Cattedra inclusiva: il profilo del docente specializzato ha mezzo secolo di vita

di Simonetta Fasoli

Lo scorso 25 gennaio è stato presentato, a cura dei suoi estensori (gli esperti Evelina Chiocca, Paolo Fasce, Fernanda Fazio, Dario Ianes, Raffaele Iosa, Massimo Nutini, Nicola Striano) un “Progetto di legge per l’introduzione della cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado”. Si tratta di un’iniziativa destinata ad avere, già nel suo primo impatto, una notevole risonanza per la natura e la rilevanza delle questioni di cui esplicitamente si occupa.

Io stessa, nel commentare un articolato e interessante intervento pubblicato su Facebook dal collega Pietro Calascibetta, auspicavo che fosse occasione per un approfondimento e un confronto aperto, per sviluppare quella cultura dell’inclusione di cui più che mai si sente il bisogno.
In quest’ottica si pone il contributo che oggi e qui intendo dare.

Ho letto con la dovuta attenzione il Progetto di legge, strutturato nella forma come una proposta destinata al dibattito parlamentare. Connotato che sottolineo per almeno due ragioni.
La prima è che un tema così rilevante deve sottrarsi a qualsiasi rischio di velleitarismo, e alla fin troppo abusata tendenza a “gettare un sasso nello stagno” per “vedere l’effetto che fa”, inevitabilmente esposta al fuoco di fila degli schieramenti opposti, che fanno aggio sui buoni argomenti.
La seconda è che la sede parlamentare, nei modi previsti, è il luogo istituzionale idoneo a dare forma a temi che riguardano i diritti e la loro esigibilità.

Il progetto di legge è anzitutto un’occasione preziosa, da non perdere, per riflettere e confrontarsi sul tema della disabilità nel sistema di istruzione ed educazione, e sulla cultura dell’inclusione che è più di una cornice: è lo sfondo che dà senso ad ogni intervento. Grazie davvero, dunque, a questo gruppo di colleghi che, venendo da diversi contesti e biografie professionali, si sono fatti carico di dare forma e sostanza ad una tappa importante del percorso verso una “compiuta inclusione”: con coraggio, onestà intellettuale, competenza e, non ultimo, passione attraversata dal vaglio dell’esperienza.
Fatte queste premesse, vorrei procedere con alcune considerazioni, possibilmente con la ragionevole sintesi che il luogo e il mezzo suggeriscono.

Parto, come uso fare in contesti anche di riflessione professionale, dalle fonti, che sono norme ma anche significati culturali che le animano. Vorrei soffermarmi sulla figura e la funzione del docente di sostegno, assumendo che il Progetto in parola non ne propugni la scomparsa (come qualcuno già sta paventando…) ma la rivisitazione.
Se è questo, come mi sembra plausibile, l’intento, bisogna prenderlo sul serio. Suggerisco a questo proposito di andarsi a rileggere il D.P.R. n. 970 del 31.10.1975, che individua i tratti essenziali del profilo dell’insegnante di sostegno, assegnato, dice la norma, “a scuole normali per interventi individualizzati di natura integrativa in favore della generalità degli alunni e in particolare di quelli che presentano specifiche difficoltà di apprendimento.”
E’ mio il grassetto, con cui evidenzio passaggi a mio avviso rilevanti e pertinenti al tema. E’ appena il caso di sottolineare che la norma precede di circa due anni la L. 517 del 4 agosto 1977, che porta al livello ordinamentale il processo di integrazione nella Scuola di Base, superando le classi differenziali e le scuole speciali e introducendo appunto la figura dell’insegnante di sostegno all’integrazione.
Il criterio ispiratore delle due norme appena ricordate è in definitiva il superamento di ogni SEPARATEZZA come “trattamento educativo” della diversità e delle differenze. La prima “separatezza” da oltrepassare è (come spesso osservo negli incontri di formazione con i docenti) quella che si pone tra docenti comuni e docente di sostegno, emblema del trattamento separato destinato agli alunni disabili.
Superfluo, per gli interlocutori di questo mio intervento, sottolineare la variegata casistica delle pratiche invalse nelle scuole di ogni ordine e grado a conferma di questa tendenza. Diverso è, ovviamente, il diritto ad una didattica differenziata che è espressione del diritto all’istruzione e alla formazione di ogni alunn*. Ma qui il discrimine è sottile quanto decisivo: si differenzia PER integrare, nella prospettiva dell’inclusione. Per questo il docente di sostegno è, a tutti gli effetti, il docente della classe e nella classe.

Di qui, l’altro principio-cardine che caratterizza, fin dall’origine, l’esercizio della funzione del docente di sostegno: la CONTITOLARITA’ nel contesto del team dei docenti della classe.
E’ così sostanziale questo principio che dopo ben diciassette anni dalla L.517/77, le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” (Nota Miur del 4/08/2009) lo richiamano, affermando tra l’altro:
“[…] il contenuto della Legge 517/77 che a differenza della L. 118/71, limitata all’affermazione del principio dell’inserimento, stabilisce con chiarezza presupposti e condizioni, strumenti e finalità per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, da attuarsi mediante la presa in carico del progetto di integrazione da parte dell’intero consiglio di classe e attraverso l’introduzione dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno“.
Anche in questo caso, il grassetto è una mia scelta grafica, per sottolineare un passaggio rilevante ai fini di questa disamina.

La cultura dell’inclusione è un processo aperto, che rifugge ugualmente dalle cristallizzazioni pregiudiziali e dalle “fughe in avanti”: per questo, avviandomi a una (molto provvisoria) conclusione di questa mia riflessione, mi sembra pertinente al tema e ai motivi ispiratori del Progetto di legge in parola richiamare brevemente l’idea di “sostegno diffuso”, da più parti sollevata, soprattutto a partire dall’inizio degli anni 2000. Anche qui, non mancano le insidie di interpretazioni fuorvianti e di atteggiamenti liquidatori. Per questo, mi sembra utile riportare un passo del testo “Il piano educativo individualizzato. Progetto di vita” a cura di D.Ianes e S. Cramerotti, ed. Erikson, 2007:

“Le attività dell’insegnante di sostegno dovrebbero estendersi e integrarsi in una più globale funzione di sostegno, attivata dalla comunità scolastica nel suo insieme, nei confronti delle tante e diverse situazioni di disagio e difficoltà che si manifestano. In questo caso sarà l’insieme della comunità-scuola, composta di insegnanti, personale tecnico, alunni e altre persone significative, che mobiliterà tutte le risorse disponibili, formali e informali, per soddisfare i bisogni formativi ed educativi speciali degli alunni, in relazione al tipo e al grado di difficoltà”.

