Il congiuntivo nella Costituzione italiana

di Nicola Bruni

Quando facevo il prof di italiano, talvolta mi avventuravo nell’insegnamento della “grammatica costituzionale”, proponendo come frasi da analizzare articoli della nostra Magna Charta.
Questa mi riusciva particolarmente utile per spiegare il corretto uso del congiuntivo, mentre il congiuntivo mi serviva da pretesto per parlare della Costituzione.
Scorrendo il testo approvato il 27 dicembre 1947 dai Padri costituenti, con le successive modifiche, vi ho contato la presenza di 55 forme verbali al congiuntivo, tutte coniugate al tempo presente, in proposizioni consecutive, ipotetiche dell’eventualità, condizionali, dichiarative, soggettive, oggettive, finali, limitative, eccettuative, temporali.

Alcuni esempi:

RELATIVA IPOTETICA DELL’EVENTUALITA’: “Lo straniero, AL QUALE SIA IMPEDITO nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge” (art. 10, comma 3).
CONDIZIONALE: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma […], PURCHE’ NON SI TRATTI di riti contrari al buon costume” (art. 19).
DICHIARATIVA: “I lavoratori hanno diritto CHE SIANO PREVEDUTI E ASSICURATI mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” (art. 38, c. 2).
SOGGETTIVA: “È condizione per la registrazione CHE gli statuti dei sindacati SANCISCANO un ordinamento interno a base democratica” (art. 39, c. 3).
OGGETTIVA: “Nel processo penale, la legge assicura CHE la persona accusata di un reato SIA, nel più breve tempo possibile, INFORMATA riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico” (art. 111, c. 3).
FINALE: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni PERCHE’ l’attività economica pubblica e privata POSSA ESSERE INDIRIZZATA E COORDINATA a fini sociali” (art. 41, c. 3).
LIMITATIVA: “L’estradizione del cittadino può essere consentita SOLTANTO OVE SIA espressamente PREVISTA dalle convenzioni internazionali” (art. 26).
ECCETTUATIVA: “Il Presidente della Giunta regionale, SALVO CHE lo statuto regionale DISPONGA diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto” (art.122, c. 5).
TEMPORALE: “FINCHE’ NON SIANO RIUNITE le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti” (art. 61, c. 2).

Ma i congiuntivi “costituzionali” più belli, a mio giudizio, sono quelli programmatici che compongono le due proposizioni RELATIVE CONSECUTIVE dell’articolo 4:
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni CHE RENDANO effettivo questo diritto”.
“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione CHE CONCORRA al progresso materiale o spirituale della società”.

Ovviamente – facevo notare ai miei alunni – la CONSEGUENZA di quest’ultima norma della Costituzione è che ogni studente ha il dovere di formarsi al meglio delle proprie possibilità, per poter dare un contributo al progresso materiale e spirituale dell’Italia.




Giornata della Memoria, il Ministero teme “iniziative che possano turbare gli studenti”. Ma a cosa si riferisce?

di Mario Maviglia

La direttrice generale dell’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio ha inviato ai “dirigenti scolastici degli istituti scolastici di ogni ordine e grado del Lazio” una nota “riservata” (talmente “riservata” che la si può tranquillamente trovare sui social) che recita testualmente così: “Oggetto: Svolgimento delle attività didattiche. Nell’approssimarsi della Giornata della Memoria ed alla luce degli scenari internazionali di crisi si raccomanda le SS.LL. di porre la massima attenzione per prevenire iniziative o comportamenti che possano turbare la serenità degli studenti e delle studentesse nonché il regolare funzionamento delle attività scolastiche. Ogni eventuale elemento di novità al riguardo deve essere rappresentato allo scrivente Ufficio con la massima tempestività. Il direttore generale” ecc. ecc.

Non sappiamo se la nota nasce da qualche sollecitazione del Superiore Ministero o se è stata una iniziativa della direttrice regionale; in ogni caso merita qualche osservazione, che (lo anticipiamo) forse non sarà politicamente corretta, ma speriamo eticamente irreprensibile. Innanzi tutto non si comprende quali possano essere quelle “iniziative o comportamenti che possano turbare la serenità degli studenti e delle studentesse.” Utilizzando un approccio ermeneutico-inferenziale abbiamo provato a indicare alcune di queste iniziative potenzialmente “turbanti”:

  • I ragazzi e le ragazze inneggiano alle Brigate Rosse et similia (ma la cosa appare inverosimile in quanto gli studenti odierni non sanno neppure cosa fossero le Brigate Rosse).
  • Gli studenti e le studentesse manifestano pubblicamente a favore delle camere a gas naziste (ma queste manifestazioni sono tipiche di CasaPound et similia e dunque la nota andrebbe rivolta a questi centri di estrema destra, ma in questo caso è competente il Ministero dell’Interno, non il MIM).
  • I giovani manifestano contro la guerra (e questo sarebbe “turbante” per i giovani?).
  • I giovani manifestano a favore della pace (e anche questo sarebbe “turbante” per i giovani?)

L’espressione “manifestare” va qui intesa in senso lato (discussioni, dibattiti, proiezioni di filmati e altre iniziative che le scuole possono organizzare per l’occasione all’interno della scuola o all’esterno con il coinvolgimento della comunità locale).

