Cattedra inclusiva tra utopia e realtà

di Pietro Calascibetta

Sono già intervenuto sull’argomento e non voglio ripetermi. Desidero però fare alcune osservazioni prendendo spunto dalla piega che sta prendendo il dibattito, perché temo che si rischi di perdere di vista il nocciolo del problema per il quale è stata fatta la proposta di legge.
Se si vuole raccogliere dei consensi o dei contributi di riflessione su una proposta e trovare eventualmente le giuste mediazioni, bisogna che sia chiaro il problema che si affronta e l’obiettivo che si vuole raggiungere vedendo ciò che è più funzionale e ciò che lo è meno nella proposta e nelle obiezioni.

In caso contrario qualsiasi discussione prende la piega di un’esternazione di punti di vista in base al proprio umore o peggio dei propri orientamenti ideologici condivisibili o meno facendo naufragare ciò che di positivo è possibile fare utilizzando la suggestione della proposta.

LA “GRANDE MALATTIA”

Il fatto che le “certificazioni” siano aumentate è sicuramente un dato certo come scrive Raffaele Iosa in “Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta?”

Io però non sono del tutto d’accordo nel credere che sia il frutto di una generalizzata volontà di medicalizzare le difficoltà di apprendimento.
Le difficoltà di apprendimento esistono indipendentemente che siano o meno certificate così come esistono gli stili di apprendimento e i bisogni più o meno “speciali” e riguardano tutti gli studenti.
L’esplosione della “grande malattia” ha per me un’origine diversa da una generica volontà di medicalizzare i comportamenti degli alunni.
La “grande malattia” non è la causa del problema del “declino dell’inclusione” bensì un effetto.
Andare più a fondo di questo effetto permette di definire meglio il problema e individuare qual è effettivamente l’obiettivo da raggiungere.

Io penso e credo che vi siano stati due approcci diversi che hanno favorito il proliferare delle certificazioni: quello dei genitori e quello dei docenti e non sono due atteggiamenti “culturali”, ma partono da esigenze molto concrete.

Diverse famiglie hanno visto nella certificazione, ovviamente nei casi di disabilità non grave, un mezzo attraverso il quale poter chiedere alla scuola di prendersi cura dell’apprendimento del proprio figlio perché la certificazione impone per legge degli obblighi ai docenti.
In altre parole si tratta della richiesta ai docenti di dichiarare quali sono gli impegni che si prendono perché molte famiglie hanno perso fiducia nel fatto che la scuola si impegni realmente in questo.
Leggere il PTOF, le presentazioni delle attività, i progetti va bene, ma il genitore di uno studente con qualche difficoltà che si sente responsabile del suo futuro vuol sapere cosa fa la scuola nel concreto per metterlo in grado di imparare.
L’insegnante che dice di aver studiato per insegnare la sua disciplina in realtà ha le idee confuse sulla sua professione e nella comunicazione con le famiglie addossa spesso allo studente la responsabilità di non aver ottenuto la sufficienza per non aver studiato, non aver fatto i compiti e altro mentre lui ha fatto quel che doveva “spiegando” la materia e chiedendo alla famiglia di intervenire sul ragazzo per farlo impegnare di più, poco importa ad esempio se metà classe è insufficiente.
Quante volte si sente nelle assemblee di classe qualche docente che si lamenta di non poter svolgere il “programma” perché è rallentato dalla presenza di molti studenti in difficoltà!
Va ricordato a quel docente che far apprendere vuol dire trovare il modo più adatto a “connettere determinati allievi – aventi le loro esperienze, le loro preconoscenze, i loro stili di apprendimento ecc. – con determinati contenuti culturali, ciascuno caratterizzato da una propria struttura logica e metodologica” (da M. Castoldi).
Il “mestiere” del docente quindi non sta solo nel conoscere la disciplina e “spiegarla”, ma nel saper far apprendere la propria disciplina.
L’utilizzo della certificazione da parte dei genitori per chiedere che la scuola faccia il suo lavoro è ancora più vero a mio parere per gli studenti con DSA, le cui vicende ho seguito da vicino negli anni di servizio, studenti presi troppo spesso per svogliati, indolenti, distratti ecc.

Molte delle associazioni, per quanto mi risulta, sono molto determinate nel non volere che tali studenti vengano medicalizzati ribadendo in tutte le sedi che quelli che sono stati definiti ambiguamente “disturbi specifici” sono in un certo senso degli stili di apprendimento e in quanto tali vanno trattati attraverso una didattica realmente inclusiva come per gli altri stili e non con una didattica speciale, le misure compensative non sono tra queste.

La certificazione per i docenti invece ha, a volte, un significato diverso.
Spesso sono i docenti stessi a sollecitare ai genitori la certificazione immaginando così di aiutare lo studente facendosi autorizzare, grazie alla certificazione intesa come medicalizzazione, a trattarlo in modo diverso dai compagni senza considerare la possibilità di trovare invece una modalità adatta a “compensare” queste difficoltà costruendo una lezione per tutti che permetta a questo studente di apprendere come e con gli altri.

Nessuna legge vieta di utilizzare a discrezione misure compensative o dispensative per tutti gli studenti che abbiano difficoltà in alcune operazioni indipendentemente dalla certificazione.
Quindi andando al sodo, dietro la “grande malattia” vi è un “grande equivoco” che coinvolge in pieno il modo della scuola.
Qualsiasi progettazione didattica parte dalla situazione reale della classe e dei suoi studenti e l’individualizzazione e la personalizzazione non avrebbero bisogno di una certificazione per essere perseguiti nel modo più opportuno perché fanno parte del “lavoro” del docente per “far apprendere” e sono espressione della libertà di insegnamento e dell’autonomia didattica. Le certificazioni al massimo sono uno strumento informativo per meglio progettare l’attività didattica della classe. Ne consegue che la scelta dei metodi e delle tecniche di qualunque natura sono funzionali alla situazione della classe, dei singoli studenti e agli obiettivi da raggiungere. Su questo sono d’accordo con Iosa,

Ma non è quello che la stessa normativa generale chiede da sempre di fare?
Perché questo non è avvenuto e non avviene?
Questo è il vero problema.

E’ vero che i “Bisogni Educativi Speciali” sono spuntati ad un certo punto come un fungo nella normativa, ma a mio avviso, non sono una “trovata” estemporanea del burocrate di turno, ma vanno letti nel senso di una presa d’atto che tutte le indicazioni date a partire dagli anni ‘70 in decreti, circolari, Indicazioni nazionali e note sul compito della scuola di prendersi cura concretamente dei bisogni formativi degli studenti all’interno della propria progettazione attraverso l’individualizzazione e la personalizzazione dei percorsi (il famoso “non uno di meno”) non avevano sortito nulla o poco a livello nazionale al di là delle eccellenze.

Il ricorso all’introduzione di una serie di disposizioni formali e vincolanti di programmazione dell’individualizzazione è stata la risposta “politica”, probabilmente errata, al malumore delle famiglie per una situazione che si era di fatto creata.
Fare il PEI o il PDP però non dà automaticamente la competenza al docente di gestire l’apprendimento in aula di una classe eterogenea. Non è applicando dei protocolli individuali che si crea un contesto favorevole all’apprendimento per tutti, né l’inclusione.
Invece di chiedersi il perché i docenti non riuscivano a fare quello che già la legge prevedeva hanno preferito trovare la scorciatoia dell’obbligo.
Allora ripropongo la domanda, perché tutto questo è avvenuto?

Non tanto per una cattiva volontà dei docenti, ma per una mancata formazione iniziale e in servizio su come fare una didattica inclusiva e su come gestire le difficoltà di apprendimento in una scuola di massa qual è quella voluta dalla Costituzione.
E’ il profilo del docente curricolare che andava cambiato.
Gli insegnanti curricolari, con la scusa dell’autonomia, sono stati lasciati a sbrigarsela da soli a fronte di un contesto profondamente cambiato senza avere gli strumenti per gestire questa complessità. Questo va detto per sostenere la proposta.

