A proposito di integrazione, quando il made in Italy è indigesto

di Giovanni Fioravanti

Ecco che Galli Della Loggia risale in cattedra, quella con la predella, per dichiarare che è ora di abbattere gli idoli e i loro miti come l’inclusione di tutti nella scuola di tutti.

È giunto il momento di riporre in soffitta la scuola inclusiva e sottrarre alle ragnatele dell’abbandono, spolverata e lustrata, la scuola meritocratica e competitiva.
Sa di parlare all’orecchio di un governo sensibile alle sue sirene e certamente al repertorio suonato dai pifferai, dalla Mastrocola al Gruppo di Firenze, della scuola oltraggiata.

Ora siamo alla “scuola menzogna” che copre lo scandalo — caso unico al mondo —  scrive il nostro professore, per cui nelle nostre aule convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazze e ragazzi disabili, alunni con bisogni educativi speciali, ragazze e ragazzi stranieri. Il professore tralascia di dire che questo scandalo ci è invidiato da tutto il mondo.

Un made in Italy di quelli che non rendono quattrini e che semmai turba alcune coscienze, comunque un made in Italy che non piace al professore e non è certo quello che intende promuovere questo governo.

Mi sembra che ora il professor Galli Della Loggia faccia la parte dell’asino che si affaccia alla finestra della classe, quell’asino che Andrea Canevaro, fortemente indiziato per la diffusione del mito dell’inclusione, considera una grossa fortuna per un educatore, come meraviglioso strumento didattico. Noi però, contrariamente a Canevaro, sappiamo cosa pensa l’asino di quello che vede.

La cosa che inquieta in questo paese è che non c’è uno, dico uno, intellettuale a Destra o a Sinistra, che sia in grado di usare il verbo “innovare” o il sostantivo “innovazione” a proposito della scuoia e dell’istruzione. Non c’è una visione di prospettiva, una dimensione di processo, un’idea che sia un’idea per innovare, migliorare quello che questa nostra scuola si è conquistata con l’impegno professionale di tanti insegnanti e educatori, come l’inclusione, che certo non è perfetta, ma non ha bisogno di essere cancellata, piuttosto necessita di idee e risorse per progredire.

Invece no, il solone di turno, che nulla sa di scuola perché non la vive quotidianamente, perché l’avversa culturalmente, trova che anziché curare è meglio liberarsi dell’arto infetto..
E allora ci sono quelli che sottoscrivono Manifesti per improbabili Nuove Scuole, quelli che  la scuola non educa più, che, alla faccia del patriarcato, lamentano che leducazione ha smesso di essere la proiezione della funzione del padre, vedi Adolfo Scotto di Luzio.
Altri, come Susanna Tamaro, che incolpano Rousseau di tutti i mali di cui soffre l’educazione e vagheggiano l’uso del kyosaku, il bastone dei maestri Zen, da impiegare sui ragazzi selvaggi del nostro tempo.

Non so se ci rendiamo conto di sprofondare sempre più nella palude dei pregiudizi culturali che si fanno pensiero diffuso nell’anestesia mentale collettiva che insidia questo paese.
Il problema è che questi asini che infilano il muso dalle finestre nelle nostre aule sono talmente sicuri di se stessi che neppure si prendono la briga di studiare, perché tanto una volta sì che si studiava, quando andavano a scuola loro, e tanto a loro è bastato.

Se avessero letto ad esempio documenti come Nell’Educazione un tesoro, quello della Commissione UNESCO presieduta nel 1996 da Jacques Delors, ignorato nell’occasione della sua morte, a partire dal nostro ministro dell’Istruzione e del Merito.
In quel documento, di circa trent’anni fa, vengono indicati i  quattro pilastri su cui dovrebbe poggiare l’educazione del ventunesimo secolo: Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare a vivere insieme, Imparare ad essere.

Ora non dovrei essere io a spiegare al ministro dell’Istruzione e del Merito che se Imparare a vivere insieme e Imparare ad essere fossero praticati nelle nostre scuole, costituissero i pilastri portanti dei curricoli, non ci sarebbe bisogno né di ripristinare un arnese arrugginito come il merito né di inventarsi educazioni alla relazione. Non dovrei essere io neppure a spiegare al professor Galli Della Loggia che considerare l’Inclusione un mito da escludere dalle nostre aule fa palesemente a pugni con i due pilastri appena citati sopra.
E visto che sono sulla strada di utili suggerimenti inviterei a leggere l’ultimo documento dell’UNESCO, giusto per uscire dal campanilismo patriottico. È del 2021 e porta come titolo: Re-immaginare i nostri futuri insieme.

Reimmaginare, cioè immaginare di nuovo, non sognare il passato. Il passato, è ovvio, che non si può immaginare, è il futuro che si immagina, capisco che per il professor Galli Della Loggia e quanti come lui il futuro sia difficile da coniugare.
Però l’UNESCO l’ha coniugato anche per loro: Le scuole dovrebbero essere luoghi educativi protetti per linclusione, lequità e il benessere individuale e collettivo […]. Le scuole devono essere luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove.
Non si può equivocare: “luoghi educativi protetti per l’inclusione”, “luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove”, Nietzsche scriverebbe che le scuole sono i luoghi dei “temerari del sapere”.

Fortunatamente l’inclusione è una realtà radicata e destinata a crescere, perché noi vogliamo vivere  e vogliamo che le generazioni in avvenire vivano in un mondo in cui i bambini che si perdono nel bosco appartengano soltanto al mondo delle favole.