Si può, ovviamente eccepire che la Giornata della Memoria è stata istituita per commemorare le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei e dei deportati militari e politici italiani nei campi di concentramento nazisti e dunque questo è il perimetro all’interno delle quali collocare le attività didattiche. Tutto ciò che va oltre questo perimetro è in contrasto con il significato e il senso della Giornata della Memoria. Ma questo non è ampiamente già noto alle scuole? Perché inviare una nota di quel tenore?

Ci può essere un’altra ragione, considerato quello che sta succedendo in Italia in questo periodo: probabilmente il MIM vuole prevenire manifestazioni di sostegno al popolo palestinese da parte degli studenti. Potrebbe essere questo l’”eventuale elemento di novità” da segnalare all’USR? In ogni caso, poiché l’oggetto della nota è “svolgimento delle attività didattiche” non risulta che il DPR 275/1999 (Regolamento dell’Autonomia) e le altre norme vigenti prevedano che le istituzioni scolastiche debbano segnalare al Superiore Ufficio quali attività didattiche hanno in programma di realizzare, anche se queste dovessero contenere “elementi di novità” (peraltro non ben specificati).

Questo detto/non detto, questo giocare sull’ambiguità della comunicazione nasconde chiari intenti di controllo e di ricatto e tende a fare in modo che le scuole si autolimitino nella loro libertà espressiva e di ricerca. Nulla di nuovo sotto il sole: in fondo il MinCulPop era basato su questo sistema: fare in modo che le persone si autocensurassero attraverso un controllo serrato dei loro comportamenti. E, in quel caso, per la verità, anche attraverso azioni repressive. In questa dinamica l’USR rischia (consapevolmente o meno) di proporsi come un novello Argo Panoptes che attraverso i suoi cento occhi controlla continuamente i suoi sottoposti, forse per tranquillizzare (per non “turbare”?) il suo committente, ossia il Superiore Ministero.




Ma io ho studiato per insegnare la mia disciplina, non per insegnare agli alunni con disabilità

di Evelina Chiocca

Nelle nostre scuole entra personale che non solo afferma quanto ho scritto nel titolo, ma lo rivendica come “suo sacrosanto diritto”.
Secondo queste persone non è possibile chiedere loro di insegnare “agli alunni con disabilità” iscritti alle loro classi.
Secondo loro gli alunni con disabilità hanno “altri insegnanti”.
Tutto questo non entra nel dibattito.
Sfugge.

 

Tutto questo sembra “ordinario”,  tanto che neppure il Ministro interviene; così come non intervengono altri ministri o ministre che sembrano essere esperti /esperte del tema.
Che cosa significa tutto ciò?
Che quando un docente (il quale afferma di voler insegnare “la sua disciplina”, ma di non voler insegnare ad alunni con disabilità) entra in una classe, allora lo studente con disabilità “esce”, allontanandosi?
Questa è la scuola dell’inclusione?
Questa è la prospettiva che dobbiamo continuare a vedere, senza “battere ciglio”? Senza dire nulla?
Eppure in molti protestano al solo pensiero di “dover insegnare ad alunni con disabilità”.
Forse non hanno letto il loro contratto di lavoro?

E mi chiedo come si possa accettare che la scuola italiana, che vanta di essere leader a livello di inclusione, accetti di far entrare nelle classi personale che dice che “non se la sente di lavorare con gli alunni con disabilità”.
Ricordo una mia collega che una volta mi disse: “Se avessi voluto fare sostegno, mi sarei specializzata. Ma io preferisco insegnare la disciplina agli altri; a lui ci pensi tu”.
Sicuri tutti che a lui ci debba pensare “solo” io, in quanto docente specializzata? Sicuri tutti che il docente con incarico sulla disciplina sia esentato dall’insegnare all’alunno con disabilità? Sicuri tutti che stiamo parlando della scuola italiana che accoglie tutti?
Tutti noi (a ragione) ci scagliamo contro chi paventa il ripristino delle scuole o delle classi speciali; ma perché nessuno dice niente di fronte a color che “le classi speciali le fanno rivivere ogni giorno”?