IL GRANDE EQUIVOCO DELLA CATTEDRA DI SOSTEGNO

La mancata formazione di tutti i docenti all’inclusione deriva dalla scelta a livello legislativo fatta in occasione dell’abolizione delle classi differenziali di formare solo una parte dei docenti per l’insegnamento agli studenti con disabilità certificata, come se avessero dovuto affiancarli in aula per tutte le ore facendo credere alle famiglie e anche ai docenti curricolari che l’insegnante di sostegno avrebbe risolto tutti i problemi di apprendimento e di inclusione.
La verità è che con l’introduzione del docente di sostegno non si è risolto il problema dell’apprendimento dello studente né dell’inclusione, ma si è messa la solita pezza per nasconderlo.
L’insegnante di sostegno assolve sicuramente ad un ruolo importante, ma non c’è nulla di più eterogeneo della disabilità, ogni alunno ha i suoi bisogni ed è per questo che viene definita una presenza in classe del docente di sostegno diversa da caso a caso, comunque per un numero ridotto di ore rispetto all’orario di lezione completo (aggiungo io, per fortuna), di conseguenza far apprendere gli alunni con disabilità non è un compito esclusivo del docente di sostegno, ma è anche un compito a cui concorre il docente curricolare che non può sottrarsi giacché copre il resto delle ore. Insegnare agli studenti con disabilità fa dunque parte del lavoro del docente curricolare nonostante vi sia una percezione diversa nell’immaginario collettivo.
Questa non è un’opinione, è un dato di realtà da cui partire per trovare una soluzione.

ARRIVIAMO AL PROBLEMA

Un errore strategico questo i cui nodi sono venuti al pettine quando si è cominciato a capire che:

  1. i bisogni speciali non sono solo quelli degli studenti con disabilità elencati nella legge 104, ma anche altri;
  2. i bisogni speciali possono essere anche temporanei e di origine sociale;
  3.  anche la presenza di stili di apprendimento diversi richiede un approccio inclusivo all’apprendimento;
  4.  l’inclusione non riguarda gli alunni in difficoltà, ma tutti gli studenti. L’inclusione è la condizione che fa del gruppo classe un dispositivo per l’apprendimento di tutti perché favorisce proprio quel contesto di relazioni positive che permette al docente di connettere i propri allievi con le conoscenze della propria disciplina.

L’inclusione non è semplicemente un “valore” o un “principio” o una buona azione, ma una condizione perché il docente possa fare il proprio lavoro. Va data dunque una rilevanza professionale alla proposta.

Invece di affrontare il problema causato dalla mancata formazione dei docenti curricolari, come si è detto, si è aggiunta la pezza dei BES, da qui il “declino dell’inclusione” è diventato un problema vero e proprio.
La conseguenza di tutto questo è che la scuola è diventa, come scrive Iosa, non una “comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche”.
Ma cosa ci si poteva aspettare da un Ministero che pensa che la governance del sistema delle autonomie sia solo amministrativa e non anche e soprattutto pedagogica e didattica (vedi la mortificazione del ruolo assegnato oggi agli ispettori nonostante quello che sarebbe dovuto essere il loro inquadramento con le nuove norme e la triste fine degli IRRSAE di cui non è rimasto più neppure il ricordo del loro prezioso ruolo nella formazione in servizio e nell’innovazione negli anni d’oro delle sperimentazioni).
La questione centrale per un discorso sull’inclusione è come far sì che un docente curricolare abbia le competenze per affrontare e gestire in modo unitario l’eterogeneità di un gruppo classe.

Tutti dovrebbero aver consapevolezza che la formazione iniziale del docente curricolare non prevede competenze di gestione né degli studenti disabili, né, voglio aggiungere, degli studenti con bisogni speciali ad esempio quelli con DSA, né di come gestire dal punto di vista dell’apprendimento un gruppo eterogeneo di studenti con problematiche e stili diversi in modo unitario.
Se è questo il problema forse varrebbe la penna di lavorare per risolverlo. La proposta di legge sulla cattedra inclusiva oltre ad essere molto suggestiva in che misura può affrontare realmente il problema in mezzo a tanti pregiudizi e fake presenti nell’opinione pubblica?

UNA CATTEDRA INCLUSIVA O UN DOCENTE INCLUSIVO?

La proposta di far acquisire al docente curricolare una preparazione tale (possiamo chiamarla anche specializzazione) da poter affrontare i bisogni speciali dei suoi allievi e la gestione di una classe eterogenea è a mio avviso una risposta funzionale al problema tenendo presente che la formazione è anche carente sul piano delle competenze relative soprattutto alla relazione educativa e alle dinamiche di gruppo che tanto peso hanno nell’inclusione.
Se si vuole dare forza ad una proposta che riesca ad affrontare il problema è meglio puntare sul docente curricolare inclusivo che a mio avviso coinvolgere in modo più chiaro e diretto gli interessati, cioè i docenti curricolari, le famiglie e gli studenti.

Perché un docente su posto comune dovrebbe aver voglia di impegnarsi in un tale cambiamento? Solo per un ideale o perché il cambiamento può anche migliorare le sue condizioni di lavoro attuali e la sua realizzazione professionale? Io credo che possa essere per questo.
Perché le famiglie dovrebbero appoggiare la proposta? Perché può andare incontro alle aspettative di tutte le famiglie un docente preparato a prendersi cura dei propri figli sia che siano fragili, sia talentuosi e che riesca a portare al successo la propria classe.
Un vantaggio per l’insegnante diventa un vantaggio per gli studenti con BES, le loro famiglie e gli studenti che qualcuno definisce “cosiddetti normali” per una gestione più efficace, serena e cooperativa delle dinamiche del gruppo classe che favorisce l’apprendimento di tutti.

In merito alle riserve avanzate da qualcuno sulla reale possibilità di formare tutti i docenti, credo che non possa essere motivo per cassare una proposta. Chi respinge la proposta solo con questi argomenti fa finta di non vedere il problema.
Abbiamo individuato un problema reale all’origine del “declino dell’inclusione” e una soluzione ragionevole e necessaria sul piano professionale che poi valorizza anche il ruolo del docente e può volendo aprire ad una motivata revisione dello stipendio a fronte di un miglioramento della qualità della prestazione.
Il modo di pensare i contenuti e la modalità della formazione in base alle problematiche di attuazione è una responsabilità che, chi di dovere dovrebbe prendersi.

DALL’UTOPIA ALLA POSSIBILITA’

Avere una cattedra unica per il posto comune e per il sostegno con dei docenti che possono essere impegnati nell’uno o nell’altro incarico permetterebbe in teoria una reale flessibilità nell’utilizzo della risorsa e potrebbe affrontare le difficoltà che oggi ci sono nel reclutamento dei docenti di sostegno. Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quado si propone che ciascun docente una volta formato utilizzi il monte ore della propria cattedra inclusiva sui due posti, comune e di sostegno, che comunque rimangono distinti.
Ci si domanda come utilizzare tale flessibilità calandola nell’organizzazione della scuola qual è ora perché possono esserci diversi problemi non di poco conto di cui ho già scritto.
Introdurre l’obbligo di destinare a ciascun docente una parte dell’orario di cattedra sul sostegno e l’altra sulla disciplina a livello di istituto, come vorrebbe la proposta, creerebbe, a mio parere, non poche difficoltà nell’assegnazione dei docenti alle classi e conseguentemente nella possibilità di predisporre un orario dignitoso per tutti (studenti e docenti), nel poter assegnare i docenti in base ai bisogni degli studenti e non con criteri burocratici, senza parlare del poter organizzare le riunioni dei consigli di classe e degli scrutini alla presenza di tutti i docenti che lavorano sulla classe. E poi quante ore per l’uno e per l’altro incarico? Chi lo stabilisce, il dirigente?