E’ opportuno chiarire che una corretta interpretazione di queste affermazioni non deve significare, a mio avviso, il superamento (nel senso di soppressione) della figura e della funzione dell’insegnante di sostegno, quanto piuttosto sottolineare che la sua azione POSTULA come necessaria condizione la funzione inclusiva del CONTESTO.

Mi auguro che questa mia ricognizione sia un utile contributo al dibattito culturale, professionale, politico-istituzionale attorno ad un’iniziativa come quella del Progetto di legge appena annunciato.  A me sembra, dagli elementi di riflessione proposti, che la prospettiva abbia dalla sua parte solide motivazioni, anche se non manca di nodi di criticità. Ne indico un paio che possono essere oggetto di discussione sia negli ambienti che si muovono attorno alla scuola e ai temi dell’educazione in chiave inclusiva, sia (non meno) in sede di un dibattito parlamentare che auspico possa essere l’approdo dell’iniziativa.

Il primo riguarda la modalità di attuazione del percorso e le procedure che vi sono collegate, alcune esplicitamente. Mentre considero un fatto positivo la previsione dell’attuazione graduale dell’innovazione (segno di saggio realismo) ho qualche perplessità sui modi prefigurati. Detto in termini espliciti, preferirei che gli incarichi orario (su posto di sostegno e, reciprocamente, su posto comune) ovviamente conferiti dal dirigente scolastico, nell’ambito delle prerogative attribuitegli dalle norme, siano formalizzati dopo una procedura che preveda il passaggio negli Organi Collegiali preposti alla programmazione educativo-didattica.

Non si tratta di un astratto omaggio al formalismo delle procedure, ma di una concreta cura della qualità democratica dell’istituzione scolastica. In questo caso specifico, mi sembra per di più che possa ben rappresentare a livello istituzionale quel principio di corresponsabilità educativa su cui mi sono soffermata suffragandolo con il riferimento alle norme.

Secondo rilievo: riguardo alle modalità, ho delle forti perplessità sulla previsione “a regime” dell’innovazione; qui i miei dubbi riguardano la sostanziale obbligatorietà dell’assunzione di incarico sulla cattedra “mista” (o “inclusiva”). Così vincolante che l’articolato prevede puntualmente i casi di deroga (legandoli in sostanza a fattori anagrafici). Capisco le esigenze di natura gestionale ed organizzativa che possono aver ispirato questo criterio. Ma mi domando, proprio perché si innesti un processo di tipo culturale e professionale, attento alla qualità dei percorsi oltre che alla efficienza dei risultati, se non sia preferibile evitare una “coscrizione obbligatoria”, nella prospettiva di coinvolgere la totalità della platea dei docenti. Non voglio entrare nei dettagli di eventuali dispositivi emendativi, in sede di discussione parlamentare, a questo riguardo, ma suggerirei di prevedere una prima fase di sperimentazione (ad esempio, triennale) che coinvolga i docenti come protagonisti attivi e consenzienti, e non come destinatari passivi: l’esperienza passata ci dice che questo può compromettere la buona riuscita della più illuminata delle riforme. Sarebbe un’occasione persa.

Mi fermo qui. Spero che il percorso attivato da questi colleghi (alcuni dei quali conosco personalmente, considerandoli preziosi interlocutori dell’educazione che ci sta a cuore) prosegua: con lungimiranza, come è nato, con il coraggio delle idee di cui c’è più che mai bisogno. Lo dobbiamo ai ragazzi e alle ragazze, non perché lo “meritino” ma perché ne hanno il diritto.




Cattedra inclusiva, una proposta su cui discutere

di Pietro Calascibetta

Il 25 gennaio 2024 è stata presentata a Roma la proposta di legge sull’ “introduzione della cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado”  [clicca qui per leggere il testo]
E’ un’iniziativa importante perché è una proposta concreta che tocca aspetti strutturali del sistema scolastico ed è stata elaborata, come si suole dire dal basso, da esperti di tematiche relative all’inclusione che lavorano nel mondo della scuola e della formazione ( Evelina Chiocca, Paolo Fasce, Fernanda Fazio, Dario Ianes, Raffaele Iosa, Massimo Nutini, Nicola Striano).

La proposta di legge si pone l’obiettivo dichiarato di dare “alle studentesse e agli studenti con disabilità maggiori opportunità formative e un’effettiva inclusione scolastica e sociale.”
La proposta si fonda sulla convinzione che non possa esserci inclusione senza che tutti i docenti del consiglio di classe siano parte attiva di questo processo con piena corresponsabilità e senza deleghe ad altri, in particolare al docente di sostegno per gli studenti con disabilità.
Un presupposto su cui non si può che essere d’accordo.
Il merito della proposta è di aver posto la questione in termini strutturali perché per incidere realmente e perché funzioni effettivamente una proposta innovativa è necessario individuare la struttura organizzativa che è in grado di renderla praticabile.
Qui la soluzione individuata è quella di creare una cattedra “polivalente” in modo che, dopo un’apposita formazione iniziale e/o in servizio, nell’arco di un quinquennio “tutti i docenti incaricati sui posti comuni effettuano una parte del loro orario con incarico su posto di sostegno, mentre tutti i docenti con incarico su posto di sostegno effettuano, anche nell’ambito dell’ampliamento dell’offerta formativa dell’istituto, una parte del loro orario su posto comune”.
In altre parole verrebbe eliminata la cattedra di sostegno per una nuova cattedra “inclusiva”.
Per la rilevanza della proposta e per il fatto che tratta anche di questioni strutturali penso che possa esserci lo spazio per alcune considerazioni e domande che possono offrire un contributo alla discussione che certo si aprirà e per una riflessione ed eventualmente per un’integrazione della proposta.

PERCHE’ PARLARE DI INCLUSIONE SOLO PER GLI STUDENTI DISABILI?

Condivido pienamente la necessità di una proposta di legge sull’inclusione perché è arrivato il momento di fare qualcosa non solo per migliorare l’esistente, ma anche per “reagire a percepibili resistenze e di una cultura dell’esclusione e dell’abilismo difficili da estirpare” , come scrivono nel comunicato stampa i promotori della proposta.
Sono inquietanti i segnali di un atteggiamento che, come recenti polemiche sui social hanno evidenziato, alimenta le strumentalizzazioni qualunquistiche che rischiano di mettere in dubbio lo stresso principio dell’inclusione.
Proprio partendo da questa preoccupazione noto che la proposta riguarda solo gli studenti con disabilità quando, a mio avviso, la questione dell’inclusione ha oggi dimensioni più ampie. Questo rappresenta un limite di non poco conto se si vuole affrontare anche l’aspetto culturale e tagliare le gambe al malessere comunque presente..
Oggi la normativa usa il termine “ inclusione” non solo per gli studenti con disabilità, ma per tutti gli studenti con Bisogni Educativi Speciali di cui fanno parte anche gli studenti con disabilità certificata.
L’acronimo BES però non lo ritrovo nella proposta. Questa mi sembra una debolezza.
Non si tratta di una questione formale, ma sostanziale che, a mio parere, non modifica il presupposto di partenza, cioè la necessità di un coinvolgimento diretto di tutti i docenti della classe, ma in parte potrebbe modificare la soluzione strutturale che propone.
Se si vuole puntare l’attenzione sull’inclusione come problema complessivo e non di un solo gruppo di alunni, come credo sia opportuno oggi, sarebbe necessario che la proposta indicasse nella finalizzazione espressamente gli studenti con BES e non solo gli studenti con disabilità.