Professor Galli della Loggia, le racconto cos’era la scuola che lei rimpiange

di Giancarlo Cavinato

Era il 1973, nella scuola a tempo pieno di Torre di Fine Eraclea (Venezia).
Era il secondo anno di avvio del tempo pieno in provincia di Venezia terzo in Italia.
Negli incontri MCE inseguivamo lungo i corridoi Fiorenzo Alfieri e i torinesi avidi di sapere da loro che avevano iniziato per primi il tempo pieno.
Avevo una classe quinta di 24 alunni con diversi pluriripetenti provenienti da pluriclassi chiuse per l’avvio del tempo pieno in un nuovo edificio leggendo i libretti rosa e azzurri che a quei tempi accompagnavano gli alunni dalla prima alla quinta avevo rilevato che alcuni alunni avevano fatto uno o due anni alla scuola speciale di san Donà di Piave perché avevano dei fratelli maggiori già frequentanti la scuola speciale e si era pensato che avessero anche loro analoghe debolezze fisiche e mentali poi accortisi che così non era li avevano ricollocati nella scuola ‘normale’. Perdendo però uno o due anni.
C’era poi in un’altra classe G. bambino distrofico con scarsa speranza di vita. Lui non andava alla scuola speciale perché la famiglia di coloni dipendente dal proprietario terriero padrone delle terre circostanti il paese (un  vero ‘terrateniente’) non poteva lasciare i campi né trasportarlo quotidianamente a San Donà a 20 km. di distanza. Accogliemmo G. in una classe terza contro il parere della direzione didattica (’a vostra responsabilità’) e degli insegnanti locali. G. non leggeva e non scriveva ma faceva dei grandi dipinti di nuvole con un pennello. I suoi compagni lo lodavano per le forme delle nuvole.
Un giorno venne a un coordinamento settimanale del tempo pieno il parroco don Luigi.
Ci parlò di un ragazzino autistico, S., con una diagnosi di grave debolezza mentale. Stava nascosto in casa perché la madre, vedova, si vergognava dei suoi comportamenti.
B., suo fratello, era mio alunno.
Don Luigi ci chiese di prendere S. a scuola. Mancavano 4 anni, la legge 517 era di là da venire, ma si parlava di associazioni di genitori spastici (Anfass)  e down che chiedevano, assieme a operatori sanitari (fu Bollea nella rivista Neuropsichiatria infantile a determinare un orientamento e una nuova sensibilità e attenzione; ma erano anche gli anni di Maxwell Jones, di Laing, di Basaglia con la critica ai concetti di devianza e normalità) l’inserimento nelle scuole di tutti.
Cooperazione Educativa e altre riviste raccoglievano documenti, esperienze, proposte. S. venne accolto nella classe che condividevo con la collega Adriana Scibelli. Non c’era sostegno, non c’erano sussidi tecnologici potenti. Con il corpo con le mani con carta e pennelli con le storie con la musica ci attrezzammo. Il tempo pieno consentiva di organizzare gruppi interclasse.

Potemmo riconoscere in G. e in S. una  comune umanità, e i compagni di classe la sentirono e la condivisero. Sono fermamente convinto che l’integrazione, con tutti i limiti che ha potuto avere per scarso investimento dei governi e resistenze di una parte del mondo della scuola, ha offerto a tutti i ragazzi opportunità di una scuola più attiva, di una formazione più integrale.

Professore E. Galli Della Loggia, Lei rimpiange quei tempi in cui per vergogna si tenevano i figli a casa lasciando così spazio ai figli di una classe già di per sé privilegiata? Davvero pensa che sarebbe un progresso tornare a quei tempi? Concordo invece con Lei sulla inopportunità del proliferare di etichette e categorizzazioni perché la didattica deve essere differenziata per ogni alunno senza piani speciali per alcuni. La informo invece che proprio approfittando di una mobilità e dinamicità dell’organizzazione dei gruppi classe e della reciproca collaborazione quei bambini stranieri che secondo Lei non parleranno italiano ma rimarranno chiusi nel loro idioma (evidentemente per Lei inferiore) invece apprendono benissimo l’italiano attraverso gli scambi con i compagni cosa che non potrebbe avvenire in classi separate. Ma forse con le Sue recriminazioni e rimpianti per i bei tempi andati lei intende lanciare un forte segnale a un Ministero che propone l’umiliazione e la bocciatura con il 5 in condotta come soluzioni educative di tutti i problemi.




Inclusione, decadenza degli “intellettuali” e crisi della scuola dei diritti

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Rodolfo Marchisio

Io questo pezzo non lo volevo scrivere, perché penso che rispondere a EGdL (quello della “predella per ristabilire autorità del docente”, confondendo autorità con autorevolezza), che non è un esperto di scuola, sia quello che lui cercava, una provocazione per far parlare di sé. Ma invitato e tirato per i capelli da un paio di considerazioni, cerco di essere breve.

Intellettuale o influencer?

  • Propongo di abolire il termine “intellettuale”, parola ombrello (Guastavigna) che all’epoca di social, talk e improbabili influencer, non vuol dire più niente. Sicuramente non ha più un ruolo di punto di riferimento nella babele di web, talk e fake. Se “la rete dà la parola a tutti” (U. Eco ed è un bene teorico nel campo dei diritti), dà però anche la parola “a legioni di imbecilli” (U. Eco) e se in rete “1 vale 1” si pone il problema del rapporto tra la libertà di espressione e la competenza in merito all’argomento; “la mia ignoranza vale come la tua competenza” (Asimov). EGdL è esperto di scuola, didattica, pedagogia, inclusione? Dai 2 articoli direi di no.
  • Credo dovremmo parlare di studiosi, di ricercatori, competenti in un campo, anche se la conoscenza oggi è svalutata, anche grazie all’abuso della rete, rispetto alla opinione che chiunque può avere lecitamente. (Nichols).
    Lo studioso si caratterizza per il metodo e per la citazione di fonti, ricerche, documentazione e per l’argomentare vs affermare (come fanno i social e la politica) che validino il suo discorso e permettano agli altri di verificare se dice il vero.
    Lo fa anche wikipedia, il dizionario (non enciclopedia) su cui studiano i nostri ragazzi: questa pagina non è attendibile perché non riporta le fonti e non ha sito/bibliografia.
    Se no è uno qualunque che esprime la sua.

  • L’alternativa di moda è l’influencer da web o talk che spara opinioni e punta a emozionare, scandalizzare, provocare, strategie di moda in rete, TV e politica. EGdL è un influencer nel campo della scuola?