Forse una soluzione intermedia più fattibile sarebbe avere un docente curricolare su cattedra inclusiva su tutte le ore del posto comune ed uno sempre con tutte le ore su posto di sostegno con possibilità da studiare una modalità di passaggio da un posto all’altro in base a taluni vincoli anche attraverso procedure interne allo stesso istituto seguendo le necessità della progettualità collegiale, valorizzando così l’autonomia (in realtà che autonomia è un’autonomia che impedisce di utilizzare in modo flessibile le risorse umane!)

Cosa diversa sarebbe se si potesse costituire una sorta di organico dell’autonomia per biennio o per sezione in cui ai docenti con cattedra curricolare con più classi vengano assegnate solo quelle della sezione o del biennio in modo da poter essere impegnati nel completamento dell’orario di cattedra in attività di potenziamento o di sostegno, un organico che può essere arricchito con ulteriori docenti prelevati dalla dotazione di potenziamento di istituto.
In questo caso un docente di cattedra inclusiva potrebbe spendere le sue ore su entrambi i posti senza che questo crei complicazioni organizzative.

Si tratta di utilizzare lo stesso principio dell’organico dell’autonomia questa volta non sulla scuola ma su singole unità operative. In questo modo si formerebbe un’équipe di docenti e le ore di copresenza per il sostegno potrebbero essere gestite dai docenti della sezione o del biennio ad esempio in una riunione collegiale iniziale in base alla situazione delle classi e ai bisogni degli studenti alla stregua di come si fa per le compresenze nei progetti o UdA tenendo ovviamente conto dei vincoli nell’assegnazione del monte ore individuale agli studenti con disabilità.
Questa soluzione risolverebbe anche il problema dei docenti curricolari con 6 o 8 classi per i quali sarebbe difficile accedere ad una cattedra inclusiva con doppio incarico.
Una soluzione che valorizzerebbe certo l’autonomia e il ruolo progettuale dei docenti, ma che andrebbe ben studiata anche in relazione ai vari indirizzi di studio e ai cicli.

Limitarsi a potenziare la formazione dei docenti su posto comune come si è scritto sopra facendone dei docenti inclusi sarebbe già un notevole risultato e un cambio di prospettiva anche culturale riportando al centro l’unitarietà dell’insegnamento e chiarendo il ruolo paritario e complementare del docente di sostegno e di quello curricolare nello sviluppo del curricolo disciplinare e trasversale dello studente.

Anche nel caso di non unire le due cattedre e lasciare la cattedra di sostegno come è ora potrebbe però essere possibile comunque fare ancora qualcosa di più per migliorare la qualità dell’inclusione.

Si potrebbe fare anche del docente di sostegno come del docente curricolare, un docente inclusivo con una formazione ancora più arricchita sul piano psicosociale anche valorizzando nelle graduatorie e nell’accesso gli aspiranti provenienti dalle lauree in scienze pedagogiche costretti a prestare servizio nella scuola tramite il lavoro precario nelle cooperative.

Ciò permetterebbe al docente di sostegno non solo di seguire gli studenti con disabilità, ma di avere una competenza più specifica per coordinare in modo professionale l’azione di inclusione dei consigli di classe in cui opera riservando a questo compito anche una parte dell’orario di cattedra per attività di progettazione, tutoring, consulenza ai docenti e alle famiglie.
Sarebbe l’occasione per assegnare loro la qualifica di “docente esperto” (Legge 79/2022) con relativo ritocco dello stipendio provando a dare un utilizzo più accettabile a tale qualifica perché legata ad un compito specifico rispetto al solo insegnamento uguale per tutti e aprendo la strada all’introduzione di vere e proprie figure di sistema.
Potrebbe essere un incentivo per il reclutamento di risorse motivate con la prospettiva di svolgere un’attività più gratificante, utile e con uno sviluppo professionale.

Anche questo potrebbe essere un “cambio di rotta” significativo e un’idea per la discussione nonostante non coincida perfettamente con la proposta di legge.




Statuti artificiali

di Marco Guastavigna

Prosegue a ritmo serrato il dialogo con i chatbot personalizzati che ho presentato qualche giorno fa.

A ChatProfInn ho chiesto di scrivere uno statuto in 10 articoli destinati all’associazione internazionale degli insegnanti innovatori, precisando che almeno due articoli dovevano contenere riferimenti ai dispositivi digitali per l’apprendimento”.

Ecco la sua risposta:

Statuto dell’Associazione Internazionale degli Insegnanti Innovatori

Articolo 1: Denominazione e sede
L’associazione si intitola “Associazione Internazionale degli Insegnanti Innovatori” e ha sede legale nel luogo designato dal consiglio direttivo.

Articolo 2: Scopo
Scopo dell’associazione è promuovere e sostenere l’innovazione nell’ambito dell’insegnamento e dell’apprendimento, favorendo lo sviluppo di pratiche pedagogiche avanzate e l’adozione di metodologie didattiche efficaci.

Articolo 3: Membri
Possono far parte dell’associazione tutti gli insegnanti, formatori e professionisti dell’istruzione che condividono la missione e gli obiettivi dell’associazione.

Articolo 4: Organi dell’associazione
Gli organi dell’associazione sono l’assemblea dei soci, il consiglio direttivo e il presidente.

Articolo 5: Attività dell’associazione
L’associazione svolge attività di ricerca, formazione, networking e divulgazione per favorire lo scambio di conoscenze e l’adozione delle migliori pratiche educative.

Articolo 6: Utilizzo dei dispositivi digitali per l’apprendimento
L’associazione promuove l’uso responsabile e creativo dei dispositivi digitali nell’ambito dell’insegnamento e dell’apprendimento, incoraggiando l’integrazione di tecnologie innovative per migliorare l’esperienza educativa.

Articolo 7: Formazione e aggiornamento professionale
L’associazione offre programmi di formazione e aggiornamento professionale per gli insegnanti, al fine di potenziare le competenze pedagogiche e promuovere l’adozione di approcci didattici innovativi.

Articolo 8: Collaborazioni internazionali
L’associazione favorisce le collaborazioni ei partenariati internazionali con altre organizzazioni, istituzioni accademiche ed enti per promuovere lo scambio culturale e l’innovazione educativa a livello globale.

Articolo 9: Trasparenza e resocontazione
L’associazione si impegna a garantire la trasparenza nella gestione delle risorse finanziarie ea fornire regolari report e rendiconti sulle attività svolte.

Articolo 10: Modifiche statutarie
Eventuali modifiche allo statuto devono essere deliberate dall’assemblea dei soci con la maggioranza prevista dal regolamento interno.

Fatto e approvato in data odierna.

Ho poi interpellato in modo analogo ChatProfTrad, invitandolo alla redazione di uno statuto in 10 articoli di un’associazione nazionale per l’insegnamento tradizionale; almeno due articoli dovevano contenere la valorizzazione della lezione del docente e delle conoscenze; almeno un articolo doveva essere molto critico della didattica per le competenze.

Ecco il risultato:

Statuto dell’Associazione Nazionale per l’Insegnamento Tradizionale

 Articolo 1 – Denominazione
L’associazione si intitola “Associazione Nazionale per l’Insegnamento Tradizionale” e ha sede nel territorio nazionale.

Articolo 2 – Scopo
L’associazione ha lo scopo di promuovere e difendere l’approccio tradizionale all’insegnamento, valorizzando la lezione frontale del docente e l’importanza delle conoscenze disciplinari.

Articolo 3 – Principi Fondamentali
L’associazione si basa sui principi della trasmissione diretta delle conoscenze, del rispetto per l’autorità del docente e della centralità del sapere disciplinare come pilastri fondamentali dell’istruzione.

