PAROLE PER GIOCARE


Proponiamo ai nostri lettori uno straordinario documento di grande interesse storico.
Si tratta del n. 101-102 della Biblioteca di Lavoro di Mario Lodi del 1979.
Era stato realizzato con testi di Gianni Rodari e disegni di Frato (Francesco Tonucci)
L’interesse del documento risiede anche nella introduzione scritta da Tullio De Mauro.
[ringraziamo Massimo Bondioli che ha reperito il volumetto presso la Biblioteca Comunale di Piadena]

Per approfondire puoi guardare la registrazione del nostro webinar con Vanessa Roghi che parla proprio della Grammatica della fantasia di Gianni Rodari.




Scuola come istituzione, non come servizio sociale

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raimondo Giunta

La scuola non è solo un servizio sociale; la scuola è anche una istituzione. Come servizio la sua qualità si misura dalla soddisfazione degli utenti; come istituzione la qualità si misura dalla capacità di conservare e sviluppare i valori di una comunità; come servizio si regge sull’attenzione agli interessi individuali; come istituzione si regge sul principio del bene comune. Il bene comune della scuola è costituito dai saperi e dalle conoscenze che è tenuta a tramandare, alcuni dei quali sono fondamentali per la coesione della comunità: lingua, storia, cultura nazionale, valori costituzionali. Saperi necessari.
Saperi che appartengono a tutti e non a pochi privilegiati.

Per definizione.
Principio questo che non ha bisogno di dimostrazione, perché altrimenti non ci sarebbe motivo per finanziare la scuola con risorse dello Stato.

Come istituzione la scuola non può darsi nessuna regola d’esclusione, anche perché il suo costo sociale grava di più su chi meno ne trae beneficio. Ne verrebbe meno il valore; se ne macchierebbe la dignità. Nell’apertura della scuola a tutti sta scritto il meglio della nostra civiltà. Possono essere posti limiti al possesso di beni materiali, non al bisogno e al desiderio di conoscenza e al diritto di formazione. I meccanismi di esclusione a scuola fanno impropriamente del sapere una delle più offensive giustificazioni delle posizioni sociali privilegiate.

La scuola come istituzione non può essere diversa da regione a regione, dal centro alle periferie delle città, dalle grandi città ai piccoli comuni.  La scuola come istituzione dovrebbe lavorare per unire e per proporre una valida e riconosciuta gerarchia dei saperi e delle attività, in grado di contrastare la deriva relativistica degli interessi individuali e dei curricoli à la carte.  Purtroppo dura da troppo tempo la lotta per ridimensionare l’aspetto istituzionale della scuola, con la complicità forse inconsapevole di parte del personale scolastico, per ridurla alla pura logica del servizio a clienti.

Lo scopo, nemmeno sottinteso, è quello di degradare la funzione del sapere da bene pubblico a mero privato possesso strumentale.

 




Temi in classe

di Stefano Penge

Ma allora cosa si può fare con questa benedetta intelligenza artificiale generativa nell’educazione? Va scansata, ignorata altezzosamente?

Certo che no. Perché al di là della sua forma attuale (il prompt appunto) si tratta di un passaggio importante non solo tecnico, ma culturale e sociale. La frenesia con cui persone che hanno ignorato fino a ieri l’esistenza stessa di software “intelligenti” si sono buttate a creare testi e immagini sulla base di ricette ha una radice che merita di essere studiata e capita.

 

Si potrebbero “importare” alcuni dei temi toccati fin qui all’interno delle materie e delle lezioni tradizionali. Le storie (della filosofia, della letteratura, dell’arte ) sono discipline in cui è facile trovar loro posto.

Per esempio:

  • i prodotti dell’IA generativa sono analitici o sintetici? A priori o a posteriori?
  • il symbolum niceno-costantinopolitano e la differenza tra generazione e creazione;
  • copiare è bello: novità e tradizione tra classicismo e romanticismo;
  • automi nella letteratura, da Esiodo a Čapek;
  • Narciso e l’amore per la propria immagine, da Caravaggio a Freud;

In sostanza si tratterebbe di ricondurre la novità nell’alveo della tradizione. Un procedimento tipico della scuola, che tranquillizza tutti, ma a mio avvisto rischia di non porta a grandi passi avanti.
Forse si può fare qualcosa di più.

Intanto la discussione che precede e segue l’uso del prompt può più essere utile e interessante. Probabilmente questa è la parte più importante di ogni utilizzo didattico di tecnologie non create esplicitamente per l’apprendimento, dai laboratori linguistici alle LIM: ricostruirne la genesi e gli obbiettivi, provare a capirne il funzionamento, valutarne il bilancio guadagni-concessioni.

Una questione centrale per la generazione dei testi è quella del feedback. Le tecnologie usano spesso il feedback, anzi si può dire che la cibernetica (la “nonna” dell’intelligenza artificiale) sia nata proprio da quest’idea di retroazione. Un esempio che conosciamo tutti: il riscaldamento gestito tramite un termostato. Anche i motori di ricerca usano i feedback degli utenti, ma in maniera  trasparente: se un utente clicca su uno dei risultati della lista, il motore suppone che quel risultato sia correlato altamente alla richiesta. Questo ne aumenta la probabilità di essere nuovamente presentato ai primi posti come risultato ad una ricerca uguale o simile. L’uso di un motore di ricerca modifica i risultati delle prossime ricerche, non solo di quell’utente ma di tutti. E’ un po’ come attivare il servizio che riceve di dati dai satelliti GPS e usarlo per le mappe di Google: non ci si limita a ricevere un servizio, ma si contribuisce a costruirne il valore [https://www.stefanopenge.it/wp/mappe-personali/ ].
Con il paradosso noto per cui se migliaia di automobilisti, per evitare un ingorgo sull’autostrada segnalato dal navigatore, prendono l’uscita prima dell’ingorgo, quell’uscita dopo pochi minuti si intasa peggio dell’autostrada stessa; quindi converrebbe non dar retta al navigatore e restare sull’autostrada, ma se nessuno gli dà retta l’ingorgo aumenta, eccetera eccetera.