I diritti si possono perdere

  • Il secondo motivo per cui mi permetto di esprimere e documentare la mia opinione è che sono in ballo, in questo ribollire di pareri, livori, frustrazioni, diritti fondamentali per cui, come ci insegna N. Bobbio, ci si è battuti a lungo contro contrari e pigri, ma che si possono perdere in tutto o in parte. Sono nella scuola dal 1969 ed ho vissuto resistenze, diffidenze, difficoltà di parte dei docenti che vivevano come un peso l’inserimento di disabili e poi degli stranieri.
    Credo sia stata una faticosa conquista di diritti che non deve regredire e che non abbia fondamento scientifico la sua critica (Morello).
    La “normalità” non esiste, come non esistono molti concetti usati per separare: siamo tutti diversi ed il confine tra salute e malattia, abilità e deficit è legato ad una convenzione sulla quantità e sulle conseguenze.
    Gli alunni “deboli” non hanno solo diritto a migliorare, ma anche ad essere inseriti nella scuola e nella società. La scuola, per legge non deve solo istruire, ma anche formare la persona ed il cittadino. Qualunque cittadino.
    Il vivere tra diversi (ed ogni diverso è diverso da tutti gli altri diversi) è per tutti crescita, progresso, mediazione verso la cittadinanza democratica; mentre il vivere tra eguali è quanto ci impongono i padroni della rete (Rampini) nei social, comfort zone in cui ci autoconfermiamo tra eguali (Pariser, Bauman) e ci identifichiamo odiando un gruppo diverso da noi (donna, omosessuale, straniero, disabile).

Si può migliorare?

Quando facevamo i primi convegni internazionali sull’inserimento dei disabili a scuola, emergeva (progetto europeo Helios 2) che i popoli mediterranei (Italia, Spagna…) erano più avanti nella inclusione, nella socializzazione; avrebbero potuto far di più nel recupero o compensazione di abilità. I paesi del nord (es. Germania) prendevano i disabili, li chiudevano in ville e li addestravano in modo intensivo, migliorando le loro capacità meglio di noi. Ma non li inserivano nella vita, nella società, nella scuola. Occorre fare entrambe le cose, migliorando e non rinnegando. Ma ci vogliono risorse umane ed economiche.

La scuola è specchio della società e del clima politico e culturale in cui vive

Quelle conquiste sono state frutto di impegno e lotte contro la palude inerziale presente nella scuola allora ed oggi. Non è cambiato molto. La scuola ha sempre avuto una parte più innovativa, più attenta ai diritti ed a temi diversi nelle varie epoche e di contro una minoranza che ci vedeva un problema ed una “palude” talora pigra che si adattava al clima dominante o talora insabbiava.
All’epoca il clima era  teso alla conquista di diritti, oggi alla regressione.
Siamo nella epoca dell’”egocentrismo dei diritti individuali” contro i doveri di solidarietà ed i diritti degli altri (Zagrebelsky). Che sia interesse individuale, diritto di portare armi, diritto di prevaricare, occupazione abusiva del potere, difesa di sé, dei propri soldi e interessi (è sempre più “normale” non pagare tasse e violare le regole comuni a danno degli altri) contro il dovere fondamentale di solidarietà prescritto dalla Costituzione (dall’art 3 in poi).
Viviamo nella “Penisola che non c’è” (Pagnoncelli) che si basa sul percepito e non sui dati reali. Sulla pancia e non sulla ragione.
Inoltre il clima e la società in cui viviamo è quella in cui il 45 % dei cittadini non va a votare, e se una coalizione prende il 40% del 55 % dei votanti, col sistema elettorale attuale, prende il potere esecutivo (che sta “mangiando” gli altri poteri); prende tutto col consenso del 22% della popolazione. La realtà ed il clima in cui vive la scuola è questo. Due studi ci classificavano in serie B con USA e Giappone come “Democrazie con problemi” già anni fa.

L’indagine. Per chi è un problema l’inclusione?

Lasciamo perdere il valore della rilevazione della Tecnica della scuola a livello metodologico, di tipo social. Anche presa per indicativa di una tendenza il 40% dei docenti sarebbe in varie forme favorevole a modificare e qualcuno, oltre a sfogarsi, fa anche proposte sensate. L’altro 60%?
Ma la maggioranza degli allievi invece è contrario, non ci vede un problema. Allora i docenti che vogliono cambiare lo fanno per sé o nell’interesse degli allievi?
Forse i ragazzi sono un po’ più aperti ed i docenti manifestano disagio e problemi nel loro ruolo?
Ottimismo. Che possa essere anche merito della Ed. alla cittadinanza dopo 4 anni (peraltro non attuata in tutte le scuole e che vede diversi docenti, spesso nella secondaria, defilarsi e fare ostruzionismo?)
L’apprendimento è un fatto anche emotivo e sociale (Vigotsky, Goleman) ed avviene riconoscendo la diversità delle intelligenze (Gardner). Non esiste progresso nella omologazione.
Le reazioni di alcuni docenti troll ricupera il livore contro il “68”, il “politicamente corretto”. È odio in rete non argomentazione. Quelli del 68 sono oggi tutti tra i 75 e gli 80 (R. Palermo). Stanno organizzando la contestazione dell’Unitre.