L’INCLUSIONE NON E’ PIU’ UNA QUESTIONE CHE RIGUARDA SOLO GLI STUDENTI CON DISABILITA’

Perché è necessario superare l’inclusione come un problema esclusivo degli studenti con disabilità?
Le perplessità sulle modalità con cui si attua l’inclusione oggi, che sono presenti sia tra i docenti sia tra le famiglie non solo degli studenti in difficoltà in particolare quelli con DSA, ma anche dei “cosiddetti normali” come direbbe qualcuno, nasce a mio avviso proprio dalle dimensioni del fenomeno dell’inclusione che sono cambiate rispetto a 46 anni fa quando furono abolite le classi differenziali.
Dopo una fase iniziale di coinvolgimento di tutti i docenti, si è sempre più diffusa la convinzione che l’inclusione degli studenti con disabilità passasse attraverso l’intervento dell’insegnante di sostegno, da qui l’affermarsi dell’abitudine a delegare loro lo sviluppo del curricolo di questi studenti e da qui la richiesta di ore e ore di sostegno al di là dell’effettiva gravità della disabilità e la successiva contrattazione tra i docenti della classe per contendersi la presenza in aula del docente di sostegno nelle proprie ore di lezione.
Le difficoltà di una effettiva inclusione nascevano da questo rapporto disfunzionale tra ruolo del docente di sostegno e ruolo del docente curricolare, come i promotori della proposta giustamente rilevano.
Se l’inclusione riguardasse però solo gli studenti con disabilità la proposta di rimescolare le carte tra posti di sostegno e posti comuni e individuare un’unica figura con entrambe le competenze sarebbe sufficiente a superare il problema, ma con l’introduzione della normativa sui BES l’inclusione, come si è detto, si è allargata ad una platea di studenti più ampia con bisogni speciali diversi senza che per loro sia prevista la presenza dedicata e in copresenza di un docente di sostegno.

Questo ha spiazzato molti docenti perché la gestione di questo nuovo gruppo di alunni della classe non poteva essere delegata come si era finito di fare per gli studenti con disabilità.
Il problema dell’inclusione oggi, a mio parere, va oltre il rapporto tra docente di sostegno e docente curricolare, almeno per gli studenti non con gravi disabilità che richiedono una copresenza del docente di sostegno per la gran parte delle ore.
Per questo motivo per perseguire una reale inclusione si pone la necessità di una modalità diversa di gestire la complessità dei bisogni formativi della classe nel suo insieme perché l’inclusione degli studenti con disabilità non gravi, che rappresentano la maggioranza, è diventato solo parte di un problema più ampio e articolato.

Le associazioni e le famiglie degli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento da sempre incalzano i docenti curricolari perché tali studenti non siano affiancati da un docente di sostegno, anche se è comunque un docente del consiglio di classe a tutti gli effetti, che non è previsto per loro neppure dalla normativa perché il disturbo non rientra nelle tipologie dalla Legge 104, rifiutando una medicalizzazione di tale disturbo e pretendendo che sia il docente curricolare stesso ad utilizzare le misure compensative e dispensative nell’ambito del repertorio di metodi e tecniche che ormai dovrebbero utilizzare tutti i docenti per una gestione efficace della molteplicità degli stili di apprendimento degli studenti in una classe.
Insomma l‘inclusione viene vissuta dalle famiglie sempre più come un compito del consiglio di classe e viceversa dai docenti come un compito complesso per il numero di studenti coinvolti e troppo oneroso per la pressione a cui sono sottoposti dalle famiglie e a cui non si sentono adeguatamente preparati .

IL DOCENTE INCLUSIVO SU POSTO COMUNE

Se il problema è quello di fare in modo che i docenti su posti comuni abbiano tutti competenze per una didattica e una relazione educativa inclusiva con anche delle competenze più specialistiche non solo per gli studenti con disabilità, ma per tutti gli studenti con BES e in particolare con DSA, basterebbe curvare la formazione iniziale e in servizio esplicitamente su tali tematiche ed è quanto prevede l’art. 3 della proposta di legge “ Il percorso universitario di formazione iniziale e di abilitazione all’insegnamento dei docenti di posto comune delle scuole di ogni ordine e grado comprende la formazione volta a sviluppare e accertare, nei docenti abilitati, le competenze culturali, pedagogiche, psicopedagogiche, didattiche e metodologiche, necessarie a promuovere l’inclusione scolastica ed in particolare l’inclusione degli alunni con disabilità.”

E’ vero che leggendo il testo dell’articolo si può intuire che tale preparazione possa servire per affrontare la situazione di tutti gli studenti, ma per la particolarità del nuovo contesto in cui si attua l’inclusione disegnato dalla normativa sugli studenti con BES a cui accennavo, andrebbe precisato a chiare lettere nella proposta di formazione che le competenze metodologiche da acquisire dovrebbero essere anche finalizzate alla gestione unitaria della molteplicità dei bisogni educativi speciali presenti in un gruppo classe e degli stili di apprendimento individuali di tutti gli studenti.

Si tratta a mio avviso di una ulteriore specifica competenza che va oltre la specializzazione del docente di sostegno orientata ad un intervento in genere individuale in compresenza.
Il nodo critico dell’inclusione in questo scenario è proprio la competenza a gestire nell’attività didattica in modo unitario e olistico la complessità dei bisogni degli studenti con BES.
Non è raro nella scuola sentire docenti che si lamentano di avere una classe non tanto con uno, due studenti con disabilità, ma “in aggiunta” , fanno presente “disperati”, di avere 8 studenti con DSA, 5 stranieri, 3 con situazioni familiari particolari e via discorrendo.

