Il gruppo che scrive il Pei si chiama Glo

articolo-e-chiocca         Di Evelina Chiocca
Durante l’incontro, convocato dal DS, i componenti del GLO (Gruppo di Lavoro Operativo) elaborano (scrivono) il PEI (Piano Educativo Individualizzato).
Vi è necessità di chiarire che GLO e PEI non sono due “incontri” differenti.
Il PEI si elabora durante l’incontro del GLO.
PEI = documento
GLO = le persone che sono chiamate, perché indicate dalla norma, a elaborare insieme il documento PEI.
Chiaramente si arriva all’incontro con una “traccia” che in genere viene predisposta dagli insegnanti della classe (ogni docente incaricato sulla disciplina indica la sua parte, mentre il docente incaricato su sostegno si occupa della parte generale). Questa traccia può essere consegnata alla famiglia in modo da “sfruttare al massimo il tempo dell’incontro dei componenti del GLO” (si tratta di una modalità molto utile).
Anche i genitori, almeno per la loro parte, possono predisporre una traccia e proporla ai docenti prima dell’incontro (inserendo utili suggerimenti anche per altri aspetti presenti nel PEI).
In sintesi, durante l’incontro del GLO, devono emergere la condivisione, la capacità di sintesi, l’intesa, la sinergia d’intenti, la collaborazione. Si “costruisce” insieme: ciascuno secondo le proprie competenze, aiutandosi reciprocamente, “componendo il puzzle che trova unità nel documento elaborato insieme”, nel rispetto reciproco dei ruoli (e con la consapevolezza che questa diversità è la garanzia indispensabile per la realizzazione del progetto inclusivo).

 




L’alunno disabile non ha il “suo” insegnante, ma i “suoi” insegnanti

di Evelina Chiocca

L’errore di fondo è, per molti, è di ritenere che a scuola “solo il docente di sostegno” possa e debba assicurare il percorso di crescita e di formazione dell’alunno con disabilità. Si tratta di una visione totalmente distorta!!! L’inclusione si realizza grazie “alla sinergia e alla collaborazione reale” di tutti i docenti della classe.
Il docente “incaricato su posto di sostegno”, da solo, non garantisce gli apprendimenti né l’attuazione del processo inclusivo.
Insistere su un’unica figura professionale è controproducente e non è neppure in linea con l’impostazione di “integrazione” introdotta negli anni Settanta del secolo scorso e di “inclusione”, oggi.
Eppure stampa, servizi dedicati, servizi giornalistici, come pure le testimonianze di alcuni docenti, ripropongono questa impostazione, consolidando una “pseudo-cultura”, direi, opposta rispetto a quella che l’inclusione promuove.

Pertanto:

  • coloro che scrivono articoli nei quotidiani, nei giornali on-line, o in riviste dedicate, in blog o altro, come pure chi propone servizi radiofonici o televisivi, dovrebbero adottare un linguaggio corretto e offrire informazioni puntuali, non distorte o condite dal “sentito dire“; l’attenzione va posta non solo ai termini, ma anche e soprattutto al senso e al significato di questo processo,
  • i docenti dovrebbero riferire in modo corretto “la loro professione”. In particolare dovrebbero mostrare di conoscere i compiti che, contrattualmente, sono tenuti a rispettare, approfondendo le competenze ‘non possedute’ in tema di inclusione, onde evitare:

a) “deliri di onnipotenza”, per cui il bambino o il ragazzo impara “Se ci sono io, altrimenti no” (se ciò avviene, si deve registrare il fallimento e non il successo, perché, e i docenti ben lo sanno, “generalizzare” gli apprendimenti, e quindi anche i comportamenti acquisiti, per gli alunni costituisce una delle più grosse difficoltà);
b)  di pensare che senza di lei/lui “l’alunno non possa imparare”;
c)  di puntare unicamente sul “proprio ego” e su “un rapporto esclusivo con l’alunno”, mentre dovrebbero favorire la collaborazione “consapevole e corresponsabile” con i colleghi;
d) di stabilire un rapporto simbiotico ed esclusivo (di conseguenza “e-scludente”) anche con la famiglia: l’alleanza scuola-famiglia si costruisce fra “tutti i docenti della classe” e la stessa “famiglia”