Dice Valditara

“Le conquiste ed i diritti non si toccano” dice il ministro dell’ovvio. Ma va fatto qualcosa. Da chi? Dal Ministro e dalla politica. Che invece continuano a scaricare sulla scuola dopo la EC, la follia del PNRR, i problemi del “merito” (il governo è per la competizione e la competenza– degli altri non sua- non per l’inclusione), l’affettività, l’orientamento, il made in Italy spesso rifiutato dai collegi e tutti i problemi che la politica non sa gestire e risolvere. Se non mettendo una clausola finale. “Con invarianza delle risorse”. Allora è lecito pensare che una parte dei docenti sia stufa di risolvere problemi senza risorse (soldi e ore in più: incentivi estrinseci), ma solo con la motivazione e gli incentivi intrinseci di fare bene e fino in fondo il proprio lavoro?
Parliamo di risorse che sorreggano la motivazione e non di esclusione?

 

 

 

 




La scuola e il “regno della menzogna”

di Pietro Calascibetta

Sulla recensione di Galli della Loggia del volume di Giorgio Ragazzini, “Una scuola esigente”, pubblicata sul CdS del 13/1/23 si è abbattuta una valanga di commenti a volte sarcastici e ironici, a volte molto aspri per usare un eufemismo.
Nel trafiletto di cui parliamo Galli della Loggia si occupa dell’inclusione.
La scelleratezza perpetrata dalla normativa consisterebbe nella scelta di inserire nella stessa classe “unici al mondo” sia i ragazzi con delle difficoltà nella loro completa gamma di situazioni sia quelli che definisce “cosiddetti normali”, diciamo alla Vannucci, con un risultato a suo dire disastroso.
Un’affermazione senz’altro forte e provocatoria.
Non voglio aggiungere nulla, per chiarezza posso dire di condividere pienamente gran parte dei commenti critici che ho letto.
Detto questo vorrei tentare di affrontare invece la polemica che ne è nata toccando un altro aspetto della questione che mi sembra non meno importante dei valori su cui gran parte dei commentatori hanno puntato.

OLTRE AI VALORI C’E’ DELL’ALTRO

Approfittando dell’assist fornito dalla recensione, a me pare che a Galli della Loggia non sia sembrato vero di poter aggiungere un nuovo tassello al suo teorema che la scuola è stata rovinata con le sciagurate riforme fatte per motivi politici e opportunistici dall’allora PCI e dai suoi complici, i fiancheggiatori del compromesso storico e del neoliberismo.
Non è una mia malevola interpretazione, ma è una tesi da lui compendiata addirittura in un saggio per dare supporto scientifico alle sue “opinioni” in merito, espresse a puntate in vari articoli sul Corriere.
Non a caso Galli della Loggia è molto vicino al “benemerito”, come lui lo definisce, “ Gruppo di Firenze” di cui Giorgio Ragazzini è un esponente di spicco da sempre in prima linea su questo fronte.
Sono convinto che Galli della Loggia non sia razzista e non sia Vannacci, ma utilizza l’argomentazione del mondo alla rovescia perché è abbastanza diffusa in quella parte di cittadini convinti come lui che ci sia stata una macchinazione della cosiddetta cultura di sinistra per realizzare una società al contrario, come dimostrano i numerosi lettori dell’ormai famoso generale.
Così facendo sdogana la vulgata popolare secondo la quale per cominciare a risolvere il problema del far funzionare la scuola bisogna liberare i “cosiddetti normali” dalla palla al piede degli altri studenti che, detto tra noi, potrebbero poi essere la maggioranza della classe.
E’ lo stesso ragionamento che lo porta a dire che bisogna liberarsi delle ore di programmazione, dei progetti, delle compresenze, di tutto ciò che non è “lezione” dove c’è un discente che ascolta e un docente che insegna, insomma dell’autonomia.
Parlare dei “cosiddetti normali” è un modo probabilmente strumentale per raggiungere una platea di persone che possano condividere con lui la battaglia contro l’autonomia scolastica, la pedagogia e i pedagogisti, le riforme ecc. il vero cancro a suo parere della scuola italiana che va, possiamo dire parafrasando, “normalizzata”, riportandola dove non si sa, ma è dato intuire, se tutto ciò che è stato fatto dagli anni sessanta in poi non va bene.

IL MORALISTA

Accesa così la fiamma dell’empatia, passa nella sua recensione a giocare la carta “Selvaggia Lucarelli” e afferma di voler smascherare il falso “mito” della scuola inclusiva denunciando che quella che viene esaltata come una scelta di civiltà è “una menzogna” perché non corrisponde alla realtà di una scuola allo sfascio qual è secondo lui la scuola italiana oggi.
Sono sicuro che Galli della Loggia se interrogato sulla questione dirà che lui ha il massimo rispetto per tutti gli studenti con BES, DSA , disabilità ecc. ed è proprio per questo che usa volutamente il termine “menzogna” facendosi così paladino non solo dei “cosiddetti normali”, ma anche di questi studenti fragili che sono stati ingannati e che non riescono ad avere i benefici promessi da questa scuola forgiata dalle riforme facendosi così portavoce di un disagio sicuramente presente e di alcuni problemi che effettivamente esistono nell’inclusione.
È per questo motivo che oltre ad una risposta sui valori è necessaria a mio avviso una risposta chiara e netta sule cause del problema del disagio che lui solleva.

