Mario Lodi: “La pace va fatta prima della guerra”. Firma l’appello

di Roberto Lovattini

Mario Lodi era convinto che la Pace andasse fatta prima della guerra e non dopo. Per questo motivo dedicò tutto il suo impegno come maestro, educatore e scrittore all’educazione alla Pace.

Con l’appello che noi del Comitato Scuola Pace Costituzione abbiamo promosso nelle scuole e nel mondo educativo, è a lui e al suo lavoro di professionista militante che pensiamo mentre siamo impegnati a  raccogliere adesioni chiedendo, non una generica firma, ma  l’impegno personale di uomini e donne che lavorano nel campo dell’educazione.

Pensiamo che spetti a noi, adulti ed educatori, parlare con bambini e ragazzi, fare in modo che  possano acquisire l’abitudine a confrontarsi, esprimere pareri e partecipare alle decisioni che li riguardano come prescrive la Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia.

Questa abitudine possono impararla se compiono tante esperienze pratiche partendo dalla  vita reale, quella vissuta a scuola ma anche e soprattutto in quella grande scuola che è il mondo. Dai problemi scolastici e relazionali, ai conflitti bellici che rischiano di spazzare via l’umanità intera.

Infatti sempre Mario Lodi nel numero 3 di A&B (A come Adulti e B come Bambini) nel 1983 proponeva “di usare i soldi, invece che per le armi, per costruire case, ospedali, scuole e infine fare un referendum in tutto il mondo, facendo votare anche i bambini, per decidere se il popolo vuole i missili o no sul suo territorio.”

Qualche anno fa la classe 5^ della scuola primaria Caduti sul Lavoro –  anno scolastico 2006/07, al termine di uno studio approfondito, propose la creazione del Ministero per la Pace.

Ecco: facciamo affidamento sui docenti, ma non solo, per educare alla Pace e alla nonviolenza nelle scuole e nei luoghi dove i giovani si ritrovano ( centri educativi, parrocchie, centri culturali e ricreativi, dopo scuola). Sappiamo che  in questo momento anche a scuola, è difficile  parlare la lingua della nonviolenza, del dialogo e del confronto. Esiste una certa tendenza, speriamo minoritaria e che non faccia breccia nella scuola, a rivalutare linguaggi e idee messe al bando dalla storia, a distinguere popoli buoni da altri cattivi e a non confrontare le ragioni degli uni e degli altri. Si tenta di far rientrare a scuola messaggi e contenuti che richiamano lo spirito militaresco, come il tentativo, ritirato per le proteste, di introdurre nelle scuole zainetti con scritte militari.

Occorre però resistere, dobbiamo farlo come forma di rispetto nei nostri confronti e nei confronti dei nostri alunni che devono vedere in noi dei punti di riferimento e come forma di solidarietà per i  morti nelle guerre in corso, tra cui tanti bambini.

Sappiamo però che il pericolo più grande è quella forma di indifferenza, il non voler prendere posizione, che è tutto il contrario del motto milaniano ”I care” (mi interessa, me ne faccio carico), che è l’unico che può coinvolgere e appassionare studenti e studentesse.

Oggi come ai tempi di Lodi abbiamo la necessità di non lasciare soli i bambini con le loro domande e le loro paure “I bambini  […] sanno che l’uomo, con la sua intelligenza ha inventato una quantità di macchine utili, ma nello stesso tempo ha prodotto armi che possono distruggere la vita sul pianeta. Essi sanno che il mondo è diviso e che su ogni parte stanno puntati missili pronti a partire, carichi di bombe. Sanno che in pochi minuti la terra può essere distrutta e gli uomini morire. E loro, i bambini, non avere il diritto di vivere la loro vita.” ( sempre Lodi “La Pace nelle poesie di bambini e adulti).

A scuola i bambini e i ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento, di persone che vivano l’ “I care”.

Sta a noi con il nostro lavoro quotidiano contribuire alla formazione di una mentalità pacifica e che rifiuta l’uso della violenza per risolvere le questioni, dai litigi personali ai conflitti tra gli stati. E’ così che possiamo dare concretezza alla nostra Costituzione e a quanto scritto nelle “Indicazioni Nazionali per il curricolo.”

Per questo motivo invitiamo tutto il mondo della scuola, dell’università e dell’educazione a sottoscrivere il nostro appello compilando il form che trova sulla nostra pagina facebook -scuola pace costituzione – oppure direttamente cliccando qui.
Senza la Pace tutto è perduto! Con la Pace tutto si può sperare di ottenere!




Intelligenza artificiale: perché pone interrogativi etici e sui nostri diritti di cittadini?

di Rodolfo Marchisio
e Stefano Penge

Dopo aver introdotto il tema, averlo approfondito  vediamo di spiegare un po’ di più gli aspetti critici dal punto di vista della cittadinanza.
Un intervento educativo (formazione di competenze e cultura digitale) è possibile solo se si supera la visione della digitalizzazione come un processo di democratizzazione spontanea dell’accesso delle informazioni oggi non più possibile. Agenda digitale. E come un processo “magico” e spontaneo di riforma della scuola in senso democratico grazie alle tecnologie

Quale IA
L’Europa ha stabilito i limiti da porre allo sviluppo della IA per tutelare i cittadini:
AI Act.
Riguardano i modelli fondativi alla base di grandi sistemi di AI e il ricorso alla sorveglianza biometrica e alla (ipotizzata) polizia predittiva. L’AI Act, inquadra i diversi sistemi di intelligenza artificiale pone paletti, proibisce alcune applicazioni e introduce procedure di salvaguardia per mettere al riparo i cittadini dell’Unione da abusi e violazioni dei diritti fondamentali. L’attenzione è:
1- sui modelli fondativi, quelle forme di intelligenza artificiale generali in grado di svolgere compiti diversi (come creare un testo o un’immagine) e allenati attraverso un’enorme mole di dati non categorizzati.
Si è lavorato ad una applicazione preventiva delle regole su sicurezza informatica, trasparenza dei processi di addestramento e condivisione della documentazione tecnica prima di arrivare sul mercato. Wired.
2- La UE è arrivata ad un compromesso sull’uso dell’AI per compiti di polizia e di sorveglianza.
Sul riconoscimento biometrico in tempo reale, ma si era discusso anche di polizia predittiva poi vietata. Ossia usare gli algoritmi per prevedere le probabilità con cui può essere commesso un reato, da chi e dove? Quali diritti verrebbero violati con questa delega? AI Act Europa (Wired)

Oltre a questo ci sono nodi e modi di vedere la IA (che è mondo complesso) che emergono anche dal fatto che il termine sia sempre più spesso accompagnato da un aggettivo (generativa, etica, spiegabile …).
Si riflette su questi temi e interrogativi:

  • L’intelligenza artificiale può prendere decisioni basate sui dati e sul passato. Talora errate a causa di una mancanza di consapevolezza del contesto. Esiste una possibilità di sapere come? Dovrebbe essere la IA explainable. (spiegabile). Ma funziona? Per tutta la IA?
  • Una decisione può influenzare la vita delle persone, essere utilizzata per scopi maligni, essere influenzata dai pregiudizi e dai valori dei suoi creatori. Gli algoritmi utilizzati nell’IA possono essere influenzati da pregiudizi, anche involontari. O “premiati” in modo da imparare in una certa direzione prefissata da chi li progetta. Ciò può portare a decisioni discriminatorie, sbagliate, diverse da quelle che avrebbero preso degli umani (processi di selezione del personale, prestito bancario…). Anche se le stesse decisioni umane sono diverse se prese da persone competenti, da potenti, da una maggioranza più o meno informata. Come constatiamo da anni. Ma il meccanismo si potenzia ed opacizza con IA.
  • L’ IA comporta la raccolta e l’elaborazione di grandi quantità di dati personali. Questo solleva preoccupazioni sulla privacy delle persone e sulla sicurezza dei dati.
  • L’IA sta automatizzando e sostituendo sempre più lavori umani. Ciò solleva preoccupazioni sulla perdita di posti di lavoro e sulla necessità di una riqualificazione delle persone.
    Vedi studi del possibile impatto sulla occupazione.
  • Nonostante i progressi nell’IA, esistono ancora criticità sui sistemi di controllo decisionale affidabili e trasparenti. Questi problemi richiedono una rigorosa regolamentazione, un’etica e una responsabilità riguardo all’uso dell’IA, nonché un’attenzione costante alla sua implementazione e sviluppo.

Stefano Penge, filosofo e informatico, avverte:
“L’interesse recente – da un anno a questa parte – per l’intelligenza artificiale, con tutti i discorsi a favore e contro, si è concentrato su un sottoinsieme particolare di abilità che attraggono e spaventano apparentemente più delle altre: quelle linguistiche, che permettono ad un software di analizzare un testo, di tradurlo, di prepararne un riassunto, ma anche di continuarlo o riscriverlo secondo un altro stile; il tutto, attraverso un’interazione continua con le persone (il famoso ‘prompt’).
Il riconoscimento facciale e la guida autonoma (le altre abilità di cui si occupa l’AI ACT) hanno in comune con questo sottoinsieme linguistico  l’abbandono della logica tradizionale, quella basata su regole e deduzione, a favore di una logica induttiva
Niente di nuovo, insomma: tutto sommato anche la nostra specie funziona così la maggior parte del tempo e solo in casi speciali usiamo la logica classica e il ragionamento formale. Vedi anche https://www.stefanopenge.it/wp/intellig-enti/.
Quelli citati sopra sono tutti esempi di machine learning, che indica una maniera di costruire modelli artificiali che simulano una parte del mondo (per esempio, un testo)  a partire dalla raccolta di dati relativi a miliardi di situazioni, per induzione appunto.
Questo sistema è inerentemente soggetto ad errore, perché i dati di partenza non sono tutti i dati ma solo una selezione;  perché la maniera in cui sono stati selezionati quei dati (e la maniera in cui vengono “premiati” i modelli migliori) potrebbe essere non oggettiva ma guidata da preferenze culturali o sociali. Ma soprattutto perché il futuro non è per forza uguale al passato, mentre il machine learning per sua natura si basa proprio su questa fede.
Ma anche se decidessimo di fidarsi delle competenze dei software basati sul machine learning, il problema nasce quando queste competenze vengono usate non a fianco, ma  al posto di quelle umane come se fossero equivalenti in qualità, perché costano di meno e rendono di più a chi le governa.”

Anche Sasha Luccioni, ricercatrice nell’AI etica e sostenibile -HuggingFace – sottolinea:

  1. Consumi energetici troppo elevati, i bias cognitivi che vengono riproposti dagli algoritmi, e la tutela del copyright sono le tre sfide che l’intelligenza artificiale dovrà affrontare.
    La diversità deve essere presente all’interno dei modelli dell’intelligenza artificiale: “La tecnologia non è neutra, i bias dell’intelligenza artificiale altro non sono che quello che noi vediamo nella società. Qualsiasi stereotipo si applichi viene peggiorato dal sistema, che tende ad amplificare la distorsione. Solo il 12% di chi lavora nell’AI è donna …è fondamentale che questa tecnologia “non sia nelle mani di pochi soggetti, deve essere open, per intervenire su questi aspetti in modo condiviso”. Wired
  2. Per tutelare la proprietà intellettuale e il copyright (Luccioni) bisogna “implementare meccanismi per capire quali siano le fonti che sono state utilizzate, analizzare i dataset usati da un’intelligenza artificiale. Un lavoro immane che va fatto fare dalle macchine, ma come e da chi controllate? E i cittadini/utenti in tutto questo?
  3. L’impatto ambientale non è trascurabile:
    Ad esempio, sono state emesse 500 tonnellate di CO2 per la creazione di Gpt-3”.
    Wired

    A proposito della possibilità di controllare l’IA
    Penge paragonava la IA ad una piccola bomba atomica: ha un potere enorme, ma può essere costruita (e smontata) solo da quelli che hanno sufficiente potere per raccogliere, selezionare e gestire i materiali (radioattivi!) necessari. Il semplice cittadino non avrà mai questa possibilità; al massimo può giocare con le interfacce che permettono di interagire con i software di IA.
    “Per dire meglio ci sono tre aspetti:
    uno è quello della chiusura del software, in questo caso della proprietà dei modelli linguistici utilizzati, che hanno grande valore perché sono stati prodotti con molte ore di calcolo e molto lavoro di revisione umana;
    – il secondo è quello delle dimensioni di questi modelli, che per essere creati e trattati richiedono risorse informatiche enormi, che consumano elettricità, scaldano, etc.;
    – il terzo è quello dell’opacità: un Large Language Model è costruito con miliardi di parametri. Significa che non è analizzabile da umani, non si può capire perché risponde in un modo o in un altro. Questi tre aspetti insieme impediscono di mettere le mani in questi strumenti come si potrebbe fare con un software libero, ad esempio con LibreOffice (ma non con MS Word)
    .”

    Tornando alla scuola un esempio di preoccupante ottimismo in questo podcast che ipotizza una scuola alla cinese. Paese che notoriamente è da tempo l’incarnazione del “grande fratello” che viola costantemente i diritti dei cittadini, sudditi ipercontrollati e prigionieri.  Concluderemo sulla scuola.

 

 




Gli apprendisti stregoni dell’autonomia differenziata applicata alla scuola

di Stefano Stefanel

Nel generalizzato disinteresse generale si sta sviluppando sotterraneamente e mediaticamente l’applicazione dell’autonomia differenziata, inserita in Costituzione nel 2001 con la legge costituzionale n° 3 del 12 marzo 2001 emanata il 18 ottobre 2001 a seguito del referendum popolare confermativo del 7 ottobre 2001 (10.433.574 voti favorevoli, 5.816.527 voti contrari, 229.376 schede bianche e 363.943 schede nulle).
L’autonomia differenziata riguarda molti settori e quello scolastico non si sottrae a questo esperimento di ingegneria costituzionale che non pare riuscito finora benissimo, almeno a livello teorico.
L’autonomia differenziata è una novità per quindici regioni italiane, mentre di fatto già c’era negli statuti speciali per le cinque Regioni individuate dalla Costituzione del 1948 (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta), anche se tre delle cinque regioni hanno applicato le norme anche sulla scuola soprattutto per l’applicazione di trattati internazionali (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Bolzano, il Friuli Venezia Giulia per la minoranza di lingua slovena, la valle d’Aosta per le norme di collegamento con la Francia) e una sola (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Trento) ha realmente regionalizzato la scuola per decisione non derivata da norme internazionali con la legge n° 5 del 7 agosto del 2006.