E’ da qui che nasce il desiderio di avere classi con solo “cosiddetti normali” !
La questione dell’inclusione come ho cercato di tratteggiare ha assunto ora la dimensione di un problema di gestione della classe in presenza di una molteplicità di nuovi bisogni speciali che sono come per gli studenti con disabilità tutelati formalmente e giuridicamente da una serie di adempimenti che la normativa richiede al consiglio di classe e al singolo docente.
Con la proposta di legge così modificata, la figura professionale del docente inclusivo durante le ore curricolari si arricchirebbe effettivamente delle competenze necessarie a gestire l’inclusione scolastica per tutti gli studenti con BES e quindi anche per gli studenti con disabilità in presenza e soprattutto in assenza del collega di sostegno .

IL DOCENTE INCLUSIVO SU POSTO DI SOSTEGNO

La situazione, a mio avviso, presenta invece delle criticità quando vediamo il docente inclusivo sul posto di sostegno per svolgere di fatto la funzione dell’ insegnante specialista “per le attività di sostegno didattico” richieste dalla progettazione in compresenza con il docente inclusivo curricolare per le ore previste in base alla gravità e alla tipologia della disabilità .
In altre parole farebbe ciò che oggi fa il docente di sostegno,. E’ vero che sarebbe anche abilitato nella disciplina curricolare , ma anche il docente di sostegno oggi è comunque un docente disciplinare abilitato o meno.
Premesso che il monte ore complessivo di sostegno di una scuola è determinato in base ai casi presenti e che in base alla proposta di legge andrebbe distribuito in quota parte a ciascuno dei docenti inclusivi, ne consegue che nell’attuale ordinamento si porrebbero diversi problemi nell’organizzare l’ orario di lavoro di ciascun docente e di conseguenza ciò limiterebbe quella flessibilità nell’assegnazione delle ore ai singoli studenti in base alle effettive necessità di ciascuno di loro e in base alla progettazione che è l’aspetto più qualificante dell’utilizzo di tali ore perché non siano solo di assistenza o di “sollievo” per i docenti curricolari.

Un altro problema di non poco conto è legato a come ripartire la cattedra di un docenti con 8 o 6 classi su entrambi i posti . Escludendo tali docenti da questa possibilità di accedere alla cattedra inclusiva si riprodurrebbe una diversità tra i docenti questa volta sulla base del numero di classi, soprattutto nella secondaria di secondo grado dove ad avere più classi sono proprio i docenti delle materie di indirizzo.
Organizzare poi un orario settimanale di un docente in cui si incrocino ore curricolari di cattedra e ore di sostegno è molto complesso e il ricorso ad algoritmi di alcune piattaforme in commercio non è certo garanzia per un utilizzo individualizzato di tali ore sugli studenti con disabilità che ne hanno diritto in base alla Legge 104 ( l’IA potrà forse aiutaci?).
Un altro problema sarebbero le supplenze temporanee dei docenti inclusivi nella fase di transizione.

Già oggi vi sono numerosi casi in cui un docente con uno spezzone curricolare ha un completamento nel sostegno con non pochi problemi di “incastri” di orario e anche sul piano logistico ad esempio se su più plessi o ordini di scuola.
A questo punto sorge la domanda se effettivamente abbia una reale utilità assegnare al docente inclusivo ore sul posto di sostegno e non puntare invece solo ad arricchire la formazione del docente curricolare attribuendogli il ruolo di docente “inclusivo” .mantenendo comunque la separazione nell’assegnazione dei posti con il vantaggio comunque che un docente potrebbe passare da una tipologia all’altra dando la propria disponibilità nell’ambito delle scelte progettuali della stessa scuola o del consiglio di classe in relazione alle problematiche specifiche..

I COORDINAMENTI

La proposta di un COORDINAMENTO PEDAGOGICO DI ISTITUTO mi trova non solo d’accordo, ma entusiasta essendo stato uno degli organismi centrali nell’organigramma della sperimentazione a cui ho lavorato e un cavallo di battaglia nel proporre l’esperienza alle altre scuole.
Se, come mi sembra di aver compreso, dovrebbe essere un organismo che non si occupa esclusivamente di inclusione, in altre parole non sostituisce il GLI, ma “ persegue il raggiungimento degli obiettivi del piano dell’offerta formativa e sostiene la qualità dell’insegnamento” con una visione di insieme attraverso le “ supervisioni” e il “ supporto formativo” , lo trovo assolutamente necessario e può essere uno strumento molto potente di rilancio dell’autonomia scolastica se ha una funzione s di sintesi..
Naturalmente per questo motivo il suo funzionamento, anche se non finalizzato all’inclusione, avrà una significativa ricaduta su di essa e non solo per gli studenti con disabilità, ma anche per gli i studenti con BES e in generale per tutti gli alunni.
Per questo motivo trovo pertinente il suo inserimento nella proposta di legge anche se si occupa di inclusione.

Sarebbe però il caso di chiarire meglio nel testo della proposta questa funzione non settoriale per evitare fraintendimenti visto che si individua nell’articolo successivo un organismo di coordinamento territoriale espressamente dedicato all’inclusione. .
Un Coordinamento didattico, diventa all’interno delle scuole una risorsa strutturale che potrebbe diventare il motore di quell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo (art.6) che dovrebbe fare del PTOF non un semplice menù di attività come di fatto il più delle volte è finito per diventare nonostante la buona volontà dei docenti., ma una vera e propria ipotesi didattico-pedagogica-organizzativa elaborata professionalmente dai docenti con la collaborazione delle altre componenti scolastiche per raggiungere i traguardi previsti a livello nazionale tenendo conto dei bisogni speciali o no degli studenti nello specifico contesto territoriale.
Un organismo che potrebbe lavorare in tandem con chi si occupa dell’autovalutazione di istituto e la rendicontazione sociale per lo stretto legame dell’azione di coordinamento con i processi di miglioramento.
Per la verità vi sono diversi istituti che hanno nell’ambito dell’autonomia organizzativa introdotto organismi simili, ma il passo avanti sarebbe avere un organismo di sistema normato per legge in tutti gli istituti con delle figure anch’esse di sistema e soprattutto, questo è l’aspetto qualificante e determinante per fare la differenza, con un distacco “dall’insegnamento per metà orario del servizio prestato” o comunque per un monte ore che possa permettere di poter effettivamente essere una risorsa per i consigli di classe alle prese con le problematiche legate all’applicazione del PTOF nel proprio contesto operativo.
Per quanto riguarda la composizione mi domando perché non possa essere questa una delle collocazioni dei “docenti esperti” dando ad essi un ruolo di sistema che attualmente la normativa non assegna loro contribuendo a fare in modo che queste novità introdotte per i più svariati motivi convergano finalmente in un’ottica organizzativa invece di essere scollegati gli uni dagli altri.