CHI MENTE?

Galli della Loggia mente sapendo di mentire non solo sulla reale dimensioni del problema, ma sulle cause delle difficoltà che l’inclusione incontra effettivamente.
L’autonomia permettendo la flessibilità nella costruzione dei percorsi e nella gestione del gruppo classe è lo strumento più adatto in grado di permettere una didattica inclusiva in un scuola di massa aperta a tutti e non solo alle élite selezionate come era nella visione della scuola superiore di Gentile.
L’autonomia come risposta al problema dell’inclusione.
Perché tutto questo non si è avverato? Per Galli della Loggai perché le premesse erano sbagliate, i “normali” non devono convivere con chi non lo è! I soliti buonisti!

NEL “REGNO DELLA REALTA'”

Nel “Regno della realtà” c’è un’altra spiegazione. Va detto con determinazione che le difficoltà non derivano dalla convivenza di studenti “normali” e di studenti con bisogni speciali, ma dal fatto che l’autonomia scolastica che oggi vediamo, non è l’autonomia quale sarebbe dovuta essere se non fosse stata boicotta fin dal suo esordio e successivamente negli anni non dando le risorse necessarie al suo funzionamento sia finanziarie che normative.
Il fatto che Galli della Loggia dovrebbe conoscere è che l’autonomia la si è fatta con i fichi secchi (passata la festa, gabbato lo santo!) senza mettere a disposizione quanto indispensabile ad attuarla per come era stata concepita, a cominciare da quell’organico necessario a permettere quella flessibilità della lezione, del gruppo classe, delle attività che doveva servire proprio per dare tempi e modalità di apprendere in base ai bisogni differenti degli studenti. Il nocciolo dell’inclusione.
Qualcuno ricorderà sicuramente la sperimentazione dell’organico funzionale subito fatta abortire. Bisogna aspettare la Buona Scuola per trovare finalmente la possibilità di ampliare l’organico in base ai bisogni progettuali di ciascun istituto anche se in modo contraddittorio e molto parziale. Non a caso Berlinguer e Renzi sono considerati da questi signori la coppia che ha rovinato la scuola.
Ma le cause delle difficoltà non stanno solo nell’ organico.
Si è fatta l’autonomia senza modificare la struttura delle cattedre con insegnanti con 8-6 classi che si può immaginare come possano prendersi cura non solo dei ragazzi in difficoltà, ma anche dei “normali”.
Non si è definito il ruolo del coordinatore di classe ora ridotto ad assistente tuttofare, che sulla normativa neppure esiste, che invece dovrebbe essere il project leader dell’équipe di lavoro ; non si è adeguato lo stato giuridico dei docenti alla nuova organizzazione richiesta dalla flessibilità, lo stesso dicasi per il contratto.
Galli della Loggia dovrebbe chiedersi come opinionista il perché di tutta questa resistenza a considerare sullo stesso piano sia l’insegnamento in aula sia l’attività di coordinamento e di progettazione e monitoraggio necessarie a sostenere sul piano pedagogico e didattico la flessibilità del gruppo classe, le attività di scuola attiva e il lavoro di gruppo intorno ai quali ruota la scommessa dell’autonomia e dell’inclusione. Non fanno parte entrambe della professionalità docente? Quale cultura li tiene separate come se fossero due lavori diversi, un lavoro di serie A ed uno di serie B?
L’autonomia prevedeva di cambiare il modo di lavorare dei docenti. Dalla progettazione individuale del singolo docente a casa propria a quella collegiale inserita come parte integrante dell’orario di lavoro nel luogo di lavoro. Viene il dubbio di credere che se questo lavoro è svolto a casa individualmente è professionale, se svolto a scuola con i colleghi è un impaccio burocratico?
L’inclusione in una scuola di massa non è una questione che può affrontare individualmente il singolo docente, ma riguarda il consiglio di classe e l’intera comunità scolastica con tutte le sue componenti.

IL “REGNO DELL’AMNESIA”

