenuti sia l’esercizio di processi di pensiero che portino a comprensioni approfondite, capacità di applicazione e trasferibilità dei saperi in vari contesti.

P12: “La feticizzazione del voto che si osserva potrebbe essere la conseguenza di proiezioni esterne alla vita di una classe”
R12: Qualunque sia la causa della “feticizzazione” del voto, il rimedio è riportare il voto a ciò che è: né più né meno che una sintesi numerica che esprime gli esiti di apprendimento raggiunti in un periodo di studio e formazione. La valutazione descrittiva non fa altro che sottolineare che quello che conta non è la sintesi numerica ma gli esiti di apprendimento, e per farlo li descrive con precisione basandosi sugli obiettivi di apprendimento. Il problema è quando lo studente (e la famiglia) punta al raggiungimento del voto senza chiedersi quali sono gli esiti di apprendimento effettivamente raggiunti, ossia cosa sa fare realmente, al di là del numero che gli viene assegnato.

P13: “La capacità di gestire la valutazione in una prospettiva davvero formativa non è affatto garantita da sistemi alternativi al voto”
R13: Ovviamente no. Servono sistemi ben progettati e con evidenze che li supportino, non improvvisati. Ciò che si può affermare senza timore di smentita è che il voto numerico in sé non ha una funzione formativa, laddove manchi una corrispondenza precisa tra voto numerico e obiettivi di apprendimento raggiunti.

P14: “L’assegnazione di un voto può rappresentare un momento di conoscenza, di verità, di disillusione o di soddisfazione narcisistica che passa necessariamente attraverso l’incontro di sguardi e parole tra due persone: in questo attimo relazionale è possibile rafforzare la soddisfazione narcisisticamente sana per un risultato positivo, oppure rendere più digeribile la disillusione facendone strumento per il miglioramento e per l’accrescimento dell’autostima”
R14: Non mi è chiaro su quale base scientifica vengono fatte queste affermazioni. Qualcuno può portare evidenze al riguardo?

P15: “Il voto ben spiegato permette allo studente di capire con maggiore chiarezza dove egli si trovi in un determinato momento”
R15: La differenza la fa proprio quel “ben spiegato”: va sistematizzato e reso esplicito, trasparente e controllabile.

Ovviamente altre segnalazioni sono ben accette…




Tutta colpa del patriarcato? Forse manca la “cultura del Noi”

di Raimondo Giunta

Si è sperato per qualche giorno che non succedesse l’irreparabile, ma non è stato così. Giulia Cecchettin è stata massacrata dal suo ex ragazzo. Dopo il ritrovamento del suo corpo martoriato un’ondata di indignazione ha scosso la società, colpita dalla crudeltà con cui è stata stroncata la sua vita ad opera di un giovane, che sembrava molto lontano dalla capacità di compiere questo efferato delitto.

Con forza si è riaperto il dibattito politico e culturale sulle responsabilità delle istituzioni, sui rimedi e sugli strumenti ritenuti adatti per contrastare ogni forma di violenza contro le donne e soprattutto i femminicidi, la cui frequenza in tempi di profonde trasformazioni dei costumi è uno scandalo ingiustificabile.
Il problema interpella drammaticamente la coscienza di ognuno di noi ed esige riflessioni e risoluzioni all’altezza della sua gravità.

I ragionamenti che farò rispecchiano i miei attuali e provvisori convincimenti e non hanno alcuna pretesa, se non quella di fare un po’ di chiarezza per me stesso; sono relativi agli strumenti e alle conoscenze in mio possesso.

Il ricorso sempre più frequente all’uccisione delle donne nei conflitti e nei rapporti interpersonali è un fenomeno che va analizzato in tutti i suoi aspetti, senza alcun preconcetto.  In più di un intervento viene richiamata per i crimini contro le donne la violenza che deriva dai cascami della cultura “patriarcale”, ancora operante a parere di tanti nel comportamento e nelle scelte di molti uomini.