Articolo 4 – Ruolo del Docente
L’associazione riconosce il ruolo fondamentale del docente come figura guida ed esperta, responsabile della trasmissione e della condivisione delle conoscenze con gli studenti.

Articolo 5 – Valorizzazione della Lezione
L’associazione promuove la valorizzazione della lezione frontale come metodo educativo efficace per favorire l’apprendimento approfondito e critico degli studenti.

Articolo 6 – Conoscenze Disciplinari
L’associazione sostiene l’importanza delle conoscenze disciplinari come base fondamentale per lo sviluppo intellettuale e culturale degli individui.

Articolo 7 – Critica alla Didattica per le Competenze
L’associazione esprime forte critica nei confronti della didattica per le competenze, ritenendo che possa privilegiare l’applicazione pratica a discapito della conoscenza teorica e concettuale.

Articolo 8 – Formazione Continua
L’associazione si impegna a promuovere la formazione continua dei docenti per garantire elevati standard professionali e la diffusione delle migliori pratiche didattiche tradizionali.

Articolo 9 – Collaborazioni
L’associazione promuove la collaborazione con istituzioni educative, enti di ricerca e organizzazioni nazionali e internazionali che condividono i suoi principi e obiettivi.

Articolo 10 – Modifiche Statutarie
Eventuali modifiche al presente statuto devono essere deliberate dall’assemblea generale dell’associazione in conformità alle normative vigenti.

Firmato,
Il Presidente dell’Associazione Nazionale per l’Insegnamento Tradizionale




A scuola senza bussola

di Giovanni FioravantiStefanel

Per il Censis siamo affetti da sonnambulismo, precipitati nel profondo sonno della ragione che continuerà a  generare mostri, se non ci riscuotiamo.
Non sappiamo che cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo” è la celebre frase di José Ortega y Gasset, che Edgar Morin ha posto, due anni or sono, ad epigrafe del suo Svegliamoci!

Per il filosofo francese è necessario trovare una bussola per orientarci nell’oceano dell’incertezza in cui vaghiamo come sonnambuli. Una bussola che ci aiuti a comprendere la storia che stiamo vivendo.

E qui sta la difficoltà. Ad uscirne dovrebbero aiutarci i nostri sistemi di istruzione i quali, benché rincorrano i cambiamenti del tempo, restano però nella sostanza identici a se stessi, ancora espressione di culture da noi ormai lontane, tanto da essere impotenti a generare nuovi modelli di pensiero, indispensabili al benessere e alla sopravvivenza dell’umanità.
Con l’ingresso nel nuovo secolo credevamo che si sarebbero aperti nuovi orizzonti, nuove prospettive fondate sulla potenza dei saperi e della scienza. Pensavamo che l’Antropocene potesse conoscere un’epoca di rigenerazione ambientale e sociale, di nuova umanizzazione, di solidarietà e coesione, un nuovo spirito comunitario come alternativa alla esclusione e alla devitalizzazione suicida del tessuto sociale.

Il corso della storia ha già deturpato il volto di questo secolo ancora adolescente con le cicatrici delle guerre e di un’economia finanziaria implacabile, minacciando le fondamenta sociali e peggiorando le condizioni di disuguaglianza nel mondo.
A questa crisi di umanizzazione corrisponde la crisi dei sistemi educativi incapaci di porsi come argini e come luoghi di recupero dell’umanizzazione, di apprendimento ad essere umani.
Su questo dovrebbero riflettere i sistemi scolastici nel mondo, oggi scossi da numerose contraddizioni e da difficoltà nuove, di fronte a generazioni di alunni e di adulti che sempre più appaiono disorientati, quando non sbandati. Ma disorientamento, e sbandamento, impreparazione e ritardi non possono essere ammessi per le istituzioni scolastiche che sono la fonte del capitale umano, di quello culturale e sociale.

Insegnare a vivere è il manifesto che Edgar Morin ha scritto per  rifondare l’educazione, bastava leggerlo e assumerlo come guida, come suggerimento di un percorso di rinnovamento dei nostri sistemi formativi.
Riforma del pensiero e riforma dell’insegnamento ne rappresentano gli elementi essenziali.
Come negare che qui si gioca il destino delle nuove generazioni e come non guardare con apprensione alla meschinità con cui si discute di scuola nel nostro paese, dal merito, al voto in condotta, al made in Italy, con la preoccupazione per un sonnambulismo profondo da cui pare assai difficile il risveglio. “Svegli, dormono”, diceva Eraclito.

Il sapere è in espansione, ma la saggezza purtroppo languisce. L’abisso che si spalanca sotto i nostri piedi richiede di essere colmato per rovesciare l’attuale tendenza che conduce al disastro, e proprio in questo l’educazione, nel senso più ampio del termine, riveste un’importanza vitale.
Il compito non può essere ignorato perché da esso dipende il destino sociale di questo secolo.
Nel momento in cui abbiamo colto che la vita delle nostre comunità poteva essere minacciata da generazioni prive di senso civico, ci siamo precipitati a riempire il vuoto con l’insegnamento dell’educazione civica.
Ora che è gravemente minacciata la convivenza mondiale sarebbe urgente provvedere con l’insegnamento dell’ educazione alla mondialità che investa tutti i sistemi formativi del pianeta.

Comprendere la realtà, quella dell’umanità e quella del mondo, riconoscere le interdipendenze che creano il bisogno di varie forme di solidarietà.
La coesione sociale e la solidarietà appaiono come aspirazioni e finalità indissolubilmente legate, in armonia con la dignità dell’individuo. Il rispetto dei diritti umani va di pari passo con un senso di responsabilità che incita uomini e donne ad imparare a vivere insieme.
Ciò richiede innanzitutto di rimuovere la patina etnocentrica che ancora riveste i contenuti dei nostri sistemi formativi, che impedisce di dialogare tra loro, che ostacola il riconoscimento dell’interdipendenza planetaria.

Etica, felicità, tradizioni religiose, problema della conoscenza, problemi logici, il rapporto tra le forme del sapere, in particolare con la scienza, il senso della bellezza, la libertà sono destinati a isterilirsi, a divenire paratie costruite a difesa della propria identità contro l’identità dell’altro, se non ritrovano comuni significati entro un quadro di cultura mondiale condivisa.

La cultura che trasmettono le nostre scuole è ancora essenzialmente monoetnica rispetto alla mondialità che sempre più incombe.
Lo scriveva il sociologo messicano Rodolfo Stavenhagen, occupandosi delle minoranze, come la maggior parte dei moderni stati-nazioni sia organizzata sul presupposto della omogeneità culturale. Questa omogeneità costituisce l’essenza della “nazionalità” moderna, su cui si basano oggi le nozioni di stato e di cittadinanza. L’idea di una nazione monoetnica, culturalmente omogenea, viene usata prevalentemente per nascondere il fatto che questi stati meriterebbero di essere definiti più propriamente etnocrati, nella misura in cui solo un gruppo etnico maggioritario o dominante arriva a imporvi il proprio concetto di “nazionalità” alle altre componenti della società.
Il risultato è sotto i nostri occhi dall’emigrazione all’escalation dei conflitti sociali e bellici a cui impotenti oggi assistiamo, da quello russo-ucraino a quello israelo-palestinese.

Attenzione, dunque, anche a sottovalutare o a interpretare in modo folcloristico le pretese di una cultura che intende rilanciarsi con il culto della nazione e lo slogan Dio, Patria e Famiglia, specie se di mezzo ci sono le nostre scuole e la formazione della nostra gioventù la cui patria sempre più sarà il mondo intero.
Obiettivi di apprendimento e competenze forse sono utili per un sistema sociale chiuso, non per società aperte al mondo che necessitano, per dirla con Morin, di due parole chiave: conoscenza della conoscenza e comprensione.