Più che il “regno della menzogna” la scuola sembra essere il “regno dell’amnesia” .
Ci si è dimenticati che la stessa piattaforma unitaria dei sindacati confederali della scuola del 2002-2005 sottolineava la necessità nella nuova scuola dell’autonomia di “un’attività organizzata su modelli di lavoro differenziati, professionalità articolate, itinerari di ricerca continui in un contesto relazionale che, oltre a valorizzare l’impegno individuale dell’insegnante, si connoti con una dimensione cooperativa.”
Quali sono stati gli interventi contrattuali e normativi per dare all’autonomia quello che era necessario per poter funzionare?
E’ ovvio che se l’autonomia fonda le sue basi nell’art. 6 del Regolamento e nel lavoro cooperativo dei docenti e poi non c’è uno spazio e dei tempi adeguati per lavorare con questa modalità, i numerosissimi compiti collegiali che le riforme e l’autonomia stessa richiedono ai consigli di classe e ai docenti con un lavoro collegiale finiscono per essere ridotti ad adempimenti burocratici per necessità pratica e per sopravvivenza.
Tolta l’elaborazione creativa, rimane il verbale taglia e incolla.
E’ facile poi mettere in evidenza la burocratizzazione della scuola e lo svilimento professionale.
Insomma con un’espressione non elegante la scuola dell’autonomia è “cornuta e mazziata”.
Se tutte le attività non di insegnamento sono considerate attività aggiuntive, alcune di queste svolte su base volontaria, pagate con un compenso chiamato accessorio prelevato da un fondo da contendersi gli uni con gli altri, come si può chiamare ancora autonomia questa umiliante condizione di lavoro? E’ comprensibile il disagio dei docenti.
Galli della Loggia dovrebbe scrivere che se la scuola è in difficoltà non è per le riforme e per l’autonomia, ma perché in Italia si fanno le riforme, ma poi non ci si preoccupa di renderle realmente operative. Nella scuola e altrove.
Pensiamo al ruolo previsto dalle riforme per i GLI, Gruppo di Lavoro per l’Inclusione, in cui dovrebbero essere presenti anche i referenti delle strutture sanitarie che per i tagli alla sanità sono invece assenti; pensiamo alla mancanza di finanziamenti per la psicologia scolastica in una società dove la scuola dovrebbe rappresentare un presidio per affrontare i disagi sempre più diffusi negli adolescenti come i disturbi alimentari , l’ansia, gli attacchi di panico, ecc, pensiamo alla scomparsa del medico scolastico dalle scuole facendo mancare anche un suo ruolo nell’educazione alla salute tanto che durante il Covid si è dovuti ricorrere ad un docente come referente con mansioni, queste si, che non avevano nessun rapporto con la funzione docente; , pensiamo ai docenti e ai supplenti nominati in ritardo , al cambio dei docenti ogni anno, tutto imputabile ad una cattiva gestione dell’amministrazione e non alle riforme.
Mi sembra che ci siano sufficienti argomenti per dire che la convivenza di studenti “normali” e di studenti non “normali” è un’opportunità e una ricchezza non utilizzata come si dovrebbe e non valorizzata per l’indifferenza che ormai da tempo connota l’azione politica e il regno dei “cosiddetti normali” verso i ragazzi e i giovani..
Sarebbe il caso che gli opinionisti si assumessero la responsabilità di cominciare a dire il vero separando, quando scrivono sui media, i fatti nella loro complessità dalle opinioni strettamente personali soprattutto se ideologiche.




Macchine che fingono di essere intelligenti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Stefano Penge

In questi ultimi anni si sta diffondendo un approccio che epistemologicamente e eticamente sembra mettere in discussione tutto quello che abbiamo saputo o creduto di sapere. Un passaggio che vale la pena di evidenziare e di discutere, anche e soprattutto in ambito educativo.

Fino a poco fa, i computer erano al nostro fianco nell’esplorazione dell’universo, più precisi di noi, instancabili, più determinati nel non commettere errori e non trarre conclusioni avventate. Gli affidavamo il calcolo delle traiettorie degli aerei, sulla base della matematica e della fisica che avevamo verificato nel corso due millenni precedenti, perché eravamo certi che avrebbero fatto meno pasticci di noi. Li immaginavamo come servi affidabili e incorruttibili. Un po’ come il primo Terminator impersonato da Arnold Schwartzenegger: magari brutale, ma efficace e soprattutto fedele.

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Invece è arrivata un’altra generazione di Terminator, più sottile, elegante, fluida. Il modello di software intelligente che va di moda oggi è bravo a fare molte cose, ma soprattutto una in particolare: fingere, cioè cambiare aspetto e assumere quello di chiunque altro. Non sa risolvere un problema o creare un minuetto partendo dalla regole della musica occidentale settecentesca, però può produrre degli artefatti che non sembrano artificiali, che assomigliano a qualcosa che avrebbe potuto produrre un essere umano. Di fatto, assomigliano a molte cose che esseri umani hanno prodotto, contemporaneamente.

Questa capacità, dal punto di vista della storia dei media, non è eccezionale ma è proprio tipica dei computer. E’ un caso limite di re-mediation, cioè della tendenza dei media digitali di copiare i corrispondenti analogici, di inglobarli, di sostituirli. Ne ho parlato e scritto più volte perché è una capacità da cui sono sempre stato affascinato; due esempi qui [https://www.stefanopenge.it/wp/strumenti-digitali-usati-analogicamente/] e qui [https://www.stefanopenge.it/wp/digitale-unetimologia-istruttiva/].

L’impatto è indubitabilmente straordinario e ha fatto intravvedere l’avvento della “singolarità”, cioè del primo computer veramente intelligente e consapevole; tanto che mentre alcuni salutano l’alba di una nuova era transumanista in altri ambienti si sono scatenate le paure dell’intelligenza artificiale senza coscienza etica che presto dominerà il mondo (come Skynet nella saga di Terminator).

Mentre alcuni si sono affrettati a descrivere i mutamenti nella pratica lavorativa quotidiana (almeno in certi settori: la pubblicità, la comunicazione) e a cercare di sfruttarli professionalmente in termini di consulenza e formazione, tanti docenti di buona volontà si sono impegnati a imparare a usare il “prompt”, anche senza sapere bene come funziona, e si sono sforzati di capire come sfruttarlo a fini educativi; con attenzione, certo, perché altrimenti gli studenti ci mettono un attimo a farsi scrivere il riassunto del terzo canto dell’Inferno.