La filosofia: come insegnarla (o NON insegnarla). Un bel libro di Massimo Mugnai

Stefaneldi Stefano Stefanel 

Premessa biografica
Mi sono laureato in filosofia a Trieste nel 1979 con una tesi su Ernst Mach e la filosofia della scienza dal titolo Per un dibattito sui rapporti tra il machismo e il materialismo dialettico (relatore Pier Aldo Rovatti) con 110/110. Nel 1981 mi sono diplomato a Padova nella Scuola di specializzazione in Filosofia (indirizzo Estetica) con 70/0 e lode e una tesi dal titolo Percorsi filosofici tra Mach e Musil[1] (relatore Giangiorgio Pasqualotto), poi pubblicata col medesimo titolo. Ho anche partecipato ad un concorso universitario arrivando al terzo posto ma con 100/100 di voto complessivo nelle tre prove (40/40 e 40/40 nei due scritti: uno sull’ontologia in Kant e Hegel e l’altro sulla critica alla metafisica in Nietzsche e Heidegger; 20/20 nell’orale), ma con meno titoli di chi mi ha superato. Ho poi superato 5-6 concorsi a cattedra in filosofia, rinunciando sempre al ruolo nei Licei che avevo vinto per continuare a insegnare alle Scuole medie. Poi dal 2001 ho iniziato a fare il dirigente scolastico e dal 2012 dirigo un Liceo scientifico (quello che ho frequentato da studente). La scelta di rimanere alle medie ha avuto due motivazioni: la prima era che mi sentivo più vicino alla didattica dei Lehrjahren (“veder crescere l’apprendimento dalla parte delle radici” dicevo parafrasando il titolo di un libro degli anni Settanta); la seconda che non intendevo insegnare Storia della filosofia e che per non insegnarla al Liceo avrei dovuto mettermi in conflitto con scuola, colleghi, studenti e famiglie. E quindi ho “fatto” filosofia alle medie (Kinderphilosophie) finché sono diventato dirigente. Oltre al libro sopra citato ho pubblicato molti articoli su riviste filosofiche (Edizione della Società Filosofia Italiana – Sezione Friuli-Venezia Giulia di cui sono stato fondatore e Presidente per 7 anni; Testi & Contesti, Bollettino della SFI Nazionale e altre riviste).

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Il motivo per cui ho tediato il lettore con la tiritera di cui sopra è che il libro di Massimo Mugnai uscito da pochissimo dal titolo Come NON insegnare la filosofia[2] (Raffaello Cortina Editore, Milano 2023) racconta la mia storia ed esprime il mio pensiero come meglio non avrei saputo fare.


La mia adesione alle tesi di Mugnai è assoluta e il dissenso in un paio di punti nasce probabilmente dalla diversità dei nostri percorsi di vita e di studio, più che da una diversa visione della questione. Alla base della tesi di Mugnai c’è quello che io ho sempre pensato: per uccidere la filosofia bisogna insegnare Storia della filosofia agli adolescenti[3]. Il “braccio armato” della storia della filosofia è il manuale liceale. Mugnai descrive il problema così: “La struttura portante del manuale, però, è la stessa da quasi settant’anni: una narrazione della storia della disciplina, secondo la quale le varie teorie e concezioni filosofiche si susseguono nel tempo; è un immane racconto dossografico senza capo né coda[4]”.

Dirlo meglio di così è impossibile e difatti non lo dico. Aggiungo solamente che contestualizzare storicamente il pensiero di un filosofo (o anche di un’opera letteraria) significa sminuirne la forza e tradurre tutto in riassunto, cosa certo utile per gli studiosi, terribile per gli studenti. Quando Protagora scrive che “l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono perché sono e di quelle che non sono perché non sono” e quando Anassimandro dice che “le cose fanno ritorno là da dove sono venute secondo la necessità. In questo modo pagano reciprocamente la colpa di essere mortali” mi pare ci sia poco da aggiungere: c’è solo da argomentare, studiare, analizzare, dibattere, cioè, fare filosofia. Cosa aggiunga il contesto, in cui sono state scritte, alle due frasi sopra riportate proprio non lo vedo. La Storia della filosofia è molto bella (li ho fatti tutti da giovane, quegli esami: Storia della filosofia antica, Storia della filosofia medievale, Storia della filosofia moderna, Storia della filosofia contemporanea: altro a Trieste non c’era, sennò facevo anche quello), ma per gli studiosi, non per gli studenti (anche se studiosi).

La critica ai manuali di Mugnai è perfetta con un unico neo: propone anche lui un manuale sistematico (cioè, sugli argomenti) sulla scia di quello che si fa in varie nazioni che lui cita.
Il manuale sistematico è una bella cosa, ma non è un manuale, è semmai un testo di proposta. Mugnai ricorderà, però, il naufragio di Mario dal Prà, in questo senso, col suo manuale sistematico di Storia della filosofia per i Licei degli Anni Sessanta[5], schiacciato poi dai vari Geymonat, Abbagnano e Fornero, Ferraris, ecc.
Poiché però il rapporto col testo diventa sempre più debole e il tempo sfugge ritengo che la strada da seguire sia quella di fare filosofia a scuola senza alcun manuale, andando sui testi a vedere cosa c’è di interessante. Esemplifico brevemente: per introdurre i Presocratici partirei da quello che di loro dice Aristotele nella Metafisica e andrei a leggere con gli studenti i frammenti che ci sono stati tramandati per vedere se su questo punto Aristotele aveva ragione e se aveva preso un abbaglio (ovviamente io sono per la seconda che ho scritto). E via di seguito: provate a ragionare con gli studenti sulla traduzione di “intelligo id” di Spinoza e fatemi sapere a cosa serva contestualizzare storicamente la prima parte dell’Ethica. [6]

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Esiste anche il problema dei docenti di filosofia su cui Mugnai dice parole definitive. Per cui aggiungo solo alcune considerazioni: molti sono laureati in storia e dunque non hanno un grande background filosofico e quindi hanno oggettive difficoltà ad insegnare filosofia senza i riassunti. Quelli laureati in filosofia per lo più continuano a studiare e ad interessarsi alla filosofia o cercano di agganciare una carriera universitaria. Anch’io avevo quell’idea, pensavo che il mio scopo filosofico fosse quello di dimostrare che Ernst Mach è un Grande Filosofo e non un Filosofo Minore e che con lui lo spinozismo era entrato nelle scienze. Da giovane ero un teoretico antistoricista che avrebbe dovuto per forza di cose insegnare in un Liceo, visto che all’Università non era aria. Ho continuato a studiare filosofia e lo faccio anche ora (ho appena finito di leggere un libro su quel gran pasticcio che si autodefinisce “nuovi realismi”) e mi sono accorto che gli insegnanti di filosofia al mattino parlano e spiegano i Filosofi Maggiori, al pomeriggio si occupano ossessivamente di Filosofi Minori, una volta erano gli epigoni del marxismo, oggi francesi vari e qualche tedesco, mantenendo un certo disprezzo italico per la filosofia analitica.
Leggendo il libro di Mugnai mi è venuta questa domanda: perché gli insegnanti si occupano nei loro studi (pomeridiani) dei Filosofi Minori e spiegano al mattino i Filosofi Maggiori attraverso riassunti (manuali) a giovani di 16, 17, 18 anni? Se è vero che nel mondo gli Studiosi Maggiori (cioè gli studiosi di rango, gli ordinari) si occupano dei Filosofi Maggiori è altrettanto vero all’università gli Studiosi Minori (quelli che vogliono entrare, i ricercatori, gli accoliti, i volontari, gli “sgomitatori”, ecc.) si occupano di Filosofi Minori o di Minuzie Filosofiche.
Allora mi chiedo per quale motivo gli studenti liceali devono sapere cosa pensano i Filosofi Maggiori attraverso riassunti, mentre i loro docenti al pomeriggio dei Filosofia Maggiori non si occupano più (chiedo al lettore di non farsi venire la tentazione di dire perché li hanno già letti tutti). Mugnai tutto questo lo mette in evidenza con grande maestria: “acquisire competenze nell’ambito della storia della filosofia non equivale ad acquisire competenze nell’ambito del ragionamento filosofico[7]”.