La conoscenza della conoscenza per cogliere i nostri errori e quelli degli altri, la comprensione come virtù principale di ogni vita sociale che consiste nel riconoscimento della piena umanità e della piena dignità degli altri. Comprensione, benevolenza, riconoscimento permetteranno, scrive Morin, non solo un “miglior vivere” in ogni relazione umana, ma anche di combattere il male morale più crudele, il più atroce che un essere umano possa fare a un altro essere umano: l’umiliazione.
Dobbiamo preoccuparci seriamente perché i nostri sistemi formativi non sono più in grado di garantire un “miglior vivere” alle nuove generazioni,  segnale allarmante sono le parole sporche tornate a circolare come: merito, punizione, umiliazione, anche queste espressione evidente della crisi di pensiero che stiamo vivendo, immersi in una sorta di sonnambulismo generalizzato.




Caronte… chi era costui?

di Carlo Baiocco

… Caronte … Caronte, uhm … chi era costui? E perché proprio Caronte? Caronte……ferocia illuminata! Caronte, il nocchiero di “uomini che furono”! Caronte, il traghettatore d’anime! Colui che conduce le anime nell’oltretomba! Caronte, psicopompo che trasporta i nuovi morti da una riva all’altra! Caronte, figlio di Tenebre e Notte!

Egli è nient’altro che un’entità neutrale, un “messaggero” di ciò che è al di qua e al di là, che collega mondo sensibile e mondo insensibile! Caronte non giudica, Caronte si limita a trasportare! E l’Acheronte non è altro che “il fiume del dolore”! Egli è demiurgo, egli, in fondo, è salvatore; egli è colui che accompagna nel passaggio, nella metamorfosi da vivo a morto, a morto per sempre! Solo pochi sono i vivi che ha condotto, solo pochi sono andati e, soprattutto, son tornati vivi, dopo che Caronte li ha depositati sull’altra riva! Caronte agisce, non fa domande e non si fa domande! Anch’egli, in fondo, è un dannato, dannato a ripetere sempre gli stessi gesti, lo stesso percorso! Egli, avido e crudele, guarda … sotto la lingua, guarda dentro gli occhi, alla ricerca dell’obolo! Ognuno sa, che senza l’obolo, senza le monete, non sarà accolto e vagherà tra le nebbie per cento e cento anni ancora! ………….

E tante, veramente tante sono le analogie con ciò che, purtroppo, è ora!
Tante le analogie con le cosiddette “tragedie del mare”.

Ehm … sì, perché poi, a pensarci bene, i toni lamentosi con cui quest’ultime vengono annunciate non sono altro che ipocrisia! Ma, in fondo, se nel profondo del Mediterraneo, che qualcuno (sigh!) vorrebbe e ritiene ancora “nostrum”, finiscono o continuano a finire migliaia di “anime perse”, a chi vuoi che gliene freghi qualcosa! Tutti a battersi il petto ed a gridare: “Vergogna!”, quando centinaia di corpi riemergono dal mare e centinaia di bare si allineano sulle spiagge.

Persino il corpicino di una bimba annegata viene fotografato su di una spiaggia e subito si levano polemiche e deprecazioni a non finire, grida rutilanti e, soprattutto, promesse rutilanti: “Che sia l’ultima, mai più, mai più, mai più una simile vergogna!”

Ma quelle grida, quelle promesse sono scritte vicino a quei corpi, a quel corpicino “crocifisso” sulla sabbia che il mare subito porta via, mentre di corpicini di altri bambini tanti continua a deporne il mare su quella stessa sabbia e tante altre croci continuano ad essere piantate!
Finzione delle finzioni: il giorno del pianto, la “Giornata del Migrante”! Ahahahahaaaahhhhh … E poi, dopo poco, il pianto si trasforma in indifferenza ed il silenzio regna nuovamente sovrano!

Ed allora di domande uno se ne fa tante …

Caronte sono gli scafisti o siamo noi che, con i tanti innumerevoli crimini commessi nel corso di diversi secoli ed ancora oggi, abbiamo costretto e costringiamo tante anime prima a morire di stenti e poi a morire ammazzate? Da secoli esportiamo la morte, la fame, la sete, la sopraffazione, il “turismo sessuale”, la miseria, la schiavitù, noi! Esportiamo la democrazia con le dittature, i conflitti tribali, le guerre, i missili e le super bombe intelligenti, ma coloro che fuggono da quelle miserie, da quella semischiavitù, da quelle guerre e da quelle bombe mica sono rifugiati, sono delinquenti!

Certamente chi ha pronto l’obolo e si presenta con moneta luccicante e tintinnante o possiede cosce lunghe e “tette” extra, nonostante sia extra …, è subito ammesso e ben gradito; anzi, che si accomodi pure, ché presto, con l’auto blu, sarà traghettata anche nel Palazzo e finanche nel letto, lustro e dorato, dei Potenti-Papponi e, magari poi, anche nel Regno dei Cieli!
Se poi le migranti puliscono i sederi dei nostri anziani abbandonati, beh …. che si dia loro, ma solo a loro, pure la cittadinanza!

Ed i bravi negli sport, e soprattutto nel pallone, trovino subito pure un posto … magari anche nelle squadre di serie A!
E per un congruo obolo, “polvere bianca” o una bella “gnocca” minorenne, si possono pur continuare a vendere permessi di soggiorno! Gli altri, i clandestini, li si lasci ai loro destini e, quelli, i miserabili, che crepino pure nei loro paesi, in mare o dovunque vogliano e possano, basta che si vedano e si sentano il meno possibile, che si sbrighino a transitare e varcare i nostri confini e che non vengano ad accattonare nel nostro sacro suolo patrio, terra nostra, come nostro è ancora il mare!
Quel mare che ancor oggi continua a riempirsi di rosso, del sangue di tanti innocenti!

E che l’Europa si sbrighi, si facciano pure “accordi” di morte e si elargisca pecunia, tanta pecunia, affinché sempre più spietati Signori della Morte edifichino lager nei loro Paesi e possano meglio detenere, macellare e respingere!  Che mamme, papà e figli muoiano nel deserto a chi vuoi che importi, se nella coscienza ha lui stesso il deserto dei sentimenti?

Beh……. Non disperiamo………: i nostri Venerabili Signori dell’Oscurità si stanno adoperando per respingere ……. ogni possibile invasione, facendo blocchi navali, rendendo impossibile il lavoro delle ONG e facendo accordi a tutto spiano anche con i diversi cugini-raìs, Caronti-leader, amici tiranni di paesi totalitari che si affacciano sul “mare nostrum”, diventato ormai un enorme “fiume del dolore”!
Ed allora ben venga Caronte a rammentarci che l’”oggi” è il figlio di Tenebre e Notte e che assistiamo alla notte, in verità sempre più buia, della nostra Repubblica Seconda, sempre più avviata verso un becero regime autocratico e semifascista!

Davvero, in Italia, si sta facendo notte! E chissà che, presto, non ci si debba affidare noi ad un Caronte, “nostro salvatore”, per salvarci i corpi e l’anima! E quel qualcuno che ancora può continui pure, come Gorgone, a scrivere la verità mostruosa con penna di bronzo, ma si prepari pure ali dorate per mettersi in salvo!

Corsi e ricorsi: abbiamo proprio una memoria di ferro: a noi, ieri, che volevamo sbarcare, come si fa con i cavalli, guardavano i denti, così, oggi, quelli che vogliono sbarcare, prendiamo a calci sui denti! E guai a loro, se dimostrano di non conoscere la nostra lingua e se si dimostrano ancora fieri delle loro origini, della loro cultura, delle loro usanze o se soffrono di nostalgia! Abbiamo fatto prestissimo a dimenticare che siamo stati un popolo di navigatori e di eroi, ma anche di emigranti, di sfollati e persino di mafiosi e che, se continua così, ci ritroveremo presto ad essere nuovamente migranti! D’altra parte, molti di noi già si sentono, dentro, migranti, ché il nostro è divenuto il Paese della Malinconia da cui “se ne vanno tutti”!
E, visto che, nel frattempo, ci stanno togliendo ogni pecunia, chissà che non si abbia poi neanche l’obolo da offrire a Caronte, per partire e metterci in salvo!
Suvvia, Giovani d’Italia senza futuro, zaino in spalla! Fate presto! Almeno voi migrate e mettetevi in salvo! Qui nessuno ha bisogno di voi e, mi raccomando: non presentate più curriculum vitae per poter lavorare e, soprattutto, se avete la “fortuna” di andarvene, non tornate più!