In questo momento l’autonomia differenziata applicata alla scuola viene rivendicata da poche Regioni e – tra tutte – solo il Veneto pare avere le idee chiare su cosa fare e pretende una totale regionalizzazione del sistema scolastico, uscendo di fatto dal sistema scolastico nazionale. Ci sono delle parti politiche interessate all’autonomia differenziata e parti che sono ostili anche alla sola idea inserita in Costituzione (queste ultime sono soprattutto forze di centro sinistra e sindacali, che paiono essere diventate nemiche dell’autonomia differenziata pur avendola inventata). Ma nel complesso l’opinione pubblica non è interessata alla cosa, la sente distante e non guarda con interesse oltre la scuola frequentata dai propri figli.


E allora, verrebbe da chiedersi, dove sta il problema? Anche perché tutto va a rilento e i Livelli Essenziali delle Prestazioni, che dovrebbero definire il quadro economico di partenza e la solidarietà nazionale alle parti del territorio nazionale che quei livelli non li raggiungono nemmeno lontanamente, sono più uno schema di lavoro che una solida base di partenza.

DOVE STA IL PROBLEMA

Il problema sta in alcuni punti del (mancato) dibattito che si possono così riassumere:
a) l’applicazione dell’autonomia differenziata richiederebbe una unanimità di intenti di tipo federalistico in tutta Italia, in modo che si vada verso uno stato con elementi di federalismo dentro l’unitarietà nazionale confermata, mentre invece stanno venendo avanti proposte autonomistiche legate a forze politiche partitiche con progetti di parte, indifferenti a qualunque richiamo ad un disegno unitario (ad esempio quella del Friuli-Venezia Giulia che propone di regionalizzare il solo Ufficio scolastico regionale);
b) l’autonomia differenziata nella scuola non deve riguardare l’intero sistema di istruzione, ma può riguardare anche singole e marginali parti di quel sistema, il che vuol dire che non è necessario per regionalizzare avere un progetto generale e organico, ma è possibile anche intervenire su piccoli punti, molto adatti alla propaganda politica e poco alla gestione quotidiana delle scuole;
c) non tutto ciò che riguarda l’autonomia differenziata abbisogna di LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) e dunque è possibile anche regionalizzare parti del sistema scolastico partendo dal proprio punto di vista e non da quello generale: l’esempio più eclatante è quello del segmento 0 – 6 (da zero a sei anni, scuola non dell’obbligo, asili nido, sezioni primavere, scuole dell’infanzia in parte consistente non di proprietà statale) attualmente per lo più in mano a soggetti non statali e quindi non “tabellabile” dentro livelli di prestazione nazionali;
d) una volta approvati i LEP è possibile che le regioni più ricche (Veneto e Lombardia in testa) li accettino a scatola chiusa, perequazione a favore del meridione italiano inclusa, e dunque a quel punto il sistema scolastico nazionale si sfaldi, anche perché i LEP possono prevedere livelli alti di prestazioni (che solo le Regioni più ricche possono fornire), ma anche LEP più realistici che – paradossalmente – possono produrre un vantaggio economico per le regioni più ricche e che quindi diventerebbero elemento politico vincente (il presidente della regione Veneto Zaia e l’assessore all’istruzione Donazzan qualche tempo fa hanno dichiarato che vogliono regionalizzare la scuola veneta per stabilizzare i docenti attraverso aumenti stipendiali che possono tranquillamente erogare).

LA CONFUSIONE DELLA POLITICA

Una materia così tecnica e sistemica dovrebbe essere maneggiata solo dagli esperti del settore e dovrebbe avere dei passaggi esplicativi chiari nei confronti dell’opinione pubblica, destinata a portare bambini e ragazzi a scuola almeno finché non nasce una modalità alternativa all’istruzione, cioè, dico io, per almeno altri duecento anni. Invece tutto è lasciato in mano a politici e giuristi che col mondo della scuola non hanno alcuna familiarità. Lo si vede chiaramente da quanto viene portato all’attenzione pubblica sui documenti (per lo più segreti) di cui si sta discutendo in parlamento e nei consigli regionali.
Perché avviene questo? Io ritengo per un motivo molto semplice: un qualunque professionista della scuola può smontare il tutto in un batter d’occhio, perché quello che viene proposto mediaticamente ha come primo obiettivo quello di smantellare il sistema scolastico nazionale, che sta alla base della nostra costituzione e della nostra convivenza civile e che in Italia pochissimi vogliono, invece, smantellare a favore di regionalismi collegati alla propaganda politica.
Ci son però dei fatti molto gravi, alcuni dei quali talmente di dettaglio da essere praticamente invisibili (ma si sa che il diavolo sta nel dettaglio). Recentemente il Governo ha razionalizzato (tagliato) la rete scolastica eliminando alcuni posti in organico di diritto di dirigenti scolastici e direttori dei servizi generali e amministrativi.
Il provvedimento ministeriale è stato di tipo contabile e naturalmente poteva essere osteggiato da chi lo riteneva sbagliato. Ma alcune regioni, governate dal centrosinistra, hanno impugnato il provvedimento chiedendone il suo ritiro perché avrebbe violato la potenziale autonomia regionale e forze di opposizione al centrodestra hanno accusato i “governatori” regionali di non aver difeso l’autonomia regionale. Se lo si analizza dal punto di vista di un sistema scolastico regionale è molto grave chiedere l’applicazione dell’autonomia differenziata su un singolo provvedimento, perché chi governa attualmente le Regioni ha allora diritto ad applicare quell’autonomia come ritiene meglio di fare.

O l’autonomia differenziata è una riforma in applicazione della costituzione che non deve toccare l’idea di sistema scolastico nazionale, ma solo definire in forma autonoma le specificità regionale, oppure se la si può richiamare ogni qual volta qualcuno a livello centrale decide in maniera diversa da come la si pensa allora tutto diventa lecito: sia quello che si decide a destra, sia quello che si decide a sinistra, senza tenere in alcun conto l’interesse generale, ma occupandosi solo dell’interesse di parte. Anche perché – io penso – se si regionalizzassero i dirigenti scolastici e i direttori dei servizi generali e amministrativi (cosa possibilissima) lo Stato perderebbe su di loro immediatamente il potere di “razionalizzazione”, ma si assisterebbe a quella che – per me -sarebbe un’involuzione inqualificabile di un sistema scolastico nazionale, che vuole la sua dirigenza scelta attraverso concorsi pubblici e nazionali, anche se su base numerica regionale.