In un tale organismo, che dovrebbe essere il cuore dell’azione formativa, dovrebbe essere presente sicuramente la figura del dirigente scolastico proprio in virtù del suo ruolo di garante dell’unitarietà dell’azione formativa e forse un ispettore (anche se su più scuole) con quel profilo di consulente così come delineato dal recente decreto n. 41/2022 che ne potrebbe fare una risorsa del sistema delle autonomie e non solo un funzionario dell’apparato ministeriale.
Per quanto riguarda invece la gestione solo degli aspetti più specifici dell’inclusione ritengo che sia utile il mantenimento del GLI come organismo a questo deputato con i compiti attualmente assegnati di cui la proposta non parla..

Mi trova concorde poi la proposta di un “COORDINAMENTO TERRITORIALE PER L’INCLUSIONE (CPTI)” per come è stato concepito con l’obiettivo di semplificare sul territorio la gestione degli interventi specifici sull’inclusione ed evitare l’attuale frammentazione..
Frazionare gli organismi e i compiti sul territorio mi sembra che non favorisca la sinergia tra le varie istanze.




Spunti di riflessione per una educazione buona

di Raimondo Giunta

disegno di Matilde Gallo, anni 10

  1. La scuola è un luogo strano dove chi sa, fa le domande a chi non sa. Non sarebbe meglio il contrario? L’alunno pone le domande e l’insegnante cerca di rispondere. Sarebbe la scuola ideale: alunni che hanno desiderio di apprendere e di capire e docenti che sanno e vogliono ascoltare.
    Ogni lezione dovrebbe essere una risposta ad una domanda (Dewey).
  2. “Il professore insegna a tutti la stessa cosa; il maestro annuncia a ciascuno una verità particolare”(B. Rey): l’insegnamento ex-cathedra conosce l’argomento e spesso misconosce la persona che ascolta e che è tenuta ad ascoltare. Senza conversazione, senza il faccia a faccia, la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure e degli obblighi professionali. L’alunno deve sentire la prossimità umana, la passione, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento. Una scuola a misura di ciascuno non è possibile, ma nobilita tutto l’impegno per farne un dovere professionale.
  3. Una scuola non è un’azienda: bisogna smetterla di farne un metro di paragone, di assumerne cultura e valori e di farla finita con l’accanimento docimologico e metodologico che ne è derivato.
    Gli alunni non si possono programmare come la produzione dei pezzi di ricambio.  Per accendere il desiderio di apprendere bisogna recuperare la dimensione esistenziale del crescere nel sapere: “Fatti non foste per viver come bruti/ma per seguir vertute e canoscenza”(Dante).
    Bisogna fare rientrare la didattica in una condivisibile filosofia dell’educazione, se si vuole dare un senso e un orientamento alla nostra presenza accanto ai giovani.
  4. I giovani con la loro “estraneità” ai codici e alle tradizioni del sistema scuola ci sfidano e ci impegnano a trovare le ragioni dell’esistenza e delle finalità del sistema di istruzione e formazione; ci interpellano con i loro problemi, con la loro inquietudine, con la loro avversione, con la loro opacità. Pongono problemi di senso, di motivazione, di prospettiva: troppo grandi e spesso inafferrabili per la scuola e gli insegnanti, se vengono lasciati soli o peggio ancora se sono fatti oggetto di campagne mediatiche di denigrazione.
  5. La motivazione ad apprendere è diventato un problema di prima grandezza nella nostra società. Per dargli una soluzione bisognerebbe che nella società si aprisse una lotta aperta e vigorosa contro la svalorizzazione del sapere, contro gli scandali permanenti degli incompetenti al potere, contro le pratiche diffuse e offensive di nepotismo e di clientelismo nelle assunzioni, contro gli arricchimenti facili e cospicui derivanti da ogni tipo di illegalità, contro il ciarpame di un edonismo volgare promosso dai media ai danni della serietà, dell’impegno e dello spirito di sacrificio.
  6. Nel problema della motivazione ci sono anche aspetti didattici e pedagogici. Credo che la soluzione consista nel dare “senso” ai saperi e nel dare spazio al protagonismo dei giovani nei processi di apprendimento. Bisogna passare da una pedagogia della sottomissione e dell’obbedienza, ad una pedagogia della libertà, dell’autonomia intellettuale; da una pedagogia della risposta ad una pedagogia della domanda. “La classe dovrebbe essere il luogo dove la verità della parola non è relativa allo status di chi la pronuncia”(B. Rey).
  7. L’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’uomo (Kant) e proprio per questo diventa un diritto inalienabile; ma è anche un elemento fondamentale per la costruzione della democrazia. (Dewey)

 




Ma di quali valori parla la Sottosegretaria ? La virtù greca era anche pederastia e la democrazia escludeva schiavi, donne e non solo

di Mario Maviglia

Alcuni soggetti, pubblici e privati, hanno la grande capacità di rendere “straordinario” o “epocale” ciò che è assolutamente ordinario. È quanto fa fin troppo spesso la stampa quando qualifica come “storico” un evento sportivo di un certo rilievo, o come quando il Governo (di qualsiasi colore) enfatizza in modo “enfatico” l’approvazione della legge di stabilità che è un atto ordinario del Parlamento.

 

Questa volta il merito va alla Sottosegretaria del Ministero del Merito, Paola Frassinetti, che, nel commentare la scelta del greco antico come seconda prova scritta per gli studenti del liceo classico per i prossimi esami di Stato, si è profusa in una dichiarazione dall’ampio respiro storico, sociale e retorico, anche se la scelta (non il “sorteggio”, sig.ra Sottosegretaria) della seconda materia d’esame dovrebbe essere considerato un atto di ordinaria amministrazione per il MIM.
Ma la Sottosegretaria in questa scelta ha voluto vederci “non solo [confermata] l’importanza duratura dello studio del greco antico, ma [anche] la sua rilevanza ancora del tutto attuale nell’offerta educativa della nostra Scuola.” Questa premessa offre alla Nostra il la per esibirsi in una passionale e magniloquente dichiarazione sul valore dello studio del greco antico e più in generale sulla sua “grande e multiforme eredità letteraria”.

Infatti, secondo la Sottosegretaria, lo studio di questa materia consente agli studenti non solo di acquisire “competenze linguistiche ed analitiche avanzate”, ma anche “una comprensione profonda dei valori fondamentali della civiltà europea”.
Che lo studio di questa lingua favorisca lo sviluppo di “competenze linguistiche e analitiche avanzate” è fuor di dubbio, tanto quanto studiare il latino, l’ebraico o l’arabo o il swahili o qualsiasi altra lingua, viva o morta che sia. Ma a pensarci bene anche lo studio della programmazione informatica richiede competenze linguistiche ed analitiche avanzate, tant’è che si parla di linguaggio di programmazione e se non lo si comprende e non lo si padroneggia sarebbe impossibile utilizzare qualsiasi funzione del computer o del tablet (e io stesso non potrei scrivere questo intervento…).
E d’altro canto, se chiedete ad un direttore d’orchestra se la musica richiede competenze linguistiche ed analitiche avanzate cosa credete che vi risponderà? Dirà di sì, e ha ragione, perché ogni disciplina ha una sua particolare grammatica e sintassi, come il greco antico.