Insomma, evviva Caronte, che non possiede terre né confini!

Di là il mondo “sensibile”, sofferente, disperato che spera, questuante, ma vivo, di qua il mondo insensibile, in preda alla paura, gaudente, spietatamente repulsivo ed anche “morto”! Morto perfino ad ogni principio di accoglienza, generosità, integrazione e solidarietà, principi questi che qualcuno, piuttosto che vergognarsi e tacere, continua ipocritamente a pontificare quali valori peculiari delle radici cristiane del mondo occidentale!
Avevano ragione i Greci, che, poveri loro, erano pagani ed onoravano la sacralità dell’ospitalità, a chiamare l’Occidente “Esperia”, terra dove tramonta il sole! Ed il sole, da noi, sta davvero tramontando, proprio su quel mare che sempre più si tinge del rosso del sangue dei tanti reietti dell’Umanità!

Mentre l’Europa (che sempre per i Greci era una bella fanciulla ed anche per noi è stata una bella chimera e, forse anche per questo, alla fine una bella “fregatura” ancor più grande!), affama i popoli ed anche i propri popoli, si divide, genera guerre, costruisce nuovi lager, muri sempre più alti, stende reti metalliche doppie e triple e fili-spinati sempre più aguzzi e, poi, piange, ride di noi e non fa mai alcunché, in Italia c’è grande preoccupazione e sgomento se pochi Migranti arrivano vivi e c’è grande indifferenza se molti Migranti arrivano morti; magari qualcuno vorrebbe anche che li si prendesse a cannonate …. nel mare nostro! E che si allineino pure le bare davanti ad alti prelati benedicenti ed alte personalità piangenti!

Il Pontefice, rimasto ormai l’unico ad alzare forte la voce ed a tuonare contro la “guerra a pezzi” che ormai fa a pezzi il mondo, mai però scomunica i pochissimi “possidenti” che affamano i tantissimi “indigenti”, i guerrafondai belligeranti, i venditori di armi che sono in tanti anche nel nostro Paese ed i bugiardi che, nascondendosi ben bene dietro la facciata degli interventi di “peace-keeping”, “peace-building”, “peace enforcing” (!!!), continuano ad imporre violenze, a derubare e saccheggiare altri paesi delle loro uniche risorse ed a bombardare persino le feste di nozze e gli ospedali di “Emergency” scambiandoli per raduni e covi di terroristi!

Che sanguinario e perverso giochetto …: ipocrita ferocia e feroce ipocrisia “illuminata” del Potere! … di un Potere che continua assolutamente a programmare, costruire e creare, esso sì, l’autentico terrorismo e che attraverso la costruzione dei conflitti, delle guerre, della paura di molte presunte minacce costruite ad arte, da sempre, a suo piacimento, cementa, distrugge e poi ricostruisce i regimi sanguinari, intolleranti, confessionali, teocratici, dittatoriali e disumani dai quali nasce, e deve nascere appunto, il terrorismo!
Protervia repellente di una “razza” di politicanti ignoranti ed economisti lestofanti, che additano delinquenti ed untori dappertutto, in modo che la gente non si accorga che proprio essi rappresentano i malfattori e la vera peste bubbonica!

Ogni anno, poi, alla fine, tutti a contare anche i morti del lavoro e sul lavoro! Per tanti che ne muoiono, ne entrino subito altri, che costino molto meno, a sostituirli!
Prima un esimio Presidente, che con l’autorevolezza che tutti gli riconoscevamo, nonostante abbia avuto la “firma facile” e solo poche volte si sia svegliato dal proprio torpore, per anni ha continuato, sempre inutilmente, ad implorare: “Basta con le morti bianche! …ed ora un altro che ogni giorno scrive e declama bellissimi discorsi e rammenta a tutti, ahimè inutilmente, il rispetto del Diritto e della Costituzione, che molti nei Governi cercano e si affrettano senza posa a smantellare!

Beh, avanti i “negri”, allora! Ben vengano! Che muoiano loro, vituperata forza-lavoro, pagata a due euro l’ora, che muoiano loro sul lavoro e di lavoro, a chi vuoi che importi! Altrimenti gli eccellentissimi imprenditori-cavalieri del lavoro chi potranno sfruttare? Ed i tanto più onorabili mafiosi, “caporali” e “papponi” del Potere chi potranno sfruttare, far delinquere, spacciare e prostituire?
Poi, se non bastano condizioni di vita ed un lavoro da schiavi, c’è sempre Caronte, che non fa domande, non giudica, ma insulta e mena e picchia forte, sempre più forte!……. Anche con il remo, sulla schiena dei Migranti! E più fa male, più ci libera dal male! In fondo, siamo sempre capaci di “spezzargli” le reni a quei “negri”! E, se non basta, che si gettino anche giù … dalle gru!

Caronte, però, aveva due difetti: si limitava solo a trasportare in un luogo da cui non si poteva tornare indietro ed almeno la cittadinanza infernale la dava!
Ora, invece, di Caronti ce ne sono due: il primo porta di qua ed il secondo, prontamente, riporta di là! E, se non fosse che si parla di “anime” e di “uomini” scannati, sembrerebbe quasi un bel giochetto, un bel viaggio di piacere da un centro di “non-Accoglienza” ad un altro e da una banchina all’altra! Accompagnarli nella loro metamorfosi, da vivi che erano, a morti che saranno, è compito di Caronte ed egli lo svolge bene, sa svolgerlo davvero bene! E Caronte davvero tanto ci guadagna!

Poi, chi arriva stremato, ma vivo, ci penseranno le nuove deportazioni, i ridicoli ed anticostituzionali “esami” d’italiano ad umiliarlo, i medici-spia ed i presidi-spia a non accoglierlo e, magari, anche a denunciarlo ed i sindaci sceriffi, i prodi squadristi-rondisti, novelli S.S., ad ammazzarlo attraverso l’emarginazione, il razzismo, il lavoro sempre più nero, gli insulti, le “fini” leggi da capestro, la galera e, soprattutto, le botte, tante botte, tante manganellate, anche quelle dei tutori della pura razza italiana, quasi dovessero far loro espiare la colpa di essere riusciti ad arrivare! E che paghino pure i loro figli ed i figli dei loro figli, i quali la cittadinanza se la debbono scordare e che, magari dopo aver rimesso a posto i conti nazionali e la pensione di molti, a calci nel sedere al loro paese debbon tornare!

E di fronte a cotanta barbarie, per un po’…. tutti a battersi il petto, pronti, però, subito dopo, a continuare ad erigere barriere, muri, fili spinati, confini! Qui …. è mio e lì…. è pure mio! E’ tutto, tutto mio! Ora, addirittura, Caronte costruisce altre rotte in mare ed è pronto a dirottare e deportare anche verso altre spiagge! Basta che esse siano più povere e più lontane! Ed allora: viva l’Europa, la patria dei valori illuministi e cristiani, che lo permette e lo consente!
Il mondo è proprio strano: per un muro che si abbatte, se ne edificano tanti altri! Quando se ne abbatte uno, tutti quelli che hanno fatto festa eccoli poi subito intenti a farne di nuovi e sempre in festa, per la soddisfazione di averne ricostruiti altri cento, ben più grandi, massicci e solidi!