E DUNQUE COSA VUOL DIRE REGIONALIZZARE

Per capire cosa vuol dire regionalizzare un sistema scolastico o una sua parte porto solo alcuni sintetici esempi. In sé ognuno di questi esempi porta dei vantaggi per chi regionalizza e immediatamente svantaggi per gli altri, ma sono tutte questioni molto tecniche che chi sta dentro la scuola vede bene e chi sta fuori dalla scuola difficilmente comprende:

a) Sistema 0-6: in questo momento è già “selvaggiamente regionalizzato”, nel senso che i servizi che ci sono al nord non ci sono al sud e che il livello delle prestazioni non è definibile a livello nazionale, anche per una carenza strutturale di edifici adatti all’infanzia. Il sistema attualmente è diviso in due segmenti (0-3: asili nido e 3-6: scuole dell’infanzia) con un segmento di unione (sezioni primavera) e solo il secondo segmento vede la presenza diretta dello stato con le scuole dell’infanzia statali. Su questo segmento insistono 7-8 contratti diversi per personale di diversa derivazione, con una babele normativa che non ha niente di nazionale o sistematico. Ora se una regione regionalizzasse questo segmento facendolo diventare tutto regionale si accollerebbe una spesa notevole, ma al tempo stesso interverrebbe massicciamente sul welfare delle famiglie a cominciare da quelle più giovani, che hanno figli piccoli. Ma in questo modo l’omogeneità del sistema nazionale “scapperebbe” per sempre.

b) Organico del personale della scuola: è regionalizzato solo in Trentino e costa un mucchio di soldi, perché la regionalizzazione ha aumentato gli stipendi del personale. Diciamo che questa tipologia di regionalizzazione è la più costosa e per ora la rivendica solo il Veneto: è una gabbia salariale di nome diverso, che parte da un reclutamento e una formazione regionale e non nazionale.

c) Istruzione tecnica e professionale e formazione professionale: questa regionalizzazione toglierebbe quel tipo di segmento di istruzione dal sistema scolastico nazionale potendo prevedere anche qualifiche di tipo diverso decise dalle regioni per tutta la filiera e – soprattutto – toglierebbe il dualismo tra formazione e istruzione professionale, gestendo qualifiche e percorsi in forma diretta.

d) Ufficio socialistico regionale: regionalizzare solo l’ufficio scolastico (che si chiama regionale, ma è di fatto un ufficio statale che agisce nelle singole regioni, ma risponde al Ministero) significherebbe far dirigere il personale dello stato selezionato con concorsi statali (dirigenti, direttori, docenti, ata) da personale di nomina regionale, mettendo la politica regionale in posizione di vantaggio rispetto alla gestione del sistema.

Mi fermo qui perché questo è solo un articolo. Tutto quello che ho scritto meriterebbe approfondimenti passo per passo, mentre vedo in giro poco interesse e soltanto posizioni di parte, prive di qualunque logica di sistema. Cioè, vedo molti apprendisti stregoni su una questione come la scuola dove si ha a che fare con le menti e le intelligenze di tutta la gioventù italiana.




Niente di nuovo sul fronte artificiale

 

di Marco Guastavigna

Non vi è nulla di cui preoccuparsi. Il sommo filosofo dell’onlife tassonomizza perfino il proprio aspirapolvere robot. E, di fronte alla fertilità delle macro-categorie, cosa sarà mai la mancata citazione delle micro-lavoratrici e dei micro-lavoratori del Sud globale che fotografano feci di cane per addestrare i dispositivi domestici “intelligenti” ad evitarle, qualora nelle dimore del Nord globale si verificasse questa emergenza?

Più in generale, l’accademia sta praticando la solita strategia, ovvero l’innovazione conservatrice. E quindi, come sempre, si proclama fervida paladina dell’ennesima rivoluzione ontologica ed epistemologica, a cui non si può certo restare indifferenti se si vuole avere lo sguardo proteso nel futuro. Ovviamente, quello a supremazia occidentale. L’importante è convogliare il tutto in “sapere da scaffale”, utile per strutturare insegnamenti ed esami che garantiscano la conservazione degli organigrammi e dei rapporti di potere consolidati nei decenni trascorsi e auspicati per quelli a venire.

La casta più elevata di questo tecno-feudalesimo intellettuale è tutta intenta, inoltre, a pubblicare monografie autografe, in cui esplicitare e celebrare concettualizzazioni originali e, soprattutto, proprietarie. Queste opere consentiranno di sedere da protagonisti ai tavoli della conoscenza mercificata, di ricevere inviti a convegni, seminari, trasmissioni televisive e così via. Il patto sottoscritto tra gli autori è del resto molto solido: è gradita la reciprocità della citazione bibliografica, in modo di rafforzare le posizioni di tutti. Fare rete.

Qualcuno, particolarmente audace, si spinge fino ad assumere la leadership della curricularizzazione dell’intelligenza artificiale, intesa come oggetto di apprendimento, prima per gli insegnanti, poi per gli studenti. Anche l’istituzione centrale dell’istruzione secondaria, del resto, ha battuto un colpo nella direzione dell’addestramento. A un livello gerarchico-culturale più basso, infine, valvassori e valvassini di università pubbliche e private, associazioni, sindacati, riviste e aziende in genere promuovono una miriade di percorsi di formazione adattiva, fondati sull’empirismo e sui ricettari pratici.

La gran parte di queste ultime iniziative ha per altro un buon successo. Esse, infatti, intercettano – anche qui nulla di autenticamente nuovo, niente paura! – il bisogno di trivializzazione dei destinatari, ovvero la riduzione al minimo indispensabile di ciò che si deve fare per (avere l’illusione di) capire. Questo approccio è una delle piaghe dell’istruzione nel nostro Paese. In sé e perché consente a troppi soggetti e a troppi individui di improvvisarsi agenzie formative e formatori.

Del resto, si finisce con l’avere a che fare con l’epistemologia e l’ontologia dell’improvvisazione anche nel ragionare di motori di ricerca e di dispositivi artificiali conversazionali. Mi spiego.
Come forse qualcuno sa, mi occupo da tempo di rappresentazioni grafiche della conoscenza, argomento su cui ho accumulato un certo numero di studi e di pubblicazioni e – almeno per me – una certa credibilità scientifica. Considerandomi pertanto sufficientemente esperto della questione, è un mio costante vezzo cognitivo e professionale testare i dispositivi digitali con cui vengo via via a contatto interrogandoli in proposito.

L’ho fatto nel passato con i vari search engine (da sua maestà Google e DuckDuckGo, passando per Qwant) e recentemente con chatbot e affini (da sua signoria ChatGPT, a Perplexity.ai, passando per Google Bard e You.com).

Come è noto, i motori di ricerca propongono un accesso a risorse selezionate e indicizzate; starà all’utente decidere quali utilizzare. I chatbot, invece, formulano una risposta articolata e, spesso anche se non sempre, indicano le fonti a cui hanno attinto, oltre a proporre domande e indicazioni con cui proseguire la conversazione. Questa la differenza sostanziale tra le due modalità. Ma vi è anche – almeno nel campo delle “mappe” – una costante: i riferimenti, le fonti e le risorse sono molto spesso i medesimi. Il che, nel caso specifico, significa che le risposte (quale che ne sia la forma) erano e sono infarcite di corbellerie, banalizzazioni, errori teorici e operativi.