Ragionamento questo che non mi risulta del tutto convincente.  Avrebbe piena validità, se ancora l’istituzione familiare avesse quella struttura e quella stabilità che aveva creato la tradizione del capofamiglia, padrone della sorte dei suoi componenti, sempre pronto ad esigere la sottomissione delle donne, della moglie e delle figlie soprattutto.

Questo tipo di famiglia sopravvive in zone sempre più limitate della società, ma da tempo è stato sostituito da un altro in cui si praticano non facilmente, ma si praticano la parità tra uomo e donna e rapporti tra genitori e figli in cui è difficile trovare l’autoritarismo dei tempi passati.

Parte rilevante degli autori e delle vittime di molti femminicidi hanno un’età che li porta fuori dalla stagione del patriarcato imperante e li colloca nei decenni in cui hanno frequentato la scuola, fino alle superiori, in classi miste, in cui ragazzi e ragazze per tanti giorni e per alcuni anni hanno preso l’abitudine di stare insieme, di conoscersi e di praticarsi.

Certo, se si pensa con quanto entusiasmo donne e uomini hanno affrontato a partire dagli anni ’70 le lotte che hanno trasformato la vita di tutti, la lunga catena dei femminicidi ci ammonisce sul fatto che certe conquiste non sono diventate patrimonio di tutti. Qualcuno è rimasto ai margini assente e anche ostile. Dopo quella stagione, che con qualche ragione si può definire la stagione del Noi, la stagione dei beni comuni, ne è subentrata un’altra in cui si è fatto prevalere il privato sul pubblico, l’egoismo sull’altruismo, fino al punto di storpiarne le ragioni e la serietà affibbiandogli il nome insolente e offensivo di buonismo. Una stagione che ha esaltato la competizione in tutte le varianti, comprese quelle che ricorrono all’aggressività e alla scorrettezza; che ha premiato il ricorso alla menzogna, il dileggio e l’offesa a danno del rispetto; una stagione in cui si è inneggiato sempre ai vincitori e si sono derisi i diversi, gli sconfitti della vita, in cui si sono adulati i ricchi e si sono mortificati e disprezzati i poveri; una stagione in cui la prevaricazione ha cancellato ogni forma di dialogo.

Potevano i frutti velenosi di questa lunga e insopportabile stagione lasciare indenni le relazioni tra le persone e le relazioni tra uomini e donne? Credo proprio di no.

Al peggioramento della qualità delle relazioni umane non sono estranei i messaggi continui e invasivi delle tv, dei film e della pubblicità che riducono la donna al solo suo corpo, facendone preda destinata alle voglie e ai capricci degli uomini; possesso da cercare e mantenere per i propri piaceri e per certe forme aberranti di autostima.

A parte va considerato un altro aspetto del problema, che è quello della difficoltà, dell’imbarazzo e dell’invidia maschili nell’accettazione del crescente successo delle donne nelle occupazioni di rilievo pubblico nella società.

E’ facile inneggiare all’autonomia intellettuale e morale delle donne, ma a non pochi uomini riesce difficile convincersi che le donne possano rivelarsi migliori per qualità e per capacità. La libertà della donna, la sua autonomia, il rispetto delle sue esigenze e delle sue legittime ambizioni vanno collocati al vertice della trasformazione e del miglioramento dei costumi, ma hanno bisogno della pratica quotidiana del dialogo e del rispetto della dignità di ogni persona.

Sia che ci riferisca a giovani coppie, sia che ci si riferisca a coppie mature la violenza e gli assassini delle donne ci riportano ad una cultura sempre più estesa e radicata in cui la vita soprattutto quella degli altri non conta nulla, in cui la ragione appartiene a chi è più forte e chi è più forte crede di avere nelle proprie disponibilità chi è più debole, perché è donna, perché è povero, perché è straniero, perché è meridionale, perché è disabile, perché è disoccupato, perché non ha una casa e nemmeno una macchina.