Coloro che hanno subito “olocausti” hanno a loro volta dimenticato ed eccoli pronti a perpetuare nuovo sterminio e nuovo genocidio!
E, se non bastan quelli, che si intreccino allora patti diplomatici con Cerberi d’oltremare, cristiani e non cristiani, che prima sono amici e subito dopo nemici, che prima si incensano, poi si bombardano ed infine si pagano anche, affinché fermino o sbranino o rinchiudano nuovamente chi abbia l’ardire di avvicinarsi e costruiscano sempre più numerosi centri lager in riva al mare e sulla terra ferma. L’importante è che lo facciano lontano da noi, in modo che restino ben nascosti e la nostra coscienza resti ben pulita!

Se poi in quei Paesi non si rispetta neanche il più elementare dei diritti umani a chi vuoi che importi! Che l’Europa, all’occorrenza, li ricopra finanche di trenta e più denari, purché facciano loro il “lavoro sporco”! Gli Stati “canaglia” poi son ben altri!
Ed i muri dei nuovi campi di concentramento, i cosiddetti Centri d’Accoglienza (“accoglienza” … ahahahahahahahahahhh!), certamente, più sono alti, irti di chiodi e sormontati da cocci aguzzi di bottiglia, torrette e mitragliatrici, più danno sicurezza e vincono le paure!
Peccato che l’Italia non sia circondata da un oceano, tanto vasto da rendere impossibile ogni traghettamento!

Insomma, alla faccia della Carta costituzionale e di quella dei diritti e finanche del Vangelo, Caronte faccia bene il proprio lavoro: continui a maledire e percuotere le anime prave, continui a lacerare i loro corpi, ma lo faccia con stile, a che i lamenti dei dannati neanche si sentano!
Traghetti i vivi verso il mondo dei morti e faccia sì che essi, i dannati della Terra, non arrivino oppure giungano ben morti e lo restino per sempre!
Auguri, “Caronte”! Ne hai bisogno! Il tuo lavoro sarà veramente duro e tutti, infine, cercheranno di farti tacere, in modo che tu mai possa narrare lo scempio d’anime e di corpi che vedi morire!                                                                        

Così, sulla barca, con sgomento e trepida speranza piangeva Danae,
stringendo amorosamente al seno il suo piccolo Perseo:
«O figlio,
quale pena soffro! Il tuo cuore non sa;
e profondamente tu dormi
così raccolto in questa notte senza luce di cielo,
nel buio del legno serrato da chiodi di rame.
E l’onda lunga dell’acqua che passa
sul tuo capo, non odi, né il rombo
dell’aria: nella rossa
vestina di lana, giaci: reclinato
al sonno il tuo bel viso.
Se tu sapessi quello che è da temere,
il tuo piccolo orecchio sveglieresti alla mia voce.
Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete
abbia il mare; ed il male senza fine,
riposi”.
(Simonide)

Dedicata a tutte le mamme del mondo e soprattutto a quelle che, ancora oggi, sui “barconi della speranza”, traghettate da ancor più perfidi “Caronte”, stringono di nuovo al seno i loro piccoli, agognando per essi “Vita Nuova”!




L’alfabeto della lingua

a cura del Gruppo Nazionale Lingua MCE

Un tempo in diversi Paesi europei le più remote località erano raggiunte dai ‘colporteurs’, venditori ambulanti che offrivano le più svariate tipologie della cosiddetta ‘letteratura di colportage’, libretti morali, immagini e stampe, testi di canzoni, testi religiosi, storie cavalleresche e romanzi diffusi a puntate.
Oggi le tecniche di diffusione sono molto più raffinate, ma è con lo stesso spirito che come Gruppo Nazionale Lingua MCE intendiamo diffondere un’idea di lingua e di educazione linguistica di cui si riscontra un gran bisogno- e una grande assenza- nella scuola.
Si tratta dell’idea di lingua delineata nel Manifesto ‘Educare alla parola’, nelle ‘Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica’ del Giscel, nelle pubblicazioni curate dal MCE nelle collane Narrare la scuola e RicercAzione.
Contiamo con ciò di contribuire a fare chiarezza sulle teorie, esplicite e implicite, che stanno alla base delle molteplici modalità con cui nella nostra scuola è stata e viene ‘insegnata’ la lingua italiana.
Nella varietà e diversità di teorie, modelli, pratiche, abbiamo scelto una serie di ‘voci’ che pensiamo possano aiutare l’insegnante ad orientarsi e a scegliere, nella scuola, approcci e percorsi con consapevolezza.
L’insieme consiste in una serie di  fascicoli, ciascuno contenente alcune  ‘voci’.

Per saperne di più puoi partecipare al webinar in programma per il giorno 11 marzo con inizio alle ore 17.30.
Per iscriversi, compilare il form disponibile qui

VOLUME 1

VOLUME 2

 




Esperimento artificiale

di Marco Guastavigna

Una buona e sufficientemente sintetica definizione dei dispositivi di “intelligenza” artificiale generativa è questa: macchine predittive che, sulla base di allenamento e perfezionamento condotti su gigantesche quantità di dati disponibili a titolo diverso in rete (BigData), sono in grado di costruire correlazioni e modelli statistici, utili per imitare gli esiti di processi cognitivi umani, fornendo risposte e indicazioni plausibili alle sollecitazioni degli utenti.

Questo approccio prestazionale all’intelligenza ha una conseguenza fondamentale: tipologia e qualità degli input dipendono moltissimo dalle modalità di realizzazione delle fasi di apprendimento iniziale, oltre che dal monitoraggio delle interazioni degli utilizzatori, che in molti casi metteranno in moto conversazioni di perfezionamento della prestazione e a cui è richiesto, sempre e passo passo, un feedback – spesso da motivare – sul valore di quanto generato dal dispositivo.

Per verificare il primo aspetto, che è basilare, ho condotto un piccolo esperimento, approfittando del fatto che la piattaforma di AI MagicSchool offre la possibilità di realizzare chatbot personalizzati, con cui interagire in base a criteri originali e specifici, definiti di volta in volta dall’utente, con la massima precisione possibile.

Per primo ho realizzato ChatProfTRad, che impersona l’insegnante tradizionale.
Sono poi passato a ChatProfInn, il cui credo è l’innovazione.
Siccome non mi riconoscevo in nessuno dei due profili, ho successivamente abbozzato un auto-identikit professionale, sfociato in ChatProfDiv(ergente).
Ho poi condotto una conversazione con ciascuno dei tre interlocutori.

Vale la pena di raggiungere quella con il primo per vari motivi, ma in particolare perché il chatbot si abbandona a qualche imprevista apertura a posizioni diverse da quelle di cui appare più convinto.
Quella con il collega innovatore è in vari passaggi al limite dell’insopportabilità: il chatbot elenca precetti, istruzioni, esempi, pregi e difetti con tono davvero saputello.
Ero ovviamente molto curioso di dialogare con il mio avatar professionale, ma non siamo andati oltre le prime battute, perché il meccanismo ha immediatamente fallito, fornendo una risposta implausibile. Perché?

Tradizione e innovazione animano il conflitto a proposito di istruzione, scuola e didattica, che si svolge quotidianamente tra schieramenti contrapposti, sui social e su molte altre istanze della rete, fornendo ai dispositivi di AI la possibilità di utilizzare per le proprie prestazioni BigCorpora ampi, congruenti e coerenti.
Non altrettanto avviene però per le posizioni non riducibili a questa polarizzazione: rare e spesso rarefatte, esse hanno invece minime possibilità di essere intercettate e considerate nelle fasi di addestramento e perciò il dispositivo non dispone di modelli di riferimento coerenti e congruenti ed è costretto a improvvisare.