Anche nel caso dei prompt si presenta una situazione simile. Il modello linguistico che permette di produrre  testi  è oggi addestrato sui testi scritti da umani, come Wikipedia. Ma è talmente facile produrre testi che presto le voci di Wikipedia (tra le altre cose) saranno realizzate tramite servizi di intelligenza generativa. A quel punto  i testi generati automaticamente diventeranno parte dei dati sui quali verranno costruiti i prossimi modelli linguistici. Siccome però la qualità e l’attendibilità attuale dei generatori di testi derivano da quelle della base di dati usata per l’addestramento (cioè dal meccanismo di controllo incrociato degli utenti di Wikipedia), si rischierà un circolo vizioso per cui il servizio di intelligenza generativa impara dai propri errori (nel senso deleterio dell’espressione: gli errori potranno aumentare, invece di diminuire, con l’uso).

State pensando che queste discussioni però  non si fanno sulle altre tecnologie usate a scuola (il mappamondo, il vocabolario, il libro)? Vero, ma si potrebbero fare. Nessuna di queste tecnologie è neutra; ognuna offre vantaggi in termini di velocità, chiarezza e condivisibilità; ognuna nasconde delle impostazioni di default che producono dei bias invisibili, di cui non ci si rende conto (come la proiezione di Mercatore per le mappe).

Ma così si perde tempo e non si finisce il programma? Sicuro. Qui entriamo nel labirinto della libertà di insegnamento e della concezione di ogni docente del significato del termine “educazione”.
Le riflessioni comuni non devono però limitarsi all’oggetto tecnologico in sé. In precedenza abbiamo indicato cinque temi, che certo non nascono con i prompt ma che andrebbero rilette nella luce che i servizi di intelligenza generativa gettano sopra ognuna di essi. Si tratta di temi che vanno oltre le questioni tecniche o didattiche e hanno a che fare con il modello di società che si sta costruendo, più o meno consapevolmente, e in particolare il concetto di lavoro e quello di valore.

In sintesi estrema: la maniera particolare con la quale questi sistemi eseguono il compito per il quale sono stati progettati e realizzati cambia non solo il tempo medio necessario per la loro esecuzione – e quindi il valore di questo tempo – ma anche il valore del prodotto. Questo fenomeno lo abbiamo già visto quando si sono affermati i prodotti industriali al posto di quelli artigianali: di bassa qualità, standardizzati, ma molto più economici e rapidi da produrre. Con due differenze enormi. Nelle rivoluzioni industriali del passato i nuovi prodotti erano oggetti materiali replicati a partire da uno “stampo”, cioè uno schema, un progetto, un modello che veniva seguito esattamente. Lo stampo veniva riempito con materie prime, o magari lavorate, ma comunque fisiche, quindi disponibili in quantità limitata e ad un certo costo.

La rivoluzione informatica è figlia di quella ottocentesca, ma fa a meno della materia fisica (la sostituisce, potremmo dire metaforicamente, con i bit); non fa però a meno dello stampo, che è il programma. Anzi, generalizzando, potremmo dire che anche lo schema di una penna Bic è un programma che viene eseguito ogni volta che viene prodotta una delle penne, esattamente come una newsletter inviata a milioni di destinatari è frutto dell’applicazione di uno schema. Entrambi gli schemi sono deterministici, nel senso che hanno come fine quello di ottenere copie indistinguibili del prodotto; nel secondo caso però queste copie non sono oggetti materiali ma artefatti simbolici.

Neanche i prodotti dei servizi di intelligenza generativa sono oggetti materiali; solo che per questi non è disponibile uno stampo. Non sono riproduzioni; sono produzioni, ogni volta differenti. Il risparmio qui non è calcolabile in termini di forza necessaria, ma di competenza cristallizzata.  E’ come se avessimo riprodotto milioni di artigiani, tutti diversi, tutti capaci di generare prodotti personalizzati a partire da una materia virtuale che è un sistema simbolico (verbale o visivo o sonoro).

Questa differenza non è casuale o secondaria, ma è proprio il fine della “terza” rivoluzione industriale, come viene chiamata quella delle intelligenze artificiali.

Dunque in un contesto educativo (che sia scuola, università, formazione professionale e non formale) si può cercare di guardare un po’ avanti e immaginare cosa potrebbe succedere nei campi del lavoro, della formazione, della produzione.

  1. Che succede al lavoro e ai lavori, in particolare quelli legati alla trasformazione della conoscenza? Questi strumenti si possono ancora usare come un supporto alle persone o sono stati progettati apposta per sostituirle?
  2. Cosa succede alla formazione? Verrà divisa in formazione “alta”, personalizzata, affidata ancora docenti umani e formazione “democratica”, standard, gestita solo tramite tutor artificiali basati su grandi modelli linguistici?
  3. Il costo energetico per la creazione e gestione dei servizi di generazione di opere sarà il limite che ne consentirà l’uso solo nei Paesi ricchi? Sarà riservato alla parte ricca o potente di queste società?
  4. La virtualizzazione delle macchine sarà sempre più diffusa e avrà degli effetti duraturi, ad esempio sulla piccola industria? O addirittura sulla costruzione dell’esperienza nei bambini?
  5. La facilità di generazione automatica di opere a partire da prompt modificherà la maniera di valutarle in generale? Che valore (anche economico) hanno un testo o un’immagine diversi da tutti gli altri ma producibili all’infinito?

La maniera concreta di fare questo esercizio può essere differente in base al contesto (l’età, il tempo a disposizione, la capacità di interagire e far interagire).

Una lezione frontale ricca di riferimenti ed esempi?
Molte diverse ricerche che si traducono in una condivisione dei risultati?
Una discussione orale che mette in gioco i sentimenti e le opinioni?
Una scrittura personale di testi secondo modelli diversi (non necessariamente saggistici: il racconto di fantascienza si presta bene a questo tipo di esercizio)?
Una messa in scena collettiva di questi testi (a teatro, in un video, in un’animazione)?
Alcune di queste attività o tutte insieme?

Probabilmente l’idea stessa di trattare questi argomenti nel chiuso di una classe è sbagliata. Il punto di vista (l’età, la classe sociale, la lingua, la posizione geografica) sono importanti sia come punti di partenza che come punti d’arrivo. Per chi è importante il destino della formazione o il costo energetico in termini di fonti non rinnovabili? Certo non per tutti allo stesso modo.
Allora, se possibile, riuscire a costruire un dialogo mettendo insieme persone che vivono in contesti diversi potrebbe essere l’unico modo per capire l’impatto della rivoluzione del prompt per tutti.




Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta? (a proposito dei dati Istat 2022/23)

di Raffaele Iosa

Come tradizione, a febbraio ISTAT pubblica il suo Rapporto annuale sull’inclusione scolastica degli alunni/studenti con disabilità.  Questo  dell’a.s. 2022/23 è da leggere con attenzione per i segnali di crisi registrati che, visti nell’arco  del primo quarto di questo secolo registrano  un declino (forse) irreversibile  dell’inclusione scolastica à l’italienne.
Un declino che pare interessare  pochi studiosi, visto che il rapporto ISTAT da anni non riesce a sollevare  un serio confronto sulla natura e le cause della crisi, tale da cambiare quasi del tutto l’ispirazione dell’inclusione nata negli anni 70 del secolo scorso. In 50 anni è cambiato quasi tutto, prevalentemente in peggio.
Queste mie note sono un allarme lanciato a tutto mondo della scuola, alla politica e alla società civile, perché ormai il declino non è più davanti a noi. E’ arrivato.

  1. L’esplosione della grande malattia

Partiamo in primis dagli alunni e studenti con disabilità presenti nell’anno scolastico 22/23.
Sono ben 338.000 dalla scuola dell’infanzia alle superiori. Ben il 7% in più in un anno scolastico. Per la prima volta nella storia dell’inclusione superiore al 4% della popolazione scolastica.

Questo aumento appare ancora più grave se si vede la progressione decennio per decennio da inizio secolo ad oggi. Vediamo gli anni “critici” e la loro progressione.
a.s. 2000/2001 alunni/studenti:  126.000 (1.3% della popolazione scolastica)
a.s. 2010/2011  alunni/studenti  208.520  (2.3% popolazione scolastica) + 165%  dei certificati
a.s. 2022/2023  alunni studenti   338.000   (4.1%  popolazione scolastica) + 300% dei certificati.
Dunque un primo dato clamoroso su cui riflettere: alunni e studenti con disabilità triplicati negli ultimi 20 anni. Un dato cui ho prestato attenzione da molto tempo e che ho chiamato in molti miei scritti “l’epoca della grande malattia”, cercando di comprendere le ragioni sociali, cliniche, antropologiche, di questa esplosione.  Un dato in continuo aumento per una perversa e poco studiata medicalizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza. Domina il mito dell’eziologia genetica e (come spesso capita se non si hanno prove certe) dell’epigenetica. Dunque una colpa chimica e biologica, che frammenta l’umano in sintomi circoscritti, perdendone l’unitarietà olistica.

Siamo però oggi ormai oltre.  La “medicalizzazione” si espande oltre la disabilità ex Legge 104/92. Infatti dal 2010 con una Legge iatrogena si introdusse la neo categoria medicale dei D.S.A.  (dislessia, disgrafia, ecc..).
L’intenzione era di “dare aiuto”  ai ragazzini dislessici, che io da buon figlio di Vigotsky mai avrei chiamato “disturbati” ma avrei parlato di “difetti”. Si inventò la categoria quasi metafisica dell’aiuto didattico dispensativo e compensativo con un’esplosione di conflittualità nuove tra scuola e famiglie su cosa volesse dire, con conflitti e cause in tribunale.

La Legge sui DSA voleva anche contenere l’uso della Legge 104 sulla disabilità spesso utilizzata per classificare questi soi disant “disturbi”. Terra terra voleva dire: ragazzini certificati con diagnosi clinica ma  “senza bisogno dell’insegnante di sostegno”. Oggi questi ragazzini DSA sono ormai superiori ai 320.000 certificati (a.s. 2021/22), il 5,4% degli studenti dalla 3.a primaria alle superiori. Ma non basta: per una scelta tutta ministeriale e non politica nel 2012 si inventò la categoria dei cd. BES, contenente studenti con  “disturbi” i più vari non catalogabili dalla clinica, ma a  cui concedere il dispensativo e compensativo. Su questa parte di neo-disturbati si diede alle scuole la possibilità di individuarli internamente.
E per tutti i BES si impose il  PDP, parodia del PEI.

L’ultimo utilizzo (quanto mai strano) della categoria BES  è avvenuto nel 2022, in risposta all’arrivo dei bambini e ragazzi ucraini profughi dalla guerra cui si concesse di fare scuola un po’ alla buona, dispensando e compensando, e dimenticandoci di collegarsi invece con la fortissima pratica della didattica online che la scuola ucraina offriva ogni giorno nonostante la guerra!

Tenendo conto che la categoria “Bes” non ha dati precisi raccolti, si può comunque sostenere che in Italia ci sono oggi circa 1.000.000 di bambini e ragazzi considerati “speciali” da coprire con una certificazione e una didattica “speciale” o forse meglio verrebbe da dire “non-normale”.

Perché questo è il dramma di questi numeri: un processo di separazione-isolazione dei giovani umani secondo categorie cliniche sempre più invadenti, centrate sul “sintomo”, con lo sviluppo di una neo-burocrazia pedagogica,  fatta di carte, riunioni, programmazioni separate. Una normativa barocca e ovviamente nuove cause giudiziarie su quanto dispensare e compensare.
Ha accompagnato  questa esplosione diagnostica, stravolgendo anche il sistema sanitario, una pesantissima normazione ministeriale delle regole amministrative e scolastiche, tra GLO militarizzati e la raccolta informatica di tutti i PEI visti come “moduli da compilare”, e all’ICF usato come “contatore para-clinico per le ore di sostegno/per caso h” piuttosto che nuovo strumento pedagogico interpretativo della persona in una più aperta dimensione bio-psico-sociale.
L’esplosione numerica della casistica clinica, para-clinica,  para-sociale dei nostri alunni/studenti  ha fatto esplodere una forte sofferenza e confusione nelle scuole e un aumento di conflittualità e incomprensioni con le famiglie e i servizi territoriali.