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E arriviamo al punto su cui penso che Mugnai ragioni da professore ordinario e quindi non abbia il punto di vista di chi la scuola la vive dal basso. Scrive Mugnai: “Le competenze, perciò, fanno riferimento soprattutto a conoscenze parziali, finalizzate al raggiungimento di determinati scopi: rendere competente uno studente significa dargli la possibilità di mettere in pratica, prima possibile, le conoscenze acquisite[8]”.
A livello altissimo (diciamo, generalizzando, a quello degli ordinari, anche se non proprio di tutti loro) conoscenze e competenze coincidono: chi è esperto sulle ginocchia, sulla guerra del Peloponneso, sugli enzimi o su Pomponazzi ha tutte le conoscenze necessarie e sufficienti che gli servono per essere competente.
Dunque, a livello alto (ho scritto ordinari, non professori di Liceo) spesso il proprio sapere crea confusione sul concetto di competenza. A livello liceale deve esserci un equilibrio tra conoscenze e competenze, perché le competenze senza conoscenze non esistono, mentre troppa conoscenza assemblata e memorizzata uccide la competenza (agli esami di maturità studenti bravissimi a cui si chiede di deviare da quello su cui si sono preparati spesso si perdono tra lo sconcerto dei docenti interni che non si capacitano dell’intoppo). Quindi le competenze non sono uno stratagemma per studenti che valgono poco, ma sono l’unica possibilità che un sapere si cementi in modo da formare quella base su cui far crescere l’apprendimento[9]. “Intelligo id”, dove senza “id” non c’è alcun “intelligo”.

Su un punto Massimo Mugnai coglie quello che è il problema centrale della filosofia in Italia: “se ci domandiamo se è possibile fare filosofia (buona filosofia) senza conoscere la storia della disciplina, la risposta è banale: sì, è possibile[10]. Resta, dunque, incomprensibile perché si voglia continuare ad avere pessimi conoscitori di Storia della filosofia (e anche di Storia della letteratura italiana) quali sono certamente gli studenti e non si va nella direzione delle competenze filosofiche, che sono comunque un’ottima modalità per abituare la mente ad argomentare e ad approfondire. Certamente con i manuali in adozione e le modalità di spiegazione della Storia della filosofia attraverso riassunti di filosofi e dei pensieri filosofici, spesso astrusi, non si sviluppa alcuna competenza e ci si impedisce di riconoscere le competenze che gli studenti nel loro Zeitgeist (spirito del tempo) stanno sviluppando in modo autonomo, come facevamo noi 50 anni fa. Quindi va cercata un’altra strada e io penso sia quella indicata da Mugnai.

In chiusura, dunque, un grande grazie a Massimo Mugnai, sperando che il folle mondo della filosofia (che non è pop [11], nemmeno un po’) cominci ad avere pietà dei suoi studenti e metta fine allo strazio del riassunto raccontato.

[1] Stefano Stefanel, Percorsi filosofici tra Mach e Musil, Lalli, Poggibonsi 1984.

[2] Massimo Mugnai, Come NON insegnare la filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023.

[3] Nel 2014 sul sito Pavone Risorse ho pubblicato un breve articolo dal titolo: Filosofia nei Licei: ripartire da zero, che ha avuto un effetto pressoché nullo. (http://www.pavonerisorse.it/scuolaoggi/filosofia_nei_licei.htm).

[4] Ibid, pag. 76.

[5] Mario Dal Prà, Sommario di storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1964 e successive ristampe.

[6] Sempre dalla mia (noiosa) biografia: ho insegnato per 22 anni alle scuole medie e non ho mai – dico mai – adottato un manuale. I ragazzi hanno sempre comprato libri, non manuali. Libri integrali, non per le medie. Si sono laureati, lavorano, hanno filosofato da ragazzi. Di questo ho scritto in alcuni interventi pubblicati sulla Kinderphilosophie.

[7] Mugnai, cit, pag. 174.

[8] Ibid, pag. 72. A completamento di questo passo rimando alla perfetta fotografia del passato, una sorta di descrizione della mia vita da studente liceale: “Si può dire che la scuola degli anni Sessanta fornisse agli studenti molta informazione, ma che la formazione fosse il frutto di un’attività di acculturazione in buona parte autonoma e individuale”, pag. 167.

[9] La frase: “E’ evidente che, negli ultimi dieci anni, il livello delle competenze degli studenti delle superiori si è notevolmente abbassato, in quasi tutte le materie” (Ibid, pag.. 165) tradisce il punto di vista del professore ordinario. Non si è abbassato proprio un bel niente, anzi nei giovani c’è un notevole aumento di competenze, che però non sono ancora state rubricate dalle università e dalla scuola e quindi vengono ritenute inutili. Invito il prof. Mugnai (si fa per dire, credo non leggerà nemmeno una riga di quello che ho scritto) a verificare il tasso di resistenza e resilienza dei giovani rispetto a saperi obsoleti, stantii, baronali che vengono dispensati come sapere assoluto e la loro capacità di uscirne con grandi disposizioni verso un futuro molto più incerto e incerto del nostro.  L’opinione del prof. Mugnai su Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, pag. 167 mi trova lontanissimo: sono due personaggi oscuri, che scambiano un liceo classico di Torino per il sistema scolastico nazionale.

[10] Ibid, pag. 48.

[11] Ibid, “Filosofia pop e filosofia tradizionale”, pag. 146.