  • genitori, insegnanti e giornalisti (e la società nel suo insieme) dovrebbero imparare a chiamare gli alunni per nome, riconoscerli come persone e non come “sindromi o disturbi”!!! A scuola gli insegnanti lavorano (e devono lavorare) con “persone“, per l’appunto gli alunni e le alunne, e non con un disturbo, una sindrome o, come sempre più frequentemente si sente dire, con una patologia!!!

Già i padri della pedagogia affermavano che la disabilità non è una malattia!
L’alunno o l’alunna con disabilità non è il suo disturbo, non è una patologia, non è la “sua disabilità”.
Se davvero il nostro comune obiettivo è di costruire una società in cui ciascuno sia chiamato per nome, sia riconosciuto come persona, sia rispettato come unicità, allora dobbiamo uscire da questi pericolosi e devianti stereotipi, che portano alla deriva e che trascinano, pericolosamente, verso la separazione, la divisione e l’emarginazione, dando vita alla “classe speciale” nella “classe comune” e alla ormai non più così remota ipotesi di riproporre le scuole speciali.
Iniziamo a cambiare noi, noi che nella scuola agiamo ogni giorno. Modifichiamo espressioni e lessico. Adottiamo nuove prospettive. Abbracciamo l’unica modalità possibile: quella in cui l’alunno con o l’alunna con disabilità è alunno di tutti i docenti della classe che, con responsabilità condivisa e con professionalità, lavorano insieme per promuovere lo sviluppo delle potenzialità di apprendimento, di socializzazione, di relazione e di comunicazione.

Il cambiamento è possibile: comincia da noi.

 

 

 

 

 




Il fallimento dell’autonomia: la sudditanza dei dirigenti scolastici

di Cinzia Mion

Ai motivi analizzati da Mario Maviglia, ne aggiungerei un altro: la SUDDITANZA, invece dell’autonomia, che paradossalmente si è implementata un po’ alla volta nei dirigenti scolastici appena diventati incardinati presso gli Uffici Scolastici regionali e hanno cominciato a sentirsi “dipendenti” dal Direttori regionali. A tale proposito ricordo un episodio emblematico: durante una riunione provinciale dell’Andis, nei primi anni subito dopo l’approvazione del regolamento dell’Autonomia, erano appena uscite le Indicazioni della Moratti, ed io mi sono ritrovata a fare una proposta di analisi critica delle stesse (visto che insieme ad un piccolo gruppo l’avevamo già fatta). Si trattava di spedire il documento al Direttore regionale, visto che nel Codice Etico dei Dirigenti avevamo rivendicato con orgoglio il fatto di non tacere se avessimo individuato degli aspetti di criticità nello svolgimento del nostro lavoro. Stranamente la proposta non è passata. E’ stata anzi accolta con una certa freddezza, aspetto nuovo ed inaspettato. Quando la riunione è terminata sono stata avvicinata da due colleghe fra le più attive della provincia che mi hanno tirato per la giacca e mi hanno detto: “Non possiamo più fare queste cose, guarda che se dimostriamo di non essere d’accordo su qualcosa corriamo il rischio di essere trasferite d’ufficio”
Questo episodio mi ha fatto capire che l’aria era cambiata… Dentro di me ho pensato all’uso efficacissimo che avrei potuto fare sotto l’aspetto politico se fosse successa una cosa del genere, visto che l’analisi critica che era stata prodotta era benissimo argomentata dal punto di vista psicopedagogico.
Alla fine ho espresso nei miei scritti successivi che l’autonomia e il vero senso di cittadinanza si esprime quando ci sentiamo orgogliosi di affrontare disagi e sappiamo rinunciare ad eventuali privilegi (anche soltanto consistenti nell’evitare “sanzioni”), pur di poter esprimere il pensiero critico e l’autonomia di giudizio.