L’ondata dei femminicidi non proviene solo dai residui della cultura patriarcale, ma anche dall’insieme dei valori praticati che ha reso difficile il rispetto di ogni persona e della donna in molti episodi ed occasioni della vita quotidiana. Il rispetto delle donne non può essere un’eccezione al rispetto che va portato ad ogni persona in ogni ambito dei suoi diritti. E non saranno solo i provvedimenti e le misure più stringenti in ambito penale e processuale, come quelli approvati, a risolverne le sorti, se resta tutto intero l’impianto delle decisioni e della cultura che produce scarti, disuguaglianze e odio sociale. Se rimane in piedi l’apparato dell’informazione e dei media che ha mercificato la donna ed esalta gli istinti predatori degli uomini.

Solo una ripresa in grande stile della cultura del Noi col tempo potrà contenere e sconfiggere il femminicidio; la scuola non ha bisogno di alcun progetto di cultura del rispetto. Per farla funzionare si sa che se non c’è rispetto reciproco non si riesce a fare nemmeno un’ora di educazione fisica e che ci sono tanti di quegli argomenti da cui estrarre ricchi insegnamenti per questo scopo. Sono le famiglie che devono riprendersi la responsabilità educativa, che in questo genere di problemi non ha mai funzionato tanto bene. Sin da piccoli si insegni e si pratichi il rispetto delle bambine e si contrastino le soperchierie dei ragazzi; non si giustifichino e non si coprano le forme di violenze che vengono praticate in casa e fuori e il marito rispetti la moglie, e il fratello la sorella e si considerino fratelli e sorelle tutte le persone con cui si entra in relazione.

E questo il campo in cui le parole, da chiunque pronunciate, non contano niente. Contano solo buoni e costanti esempi.

“Un’educazione davvero valida per i giovani come per gli adulti non consiste nel prodigarsi in consigli, ma nel mostrare che viviamo mettendo in atto i moniti che siamo pronti a rivolgere ad altri” (Platone-Leggi(729 b)

 




Merito e relazione l’ossimoro scolastico

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Giovanni Fioravanti

Non si chiamano materie, neppure discipline, tanto meno aree disciplinari, anche se a volte rivendicano una non ben precisata interdisciplinarità o transdisciplinarità.
Sono le “Educazioni”. Educazione civica, educazione stradale, educazione alimentare, educazione ambientale, educazione alla salute e potremmo proseguire.
Non hanno vita facile, neppure hanno l’imprimatur dei Programmi o delle Indicazioni nazionali  come le loro antenate Educazione domestica e Educazione fisica, tanto da non meritare né una cattedra né un orario, così col tempo finiscono per infrattarsi in qualche ripostiglio scolastico, salvo che non giunga un PTOF a rispolverarle.

È questo il modo in cui a scuola, luogo di apprendimento delle conoscenze e della cultura della propria specie, si esercita l’educabilità, cioè quella disposizione che, pur non essendo esclusiva dell’uomo, costituisce peraltro uno dei caratteri specifici dell’umanità.

Il teorico dell’educazione umanistica, il francese Louis Meylan, definisce l’educazione “come l’attività con la quale gli adulti si sforzano di dare al comportamento, ovvero ai vari modi di pensare, di sentire e di agire del fanciullo e dell’adolescente la forma che ad essi sembri più desiderabile.”[1] Meylan, che scriveva nella prima metà del Novecento, doveva però essere consapevole della crisi che già allora attraversava l’educazione, se un secolo prima l’abate Lambruschini dalla sua tenuta di San Cerbone in Toscana avvertiva: “Ma quel che più merita di essere notato […] è la mancanza di principi direttivi, lincertezza nella quale gli educatori ondeggiano sopra un tenore ben ordinato e costante di condotta verso i fanciulli […]. Un naturale un poco ribelle, un caso straordinario li coglie alla sprovvista; […] e s’abbandonano a quel partito che un propizio, ma ceco, buon senso suggerisce loro; o a quello che consiglia loro l’insipienza, la noia, l’amor proprio ferito. L’indocilità invece della sottomissione, la scioperataggine e la mala grazia invece della  applicatezza e delle composte maniere. […] Cosicché si riducono a dolersi di sé e dei giovani, a non sapere più come condursi e a dare ragione a chi dice che i sistemi moderni di educazione sono inefficaci.[2]