Inclusione scolastica: Galli Della Loggia e le chiacchiere da bar

di Raffaele Iosa

Sono felicemente sorpreso dalla valanga di critiche, a volte persino feroci, che il vecchio guru Ernesto Galli della Loggia (detto da più parti EGDL) si è preso per via di un suo pezzo sull’inclusione scolastica.
In questo assurdo pezzo il vecchio EGDL sostiene con una violenza da bar sport che l’inclusione scolastica è solo un “mito” finto democratico, che non solo non funziona, ma fa del male a chi è disabile, dislessico, straniero, povero, e così via. E, ovviamente, fa del male e rallenta i “normali” costretti a subire un pernicioso caos educativo.
Mi occupo di disabilità da quasi 50 anni, sia come insegnante poi via via da dirigente e ispettore anche con ruoli apicali ministeriali ed internazionali.

Qualcosa so.
Dunque: sono molto sorpreso per le reazioni di centinaia di insegnanti, persone di scuola e cittadini. Per moltissimi di questi le dichiarazioni di EGDL sono offensive, ridicole, false, pur con tutte le difficoltà che l’inclusione scolastica ha ancora in Italia.

Sono felicemente sorpreso perché nei tanti “bar scolastici” che ancora frequento (anche se in pensione) ho più volte incontrato presidi, insegnanti e genitori ostili all’inclusione scolastica con toni e argomentari simili a quelli del nostro EGDL.
Non solo: credo che il caos organizzativo, l’assenza di una seria formazione di tutti gli insegnanti (non solo quelli di sostegno), il mito dell’insegnante di sostegno come “soluzione dell’inclusione” siano oggi troppo diffusi e segno di una crisi che rischia (questa sì) di produrre un calo qualitativo e valoriale dell’inclusione come paradigma educativo necessario per tutti gli alunni e gli studenti, qualsiasi sia la loro condizione.

Per questo motivo, paradossalmente, la levata di scudi contro il poco competente (ma potente) EGDL con la sua sponsorizzazione di un sistema scolastico separato per categorie di “normalità” e di “non normalità”, fa ben sperare al successo di una proposta che un gruppo di noi (di cui mi onoro di far parte) ha preparato in questi mesi, e che presenta una coraggiosa proposta di qualità: quella di una formazione professionale del tutto diversa dall’ attuale e di tutti gli insegnanti attorno al tema del successo formativo e dell’inclusione di tutti. L’abbiamo chiamata “cattedra inclusiva”, cioè una competenza fine e diffusa di tutti i docenti, senza specialismi separativi e medicalizzazioni dannose. L’inclusione tocca ed è di tutti, nessuno escluso. Perché l’inclusione italiana torni ad essere quell’ispirazione pedagogica che l’ha resa la migliore in Europa.
Qualche volta i soloni da bar sport fanno aprire gli occhi anche ai dubbiosi. La nostra risposta dunque è quella di agire con coraggio, non solo quella di polemizzare per battute non solo fuori luogo, ma del tutto dilettantesche e figlia di pregiudizi antichi,




Macchine che sembrano intelligenti

di Stefano Penge

Immaginate un bel seminario dal titolo accattivante: “Le macchine intelligenti e la scuola: conflitto o opportunità?”. Si presenta come obiettivo, imparziale; non è acritico ma lascia intravvedere la direzione in cui occorre procedere (dalla rilevazione dei rischi alla costruzione di possibilità operative). Ottimismo della ragione e curiosità non vi mancano, siete pronti a iscrivervi?

Un attimo. Già in questo titolo sono visibili alcuni limiti tipici dell’impostazione più diffusa.

Prima di tutto, macchine e scuola: due soggetti, due entità che inevitabilmente si confrontano. Come se ci fosse una natura artificiale che cresce, si sviluppa, produce i suoi frutti (le macchine appunto); e come se la scuola si trovasse in questo giardino incantato, novella Eva, e dovesse decidere come coglierli e mangiarli. Lieto fine: dopo qualche esitazione colpevole ogni invenzione viene assorbita dalla scuola, malgrado l’opposizione dei tecnofobi arretrati e miopi.

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E’ vero che non sono molte le tecnologie per l’educazione nate dentro la scuola, come la tavoletta di cera riscrivibile dei romani o la lavagna di ardesia (che sembra sia stata introdotta negli Stati Uniti nell’Ottocento nel quadro della formazione degli insegnanti: una tecnologia meta-educativa).
Dalla tipografia alle fotocopie, dalle diapositive alla LIM: nessuna di queste tecnologie nasce per l’educazione e nemmeno per la formazione, ma tutt’al più nel quadro della comunicazione aziendale, per la diffusione rapida, economica ed efficace di informazioni.

Però l’introduzione di queste tecnologie nella scuola non è un processo naturale, continuo, unico. Si possono descrivere almeno tre modi con cui dispositivi nati in azienda sono stati successivamente usati nella scuola italiana: quello per cui sono i docenti più creativi e divergenti ad andare a caccia di tecnologie da rubare e riadattare, quello per cui è il ministero a distribuire strumenti  a colpi di piani nazionali e finanziamenti su progetti e quello per cui sono le grandi aziende alle prese con un surplus di produzione che cercano di  esportare quei dispositivi nella scuola costruendo ad hoc un discorso di valori incentrato sull’innovazione, l’efficacia, le competenze del futuro.[i]

In poche parole: il primo passo da fare non è accettare una certa tecnologia come inevitabile per poi domandarsi come sfruttarla, ma prima occorre domandarsi da dove viene e dove si vuole che ci porti, per poi decidere se e come usarla per i fini propri dell’educazione.

In secondo luogo, penso che sia riduttivo parlare di macchine intelligenti contrapposte a tutto il resto. Le macchine non sono stupide o intelligenti, l’uno o l’altro; personalmente preferisco vederle come disposte in maniera continua lungo le due dimensioni dell’autonomia e della complessità. Si va da quelle semplici e pochissimo autonome – la ruota – a quelle complesse che prendono decisioni in base alle variazioni del contesto (il termostato); da quelle che possono prendere un solo tipo di decisione (agire sì/no), a quelle che hanno un set di decisioni possibili; fino a quelle che possono decidere di non agire affatto. In questo, analogico o digitale c’entra poco, né c’è bisogno di scomodare sempre HAL 9000. Vedere le ultime incarnazioni della ruota su questo sfondo aiuta a mettere a fuoco dei temi trasversali che a mio parere vale la pena approfondire e discutere con gli studenti: nel seguito ne indichiamo cinque.