Quest’idea che il greco antico (e, per estensione, il liceo classico) sia naturaliter una disciplina formativa che aiuta a ragionare e a formare la mente trova le sue conseguenziali degenerazioni nella mente di molti editorialisti che considerano il liceo classico la vera scuola e tutte le altre mera espressione dell’annacquamento della cultura e al più strutture per formare la forza lavoro del Paese.

Si può essere d’accordo con la Sottosegretaria quando afferma che il greco antico contribuisce a comprendere in modo profondo i “valori fondamentali della civiltà europea”, però bisogna mettersi d’accordo su quali siano questi valori.
Se sono quelli veicolati dalle Leggi di Norimberga del 1935 in Germania o dalle Leggi razziali del 1938 in Italia, sappiamo dove hanno condotto questi due Paesi e l’Europa intera. Probabilmente la Sottosegretaria si riferisce a quei concetti “universali di virtù, di giustizia, di eroismo, di amore per la patria e di partecipazione attiva alla sua vita politica, dalla vocazione umana alla ricerca del senso della vita e del mondo, che devono continuare a plasmare la nostra contemporaneità”.
E su questo, ovviamente, non si può che essere d’accordo, con alcune puntualizzazioni storiche importanti.

Per quanto riguarda il concetto di “virtù” non va dimenticato che “Nell’antica Grecia era praticata la pederastia intesa come relazione sessuale di un adulto con un minore in età compresa tra i 12 ed i 18 anni, considerata lecita e riconosciuta come forma educativa all’interno di un’esperienza spirituale e pedagogica, attraverso la quale l’adulto trasmetteva le virtù del cittadino. I rapporti tra adulti e soggetti appena puberi costituivano una parte di esperienza di vita, regolata da una serie di regole che dettavano i tempi e modi di questi rapporti”.[1]

Per quanto concerne la partecipazione attiva alla vita politica, può essere utile riportare quanto dice lo storico Luciano Canfora[2]: “La democrazia nella Grecia antica, a giudicare dalle fonti di cui disponiamo, fu un fenomeno dai contorni non molto definiti e, inoltre, oggetto sin dal principio di contrastanti valutazioni e interpretazioni. Consistendo, in sostanza, nell’attribuzione, a una assemblea deliberante composta di «cittadini» di pieno diritto, del potere deliberativo, la democrazia fu, di necessità, nel mondo greco, nozione troppo generica per essere racchiusa in una rigorosa definizione.
Non è del tutto arbitrario, per es., il giudizio di un pensatore politico che esercitò molta influenza nel 4° sec. a.C., l’ateniese Isocrate, secondo cui sarebbe stata Sparta la «democrazia perfetta» (Areopagitico, 61): a Sparta sono cittadini pleno iure solo gli spartiati, e sono tutti «uguali» e tutti ugualmente partecipi dell’assemblea decisionale (apella), mentre tutti gli altri (perieci e iloti) sono considerati estranei alla comunità degli «uguali», non solo perché sottomessi con la forza, ma perché considerati appartenenti a un’altra «razza» rispetto alla «purezza» degli spartiati.”
Insomma, siamo di fronte a un’idea di democrazia che esclude gran parte dei cittadini dalla partecipazione alla vita politica, oltre che, ça va sans dire, le donne, gli schiavi, gli stranieri ecc.

Per quanto concerne infine “l’amore per la patria”, richiamato dalla Sottosegretaria, è difficile sottrarsi al pensiero delle centinaia di migliaia di soldati italiani che nella Seconda Guerra Mondiale il regime fascista ha mandato in giro per il mondo a farsi ammazzare per la Patria (ma la Russia, l’Albania, la Grecia, i Balcani ecc. facevano parte della Patria?).

Un umile consiglio vogliamo dare alla Sottosegretaria: la prossima volta, quando verrà scelta (scelta, non sorteggiata…) la seconda prova scritta dell’esame di Stato dia solo notizia della materia prescelta, senza inoltrarsi in considerazioni troppo complesse e che forse non sono alla sua portata. Si ispiri al detto latino: Sutor, ne ultra crepidam! (ops! non è greco antico…).

[1] M. Arrivas in https://www.bibliotechedap.it/rassegnapenitenziaria/cop/65999.pdf

[2] L. Canfora, La democrazia nella Grecia antica in https://www.treccani.it/enciclopedia/la-democrazia-nella-grecia-antica_(Dizionario-di-Storia)/




Correttezza, moderazione, ipocrisia? Giocare con un agente artificiale

di Marco Guastavigna

Il testo è potenzialmente problematico in quanto, pur senza contenere espressioni offensive o discriminanti, evoca un tema delicato come la Giornata della Memoria e una situazione di crisi internazionale. Questa combinazione potrebbe risvegliare sensibilità diverse e generare discussioni. Non si individuano espressioni che potrebbero essere censurate da filtri di moderazione o che possano essere considerate offensivamente divisive. Tuttavia, non possiamo escludere che qualcuno possa interpretare l’uso del termine ‘crisi internazionale’ come un riferimento indiretto a specifici eventi o contesti geopolitici, generando dibattito. L’autore del testo potrebbe essere percepito come troppo cauto o evasivo, risultando in una potenziale perdita di credibilità. Una possibile riformulazione inclusiva e neutra potrebbe essere: “In vista della Giornata della Memoria, si invita a mostrare rispetto e considerazione per garantire un ambiente tranquillo e sereno per tutti gli studenti“.

L’agente artificiale ‘autore’ di questo giudizio è PCorrector, che accetta soltanto 90 caratteri, per cui la frase valutata è solo una parte – “Nell’approssimarsi della Giornata della Memoria e alla luce degli scenari internazionali di crisi si raccomanda le SS. LL. di porre la massima attenzione per prevenire iniziative o comportamenti che possano turbare la serenità degli studenti” – della formulazione originale della circolare riservata dell’USR Lazio circolata in questi giorni.