Al di là dello stile e del lessico pare scritto oggi, da questo punto di vista i social sono rivelatori. Prendo da un post di insegnanti a caso: “La riprovazione no, perché altrimenti ci sono i sensi di colpa e guai a sentirsi in colpa quando si sbaglia. E per  evitare i traumi, abbiamo smesso di educare, abbiamo avuto paura di educare, di dire no, di dire che quel comportamento non va bene, di dire che quella cosa non la puoi fare perché non è giusto farla. Abbiamo paura, non ne abbiamo voglia, la coerenza costa energia, fatica, impegno. […] Poi, quando succedono le tragedie, tutti ad interrogarsi, a fare la disamina del disagio psicologico giovanile, a dare la colpa alla malattia mentale.”

Ora il Ministro dell’Istruzione e del Merito decide che è giunto il momento, spinto dallo sgomento che l’assassinio di Giulia Cecchettin ha prodotto nel paese, di sperimentare nelle secondarie di secondo grado una nuova educazione: l’Educazione alle relazioni.
Alla notizia mi è venuto d’istinto pensare che una mela sana posta insieme a mele guaste finisce anche lei per marcire.

Semplicemente perché a scuola le relazioni sono malate e non è che si curano con interventi estemporanei rivolti agli studenti, semplicemente per il fatto che il problema di sapersi relazionare non è questione che riguarda solo i giovani, ma prima di tutto gli adulti a partire da quelli con cui i giovani trattengono rapporti ogni giorno a scuola. E se gli insegnanti sono quelli che scrivono post del tipo di quello sopra riportato non si fa che seminare in un terreno arido.

Quando il primo febbraio del 2023 una ragazza lascia un biglietto: “ho fallito negli studi” e si suicida, lo scalpore non è stato lo stesso che proviamo oggi per la sorte di Giulia e il tema della relazione a partire dalle aule scolastiche non ha sfiorato la mente di nessuno.
Anzi si è ciechi circa cosa può voler dire e può produrre per dei giovani adolescenti quel “Merito” che gli adulti di questo governo hanno voluto aggiungere all’Istruzione.

L’ha spiegato Albert Ellis con la sua RET, la terapia razionale-emotiva per liberarsi dei propri irrational beliefs, convinzioni rigide e irrazionali, come il bisogno dell’approvazione di chi si stima per sentire di valere, che occorre avere successo diversamente si è dei falliti, che la mancanza di rispetto degli altri e l’ostilità del mondo sono orribili e insopportabili.[3]

All’indomani del suicidio della ragazza del biglietto, un’altra ragazza scrive a la Repubblica: “La scuola italiana insegna che valiamo quanto un numero tracciato con la penna rossa. La scuola insegna la competizione, la demonizzazione di ogni sentimento. Se invece che darci un bonus da spendere ci regalaste professori che hanno una formazione, che amano quello che insegnano…”
Allora viene da pensare che il problema vero non sia nella relazione con gli altri, ma nella relazione con se stessi a partire dagli adulti.

Quando si oltrepassa il confine dell’inviolabilità della vita propria o  dell’altro ritengo che si entri in un territorio che va ben oltre l’educazione alle relazioni, all’affettività e alla sessualità.
Ma sono convinto che servirebbe una campagna a tappeto, come si è fatto con la pandemia da Covid, di vaccinazione con la la RET, per liberare adulti e giovani dai costrutti mentali che condizionano i nostri comportamenti.

Qui ritornano le parole con cui Freud chiude la sua lettera di risposta a Einstein che lo interroga sulla guerra: “La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nientaltro potrebbe produrre ununione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. […] Etriste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.
“La dittatura della ragione”, ma la nostra scuola è uno dei mulini di Freud.