  1. Le macchine non sono state inventate semplicemente per fare un lavoro: sono state inventate per fare un lavoro usando meno forza, anche se in più tempo (come la carrucola); oppure per usare una forza diversa da quella muscolare umana (come l’aratro o il motore elettrico); oppure per smontare un lavoro complesso in piccole azioni semplici che si possano ripetere e migliaia di volte, in maniera sempre uguale e senza errori (come la macchina tipografica).Negli ultimi secoli ci siamo concentrati solo sull’ultima abilità perché una volta scoperti il motore a scoppio e quello elettrico il problema dell’uso della forza muscolare non si pone più; almeno così pare, fino al momento in cui scopriamo che le macchine che costruiscono i modelli linguistici sottostanti a ChatGPT consumano la stessa elettricità di un’intera provincia italiana. Per lo più  si tratta di elettricità prodotta in loco tramite sterminati campi di pannelli fotovoltaici, quindi definita “verde”; ma gli effetti collaterali (dal consumo d’acqua nel processo di estrazione dei minerali rari come il gallio e il germanio, allo smaltimento e stoccaggio dei rifiuti) non sono banali.Primo tema trasversale su cui appuntare l’attenzione: l’energia.

     

  2. Le macchine tradizionali si possono pensare come abilità congelate in mattoncini: abilità applicabili ripetutamente, indipendentemente da quelle delle persone che le usano. Un tipografo non deve essere uno scrittore e nemmeno un calligrafo. Staccare l’abilità dalla persona produce dei vantaggi: per esempio, le macchine possono essere usate da persone deboli o inesperte, o possono lavorare continuamente per un tempo superiore alla giornata di lavoro, senza andare in ferie o in malattia. A chi giovino questi vantaggi è un’altra questione che è legata al possesso delle macchine. La pubblicità della macchine per l’automazione dei lavori di casa presenta la casalinga come l’unica beneficiaria dell’adozione della lavatrice o dell’aspirapolvere, come le macchine per ufficio vengono presentate come aiutanti delle segretarie. Ma è ovvio che questo dislocamento delle abilità dalla persona alla macchina ha degli effetti sulle relazioni tra persone, nella famiglia come nell’ufficio o in fabbrica.Secondo tema: i lavori che diventano obsoleti e le classi sociali che perdono potere d’acquisto. 
  3. Ha effetti – e questo dovrebbe farci riflettere per tempo – anche sulla formazione e sulla scuola: non ha senso insegnare alle persone delle abilità che sono di pertinenza delle macchine. Né ogni formazione professionale può essere convertita nella formazione per gestire le macchine. La macchina può finire per sostituire l’operaio, o anzi essere progettata apposta per finirla una buona volta con tutti i tipi di operai; nello stesso tempo, contribuisce alla chiusura dei corsi di formazione professionale, dalle lingue alla programmazione, e quindi permette di finirla una buona volta con tutti i tipi di docenti.Terzo tema: il destino della formazione, per come la conosciamo ora. 
  4. Appena si sale un po’ di complessità e autonomia si trovano macchine che non fanno affatto sempre la stessa cosa, sia nel senso che eseguono una serie di operazioni, sia nel senso che possono eseguire alcune operazioni al posto di altre. Un carillon è una macchina che è in grado di eseguire sequenze di azioni (musicali) diverse, infinite sequenze di azioni. Ma può eseguire solo sequenze musicali scritte per quella determinata macchina. La stessa cosa vale per il telaio Jacquard. Entrambe sono basate sull’idea di “programma”, cioè di serie di azioni scritte in maniera formalizzata, leggibili in maniera univoca ed eseguibili. Nel caso del telaio, quando si vuole avere risultato diverso, questo programma può essere sostituito. Invece di cambiare tutta la macchina (con costi e tempi enormi), si cambia solo la scheda. E’ la prima volta che l’hardware si separa fisicamente dal software e i due fratelli seguono una strada diversa. Come se lo stesso corpo potesse ospitare anime diverse, a turno.Anche le macchine digitali sono in grado di eseguire azioni diverse in base al programma che viene caricato. Solo che hanno in più la possibilità di “apprendere” abilità diverse e tenerle in memoria per sempre o finché non le si mette a dormire. Un telaio Jacquard non ha memoria; invece un computer sì: quando lo si sveglia, si ricorda tutto quello che ha appreso nel passato. Non è solo una questione di comodità: significa che un computer può eseguire un programma nel contesto di un programma precedente. In sostanza, in questo modo si reinventa il concetto di cultura – conservabile, trasmissibile, sovrapponibile – che permette di andare oltre la natura.Sembra una banalità, ma è la base per tutte le finzioni presenti e future: un computer esegue un programma in base al quale si comporta come un altro computer. In pratica il software si mangia l’hardware, cioè fa finta di essere un hardware diverso.

    Quarto tema: la virtualizzazione.

     

  5. L’enorme differenza tra un carillon e un computer è che il computer non è limitato ad un solo tipo di azioni, quindi di abilità. Ad un computer si può “insegnare ad imparare”, non solo scrivendo nuovi programmi, ma inventando nuovi linguaggi con i quali scrivere altri programmi.
    Tra le cose che può imparare a fare un computer è modificare o tradurre o scrivere nuovi programmi, che in fondo sono solo sequenze di simboli con un qualsiasi testo. Si tratta per la verità di cose non particolarmente nuove, che i computer fanno da sempre e, letteralmente, in continuazione. Il fatto che sappiano trattare testi in generale, compresi quelli delle lingue naturali, non dovrebbe stupirci più di tanto. Se sapessimo che i computer passano la vita ad analizzare, riassumere, tradurre quel tipo particolare di testo che è il codice sorgente di un programma forse saremmo meno colpiti dal fatto che lo sappiano fare con l’italiano.Quinto tema: la produzione automatica di testi.

Le macchine più avanzate hanno la meta-abilità di sapere quale abilità applicare e quando farlo; le potremmo chiamare competenze. Hanno dei magazzini di risorse, e possono andarle a scegliere per usare quella più adatta. Non è escluso che la definizione standard di “competenza” come capacità di selezionare le risorse più adatte ad un problema derivi proprio da questo modo di funzionare delle macchine complesse; nel senso che quella definizione è stata scritta in un’ottica che paragona il cervello ad un computer e il pensiero al software.

Certi software, da tanto tempo, sono capaci di esercitare competenze che a noi umani sembrano “alte”, cioè vicine alle nostre: sanno giocare a scacchi, sanno risolvere problemi, in particolare quelli di ricerca all’interno di archivi sterminati. Non brillano particolarmente nel campo della produzione di oggetti nuovi ma comunque lo fanno. Se i programmatori sono in grado di definire formalmente come si risolve un problema, o come si crea un minuetto, i software sanno farlo –  con piccole variazioni dovute al caso, anche quello inserito dal programmatore con parsimonia.