Il chatbot è stato concepito dall’autore umano, Raffaele Alberto Ventura, affinché ricerchi potenziali rischi comunicativi delle frasi fornitegli dagli utenti e le riformuli in modo più prudente e “linguisticamente neutrali”, ovvero non divisive e non offensive. Lo spettro di valutazione va da “non problematico” ad “altamente problematico” e il dispositivo, inoltre, è addestrato a individuare contesti in cui la formulazione originale possa in qualche modo danneggiare la reputazione di chi l’ha composta, criterio fondamentale dell’intera architettura analitica, insieme alle possibili ambiguità e carenze nella comprensibilità.

Che cosa ne concludiamo? Assolutamente e volutamente nulla: tocca piuttosto a lettrici e lettori provare a utilizzare ripetutamente PCorrector e formarsi una propria opinione.

Post scriptum

Questa la valutazione di PCorrector della frase di chiusura:
Il testo è vago dal punto di vista dell’inclusività. Esso, infatti, si rivolge esclusivamente a lettrici e lettori, escludendo potenzialmente chi non si identifica in questi ruoli tradizionali. Anche se non presenta doppi sensi, espedienti retorici non segnalati o errori di scrittura suscettibili di creare conflitto, potrebbe essere interpretato in modi diversi. Per esempio, l’uso del termine “PCorrector” può essere interpretato come un riferimento a un software specifico di correzione del linguaggio, escludendo così chi non è familiarizzato con tale strumento. La reputazione dell’autore potrebbe essere percepita come esclusiva o elitaria da coloro che non rientrano nel target di riferimento o non sono a conoscenza del software. Tuttavia, non possiamo escludere che qualcuno possa contestare il testo per il suo presupposto che solo lettrici e lettori siano in grado di formare un’opinione sul PCorrector. Una possibile riformulazione del testo potrebbe essere: “È utile che chiunque provi a usare ripetutamente un software di correzione del linguaggio per formarsi una propria opinione”.

 

 




Stare insieme. Difendiamo la scuola inclusiva

di Daniele Ferro

Ogni giorno, per mettersi tutte in fila e andare ai servizi, Shifa si avvicina al banco di Melissa, le porge la mano, e splendente di gioia in viso la sostiene fino alla porta del bagno.
Anche Melissa s’illumina di gioia. È ipovedente. Io le osservo, queste bambine di otto anni, ma a volte devo distogliere lo sguardo: non avrei parole per spiegare la commozione dinanzi a tale meraviglia.

«Maestro, posso sedermi vicino a Waqas per aiutarlo?».
«Alessio, non me lo devi chiedere…vai!».

I bambini stanno lavorando a gruppi, in un progetto di scrittura cooperativa. Siamo al terzo incontro. Mi chiedo se Azzedine – che tra le altre ha una grande difficoltà nel tollerare la frustrazione – oggi riuscirà a non abbandonare il suo gruppo, piangendo arrabbiato.
Seguo la discussione, mentre i bambini si confrontano per inventare una favola.
A un certo punto Azzedine esclama: «Io avevo un’altra idea, ma visto che voi siete d’accordo, accetto la vostra». Scatta l’applauso dei compagni.

I nomi dei bambini sono di fantasia. I fatti sono reali, avvenuti in anni e istituti diversi. Questa è la scuola italiana, piaccia o no, e la legge stabilisce che i bambini, di qualsiasi colore e capacità fisica o intellettuale siano, per crescere debbano stare insieme.
Le norme si possono criticare e ad essere si può anche disobbedire, se si è disposti a pagarne le conseguenze (come fece Alberto Manzi, che si rifiutò di vergare giudizi sui suoi allievi).
Tuttavia la criticaanche quando è discriminatoria, va basata sulla conoscenza. Sui fatti. Se ve ne sono.

La pedagogia è una scienza, ed Ernesto Galli della Loggia, con il suo articolo sul Corriere «La falsa inclusività della scuola», ha dimostrato ancora una volta – dopo l’ideona anni fa del ritorno alla predella – di non essere un pedagogista; di non conoscere – o di ignorare volutamente – gli insegnamenti che ci hanno trasmesso i più grandi scienziati della pedagogia, da Quintiliano a John Dewey a Mario Lodi.

CONTINUA A LEGGERE QUI




Il prompt prima del prompt

di Stefano Penge

In fondo “scrivere prompt” è solo una particolare forma di programmazione. Si dice ad un computer (no, ad un software, anzi all’interfaccia di un software) quello che si vuole che faccia.
Se questo sembra lontano dalla programmazione tradizionale forse è solo perché non la si conosce a fondo e si pensa invariabilmente a una serie di stupidi comandi dati ad uno stupido robot che li esegue. Si pensa che programmare significhi specificare esattamente il risultato e il modo di raggiungerlo passo passo (l’algoritmo).

Che i prompt possano usare parole italiane, anziché astrusi comandi in un simil-inglese separati da segni di interpunzione usati a casaccio, non è nemmeno tanto strano: la storia dei linguaggi di programmazione ha già visto tanti tentativi di staccarsi dalle lingue specialistiche per avvicinare alla programmazione anche le persone normali: è il caso del COBOL, inventato negli anni ‘60 per far programmare anche i contabili e non solo gli ingegneri. L’idea poi che i linguaggi di programmazione debbano per forza assomigliare all’inglese è falsa; ci sono linguaggi basati sull’arabo, sul cinese e persino sul latino [https://www.codeshow.it/Linguaggi/Linguaggi_nazionali].

VAI ALLA RUBRICA SULLA INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Ma nemmeno è detto che programmare sia per forza “dare ordini”. Ad esempio, nella programmazione detta “orientata agli oggetti” si definiscono le conoscenze e le abilità di un tipo di oggetti. Più oggetti insieme, collegati gerarchicamente oppure messi in relazione tramite la possibilità di scambiarsi informazioni, costituiscono un modello. Una volta costruito, il modello viene eseguito e se la vede da solo, senza interazioni con gli umani. E’ come scrivere il copione e poi mettere in scena una rappresentazione teatrale.

O ancora: nella programmazione logica non si impartiscono comandi ma si specificano tre cose: dei fatti, delle regole, un obiettivo (o meglio un teorema da dimostrare). Dati e regole costituiscono un modello. L’interprete cerca di dimostrare il teorema a partire dai fatti che gli sono noti usando le regole che ha appreso. Se ce la fa, si limita a dire “Vero”. Il terreno su cui si muove, le vie e gli incroci sono disegnati dal programmatore; ma la strada che segue non viene tracciata da nessuno.

In tutti questi casi, non vengono specificati tutti i passi da compiere nell’ordine in cui vanno compiuti, ma si fornisce una rappresentazione ad alto livello del sistema (nella programmazione ad oggetti) o degli obiettivi (nella programmazione logica). Resta il fatto che le regole secondo le quali il programma viene eseguito dal computer sono note ed eventualmente ricostruibili. Se proprio si vuole, a posteriori si può chiedere all’interprete Prolog di mostrare tutti i tentativi che ha fatto, quelli falliti e quelli che hanno avuto successo. Anche le regole “costruite” dal programma stesso durante la sua esecuzione – che è una delle caratteristiche che rende Prolog così flessibile e capace di risolvere problemi complessi – sono spiegabili  secondo la grammatica che gli è stata fornita.