Le rappresentazioni grafiche della conoscenza – per la vulgata le “mappe concettuali” – sono infatti un tema sottovalutato e quanto mai banalizzato, da insegnanti, studenti ed editoria. Ad aggravare ulteriormente la questione, le numerose applicazioni destinate alla loro confezione hanno diffuso la convinzione che saper utilizzare i software sia condizione necessaria e sufficiente per impiegare in modo significativo le “mappe” nella didattica.

Uno sfondone ricorrente tra gli “esperti” è da sempre affidare ai prodotti il cui nome commerciale fa riferimento alle mind maps (da Freemind, a MindManager, fino a Xmind Copilot, che nuota nell’acquario dell’IA) la realizzazione di concept maps.
Bene: confusione e ignoranza hanno fatto da sfondo non solo alla produzione di risorse inizialmente indicizzate e proposte dai motori di ricerca, ma anche ai comportamenti degli utenti di fronte alle risposte alle loro query (apertura effettiva delle varie fonti, tempi di permanenza su di esse, quantità di link verso un’unità informativa). E, di conseguenza, hanno inquinato anche il monitoraggio da parte degli algoritmi di manutenzione e raffinamento, con il risultato di valorizzare le risorse di minor qualità culturale, perché molto frequentate da utenti alla ricerca di soluzioni rapide; tra questi, molti siti di venditori di applicazioni, le cui informazioni hanno quindi la dimensione del marketing. Al peggio non c’è mai fine.
E così la contaminazione si è ribaltata anche sui chatbot, perché essi sono stati addestrati su materiali ampiamenti degradati dal processo descritto. Gli utenti, per altro, sono rimasti in larga misura gli stessi, con il medesimo atteggiamento riduttivo; e così anche feedback e validazioni/bocciature delle risposte sono corrotti: l’insipienza degli autori e quella degli utenti si saldano in un circolo vizioso che al momento sembra impossibile arrestare.




Non voltare mai le spalle al sapere. Qualche riflessione su saperi e competenze

di Raimondo Giunta

Un’idea nuova di istruzione e formazione

Pluralità dei saperi, pluralità dei linguaggi, pluralità delle culture: complesso è il mondo in cui si collocano le scuole del terzo millennio. La scuola è costretta a rinnovarsi e a proporre un’idea nuova di istruzione e formazione. Per farlo è necessario innanzitutto chiedersi se gli attuali processi di istruzione e formazione sono ancora in grado di preparare gli studenti ad affrontare i problemi e le sfide della società contemporanea; se li preparano a capire le trasformazioni in atto e i riflessi che hanno sulla vita quotidiana; se gli forniscono strumenti per un proprio progetto di vita e per l’inserimento nel mondo del lavoro; se consentono un’appropriata assimilazione dei diritti di cittadinanza.
La missione della scuola, infatti, non è solo quella di arricchire una persona di sempre più varie e complesse conoscenze, ma anche quella di formare cittadini consapevoli dei propri mezzi, in grado di sviluppare le strategie personali più opportune di interazione con la realtà. Le qualità intellettuali e la conoscenza sono sempre attributi strategici della persona, ma non gli unici e quindi devono essere messe in sintonia e a disposizione di altri aspetti della persona; non possono essere gli unici oggetti dell’attività formativa.

Per una formazione che si dia questi obiettivi è necessario liberare del tempo scolastico, occupato da un’infinità di argomenti, impiegandolo in attività in cui gli studenti possono mobilitare le proprie conoscenze per affrontare quei problemi che danno un senso al sapere che deve essere posseduto.
La giustificazione dell’esistenza e del mantenimento delle istituzioni educative è costituita dalla convinzione che i saperi acquisiti a scuola siano necessari per preparare un giovane a collocarsi utilmente e nel modo migliore nel mondo del lavoro e nella società.

In funzione di questi obiettivi si sono susseguite indicazioni e prescrizioni per pensare, elaborare e realizzare curricoli orientati alla formazione di competenze chiave o strategiche o trasversali, come dir si voglia.  E ora orientate anche alla formazione delle soft skills, di competenze non cognitive come:  autonomia;  fiducia in se stessi ; flessibilità;  resistenza allo stress; capacità di pianificare ed organizzare; attenzione ai dettagli;  essere intraprendente;  capacità comunicativa.

Parliamo allora di competenze

La questione è molto seria, soprattutto quella delle competenze non cognitive, e solleva importanti interrogativi e non poche difficoltà.
Riguardo al concetto di competenza che viene evocato in questi orientamenti curriculari dovrebbe ritenersi ancora valida la definizione che ne diede M. Pellerey nel 2004: “Una competenza è la capacità di far fronte ad un compito, o un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, COGNITIVE, AFFETTIVE ed EVOLUTIVE, e ad utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo “.

La definizione di Pellerey è quanto mai opportuna per comprendere come nella sollecitazione ad occuparsi delle competenze trasversali e soprattutto di quelle non cognitive può annidarsi il rischio di dividere ciò che è unito e deve restare unito: istruzione ed educazione

COMPETENZE/CHIAVE.
Un diverso trattamento occorrerebbe per le competenze/chiave, per la loro necessaria connessione con i saperi che bisogna possedere.  Infatti una competenza può essere definita chiave “in quanto gli elementi che la costituiscono (conoscenze concettuali, abilità operative, intellettuali e pratiche, disposizioni interne stabili) sono aperti a un loro sviluppo e approfondimento. Essi, cioè, costituiscono un patrimonio personale posseduto a un livello di comprensione, stabilità e utilizzabilità tale da potere essere valorizzato nei processi di trasferimento e adattamento in altri contesti diversi o più impegnativi” (M. Pellerey).

Per la scuola dell’obbligo da tempo si parla di competenze chiave, come competenze per la cittadinanza attiva. Queste competenze investono le aree dell’identità, dell’autonomia personale e della responsabilità sociale. Vanno oltre gli insegnamenti disciplinari, ma non vogliono essere alternative ad essi.
Esse si riferiscono a tre ambiti formativi tra di loro connessi, che riguardano
LA COSTRUZIONE DEL SE'(Imparare ad imparare; progettare);
RELAZIONI CON GLI ALTRI: a)Comunicare; b) Collaborare e partecipare; c)Agire in modo autonomo e responsabile;
RAPPORTO CON LA REALTA’ NATURALE E SOCIALE: a) Risolvere problemi; b)Individuare collegamenti e relazioni; c)Acquisire ed interpretare l’informazione

Le competenze chiave della cittadinanza devono scaturire dai saperi contenuti nell’asse dei linguaggi, nell’asse matematico, nell’asse scientifico-tecnologico, nell’asse storico-sociale.  
Le competenze-chiave vengono pensate come il risultato che si può conseguire nel processo d’insegnamento/apprendimento attraverso la reciproca integrazione e interdipendenza dei saperi e delle competenze propri di ognuno degli assi culturali
”Le competenze sviluppate nell’ambito delle singole discipline concorrono alla promozione di competenze più ampie e trasversali,  che rappresentano una condizione essenziale per la piena realizzazione personale e per la partecipazione attiva alla vita sociale nella misura in cui sono orientate ai valori della convivenza civile e del bene comune”
(Indicazioni per il curricolo dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione-Allegato al D. M.  31/72007).