Col senno di poi, ovvero Santa Franca (Falcucci)

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Cinzia Mion

A bocce ferme, dopo il tormentone dell’emendamento del governo che prevede alla scuola primaria, dall’anno scolastico prossimo, il cambiamento dei giudizi descrittivi e il ripristino di quelli sintetici (da insufficiente a ottimo) di fatto annullando le Linee Guida del 2020, mi ritrovo a fare alcune considerazioni.
Con la prima desidero ricordare come l’unica riforma che abbia rispettato un primo periodo di applicazione facoltativa sperimentale, con successiva raccolta dei dati e delle osservazioni critiche per poterla aggiustare in itinere, sia stata la famosa L.148/90, meglio nota come la “riforma dei moduli”, firmata dalla Ministra Falcucci! ( con il senno di poi molto rimpianta, com’ è fra l’altro in un certo senso avvenuto con la sua circolare famosa n° 227 del 1975 che ha anticipato i contenuti della L.517 ben due anni prima!)

Io allora ero Direttrice Didattica a Conegliano, 2° circolo e rammento il fermento innovativo e il desiderio di mettersi in gioco di insegnanti che hanno contagiato gli altri di fronte alla sfida di superare la figura del maestro unico!
Ricordo pure che dopo 2 anni sono passati gli ispettori tecnici per intervistare i docenti e raccogliere punti di forza e punti debolezza della riforma che soltanto l’anno successivo è stata resa obbligatoria con i debiti aggiustamenti.
Come mai questa prassi non è più stata ripresa e soprattutto non è stata applicata rispetto al dispositivo di cui stiamo parlando? Forse, con il senno di poi, si sarebbero potute snellire nel tempo certe modalità troppo burocratizzate e vincolanti che hanno affaticato inutilmente gli insegnanti strada facendo, in qualche caso irritandoli. Ho trovato a volte anche da parte nostra, di teorici della scuola e dell’insegnamento, un po’ supponente considerare certi segnali di insofferenza senza dare loro credito. E’ come se, galleggiando sopra ai problemi, in preda all’enfasi scaturita dall’abolizione sacrosanta dei voti numerici, qualche volta pontificassimo evitando di dare dei colpi di sonda dentro alla realtà in sofferenza del corpo docente. Mi metto tra questi con grande rammarico …

Come mai al Ministero non solo non si mette più in atto ma pare che non si conosca nemmeno il termine “sperimentale”, con quel che avrebbe dovuto comportare?
In questo caso poi Le linee guida sono uscite a dicembre e l’applicazione obbligatoria per tutti i docenti della primaria è stata a partire dal primo quadrimestre!!!

La seconda considerazione, direttamente conseguenza della prima è: ma come si fa ad avviare una riforma della valutazione dopo che dal 1977 ad oggi non riesco nemmeno a contare quanti siano stati gli interventi legislativi su questo argomento, senza ottenere mai un radicale cambiamento nella mente dei docenti perché non si tiene conto che nel loro “cervello” sono imbullonati i voti numerici difficili da estirpare, se non con una formazione “trasformativa” e non semplicemente addestrativa. Il riferimento non contiene un cenno offensivo nei confronti dei docenti ma soltanto un richiamo ai “neuroni specchio” che nel corso degli anni hanno  contraddistinto l’esperienza valutativa subita durante tutta la loro esperienza scolastica e universitaria. E’ successo a tutti noi, nessuno escluso. E non solo per la valutazione ma anche, purtroppo, per la didattica trasmissiva!

La terza considerazione riguarda la “valutazione formativa”, l’unica che potrebbe  estirpare questa consuetudine del voto soggiacente ad ogni tipologia di valutazione illusoriamente innovativa.
La domanda essenziale allora che dovremmo farci espressamente è: perché , a partire dalla formazione iniziale dei docenti, tranne qualche volta in quella per la scuola primaria per ragioni comprensibili ma che qui non è il caso di affrontare, non si provvede ad attivare in loro la competenza all’autointerrogazione  e all’autovalutazione? Aspetti questi fondamentali per arrivare ad applicare la valutazione formativa consistente nell’autoaggiustamento del docente della propria strategia metodologico-didattica, in presenza di difficoltà di comprensione e apprendimento dell’allievo. Ovviamente, in un gioco di specchi, ci viene da rispondere che nemmeno l’Università è in grado ( o si rifiuta di farlo?) in questo momento storico di “autovalutare” il proprio lavoro formativo in funzione della  professionalità docente. Da quando è stata chiusa la SSIS chi si cura oggi di offrire ai futuri insegnanti, oltre alle competenze disciplinariste, i fondamentali della psicopedagogia che permetteranno di cogliere la tipologia e la significatività del loro insegnamento in rapporto al tipo di apprendimento sollecitato? Chi si cura di far corrispondere all’apprendimento desiderato le strategie didattiche adeguate? Presso la formazione iniziale dei docenti della secondaria dove sono le attività di tirocinio, i laboratori e le esercitazioni pratiche, all’interno del percorso formativo, che dovrebbero permettere ai docenti universitari di comprendere se le conoscenze apprese dalle “dispense teoriche“, su cui hanno valutato già gli studenti, si sono effettivamente incarnate in competenze? Solo chi  sa applicare su di sé l’autovalutazione potrà insegnare a farlo fare agli altri perché padroneggia le competenze autoriflessive e metacognitive necessarie e le può quindi rendere esplicite attraverso un “apprendistato cognitivo” realizzato allo scopo (metodologia neovigotskiana).

E’ per questo motivo che io sono convinta che prima di sollecitare l’autovalutazione dell’allievo, con dei giustissimi feedback formativi, l’insegnante deve imparare ad autovalutare se stesso ma deve incontrare una Università che glielo insegna.

Conclusioni

E’ dal 1977 che la normativa sollecita la “valutazione formativa” in tutte le salse senza però avere l’opportunità di  riconoscerne l’applicazione nella scuola reale.
Quale migliore occasione allora di ripartire da questa (su cui perciò non esiste purtroppo nessun rischio di implementazione da “neurone-specchio”perché difficilmente ha visto la luce!) per poi individuare il miglior modo più efficace, per l’apprendimento dell’allievo, dell’inevitabile  successiva valutazione sommativa. Quest’ultima è ovvio e naturale che rifiuterà i voti numerici docimologicamente inaccettabili (la formazione universitaria adeguata porterà a queste conclusioni) e suggerirà invece delle modalità agili, comprensibili a tutti ma soprattutto utili all’allievo per migliorarsi. Le modalità terranno in considerazione i progressi avvenuti, quindi il punto di partenza: “criterio” questo che differenzia qualsiasi osservazione “misurativa” dalla vera e propria attività “valutativa” che deve contenere sempre, come esplicita il termine, il risultato di una riflessione ad hoc. Mai quindi  essere un atto solo “riflettente”. Il tutto si accompagnerà con un costante “processo di incoraggiamento”, facendo leva sulle motivazioni intrinseche per incentivare il soggetto a migliorarsi, senza mortificazioni inutili e dannose. A tale proposito ricordiamo la forza trainante “dell’autoefficacia” che avremo cura di far provare a tutti gli alunni attraverso didattiche dapprima individualizzate, per il raggiungimento delle competenze di base, e poi personalizzate.   Ricordiamoci sempre che solo a ridosso delle scadenze delle valutazioni formali (intermedia e finale) saremo costretti a lasciar perdere, nostro malgrado, le sollecitazioni nella “zona di sviluppo potenziale”, per sostenere (scaffolding) l’allievo al livello successivo di competenza, visto che è in procinto di arrivarci.
Per riprendere tale prassi appena possibile. E’ questo il fascino gratificante per tutti, allievi e docenti, della “valutazione formativa”, questa  sconosciuta! Anche se citatissima nei testi legislativi ma trascurata, fraintesa e qualche volta pure presa in giro nella prassi!

E’ questo il cuore pulsante dell’insegnamento in una scuola che aspiri e desideri definirsi “inclusiva”.