Su questa relazione programmatore-programma si basa il senso didattico di insegnare a programmare ai bambini (e in generale a persone che nella vita non faranno i programmatori, piccoli e grandi). Il famigerato e bistrattato coding è un modo di costruire dei modelli di situazione definendo le condizioni e le regole. E’ un modo di capire le situazioni, di comprendere le relazioni tra cause ed effetti, potendo sperimentare direttamente e immediatamente, correggendo le regole fino ad arrivare al risultato atteso. Non è tanto un gioco gradevole, un modo per esercitare la creatività e passare il tempo disegnando girandole e muovendo gattini, ma un laboratorio per la mente dove si mettono alla prova in maniera collettiva (e quindi discutibile) diverse interpretazioni del mondo. E’ uno dei casi a mio parere più significativi di ripensamento di una tecnologia nata altrove (la programmazione) e del suo adattamento al contesto e agli scopi della didattica. Non si fa coding per preparare futuri programmatori domani, ma per scoprire come funziona il mondo oggi.

Questa modalità (che chiamerei “tradizionale”, a segnalare che novità e tradizione si susseguono più velocemente di quello che ci piacerebbe) viene messa in discussione dai servizi di intelligenza generativa. Il bello di questi servizi è che la competenza che esibiscono non è stata costruita a tavolino, ma è stata imparata sul campo; solo che è impossibile dire esattamente come.

[i]Una versione più estesa di questa descrizione è nel volume 4 di “Il mondo della rete spiegato ai ragazzi”




Il manifesto per una scuola eugenetica di Galli Della Loggia

di Mario Maviglia

Questo intervento intende sviluppare in modo coerente e organico quanto ha enunciato qualche giorno fa sul Corriere della Sera un noto editorialista che denominerò EGDL per ragioni di economia di caratteri avendo egli un cognome troppo lungo per essere riportato per intero e anche per le ragioni che, in modo subdolo e implicito, verranno esposte nel corso di questo intervento.
In sostanza EGDL sostiene che la scuola italiana funziona male e i risultati scolastici sono quelli che sono perché nelle classi assieme agli “allievi cosiddetti normali” convivono anche “disabili gravi con il loro personale di sostengo (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo.”

Questa fotografia di EGDL è ampiamente incompleta: a scuola infatti ci vanno anche rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, sfigati di ogni genere. Tutta questa congerie di soggetti subumani o al limite dell’umanità reca un grave danno a chi invece (gli allievi normali) ha diritto di seguire il corso di studi con profitto e regolarità e a prendere in mano, un domani, la guida del Paese.

EGDL esprime, in modo peraltro non del tutto chiaro ed esplicito (ci vuole coraggio talvolta anche per riconoscersi nelle proprie idee), ciò che probabilmente c’è in tanta parte dell’opinione pubblica italiana, presumibilmente quelli a cui piace “il mondo al contrario”. A lui e alla parte di questa popolazione “normale”, è rivolto questo intervento che ha lo scopo di tradurre in termini più espliciti ciò che il Nostro non ha avuto (ancora) il coraggio di esprimere ma che è una logica e coerente conseguenza delle sue pennellate editoriali.

Si tratta di pochi principi che disegnano un modello di scuola dove finalmente chi ci va viene messo nella condizione di apprendere e di imparare le cose che veramente contano nella vita senza intralci o ritardi causati da ragazzi/e che non hanno voglia di studiare o che, per natura, non sono in grado di frequentare proficuamente la scuola e intraprendere studi seri. Per ragioni espositive i principi vengono presentati sotto forma di decalogo, ma non ci si lasci ingannare da questa scelta stilistica: dietro ogni principio c’è una profonda riflessione sul senso della scuola e, in fondo, sul senso della vita e della convivenza tra gli umani.

  1. Le materie più importanti della scuola così concepita sono italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti). Tutte le altre materie sono subordinate a queste e il curricolo è costruito tenendo conto di questa gerarchia gnoseologica.
  2. Le scuole sono organizzate e classificate secondo il tasso di eccellenza umana che esprimono. Pertanto abbiamo:
    2 a: Scuole A+: riservate a tutti i ragazzi/ biondi e con occhi azzurri (A sta per Ariani) e con QI geniale o alto.
    2 b: Scuole A: riservate a ragazzi/e ariani ma non biondi e senza occhi azzurri e con QI medio-alto.
    2 c: Scuole H: riservate agli handicappati di ogni genere (l’attuale denominazione di “disabili” è mistificante, oltre che demagogica).
    2 d: Scuole S: riservate agli stranieri, ma con qualche eccezione nei confronti dei ragazze/i che potrebbero rientrano nella categoria A+ o A.
    2 e: Scuole B: riservate ai ragazzi/e Bes.
    2 f: Scuole AS: riservati agli altri sfigati oltre ai Bes (rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, ecc.).
  3. Ogni scuola così denominata è distinta dalle altre ed allocata in un edificio a se stante (denominato block). Va da sé che ogni edificio sarà adattato architettonicamente secondo il modello Panopticon, secondo la geniale intuizione di Jeremy Bentham e rivisitato in termini sociologici da Michel Foucault.
  4. Il curricolo completo imperniato su italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti) e sulle altre materie ruotanti intorno a queste, è riservato solo alle scuola di tipo A+ e A (ma in queste ultime non può essere insegnato l’aramaico). In tutte le altre scuole si provvederà a dare un’alfabetizzazione di base di lingua italiana e soprattutto si insegnerà ai ragazzi/e ad apprendere un lavoro (il motto di queste scuole sarà infatti “Il lavoro rende liberi”).
  5. Ad esclusione delle scuole di tipo A+ e A, in tutte le altre scuole ci sarà un curricolo maschile e uno femminile. Infatti i ragazzi saranno avviati ad apprendere un lavoro per mantenere la famiglia, mentre le ragazze si occuperanno soprattutto di lavori domestici, nozioni di puericultura per l’allevamento dei figli, nozioni di economia domestica per fare la spesa e far quadrare i conti della famiglia, nozioni di tecnologia per far funzionare gli elettrodomestici come lavatrice, lavastoviglie et similia.