Software che interagiscono con le persone in linguaggio naturale sono stati immaginati e realizzati dai programmatori già da molti decenni. A partire da Joseph Weizenbaum, che nel 1966 per dimostrare quanto le persone sono pronte ad attribuire coscienza a qualsiasi cosa, dalle nuvole ai calcolatori, scrive polemicamente  “Eliza”, un programma che simula una sessione con uno psicoterapeuta della scuola rogersiana. Eliza non capisce nulla, ma si limita a reagire a certe parole chiave con risposte preconfezionate. Anche così, c’è chi ci passa pomeriggi interi per provare a risolvere i propri problemi.

Poi si può ricordare Will Crowther,  un programmatore appassionato di speleologia e giocatore di Dungeons&Dragons che nel 1975 scrive “Colossal Cave Adventure”, il primo gioco testuale in cui il giocatore per esplorare  una caverna infinita deve rivolgersi al suo alter-ego virtuale e scrivere piccole frasi come “guarda in alto, vai a destra, prendi il  martello”. [https://www.codeshow.it/Codici/Colossal_Cave]

Lo stesso Prolog, il  linguaggio principe per la programmazione logica, era stato inventato da Alain Comerauer negli anni ‘70 all’università di Marsiglia per scrivere programmi che permettessero di parlare al computer in francese. [https://www.codeshow.it/Linguaggi/Prolog ]

Insomma la capacità di analizzare una richiesta scritta da una persona  e produrre una risposta comprensibile è una competenza sofisticata, ma non nuova. Come non è nuova la capacità di analizzare un testo per individuarne le parti e “marcarle” in base all’argomento. Lo fanno già tutti i software dei social network quando analizzano quello che scriviamo per costruire un profilo dei nostri interessi e delle nostre opinioni, facendo quella che si chiama “sentiment analysis” (in cui “sentiment” è quell’opinione di pancia, non razionalizzata, che ci rende insopportabile la Ferragni e ci rende simpatico Gigi Proietti).

Nel caso dei modelli GPT non si sta interagendo direttamente col modello linguistico (che è un oggetto enorme con miliardi di parametri), ma appunto con un software specializzato che è in grado di tradurre quello che scrive la persona in una serie di istruzioni che interrogano il modello. Questo software è abbastanza sofisticato da sapere dire “grazie, scusa, ho sbagliato” e individuare alcune parole importanti in un mucchio di altre.

Ma non è il solo. Lo fanno anche i “prompt” dei motori di ricerca da un bel po’ di tempo; si potrebbe scrivere:
“per favore, Google adorato, potresti dirmi se qualcuno da qualche parte ha scritto qualcosa sul terzo canto dell’inferno? Grazie”

ma in pratica è sufficiente scrivere:
“terzo canto inferno”
che sono le uniche parole importanti. Il risultato è lo stesso; se non ci credete, provate.

 

 

 

 

 

 

 

In realtà l’interfaccia del motore di ricerca utilizza tutte le parole per eliminare possibili ambiguità; ma è in grado di filtrare il rumore di fondo costituito da articoli, congiunzioni, verbi predicativi e parole troppo comuni per concentrarsi sulle altre.

La particolarità di questa maniera di programmare computer è che lo si fa senza specificare esattamente come. Non è necessario specificare quello che si vuole ottenere, se non in maniera piuttosto vaga; ci pensa il software a estrarre le informazioni rilevanti e tradurle (abbiamo detto che i computer lo sanno fare bene) in istruzioni eseguibili. D’altra parte il concetto di ricerca si è trasformato parecchio: se prima era  un bibliotecario a cui si forniscono le parole che devono comparire nell’oggetto cercato, oggi è un maggiordomo che propone soluzioni prima ancora che la domanda venga formulata e che il bisogno venga espresso. La trasparenza e l’anticipazione dei bisogni sono, a mio avviso, due degli obiettivi perseguiti con più costanza nel progresso dei servizi digitali. Non necessariamente a vantaggio nostro, come ho provato a raccontare qui [https://www.stefanopenge.it/wp/trasparenze/].

Quello che è davvero nuovo è la capacità di generare testi complessi sulla base di un modello anche stilistico oltre che di contenuto. Ed è abbastanza nuova la maniera in cui questa performance avviene: non applicando regole ad un insieme di dati, ma costruendo un enorme modello linguistico in cui le parole siano collegate ad altre parole sia per vicinanza che per area semantica. Questo super-modello permette di predire quale parola è più probabile che segua una serie di parole precedenti. Un po’ quello che fa il T-9 del nostro telefono, che ad ogni parola che scriviamo ci propone la parola successiva più probabile sulla base delle sequenze più frequenti, ma molto meglio.

Non c’è una vera comprensione del testo, se per comprensione intendiamo qualcosa di vicino a quello che noi immaginiamo di fare quando leggiamo un testo: una specie di ricerca delle parole nel  dizionario dei significati, seguita da una somma di tutti i significati trovati. Ma c’è chi dice che in fondo anche noi, quando ascoltiamo e parliamo, utilizziamo strategie  superficiali che hanno a che fare più con la  parentela tra le parole che con la proiezione sul piano lessicale e grammaticale dei significati di una serie di concetti. Per esempio, quando ascoltiamo qualcuno che parla una lingua nota ma non troppo tendiamo a cercare di cogliere frammenti e ricostruire il senso generale a partire da quelli e dalle intersezioni possibili tra i campi semantici relativi. Ad esempio, se intercettiamo “cane” e “grilletto” la conversazione potrebbe riguardare delle armi da fuoco; ma se insieme c’è “gatto” allora probabilmente si tratta di Pinocchio. Capito, o meglio deciso, questo contesto, tutte le altre parole verranno interpretate nella direzione selezionata. Il cane sarà Melampo, il legno quello del ciocco usato da Geppetto eccetera.
Forse addirittura i significati non sono niente altro che queste relazioni tra parole che rendono più probabili certe costellazioni di parole rispetto ad altre nelle conversazioni. Se fosse così, ChatGPT non farebbe niente di diverso da quello che facciamo noi perché è così che funziona il linguaggio in pratica.

Quindi: o noi non siamo più intelligenti dei grandi modelli linguistici, oppure questi modelli non sono affatto intelligenti.

Ma arriviamo all’uso didattico del prompt, che era l’obiettivo dichiarato di queste riflessioni.