Le mete educative relative alla costruzione dell’identità e dell’autonomia personale oltrepassano i risultati che si conseguono con i saperi disciplinari, ma non possono prescinderne a scuola. Il profilo che viene disegnato con le competenze chiave dell’obbligo scolastico è quello di una persona responsabile, capace, disponibile al confronto, sensibile alle innovazioni.

SOFT SKILLS
Con le soft skills si va un po’ oltre, perché si vorrebbe dare spazio alla formazione di attitudini appropriate allo stile di vita conforme allo spirito del tempo, al sapere essere come si preferirebbe che fosse nei nostri giorni, con il rischio di trattarle come se costituissero uno specifico settore della formazione e non il risultato complicato, eventuale e sperato della cura dei contenuti delle discipline scolastiche.  Per questo vale la pena di vigilare.
La formazione delle soft skills, delle competenze del sapere-essere, senza la dovuta consapevolezza critica, rischia di piegarsi alle richieste imperative di quanti si adoperano per chiudere ogni possibile frattura tra carattere individuale della persona ed esigenze dell’organizzazione nel mondo del lavoro.
In questo caso non avremmo con soft skills e con le competenze del sapere essere la formazione dell’autonomia personale, ma una surrettizia pratica di addomesticamento.  Avremmo l’adattabilità senza riflessione: quella che conduce a rinunciare a comprendere e che induce ad accettare tutto, senza interrogarsi su niente.

COMPETENZE TRASVERSALI
Discorso a parte bisogna fare con le competenze trasversali; emergono con forza nell’ambito lavoristico e nella pratica formativa per e sul lavoro, ma da tempo ci si è spostati con esse nel campo dell’agire umano nella sua varietà e complessità.  Come competenze trasversali vengono indicate, secondo le varie scuole di pensiero, operazioni mentali come comprendere, dedurre, coordinare, applicare, analizzare, trasferire, interpretare, valutare; saper-fare metodologici come prender nota, strutturare un discorso, manipolare dei concetti, padroneggiare dei processi d’astrazione; e anche attitudini del sapere essere come collaborare, partecipare, realizzare progetti personali e/o professionali, sapere ascoltare e dialogare, parlare in pubblico, sapersi destreggiare

In genere con il concetto di competenze trasversali vengono indicate capacità e abilità di carattere generale, relative ai processi di pensiero e di cognizione, alle modalità di comportamento nei contesti sociali e di lavoro, alle attitudini della persona di riflettere e a quelle di utilizzare strategie di apprendimento e di auto-correzione della propria condotta. Hanno uno statuto di generalità che le distingue dalle altre competenze, tutte contestualizzate, e che le rende applicabili a un gran numero di situazioni anche inedite. “Il grado di padronanza da parte del soggetto dell’insieme di queste competenze, non solo modula la qualità della sua prestazione(. . . ), ma influisce sulla qualità e sulla possibilità di sviluppo delle sue risorse, attraverso la qualità dell’informazione che è in grado di raccogliere, delle relazioni che sa instaurare, dei feed-back che riesce ad ottenere e di come sa utilizzarli per riorganizzare la sua conoscenza”(G. Di Francesco).

La trasversalità è una capacità metacognitiva in grado di orientare l’esercizio delle competenze tutte specifiche e operative; la trasversalità è un portato della metacognizione, dell’attività del soggetto sulle proprie pratiche. Non è attributo delle ”cose” (le competenze), ma del soggetto. Messa in discussione come attributo delle competenze, è invece attributo essenziale dell’agire competente”(R. Frega). Senza trasversalità l’agire umano sarebbe meccanico,  irriflessa ripetizione di procedure d’azione

Che le competenze trasversali siano mete educative di alto livello non è difficile accettarlo; lo è invece l’opinione che per arrivarci bisogna passare per forza dalle pratiche delle attività interdisciplinari.  Ogni disciplina ha un proprio statuto epistemologico, a volte irriducibile a quelli di altre discipline ; un fatto questo che dovrebbe fare riflettere ed invitare ad un certo grado di prudenza nel tentare il percorso dell’interdisciplinarità e della transdisciplinarità.
L’interdisciplinarietà, come presupposto della trasversalità, non si decreta. Scaturisce dai problemi che bisogna affrontare.
“La preoccupazione dello sviluppo delle competenze non ha niente a che vedere con la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia trasversale. (. . . )Il tutto trasversale non conduce più lontano del tutto disciplinare”(PH. Perrenoud).  Uno studioso come B. Rey afferma: “Trovo vana e vanitosa la pretesa di insegnare agli allievi a osservare, a comparare, a pensare, a dedurre ad adottare delle strategie riflessive etc, etc, . Che essi imparino, piuttosto, un po’ di matematica, un po’ di letteratura, un po’ di storia, un po’ di biologia, un po’ di lingue straniere”.
Non hanno proprio torto…

Si voltano allora le spalle al sapere e alle conoscenze?

A scuola non si dovrebbe pretendere di formare un particolare e condiviso tipo di soggettività.  Ogni persona vive e sviluppa la propria identità dentro un sistema di relazioni sociali che la precede e le sopravvive e il compito del sistema di istruzione e formazione è quello di liberarla dai condizionamenti sociali e di offrirle gli strumenti per individuare e cogliere tutte le opportunità di cambiamento e di partecipazione, che una società può offrire.
La scuola deve assolvere a compiti di socializzazione, come si aspetta la società, ma deve assolvere a compiti di educazione nei confronti di ogni singola persona per renderla libera e autonoma con lo sviluppo e l’esercizio libero della propria ragione e delle proprie facoltà.

Con la formazione delle competenze chiave, trasversali e delle softskills, al netto delle preoccupazioni che al riguardo bisogna avere, si cerca di passare dalla pedagogia del sapere e della conoscenza alla pedagogia del saper fare e del sapere agire. Questo comporta spostare l’attenzione dell’attività formativa dai contenuti alla persona, dal sapere alla capacità di apprendere, dall’insegnamento all’apprendimento. Le conoscenze e i saperi assumono rilievo come ambito e mezzi dell’azione formativa.  Si sollecita un cambio di sguardo, di prospettiva per fare della persona la misura del sapere e per assegnare un senso all’apprendimento. Per contrastare procedure didattiche che renderebbero inerti, astratti e formali i saperi e le conoscenze; per dare spazio alla responsabilità e al protagonismo dell’alunno non è affatto detto, però, e necessario che si debba ridimensionare il valore dei contenuti nei processi formativi.
Lo sviluppo e l’incoraggiamento di un atteggiamento attivo dello studente a rigore implica un sovvertimento dei metodi di insegnamento, delle procedure didattiche, ma non l’irrilevanza dei contenuti e dei saperi.

Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza bisogna prima partecipare alle grandi tradizioni del sapere, fatto possibile se una persona viene istruita, riesce a portarsi all’altezza delle conoscenze e dei saperi che è necessario possedere. Nell’enciclopedia del sapere scolastico ci devono essere contenuti che sono FINI e ci possono e debbono essere contenuti che senza scandalo sono MEZZI per gli scopi e gli interessi che di volta in volta devono essere presi in considerazione per rispondere alle esigenze della società.  Ci si attende che la scuola prepari per l’avvenire, ma ci si attende anche che la scuola sia il luogo della trasmissione dei valori e della cultura, delle tradizioni, della storia della società alla quale appartiene. Questa duplice esigenza crea delle tensioni, che occorre stabilizzare; le antinomie a scuola hanno una soluzione nella gestione della complessità e non nella loro semplificazione. Cambiare prospettiva, punto d’osservazione non deve significare indebolire il ruolo e il significato dei saperi scolastici. Non se ne ricaverebbe alcuna utilità.

La scuola è l’unico luogo dove è possibile trasmettere e fare appropriare alle nuove generazioni le basi di una cultura comune, unico fondamento per la convivenza e la cittadinanza. La cultura comune è data, però, da alcune discipline, da alcuni specifici contenuti, da principi e valori storicamente determinati e condivisi e non si riduce ad un insieme di competenze chiave, trasversali o alle softskills…

 




Intelligenza artificiale a scuola? Domande e riflessioni

di Rodolfo Marchisio

Dopo aver introdotto l’argomento cerchiamo di approfondire.
Sembra che in merito alla IA ci siano 4 atteggiamenti che animano il dibattito: Tecno-apocalittici, utopisti, attenti all’etica o alla sicurezza (Wired).
Chiarito che mi interessa conoscere di più per capire meglio, penso utile essere attenti alle conseguenze delle tecnologie su di noi come persone e come cittadini. E sui nostri diritti, spesso violati non dalle tecnologie in sé (Bauman), ma dai padroni della rete che le e ci controllano.

Tecnologia in divenire, molto diversificata nelle applicazioni.

La IA si sta evolvendo, cresce in maniera costante ed esponenziale (negli ultimi 4 anni il numero di parametri per modelli linguistici di grandi dimensioni è cresciuto di 1.900 volte) ma “passerà almeno un decennio per assistere ad una vera svolta”.
A me profano pare una tecnologia molto variegata, non ancora del tutto chiara anche perché diversi sono i tentativi, gli usi, le tipologie che si stanno sperimentando. Talora in competizione tra loro. Dicevamo una operazione di mercato non ancora definitiva. Vedi dubbi di Musk, di B. Gates e di altri GAFAM.

Dubbi su IA e cittadinanza 

  • Non controlliamo i suoi effetti. Ma anche il suo uso, perché è in mano ai padroni della rete che hanno denaro e tecnologie potenti.
  • Noi non possiamo “costruire” IA né spesso controllarla. Penge rifacendosi alla contrapposizione software free, open /proprietario paragona “la IA ad una piccola bomba atomica che non abbiamo gli strumenti per costruire in modo libero perché non avremo mai quella potenza di fuoco. Con cui però stiamo giocando.”
  • Che ha ancora parecchi difetti: riconoscimento facciale tarato sui bianchi caucasici, discriminazioni di genere; controllo, gestione, dati; “nutrimento” ed addestramento.
  • Che ha un grosso bisogno di essere nutrita da noi, dai nostri dati e prodotti e dipende da chi la propone e dal perché la propone: la colpa non è del web (Bauman), ma dei padroni della rete. Quindi le polemiche sui dati e prodotti e di chi potranno essere usati per nutrire e far crescere applicazioni di IA. Tutti i nostri dati e scritti online, anche quelli con diritto d’autore? Chi autorizza chi? Chi ci tutela?

L’impressione è che sia al momento una “parola ombrello” (Guastavigna), che contiene cose diverse ed ha diversi significati; che prima di somministrare agli allievi, vanno chiariti e distinti: cosa, a chi, perché e come?
 La mia attenzione è concentrata sulla strada indicata da S. Turkle di domandarsi non cosa fare col web ma cosa il web (compresa l’IA) fa a noi, al nostro cervello, alla nostra sfera reazionale, emotiva. Ed ai nostri diritti.

Rischi denunciati

“La crescente capacità di automatizzare le decisioni su larga scala è un’arma a doppio taglio; com’è noto: il rischio discriminazione non è mai lontano. Gli algoritmi elaborati sui dati storici rafforzano e amplificano i pregiudizi e le disuguaglianze già esistenti, con annessi rischi e minacce per i principi democratici.”
“Ridurre al minimo gli impatti negativi sulla società e valorizzare quelli positivi richiede quindi più che sole soluzioni tecnologiche; è necessario un impegno costante e un’attenzione continua della società. Pertanto, la preoccupazione più immediata per l’IA è cosa accadrà se verrà incorporata irrimediabilmente nella vita quotidiana prima che le sue criticità siano completamente risolte.
I Garanti europei per la protezione dei dati, affermavano che “applicazioni come il riconoscimento facciale dal vivo interferiscono con i diritti e le libertà fondamentali in misura tale da poter mettere in discussione l’essenza di tali diritti e libertà. […] Un divieto generale dell’uso del riconoscimento facciale nelle aree accessibili al pubblico è il punto di partenza necessario se vogliamo preservare le nostre libertà e creare un quadro giuridico incentrato sull’uomo per l’IA”. (Agenda digitale)

Uno studio dell’Università di Stanford indica che i successi del settore rendono ora indispensabile pensare seriamente ai lati negativi e ai rischi che un’ampia applicazione dell’IA può rivelare.

Rampini, Bauman, Pariser, Zuboff ed altri ci hanno insegnato che l’alternativa già oggi nel web è tra essere dominati passivamente o cercare di conoscere e contrastare i metodi dei sistemi economici, politici, sociali che stanno dietro agli ambienti, che ci vengono imposti.
Quindi l’alternativa è cercare di dominare un po’ di più o essere dominati
Se noi cittadini siamo “prigionieri del capitalismo oligopolistico oggi digitale” dobbiamo avere la umiltà di ammettere che siamo tutti dei primitivi…e recuperare il senso critico nei (dei) tempi critici in cui viviamo. (De Kerchove).

Scuola

Se anche la scuola è (già) prigioniera del capitalismo oligopolistico oggi digitale. Bonsanto, Micro Mega, ci fermiamo a riflettere?

a) Perché (e come) proporla a scuola?
b) Ne ha bisogno la scuola (in genere priva di cultura digitale diffusa)?
c)  L’ha chiesta per risolvere qualche suo problema o ne ha già troppi?
d) A che livello di scuola è proponibile?