In sintonia con quanto implicitamente espresso da EGDL, questi semplici principi dovrebbero essere in perfetta sintonia con i valori democratici espressi dalla Costituzione: infatti, è garantito il diritto all’istruzione per tutti (art. 34 cost., comma 2) e nel contempo solo i capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ossia i ragazzi/e frequentanti le scuole A+ e A (art. 34 cost., comma 3).

 

 




Abrogazione del reato di abuso d’ufficio: un colpo di scure su un pilastro di civiltà giuridica

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Il potere nella società crea gerarchie e subordinazione; c’è chi comanda e c’è chi subisce e deve obbedire.  Ma non basta.
E’ connaturata a chi detiene posizioni di potere nella società la tentazione di mantenerle a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo.  Per non farne le spese, nel corso della storia, non sempre fortunata e felice, quanti sono stati collocati in condizione di subalternità hanno cercato di contenere o di sconfiggere la volontà di dominio e di sopraffazione che scaturisce spesso dal possesso del potere.

Si è riusciti a imporre limitazioni, regole e procedure di alternanza e di reversibilità del potere.
Si è inventata la democrazia, al cui sostegno sono necessari sia la divisione del potere sia un sistema di equilibri e di contrappesi, che se non devono impedire di prendere decisioni, devono essere in grado di neutralizzare scelte arbitrarie e pericolose per la società.
Si è riusciti a contrastare gli arbitri del potere, solo quando la lotta contro di essi è stata sostenuta da forti, robuste convinzioni morali e politiche.  Senza queste fondamenta a lungo andare non regge il regime di tutele dei diritti e della dignità personale di ogni cittadino. Ripetuti sono, infatti, i tentativi di metterlo a soqquadro in funzione di specifici interessi oligarchici e di ceto politico.  Le buone leggi che impediscono di essere sopraffatti e umiliati dagli uomini che gestiscono potere sulle persone possono essere mantenute, solo se non viene a mancare la vigilanza civica e democratica a loro difesa.

Appartiene all’ ambito di queste civilissime disposizioni di legge la norma che sanziona l’abuso d’ufficio (art. 323 codice penale, modificato con il d. l.  76/2020 convertito in legge 120/2020) che così recita “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.

Si riscontra, quindi, il reato di abuso d’ufficio quando un pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, nell’esercizio delle sue funzioni, produce un danno o un vantaggio patrimoniale che è in contrasto con le norme di legge.
Il bene giuridico tutelato dall’art. 323 c. p.  è identificato nell’imparzialità, nell’efficienza, nel buon andamento e nella trasparenza della Pubblica Amministrazione, ossia nella tutela dei principi cui deve conformarsi l’attività amministrativa, così come viene richiamato dall’art.  97 della Costituzione (“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione“).

La norma che sanziona il reato dell’abuso d’ufficio finora ha cercato di impedire che venisse alterata a piacimento la “par condicio civium” di fronte alle scelte della pubblica amministrazione, ma negli ultimi tempi a non pochi uomini che gestiscono potere nei vari luoghi delle istituzioni è sembrata una camicia di forza di cui liberarsi al più presto, per potere procedere senza intralci e senza timori nell’attività amministrativa.
Incuranti se con le loro scelte si possa procurare intenzionalmente un vantaggio patrimoniale ingiusto o un ingiusto danno ad altri.

A sostegno di queste aspettative è arrivato, come promesso, il DDL presentato dal Ministro della Giustizia e già transitato nell’apposita commissione del Senato, il cui art. 1 così recita:  ”Art.  1.  Abrogazione del reato di abuso d’ufficio. L’articolo 323 del codice penale è abrogato”.
Punto e basta. Un colpo di scure su un pilastro di civiltà giuridica e amministrativa. Con l’approvazione nei due rami del Parlamento con questa norma si renderà di fatto insindacabile la posizione dominante dell’uomo di potere, grande o piccolo che sia.  Inizierà il percorso di espropriazione dei diritti di cittadinanza, che non avrebbero modo di sussistere nell’abbandono della trasparenza e dell’imparzialità nelle scelte amministrative. Si approfondirà l’ostilità di parte della società nei confronti delle istituzioni e della politica. Si andrà verso il connubio sistematico tra amministrazione e malaffare.  Si ritornerà all’arroganza e alla violenza del potere, da cui era sembrato di esserci a liberati con tanta fatica.

E a scuola che bisogno ci sarà dell’Educazione Civica e dell’Educazione alla Cittadinanza se gli uomini che gestiscono il potere nelle istituzioni, compresa la scuola, non risponderanno degli abusi che commetteranno nell’esercizio delle proprie funzioni?
Perchè gli abusi di potere scompariranno dal codice penale, ma non nei rapporti quotidiani tra cittadini e istituzioni. Senza adeguato e forte contrasto politico e civile con l’abolizione del reato di abuso d’ufficio si ridiventerà pedina manovrabile dell’arroganza e dell’autoritarismo di chi detiene posizioni di potere; verrà messo a repentaglio il proprio diritto ad essere amministrato con giustizia e imparzialità.

 




Dimensionamento scolastico: non esiste un numero “giusto” di alunni, ma bisogna decidere quale scuola vogliamo

di Mario Maviglia

Quando si parla di dimensionamento e razionalizzazione della rete scolastica si usano di solito parametri meramente ragionieristici finalizzati al risparmio della spesa pubblica.
Naturalmente, di per sé questo non è un male, anche se sarebbe opportuno che i medesimi parametri venissero applicati anche per altri capitoli di spesa del bilancio dello Stato (ad esempio quelle relative alle spese militari o alle spese per il funzionamento degli apparati politici del Parlamento o ancora alle spese per i contributi pubblici ai giornali, per citarne solo alcuni a titolo esemplificativo).
Raramente si fanno ragionamenti riguardanti la funzionalità dell’adozione di questi parametri e gli effetti che producono sul piano organizzativo e sul funzionamento del servizio scolastico. Com’è noto la legge finanziaria 2023 (L. 197 del 29 dicembre 2022) al comma 557 ha innalzato a 900 il numero minimo di studenti per riconoscere l’autonomia alle istituzioni scolastiche (in precedenza il numero minino era di 600), fatta eccezione per le scuole situate nelle zone di montagna o nelle piccole isole o caratterizzate da specificità linguistiche.
Questo significa che alle istituzioni scolastiche che si trovano al di sotto di questi parametri (scuole cosiddette sottodimensionate) non potranno essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato, ma solo dirigenti con incarico di reggenza. E lo stesso vale per i DSGA. Ovviamente questo meccanismo non riguarda i plessi scolastici in sé, la cui apertura o chiusura o dislocazione è di pertinenza degli enti locali, ma il numero di “presidenze” di titolarità che vengono attivate.