Ha accompagnato questa esplosione di confusione nelle scuole  un parallelo e abnorme sviluppo di strutture cliniche e paracliniche, enti e associazioni specialistiche con operatori  privati che offrono servizi “tecnici” con “esperti” di incerta validazione accademica.  A volte con l’apertura di nuove para-scuole speciali che giungono all’isolazione definitiva. Un sistema clinico  parallelo al pubblico servizio tradizionale  mai effettivamente regolato,  eppure molto assertivo.

Ma non basta. I nostri lettori più attenti rileveranno facilmente come negli stessi anni di questa esplosione di disabilità e di vari disturbi si è sviluppata una vasta letteratura sul “grande dolore” di essere piccoli e giovani, che ha avuto al tempo del COVID la sua apologia. Superfluo qui descrivere i numerosi casi di ricerche drammatizzanti, i fantasmi su nuove malattie della crescita, la predicazione di nuovi santoni in tanti  convegni dolenti. Insomma, si è diffuso negli adulti italiani un pessimismo fatale circa l’idea che essere piccoli e giovani oggi è  più di sempre nella storia  “una grande malattia”.
Può essere anche questo, tra le varie cause,  motivo del calo demografico? Avere un figlio appare sempre di più un rischio da evitare, piuttosto  che un sogno?

Con il nuovo Governo di destra la questione pare prendere una doppia piega. Una prima piega piagnona sui “disturbi esistenziali” (per es. l’educazione all’affettività con ore di lezione-predica), e una seconda piega, la  piega cattiva verso i ragazzi che disturbano,  o che menano, o che marinano la scuola: da qui  la terapia della minaccia (dal voto in condotta ai genitori in galera).
Insomma, pietismo e  castigo, abbandonando una visione olistica di ogni nostro singolo alunno/studente e una pratica attiva comunitaria e sociale dell’esperienza educativa. Ad ognuno la sua terapia. La scuola non come comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche. Mai un pensiero pedagogico  attivo e ottimistico  verso i nostri piccoli.

  1. Insegnare nell’isolazione

Naturalmente all’esplosione iatrogena si è accompagnata un’esplosione di posti di lavoro nell’area educativa, svolta con un apparato professionale e amministrativo confuso e arruffato,  con corsi di corsa (si scusi il bisticcio)  per dare a piene mani  migliaia di posti di sostegno. Ma il dramma vero e la nuova isolazione nella “copertura” del sostegno  è accaduta perchè oltre alla triplicazione dei posti di sostegno, nulla si è fatto per far crescere nell’intero sistema docente la consapevolezza comunitaria dell’inclusione.
Anzi, c’è di peggio: si è ormai consolidata l’idea che è l’insegnante di sostegno sia l’unica soluzione all’inclusione dei disabili, che tocca a lui/lei sapere e insieme saper fare,   accompagnati da circa 70.000 educatori (laureati triennali in pedagogia) dipendenti da cooperative sociali pagati ben sotto i 9 euro/ora. Insomma l’inclusione attuale ha un altro nome mitico e affannosamente richiesto dalle famiglie: la cosiddetta copertura. Se non c’è la copertura di tutte le ore di frequenza scolastica la scuola rischia il tribunale, e soprattutto: se non c’è la copertura come fa il docente disciplinare a insegnare?

Sta dilagando nelle nostre scuole un modello duale di scolarità: si entra tutti dallo stesso portone, ma dove e con chi si fa scuola dipende dai certificati  e dalle diagnosi,  dalle aule h, dalle teorie dei tanti “tecnici” con soluzioni spicce  se un bambino mena i compagni o si fa la cacca addosso.
Come non vedere in questo mito della copertura l’inizio di un nuovo modello di “scolarità speciale”?
Una regressione triste  dall’esperienza di inclusione così aperta e coraggiosa nata negli anni 70. D’altra parte se tutti i bambini e ragazzi sono ormai  un problema a sé, non è più comodo dividere gli insegnanti ancora di più per problema?
Infatti c’è di peggio. Anche nell’area della cd “dispersione”, nell’area dei cd NEET, nei diversi progetti del PNRR per migliorare la qualità degli esiti scolastici per tutti riducendo i fallimenti scolastici, emerge sempre di più un’idea separativa delle professioni: dai diversi tipi di tutor, ai progetti col volontariato sociale, ai santoni offerenti la ricetta salvifica.

  1. Cambiare rotta per un’inclusione comunitaria

Sta emergendo insomma sempre più un sistema educativo binario, composto da un sistema doppio di operatori educativi: quelli detti del “curricolare”  che si occupano dei normali, e quello degli “esperti coperti” che si occupano di sfigati, disabili, poveri, stranieri, e così via. Carriere separate e funzioni separate.
Dunque, è doveroso da parte di chi crede come me che la scuola è  inclusiva se tiene tutti insieme traendo da tutte le diversità un valore, spetta a noi “inclusivi integrali” ribellarci da questa deriva. L’art. 3 della Costituzione ci chiede di “rimuovere gli ostacoli” e l’accomodamento ragionevole dell’ONU ci chiede appunto la ragionevolezza del fare comunità. La deriva che sta prendendo la scuola è invece dolorosamente sempre più isolante, di anno.  E’ necessaria una svolta radicale.
Per questo motivo, assieme ad un gruppo di amici senza alcun potere politico né professionale, brava gente che si è occupata di inclusione dagli anni 70, ho partecipato con gioia alla costruzione di un progetto radicale di ricostruzione della professionalità docente inclusiva che ha come struttura fondante una semplice ed essenziale regola:  tutti gli insegnanti si occupano di tutti i loro alunni/studenti.

Perché la crisi dell’inclusione di cui qui scrivo  e la diffusa isolazione con le coperture  è conseguenza del totale abbandono dei docenti in genere alla formazione intensa e obbligatoria di una loro effettiva competenza inclusiva. Gran parte dei docenti italiani non ha alcuna competenza sostanziale sulle pratiche inclusive, sia che riguardino studenti con disabilità, sia tutte le altre categorie umane e sociali che rischiano la dispersione e l’abbandono.  L’abbiamo chiamata “cattedra inclusiva”, cioè capace di superare la dicotomia disciplinare versus sostegno, cioè una competenza strutturale necessaria per tutti e da diffondere oggi ben oltre la disabilità.