[1] L. Meylan, Educazione Umanistica, La Nuova Italia, Firenze, 1951
[2] R. Lambruschini, Della Educazione e della Istruzione, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 2-3
[3] A. Ellis, R.A. Harper, A guide to rational living, Wilshire Book Co, 1997, pp. 101-127




Niente voti, niente valutazione? Non è così

di Roberto Trinchero

Mettiamo in chiaro alcune cose:
1 – Non esprimere la valutazione con un voto numerico non significa “Non valutare”
2 – Il voto numerico non è uno stimolo a fare meglio: quando un allievo ha preso il suo “6” può tranquillamente “sedersi sugli allori”
3 – Neanche il “3” è uno stimolo a fare meglio: l’allievo potrebbe semplicemente non sapere cosa fare per poter fare meglio
4 – Dare un “3” a un allievo che avrebbe le potenzialità ma non si impegna, sperando che questo lo convinca a impegnarsi è una chimera: se ha già deciso di non farlo non lo farà, e che il suo andamento scolastico sia pessimo lo ha già capito da solo (ha le potenzialità…)
5 – Non dare il voto sulle singole prove significa dare una valutazione descrittiva, quindi più completa, dettagliata e orientata al miglioramento, quindi non si valuta meno di prima, si valuta PIÙ di prima
6 – Dare un giudizio descrittivo sulla base di criteri precisi e noti fin da subito agli studenti significa avere poi tutti gli elementi per dare un significato al voto finale, nei casi in cui la normativa ne prevede la presenza
7 – Non si vede proprio come si possa dare un voto senza avere criteri precisi di corrispondenza tra voto e obiettivi di apprendimento raggiunti. Ma se è così, perché serve il voto? Non basta una valutazione descrittiva basata su quei criteri?




Maleducazione sentimentale

di Maurizio Parodi

Rispetto alla richiesta di un maggiore coinvolgimento delle scuole nella formazione anche “emotiva” di studentesse e studenti, molti dirigenti e docenti replicano, sovente indignati, che:
a) la scuola sta già facendo tutto ciò che si può fare, come del resto ha sempre fatto;
b) non spetta alla scuola occuparsi di problemi che non riguardino la didattica;
c) tocca alle famiglia educare i figli;
d) la scuola non può farsi carico di ogni, nuova emergenza sociale.

Trovo penosamente ridicolo ipotizzare l’introduzione di una nuova materia di studio da dedicare all’intelligenza emozionale, con l’inevitabile corollario burodidattico: più lezioni, più compiti, più verifiche…, e concordo pienamente sull’ultimo punto: basta sovraccaricare la scuola e gli studenti di “compiti” impropri.
Sono però convinto che la formazione integrale della persona rientri, invece, nei “compiti” propri della scuola, e non sono certo che a scuola sia sempre e da sempre dedicata la giusta attenzione alla persona, nella sua interezza – basterebbe chiedere agli studenti di un qualsiasi istituto quali siano i “sentimenti” che associa alla scuola e allo studio.

Quanto alla maggiore responsabilità delle famiglie in ordine alla maleducazione sentimentale degli studenti, va detto che non si può presumere o pretendere alcunché, dal momento che le scuole non possono scegliersi né gli studenti né le loro famiglie (e già sulla nozione di “famiglia” ci si dovrebbe interrogare), anche se è capito persino che un liceo vantasse l’assenza, tra gli studenti, di incresciose “diversità.

I genitori non devono possedere un titolo di studio per essere tali, non sono reclutati e retribuiti da un’istituzione pubblica, statale, pertanto può darsi “di tutto e di più” oppure il nulla: l’invadenza vs la latitanza, anche quando ci si impegni, doverosamente, per favorire la più ampia collaborazione – che non significa delegare alla famiglia i propri doveri didattico-educativi o invadere spazi di autonomia non sempre rispettati (talvolta, capita che si faccia l’una e l’altra cosa insieme).
Sono i professionisti dell’istruzione e dell’educazione che devono essere preparati, che devono impegnarsi anche per compensare, nei limiti del possibile, le carenze delle famiglie, soprattutto le più disastrate, o, quanto meno, non aggravare i danni già subiti proprio negli ambienti, anche domestici, dai quali provengano.
A ciascuno il suo!