È plausibile immaginare che le istituzioni scolastiche sottodimensionate, e dunque senza un DS e un DSGA titolare, ma affidate in reggenza, siano condannate a una progettualità più precaria e a una continuità più frammentata nella gestione della scuola.
Ma, più in generale, il problema di fondo è quello di definire quale è il numero ottimale di studenti di una istituzione scolastica che consenta di garantirne una gestione efficace ed efficiente del servizio scolastico, tenendo conto che all’aumento del numero degli studenti corrisponde un correlativo aumento delle unità di personale scolastico occorrente per far funzionare la scuola.
Probabilmente non esiste una risposta univoca a tale quesito, ma è significativo che esso non venga mai posto nel dibattito riguardante questo problema e nelle decisioni che vengono assunte. D’altro canto finché la politica scolastica in Italia verrà definita dal MEF è difficile aspettarsi ragionamenti orientati in questa direzione.

Sappiamo d’altronde che mentre si è particolarmente attenti ad evitare che le istituzioni scolastiche funzionino con un numero di studenti inferiore alla soglia minima stabilita (salvo le eccezioni riportate sopra), non altrettanta solerzia viene dimostrata nei confronti di quegli istituti che nel tempo hanno assunto dimensioni così ampie per numero di studenti iscritti da diventare dei veri e propri monstre.
Ma anche in questo caso occorre chiarire il senso di questa affermazione. In teoria un istituto con 3500 studenti potrebbe non essere in sé un’aberrazione (ne ho visitato personalmente uno in pieno centro a Pechino che contava questa popolazione studentesca), ma si tratta di chiarire che tipo di scuola si vuole perseguire e il ruolo che è chiamato a svolge il dirigente scolastico all’interno di istituti così concepiti.
Infatti, se si opta per un ruolo essenzialmente gestionale e manageriale del DS, probabilmente il numero di studenti può essere molto elevato in quanto il dirigente si occupa essenzialmente di problemi macro; se invece si punta ad un ruolo più caratterizzato nel senso della leadership educativa, allora una dimensione più ridotta dell’istituto può favorire meglio lo svolgimento dei compiti connessi.
La tendenza che si è diffusa nel tempo in Italia è stata quella di puntare su un identikit di figura dirigenziale di tipo manageriale (almeno sulla carta e per i compiti che vengono richiesti) e dunque in grado di dirigere istituti anche di grandi dimensioni, tendenza che, guarda caso, meglio si sposa con le politiche di contenimento della spesa pubblica.

Tutto il ragionamento fatto fin qui può essere confutato con l’osservazione che la buona scuola in fondo la fanno i buoni insegnanti e questo a prescindere dalle dimensioni dell’istituzione scolastica. Infatti, si può obiettare che è all’interno del rapporto d’aula che si esprime una buona didattica con il correlativo conseguimento di risultati scolastici significativi e positivi.
Questa osservazione, non banale, trascura però che le “prestazioni” dei docenti risentono anche del clima complessivo che si crea all’interno della scuola e dei rapporti che si stabiliscono con la dirigenza.
Non a caso A. Paletta rimarca che “la leadership è una qualità distintiva tanto più di valore quanto più è strettamente connessa alla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ovvero quanto più valorizza studenti e docenti nella cui interazione si sostanzia lo sviluppo della persona umana.”[1]
Ma c’è da chiedersi in quali tempi e con quali energie un dirigente di un istituto di grandi dimensioni può garantire la tenuta complessiva del sistema e una interazione non episodica con i docenti (quando questi superano abbondantemente il numero di cento), atteso che proprio gli insegnanti costituiscono la principale risorsa professionale su cui si gioca la qualità della didattica e della relazione educativa.

L’aspetto interessante da sottolineare, a riprova del paradigma esclusivamente ragionieristico che ha caratterizzato le scelte di politica scolastica, è che all’aumento del numero degli studenti per istituto, che comporta una maggiore complessificazione nella gestione della scuola, non corrisponde, sul piano formale, una ridefinizione di alcuni istituti contrattuali come ad esempio il riconoscimento giuridico ed economico delle figure intermedie incaricate di garantire, insieme al DS, la tenuta del sistema.
Una maggiore complessità del sistema (e il numero degli addetti di un’organizzazione è un fattore che crea di per sé maggiore complessità) richiede forme più complesse e articolate di gestione. E invece, almeno formalmente, un istituto con 2000 studenti (situazione non così infrequente) si trova equiparato ad un istituto con 900 studenti. D’altro canto questo è quanto succede anche nell’attività d’aula in riferimento ai docenti: non vi è alcuna differenza, sul piano formale, tra il lavorare in classi con 18 alunni o con 30, anche se i carichi di lavoro e i potenziali fattori stressogeni sono di peso diverso.

Per tornare al quesito posto prima (quale sia il numero ideale di studenti per ogni istituto), la questione in realtà è mal posta in quanto probabilmente non esiste un numero ideale; semmai il problema è un altro: che idea di scuola traspare dalle scelte di politica scolastica che vengono portate avanti rispetto al dimensionamento? E correlativamente: che idea di dirigente scolastico viene veicolata? La mia ipotesi è che la tendenza ad ampliare i parametri quantitativi delle istituzioni scolastiche, a parte l’onnipresente mantra della razionalizzazione (leggasi: risparmi di spesa, ma con le contraddizioni segnalate in apertura), nasconda un’idea essenzialmente burocratico-gestionale della scuola, con una certa indifferenza verso i processi che sottostanno all’impresa educativa. È la scuola del merito (il merito dei migliori, quelli provenienti dai ceti sociali più abbienti), più che della cooperazione, della competitività più che della solidarietà. In sostanza, è la scuola del profitto, fatta a immagine e somiglianza del neocapitalismo. A questa scuola non serve un dirigente che curi le relazioni umane, o che garantisca che lo sviluppo dei processi di apprendimento costituisca un diritto per tutti gli studenti; a questa scuola serve un manager che si occupi essenzialmente degli aspetti burocratico-gestionali. Il libero mercato completerà l’opera intrapresa da questa scuola, selezionando diligentemente i Gianni dai Pierini.

[1] A. Paletta, Dirigenza scolastica e middle management, Bononia University Press, Bologna, 2020, vol I, p. 9.