Ne è uscito perfino un disegno di legge. Sappiamo già che sarà  molto difficile. Ma vogliamo seminare un pensiero radicale nuovo, partendo da quegli insegnanti e scuole che non si sono arrese alla delega ai sostegni solitari e agli esperti vari. In fondo la questione non riguarda la qualità educativa per una parte debole, ma tocca tutti i nostri bambini e ragazzi. Insomma non lo facciamo per bontà,  ma per una questione di democrazia pedagogica reale. In una scuola in cui tutti siano utili agli altri. In cui crescendo insieme si diventa cittadini. Crescendo separati si diventa invece semplicemente e solo egoisti.  E’ dunque una questione pedagogica e insieme politica. Radicale, appunto, come fu negli anni 70 ai nostri giovanili inizi.




La cattedra inclusiva, una proposta impossibile? Le utopie servono per cambiare

di Antonio Giacobbi

 

Ho trovato molto interessante il documento, presentato nella forma di progetto di legge, che mira ad introdurre nelle scuole di ogni ordine e grado la “cattedra inclusiva” .

È firmato da esperti da sempre impegnati per l’inclusione degli alunni con disabilità, tra i quali Dario Ianes del Centro Erikson e Raffaele Iosa, già dirigente tecnico e componente il Comitato Tecnico Scientifico di Proteo Fare Sapere.
Di cosa si tratta?
Per dirla con Ianes da una intervista su Orizzonte Scuola: “Una scuola inclusiva, una scuola dove non ci sia più la separazione netta e perversa tra insegnanti curriculari normali, cosiddetti, insegnanti di sostegno dedicati a chi ha una specialità, una disabilità. Ecco, questa non è una scuola inclusiva” e ancora “Il curricolare fa il sostegno, il sostegno fa il curricolare, si è abilitato, per cui abbiamo questo intreccio di competenze per una scuola più inclusiva per tutti e per tutte.”
Detto così può sembrare complicato da un lato e riduttivo da un altro, e probabilmente produrre una prima reazione: “impossibile”. In realtà il testo articola tempi, procedure, formazione, finanziamenti.

Intanto ha sicuramente il merito di riaprire il dibattito sull’inclusione che sembrava chiuso dopo il D.Lgs 66 del 2017 emanato in applicazione della delega prevista dalla legge 107/2015. È vero che il testo della legge parlava (ancora!) di “docente di sostegno”, ma sarebbe stato possibile, pur confermando la figura, andare verso una scuola inclusiva in cui tutti i docenti fossero formati a lavorare con gli alunni disabili, mantenendo la specializzazione sul “sostegno” per una piccola quota di insegnanti, per disabilità particolarmente gravi e per coordinare e sostenere, con competenza, le attività di tutti i docenti dell’Istituto.
Non andò così, occasione sprecata. Negli anni sono poi cresciuti gli alunni certificati e i docenti per il sostegno. Sul punto rinvio alle considerazioni svolte da Raffaele Iosa (Iosa, la grande malattia). È possibile riprendere la discussione e formulare altre ipotesi? Sì, ci dice la proposta di legge, e indica una direzione.
La proposta sembra incontrare più di una difficoltà. Appare maggiormente praticabile nella scuola dell’infanzia e primaria. Le competenze che i docenti acquisiscono nei corsi di scienze della formazione primaria aprono a questa possibilità. Sarà necessario probabilmente rivedere il percorso di studi o aggiungere qualche esame. Sarebbe interessante sapere se in qualche scuola già si applica.
Nella scuola secondaria è oggettivamente più complicato soprattutto per via della formazione esclusivamente discliplinarista dei docenti. Il progetto di legge propone un percorso graduale. Si tratta infatti di assicurare sia la specializzazione sul sostegno sia l’abilitazione sulla disciplina, senza che si dia luogo né a minor competenza didattica nell’insegnamento della disciplina né ad una minor qualità dell’inclusione. Si può fare? Penso di sì. È necessario approfondire ma il testo mette già in campo proposte importanti a partire da un piano di formazione in servizio e di quella iniziale che dovrebbe assicurare che almeno un terzo dei CFU/CFA previsti dal DM 4 agosto 2023 siano dedicati ad aspetti metodologico-didattici per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità.
Da sottolineare la proposta del coordinamento pedagogico di istituto e territoriale che trovo necessari. In quello territoriale confluiscono centri già presenti con lo scopo, credo, di qualificare e semplificare gli interventi e le relazioni con i diversi attori coinvolti nell’inclusione. Il coordinamento interno all’istituto scolastico che “sostiene la qualità dell’insegnamento attraverso supervisioni, supporto formativo e attività inclusive” è formato da docenti formati che sono distaccati dall’insegnamento per metà dell’orario.
Perché no, visto il decremento della popolazione scolastica? Sulla proposta ho letto perplessità, chiusure (alcune inaccettabili: “io ho studiato per insegnare una disciplina, non per fare il sostegno”: ai docenti che lo pensano suggerisco, oggi che sono buono, di rileggere la Costituzione e Don Milani), interesse, qualche condivisione, ma anche notevoli aperture… Da parte mia ringrazio gli autori e penso che vale la pena di discuterne.




Valutazione nella primaria, si cambia: l’idea arriva dal salumiere di Salvini e dalla fiera della polenta taragna

di Mario Maviglia

Com’è noto la luce ha una velocità approssimativa di 299.792 chilometri al secondo. È un dato accettato dalla comunità scientifica, e deriva da una serie di dati, misurazioni, controlli condotti con una certa cura. Ma non è un dato immutatile. Nuovi dati, misurazioni e controlli potrebbero portare a stabilire un nuovo valore, accettato dalla comunità scientifica.

Questo ragionamento, in fondo banale, non ha molto senso se applicato alla politica scolastica. Con un emendamento presentato dal Governo alla Commissione Cultura e Istruzione del Senato del 7 febbraio u.s. (riguardante un DDL sul voto di condotta) si propone il ritorno ai giudizi sintetici, da ottimo a insufficiente nella valutazione degli apprendimenti nella scuola primaria. Spariranno quindi gli attuali livelli di avanzato, intermedio, base e in via di prima acquisizione, introdotti dal decreto-legge 8 aprile 2020, n. 22, convertito con modificazioni dalla legge 6 giugno 2020, n. 41, e regolamentati dall’OM 172 del 4 dicembre 2020. Neanche il tempo di abituarsi al nuovo sistema e si cambia nuovamente. Più veloce della luce! Appunto.