In generale, come per tutti i servizi digitali a cui siamo abituati, questi docenti lo usano senza fare troppo caso al fatto che il loro uso è libero e gratuito. La messa a disposizione gratuita di uno strumento che ha avuto dei costi di sviluppo e di gestione stratosferici è, a mio parere, un indicatore di un progetto di marketing più complesso, che inizia con il beta test su scala mondiale e poi passa per la commercializzazione di servizi personalizzati alle pubbliche amministrazioni, alle aziende, ai professionisti e, perché no?, alle scuole.

Parliamo allora del magico “prompt”, che è il termine che si usa oggi per indicare le richieste (o ricette?) che si inviano ad un servizio online come ChatGPT per ottenere un testo (o un’immagine, o un’animazione, un audio, un video). Infatti il termine collettivo per tutti questi servizi è “intelligenza artificiale generativa”.

Oggi  prompt è diventato un termine di moda, una buzz word. E’ la porta d’ingresso per l’oracolo, come direbbe Gino Roncaglia.[i] Tra parentesi, è curioso che dopo anni in cui la maniera di interagire con un computer usando la tastiera (anziché il mouse o il touchpad o le dita libere nello spazio virtuale) veniva considerata superata  oggi è diventata una modalità avanzatissima, quasi da hacker da salotto. Nemmeno i fieri possessori di Mac si sono lamentati. Anzi è possibile che gli effetti completi in termini di mode culturali ancora siano da vedere. Nella prossima pubblicità di Nespresso si vedrà George Clooney premere tasti per farsi fare il suo caffè preferito.

Ma che significa prompt? Come spesso succede, c’è stato uno slittamento dalla forma alla materia, dallo strumento al contenuto. E’ successo per “Social Network System”, che sarebbero i software che gestiscono le reti sociali ma che sono diventati “i social”, cioè i gruppi di persone con cui abbiamo a che fare. E’ successo per “cloud”, che è il modo di dividere i software su più hardware virtualizzati, ma che è diventato il luogo unico di ogni documento che non sta sul nostro PC. Tutti questi spostamenti di senso vanno nella direzione della semplificazione, cioè della messa tra parentesi della complessità tecnica, ma anche di quella organizzativa e lavorativa. Appena i “social” divengano oggetti dotati di natura propria ci si dimentica che sono costruiti con dei filtri applicati sulla base della profilazione degli utenti, a sua volta costruita leggendo e analizzando messaggi e azioni. Appena il “cloud” diventa un sinonimo di “remoto, lontano, chissà dove” ci si dimentica che la proprietà di quel nostro documento una volta messo nella nuvola è dubbia e così sono vaghi i confini dei suoi usi possibili da parte da qualcuno che non siamo noi.

Torniamo a prompt. In inglese significa letteralmente  “pronto” ed era il simbolo che appariva, e appare ancora, nelle finestre di interazione testuale con i sistemi operativi dei computer. Per esempio, in Linux può essere qualcosa di questo tipo:

[stefano@fedora -]$ □

mentre nei vecchi computer con il sistema MSDOS appariva così:

C:\>_

In genere l’ultimo carattere lampeggia, a significare che il software è in esecuzione, non si è bloccato, ma sta aspettando un comando. E’ pronto. A quel punto si possono scrivere comandi semplici oppure richiamare interi programmi passando dei valori come parametri. Ad esempio, in Linux il comando ls mostra l’elenco dei file e delle directory (come era in DOS il comando DIR); ma:

ls -d */ | grep ‘Doc*’

fa qualcosa di più: mostra solo le cartelle il cui nome inizia per ‘Doc’. Si possono anche fare anche operazioni sofisticate che agiscono su blocchi di informazioni strutturate, come questa:

sed -e ‘s/occhi/orecchi/g’ -e ‘s/vidi/sentii/g’ inferno.txt

che sostituisce tutte le occorrenze della parola ‘occhi’ con ‘orecchi’ e ‘vidi’ con ‘sentii’ in un file di testo che presumibilmente contiene l’inferno di Dante.

Da questo punto di vista, i prompt attuali sono un po’ la stessa cosa: invocazioni di programmi (che però non conosciamo esattamente) a cui si passano come parametri una serie di valori. Ad esempio,  in questo prompt:

I would like to learn about quantum mechanics. Please provide me with a brief summary of spin that could be understood by a 10-year-old.

ci sono tre parametri impliciti (“area”, “argomento” e “target”); le espressioni “quantum mechanics”, “spin” e “10-years-old” sono i valori che assumono questi parametri. Tutta la frase è uno schema che si può svuotare e riempire con altre triple di valori (“letteratura italiana”, “donna dello schermo”, “calciatore”).

Da prompt è stato derivato “prompt engeneering”, cioè la capacità di scrivere buoni prompt, che fa sentire ingegneri anche solo a pronunciarla. Una capacità che si insegna ormai in innumerevoli libri e corsi, alcuni dei quali dedicati a insegnanti e a studenti. Ingegnerizzare significa organizzare le cose in maniera efficiente; in questo caso,  “prompt engeneering” significa semplicemente conoscere degli schemi e saper mettere i valori giusti al posto giusto. Non sembra esattamente un arte e non ci vuole una vita per impararla; comunque, una volta messa da parte, non si capisce bene dove possa venire riusata.

[i]L’architetto e l’oracolo, Laterza, 2023