Tutte le mode e tutti i problemi si riversano in una scuola/contenitore di tutte le mode e di tutti i problemi, nonostante il disorientamento o l’esaurimento dei docenti. Non bastano un referente e qualche iniziativa per problema (Digitale, Ed Civica, Orientamento, Educazione alla relazione ed affettività, STEM …). La ed. civica al quarto anno di sperimentazione non è stata attivata in alcune scuole o in alcune classi e non da tutti i docenti. La scuola 4.0 quanti docenti coinvolgerà realmente? Mi pare che più aumenta la pressione sulla scuola per risolvere problemi complessi che riguardano la società, la politica, la famiglia, meno docenti si lascino coinvolgere. “Mi hanno lasciata sola” dice una referente di Ed. Civica.
D’altra parte anche Dig Comp 2.2. (marzo 22) “affronta l’interazione dei cittadini con sistemi basati su IA non sulla conoscenza tout court della stessa.
Le competenze digitali, non si possono ridurre a degli insegnamenti funzionali a singoli compiti, ma necessitano di una costante contestualizzazione culturale, politica e sociale.”

Approfondiremo ancora.

 

 




Per una scuola davvero efficace ci vuole della buona pedagogia

Stefaneldi Raimondo Giunta

La missione della scuola è stata sempre quella di educare a vivere con gli altri; ma oggi gli altri sono quelli che vengono da molto lontano e sono diversi da noi e diversi tra di loro.

La scuola oggi ha responsabilità di fare vivere armoniosamente e quotidianamente le diversità, di porsi consapevolmente come antidoto contro l’imperversare di sentimenti di odio, contro la manipolazione dell’informazione che di fatto ne è strumento; la scuola oggi o diventa scuola del dialogo o non è scuola; dialogo tra gli alunni; dialogo tra docenti e docenti; tra alunni e docenti; dialogo tra alunni e il sapere; dialogo tra scuola e società.

Dopo ogni indagine sullo stato di salute della scuola, così come dopo ogni fatto che documenta la condizione di fragilità e di disorientamento delle nuove generazioni si alzano le voci per reclamare una scuola nuova e diversa rispetto a quella di cui si dispone. Puntualmente.
E allora diciamolo.  La scuola intrinsecamente nuova, naturalmente nuova è quella che insegna a pensare, che educa all’autonomia intellettuale e del giudizio morale. Non è la ricchezza della strumentazione, né l’attrattività degli ambienti di apprendimento a farla diventare nuova. Nemmeno l’articolazione del curriculum.
La scuola, anche quella sgarrupata è veramente nuova se aspira nelle sue date condizioni a rendere l’alunno protagonista, contento del proprio apprendimento. Consapevole della propria crescita.

La scuola ha una propria costitutiva proiezione verso il futuro e fa bene il proprio mestiere se del futuro non restringe l’orizzonte, non amputa le sue possibilità. Se tutto ciò ha un senso, la scuola che prepara al futuro non è quella che si piega al diffusissimo mito dell’impiegabilità, perché colloca la scuola su una prospettiva di breve durata e ne impoverisce l’orizzonte sotto molti aspetti.

”La cultura scolastica ridotta a competenze strumentali evapora in una moltitudine di saper fare senza altra legittimità se non provvisoria, aleatoria e dunque del tutto discutibile”(Meirieu).

Guardando con preoccupazione a quel che succede nel mondo, si comprende senza tante complicazioni che la scuola è davvero efficace non soltanto quando riesce a istituire rapporti fecondi con il mondo del lavoro, ma anche e soprattutto se sviluppa e difende i propri tratti di comunità educativa, se prende in carico il compito di fare crescere bene gli alunni nel sapere, nel rispetto del prossimo e dell’ambiente. Si dovrebbe dire ad alta voce non solo che cosa si pretende che gli alunni sappiano e sappiano fare; non solo che cosa si pretende che diventino, ma anche che cosa ci vuole, perchè siano partecipi di una comunità e di una storia.

La scuola come istituzione pubblica deve educare al bene comune e contrastare, come sarebbe logico, le strategie individualistiche e consumistiche delle famiglie e degli alunni, perché ne snaturano la missione. La scuola a domanda individuale come periodicamente e pubblicamente si reclama è un obbrobrio; un tradimento della sua funzione sociale. La scuola non è e mai dovrebbe essere uno dei tanti prodotti messi in concorrenza nel mercato delle merci, dei beni e dei servizi. L’oscuramento delle mete collettive (cittadinanza, valori costituzionali, sviluppo umano e culturale) ha fatto sparire il “noi” per il quale i sistemi scolastici sono stati costruiti.

La scuola che va salvata, protetta e sviluppata ha come suo scopo fondamentale l’emancipazione, la liberazione dai pregiudizi e dall’ignoranza, la speranza di una vita buona. Ne consegue che una scuola che si rispetti, quindi, mai dovrebbe darsi come obiettivo l’esclusione di una parte dei suoi alunni dalla trasmissione dei saperi e della cultura.

Per contrastare la disperazione degli esclusi e l’individualismo senza mete collettive ci vuole della buona pedagogia ed è indecente opporla ai saperi, associarla al lassismo, al ribasso delle esigenze. La buona pedagogia è l’arte di condurre al sapere gli alunni che pensano di non esservi predisposti. Non è vero che la scuola, così, sacrifica i migliori, perché abbiamo, invece, una scuola che non dà a tutti gli strumenti necessari per la vita.
La buona pedagogia aiuta gli insegnanti a liberarsi dal delirio di onnipotenza, dalla pretesa di vedere tutto e di saper tutto per tutto controllare. Non nasconde il ruolo delle famiglie, della nascita, del luogo di appartenenza, delle risorse disponibili nella diversità del rendimento scolastico degli alunni. Non dimentica che non si ha potere sulla coscienza degli alunni e riconosce la propria impotenza di fronte alla coscienza e alla volontà degli alunni. Crea spazi, fornisce strumenti, fa della classe un luogo sicuro senza pressioni e senza forzature; ha lo sguardo positivo su quel che succede; non blocca e non irrigidisce, si meraviglia dell’imprevedibile, fa appello all’immaginazione.

La buona pedagogia fa capire che la scuola è un altro mondo; non è la prosecuzione della famiglia, nè dell’ambiente esterno; non è un luogo ordinario ed esige particolari comportamenti, perché è retto da alcuni propri principi sui quali non si può transigere.

A sostegno di quella pedagogia che si vorrebbe buona non c’è una verità inconfutabile, perchè l’educazione è scritta nell’irreversibilità del tempo e nella singolarità delle situazioni individuali, perchè mai due situazioni si presenteranno allo stesso modo e perchè la pedagogia è condannata al rischio e all’incertezza (P. Meirieu).
A sostegno della buona pedagogia c’è l’impegno quotidiano di ogni insegnante che ama il proprio lavoro e ne condivide l’alto valore umano e sociale; c’è la sua capacità di discernimento, che nell’attività didattica mette in relazione la norma e la particolarità dei propri alunni e della propria classe; c’è la sua responsabilità di porsi come esempio nella passione per il sapere e quella di farsi carico, per quello che gli compete, del futuro di ogni alunno che è stato affidato alle sue cure.