Naturalmente il tutto avverrà senza che vi sia alla base una qualche ricerca empirica che evidenzi i motivi a giustificazione di questa decisione; ma in fondo questa ossessione di falsificare le conoscenze esistenti attraverso un approccio scientifico è un retaggio ottocentesco, di stampo positivistico. Vecchiume.
Oggi appaiono molto più pregnanti le sensazioni spannometriche del Ministro dell’Istruzione e del Merito o i commenti raccolti dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti che, in effetti, ha sentito dal salumiere sotto casa che la figlia (insegnante) dello stesso salumiere trova complesso e defaticante il sistema di valutazione introdotto con l’OM 172/2020 e che insomma sarebbe ora di cambiare.
Sempre il Ministro delle Infrastrutture (ma il dato non è confermato), durante la sagra della polenta taragna, svoltasi in Val Brembana, avrebbe raccolto lo sfogo di alcune mamme che si lamentavano della difficoltà di capire la valutazione ottenuta dai loro figlioli con il sistema vigente.

Questi elementi appaiono più che sufficienti per mettere mano all’attuale sistema di valutazione, anche perché, sempre più spesso, la politica vuole essere vicina alle esigenze dei cittadini, assumendo decisioni “di pancia”, quelle più autentiche, genuine, senza la zavorra di studi, ricerche, approfondimenti che allontanano sine die la presa di decisioni e rendono la scuola ostaggio  dei tecnici, degli esperti, degli studiosi, e, cosa ancora più grave, la legano pericolosamente al buon senso.

Qualcuno ha fatto notare che dal 1977 ad oggi il sistema di valutazione scolastica è cambiato ben 10 volte in Italia[1], e questo dimostra il grande dinamismo dei nostri governanti su questo specifico aspetto. In effetti, ad ogni cambio di maggioranza o di Ministro scatta questa forma di compulsione che porta il responsabile politico a cambiare strada, anche senza una meta precisa, a cambiare a prescindere, si potrebbe dire. Ciò che conta è cambiare qualcosa, per soddisfare l’impulso irrefrenabile volto al cambiamento.
C’è una visione poetica prim’ancora che politica in tutto ciò, ed è plausibile che il Ministro si ispiri al poeta Antonio Machado in questa ricerca del movimento (del cambiamento): caminante, no hay camino, / se hace camino al andar. Quanta profondità in questo verso! Quanta profondità nella decisione del Ministro! Che sposa in pieno questo anelito al cambiamento per il cambiamento, del cammino per il cammino. “L’esperienza del cammino non come movimento progressivo verso una meta, né come relazione visibile della partenza con l’arrivo, e neppure come piacere per il tratto già compiuto e ansia per quel che resta da percorrere, ma soltanto come esperienza tutta interiore di una condizione, che è insieme uno stato di sospensione e di conoscenza, e dunque come figura dell’esistenza umana stessa.”[2]
Si rimane abbagliati dalla profondità del sentire poetico-politico che sta alla base di questo modo di operare, che supera le anguste categorie spazio-temporali e i meschini legami con la realtà empirica, la ricerca, la comparazione dei dati e dei risultati, per librarsi nell’infinita vaghezza del pensiero.

Per la verità c’è un aspetto che non convince in tutto questo: se l’anelito quasi futurista al cambiamento, al movimento, al cammino è così irrefrenabile, perché aspettare i cambi di maggioranza politica o di Ministro per agirlo? Perché non metterlo in pratica anche quando cambia qualche sottosegretario o direttore generale?
Ma addirittura, perché non anche quando cambia l’usciere di viale Trastevere 76/A? Sì, è vero, questa proposta è oltremodo democratica e potrebbe essere tacciata di demagogia perché l’usciere non ha le competenze tecniche per prendere decisioni in tema di valutazione. Quelle competenze così debordanti e diffuse nei piani alti del Palazzo dell’Istruzione da essere quasi impalpabili ed evanescenti.

[1] https://www.ilsole24ore.com/art/giudizi-sintetici-scuola-primaria-e-pagella-meta-anno-le-superiori-AFIbJkdC
[2] https://www.doppiozero.com/antonio-machado-viandante-non-ce-cammino

 




Quattro passi per una pedagogia dell’emancipazione

a cura di Giancarlo Cavinato

Il MCE propone 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione. Si tratta di organizzare un impianto sistemico costituito da moduli variamente componibili e adattabili alle esigenze dei singoli contesti. Sono proposte concrete, realizzabili in ogni scuola, in grado di attribuire valore aggiunto all’azione professionale e collegiale, e di rappresentare gli elementi da cui partire per realizzare percorsi di partecipazione e condivisione e dispositivi organizzativi in grado di qualificare i contesti e di aumentare i livelli formativi..
I 4 passi si propongono come ponti fra l’organizzazione e le relazioni e gli strumenti concettuali di ricerca. Ciascuno dei passi si realizza attraverso la  forza e le potenzialità delle esperienze che prevede: discutere e decidere insieme, appartenere a diversi gruppi nella propria e con altre classi con impegni e sviluppi diversi, fare ricerca, possibilità di maneggiare e consultare una pluralità di testi e di fonti, collegarsi con classi di altre parti del paese e del mondo e la sensazione di condividere speranze e obiettivi,  veder nascere e contribuire a un prodotto come il giornale il libro il video…

Primo passo: gli strumenti di democrazia.

In una delle invarianti pedagogiche Freinet[1] afferma che un regime scolastico autoritario non può formare cittadini democratici. «La democrazia é impegno partecipativo nella costruzione dei valori che regolano la convivenza umana. In tale impegno, l’educazione svolge il ruolo fondamentale dello sviluppo dell’intelligenza, della comprensione, dell’esperienza, dell’apprendimento, della collaborazione e della difesa dell’uguaglianza.»[2]
La democrazia si esercita mediante regole, procedure, strumenti e pratiche attraverso cui si costruiscono e si determinano scelte possibili e condivise. Le idee, le opinioni, i giudizi sulla realtà non sono preesistenti alla loro scoperta da parte dei soggetti, ma si formano attraverso una pratica e un’esperienza di relazionalità e socialità. L’istituzione ad hoc è l’assemblea di classe come iniziazione alla vita democratica, alla solidarietà. Un’assemblea con le sue routine e le sue suddivisioni di compiti. Chi presiede, chi verbalizza, chi dà i tempi degli interventi. Durante la settimana su cartelloni i bambini trascrivono le loro osservazioni, proposte, critiche, suggerimenti da analizzare nell’assemblea. Ogni aspetto della vita scolastica acquista così senso e giustificazione. La finalità gradualmente condivisa è l’uguaglianza di diritti e il successo formativo di tutti. Le forme di partecipazione risultano tanto più efficaci quanto più ai ragazzi viene data parola e possibilità di progettare estendendo il raggio della loro progettualità alla città attraverso l’organizzazione di consulte e consigli.[3]

Secondo passo: gli strumenti per la ricerca

Si tratta di garantire un accesso ai saperi, favorendo la costruzione del pensiero. Ma come reperire informazioni che non siano fornite già confezionate così che ci si formi su una sola versione e non sia prevista una costruzione personale della conoscenza? [4]

Viviamo in un mondo connesso globalmente alla rete, per cui il problema non è più l’acquisizione delle informazioni di base (reperibili attraverso un qualsiasi motore di ricerca), ma la loro messa in relazione, la selezione, l’organizzazione in un quadro composito, la comprensione profonda. Tutte operazioni per attivare le quali i libri di testo non sono di alcuna utilità, sostituendo il già predisposto all’attività dei soggetti, fornendo risposte e soluzioni che non vanno al di là della superficie. La scuola deve diventare il luogo della rielaborazione, del riordino, del confronto delle interpretazioni, delle ipotesi. Per questo il libro di testo è strumento obsoleto: i libri delle discipline propongono serie di informazioni schematiche e non verificabili, che si traducono in una visione tassonomica dei contenuti storici, geografici, scientifici; le antologie di lettura costituiscono raccolte di brani, estrapolati dal contesto letterario a cui appartengono, scelti dagli autori e dagli editori in base a criteri standard. Con gli stessi fondi a disposizione per i testi, ogni classe e, ancor più, ogni scuola può acquistare narrativa, libri di divulgazione, approfondimenti tematici, documentazioni, materiale multimediale, strumenti per la riproduzione e la stampa, disponendo così di una biblioteca ricca di una pluralità di fonti. Leggere versioni diverse di storie, descrizioni di eventi, cogliere punti di vista diversi, confrontare diverse interpretazioni, scoprire i nessi fra eventi sono tutte operazioni che le biblioteche di lavoro disponibili grazie all’adozione alternativa sono favorite.[5]

Terzo passo: lavoro a classi aperte

La proposta prevede un’articolazione degli spazi e dei tempi della scuola sul modello delle classi aperte. «Un fondamentale elemento qualificante del tempo pieno può essere considerato il superamento della struttura-classe e, di conseguenza, del lavoro strettamente individuale dell’insegnante.»[6]
Il che richiede l’organizzazione di spazi in cui trovare stimoli adeguati, agire, attribuire significati, progettare, coordinare le proprie azioni con quelle degli altri. Non si può realizzare tali percorsi all’interno di gruppi chiusi, sempre con gli stessi componenti, in cui si condividono sempre le stesse attività. Si tratta di mettere in atto procedure che consentano che una scuola, una classe, si organizzino attorno a temi comuni suddividendosi diversi aspetti. Quindi una scuola che non sia una sommatoria di classi non comunicanti.
L’organizzazione di gruppi mobili, eterogenei, con consegne di lavoro diversificate, può creare una dinamica, delle aspettative, la motivazione ad integrare le proprie ricerche con quelle di altri gruppi. La partecipazione a gruppi e classi di età diverse rende possibile agire sulla zona prossimale di sviluppo dei singoli attraverso la guida dell’adulto, la collaborazione tra pari, l’interazione sociale.[7]
Compete alla regia educativa degli insegnanti comporre le diverse realizzazioni dei gruppi, favorire le comunicazioni e gli scambi, proporre ulteriori sviluppi, conferire unitarietà alle attività. Il gruppo attraverso attività di laboratorio funziona da mente collettiva, conferendo significato alle singole parti, correlandole e collegandole. Le pratiche di ricerca che gli alunni affrontano costituiscono una parte dell’oggetto su cui operano, e ciò conferisce un valore relativo alle conoscenze che vengono acquisite, nella consapevolezza che esse saranno integrate dagli apporti di altri gruppi. La proposta prevede di individuare, alunni e insegnanti, delle unità tematiche trasversali che affrontino dal punto di vista di diversi approcci disciplinari aspetti della realtà su cui fare ricerca.
Non, quindi, un repertorio o un catalogo di obiettivi, ma una progettazione in itinere e a ritroso[8] fatta di esperienze basate su interessi e motivazioni e di possibili direzioni di sviluppo. Un tema, un aspetto della realtà, può essere affrontato secondo diverse angolature e con diversi materiali e strumenti a disposizione: leggendone gli aspetti letterari, artistici, musicali, matematici, scientifici, tecnologici, attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi, delle emozioni, del corpo, e conseguentemente produrre diversi tipi di elaborazione da comunicare ad altri: testi, copioni, filmati, e-book, scenari, canti, danze, esperimenti e strumenti per la rilevazione di dati, ….
La classe stessa è in primis un laboratorio; non scompare, ma dev’essere il punto di partenza e di arrivo, di sintesi della progettualità. Ciascun gruppo di classi coinvolte si proporrà di realizzare attività di interclasse e di laboratorio nell’arco di un periodo, procedendo poi a scambiare i gruppi fra di loro. Con attività espressivo-creative, manuali, corporee, scientifiche, storiche, interculturali.
Realizzare le attività per classi aperte presuppone la compresenza di più insegnanti. Che possono così lavorare con numeri ridotti di bambini. i bambini possono così fruire nel corso dell’anno di una varietà di attività e fare esperienze significative. I gruppi di ragazzi e i periodi di rotazione sono stabiliti per far sì che ciascun alunno fruisca di tutte le attività proposte.

Quarto passo: la valutazione formativa

«Ogni ragazzo è in gara con sé stesso per migliorarsi. Il merito non è di chi dà un maggiore rendimento, ma di chi riesce a superarsi e far progressi anche se il suo livello è inferiore a quello di altri.[…]Il fenomeno della selezione non potrà scomparire finché nella scuola non cambieranno certi atteggiamenti e non si capirà che il responsabile del mancato apprendimento, del disadattamento scolastico che porta alla ripetenza e poi all’abbandono, non è il soggetto in difficoltà e nemmeno l’ambiente di provenienza anche se è ‘svantaggiato’, ma è la scuola ad essere ‘disadattata’ in quanto induttrice di disadattamento.»[9]
La valutazione è uno degli aspetti del fare scuola che preoccupa maggiormente perché è lo spazio dove più si consolida la dialettica tra normalizzazione ed emancipazione dei soggetti. E’ un operazione complessa perché deve essere in grado di cogliere e interpretare una realtà in cui si mescolano molteplici aspetti che coinvolgono sia l’alunno che l’insegnante: conoscenze, abilità, motivazione, relazione, effetti alone, aspettative reciproche, ritmi e stili di apprendimento. Il passo sulla valutazione illumina e rinforza i precedenti passi in quanto una didattica trasmissiva non consente una valutazione autentica che richiede tempi lunghi e strumenti narrativi, descrittivi, interpretativi: lettere personalizzate, diari di bordo, monografie, studi di situazioni, aspetti che si adattano alle attività che si fondano su discussioni, partecipazione a progetti, laboratori, in cui accanto ai processi individuali rivestono pari importanza i processi di gruppo.
Mentre la didattica trasmissiva lavora su tempi brevi, risposte automatiche, abituando a un pensiero riflettente. Non richiede la messa alla prova attraverso particolari tecniche e il confronto interattivo, ma una comunicazione unidirezionale e la ripetizione. La grande assente è la relazione significativa che l’insegnante intrattiene attraverso il dialogo pedagogico. Maturana osserva che ogni insegnante che valuta la prestazione degli alunni sta valutando se stesso che valuta la prestazione. Con il suo giudizio non giudica lo studente, ma la relazione che lui intrattiene con lo studente.[10]
Ogni docente dovrebbe potere, alla luce della propria biografia professionale, riconoscere le proprie cornici culturali ed ermeneutiche che ne condizionano la pratica valutativa. Va sostenuta una valutazione intersoggettiva e collegiale come esercizio concreto di responsabilità, come funzione di autoregolazione dei percorsi e dei processi nella scuola dell’autonomia.
Sono necessarie pratiche di autoanalisi e autovalutazione degli alunni e di autointerrogazione degli insegnanti e la sperimentazione di strumenti di osservazione, ascolto dei soggetti, narrazione e problematizzazione. Come per ogni altro aspetto della vita della scuola, anche la valutazione può costituire oggetto di dibattito, esplicitazione dei propri riferimenti, presa di decisioni. Se questo aspetto non viene affrontato, rimane confinato nel potere discrezionale dei docenti e come tale inappellabile e indiscutibile. Il compito di una pedagogia del successo è esplorare con gli alunni le condizioni facilitanti e ostacolanti e i possibili miglioramenti. Agevolare la presa di coscienza delle diverse conseguenze di un lavoro individuale e di un lavoro di aiuto reciproco fra pari. Nel frattempo la scuola non rimane ferma.
La scuola italiana è sottoposta a un altalenarsi di procedure modalità modelli. Si è passati dai voti ai giudizi (una riforma incompleta che ha lasciato fuori la secondaria), per tornare ai voti e con l’ordinanza  172 del 2020 si istituisce una valutazione per livelli soltanto per la scuola primaria. Oggi il ministero del merito punta a tornare alla situazione preesistente, cioè la ‘riforma’ Gelmini del 2010.
A fronte di tale prospettiva sarà necessario ricorrere alle strategie che i Ciari, i Lodi. i Manzi nel tempo hanno utilizzato per una scuola al servizio di tutti, non selettiva, discriminatoria, gerarchizzante. Non va abbandonata la dimensione formativa ed ecologica della valutazione. L’eliminazione del voto numerico, pur tra molte difficoltà dovute a carente formazione e a procedure macchinose quali il registro elettronico,  ha avviato comunque un processo di cambiamento di prospettiva nella cultura e nelle pratiche valutative della scuola mettendo l’accento sull’esigenza di riscontri descrittivi dell’apprendimento in itinere, di differenti forme di comunicazione della valutazione e di maggiore coerenza e retroazione tra progettazione didattica e valutazione: in generale, un intero ripensamento della didattica e della relazione docente-studente.
La valutazione formativa non si limita a registrare esiti ma accompagna i processi. Assume che la responsabilità dell’eventuale mancato apprendimento non é dovuta soltanto a carenze dell’ allievo ma individua fra le cause il tipo di insegnamento del docente, che viene sollecitato  ad innovare le sue competenze psicopedagogiche e didattico-metodologiche e relazionali. Ad operare mantenendo strettamente connesse progettazione e valutazione.

[1] C. Freinet, Les invariants pédagogiques, in Oeuvres pédagpogiqques, Paris, Seuil, 1994, vol 2 pp. 383-413, trad. Ital. A. Goussot
[2] J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1951
[3] M. Marchi, P. Sartori (a cura di), Dall’io al noi. Città e scuola per un’educazione alla responsabilità, Trieste, Asterios, 2023
[4] C. Pontecorvo, A, M. Ajello, C. Zucchermaglio, Discutendo si impara, Roma, Carocci, 2007
[5] M. Rosaria Di Santo, Mario Lodi e la “biblioteca di lavoro” una proposta didattica alternativa ancora attuale, Parma, ed. Junior, 2022
[6] Gruppo torinese MCE, Per una nuova professionalità docente, Milano, Emme, 1978
[7] L.S. Vygotskij. Il processo cognitivo, Torino, Boringhieri, 1980
[8] G.. Wiggins, j. Mc Tighe, Fare progettazione. La “teoria” di un percorso per la comprensione significativa, Roma, LAS, 2004
[9] B. Ciari, La grande disadattata, Bergamo, Junior, 2006
[10] H. R. Maturana, F.S. Varela, Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio, 2001; C, Hadji, Una valutazione dal volto umano oltre i limiti della società della performance, Brescia, Scholé, 2003