Gramsci, Valditara e le “qualità taumaturgiche del Latino”

di Luigi Saragnese

Come un fiume carsico, che scorre nascosto nel sottosuolo, dove manifesta solo effetti indiretti, per poi emergere apertamente in superficie a intervalli più o meno regolari, la questione dell’insegnamento del latino, e della sua affermata “centralità” formativa, riemerge periodicamente nei dibattiti sullo stato della scuola italiana.

È quanto accaduto anche stavolta con l’intervista del ministro Valditara a Il Giornale del 15 gennaio[1]. Nell’annunciare le nuove Indicazioni nazionali per il primo ciclo – assieme ad “innovazioni” quali la “comprensione della civiltà musicale sin dalla prima elementare”, l’”insegnamento della letteratura (comprensiva della Bibbia) e della grammatica”(dalla quale ha inizio – precisa il ministro – la cultura della regola), e della Storia “come una grande narrazione”, priva di “sovrastrutture ideologiche” che privilegi “la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente”, Valditara ha posto l’accento su quella che si appresta ad essere uno degli assi portanti del suo progetto: l’apertura all’eredità di “un vasto patrimonio di civiltà e tradizioni” attraverso la reintroduzione del Latino a partire dal secondo anno della scuola secondaria di primo grado.

La breve intervista di Valditara, come era prevedibile, ha suscitato sui media un vasto dibattito, nel quale, per ora, mentre abbondano interventi e prese di posizione del centrodestra, in gran parte inneggianti alle “novità” anticipate dal ministro, mi pare manchino quelle del mondo della scuola. In queste note, mi limiterò ad alcune osservazioni relative al ritorno dell’insegnamento del Latino, alla sua riaffermata funzione didattico-pedagogica (“ruolo strategico” secondo Il Giornale) nel curricolo della scuola dell’obbligo e alla importanza ad esso attribuito, secondo alcune interpretazioni in voga anche in alcuni ambienti della sinistra, dalle riflessioni gramsciane nei Quaderni del Carcere.

Una lettura parziale e spesso intenzionalmente fuorviante delle note di Gramsci sull’argomento[2], infatti, tende a far diventare senso comune un’interpretazione, secondo la quale non solo egli era favorevole all’insegnamento del Latino, ma riteneva questa materia “assolutamente formativa”. In questi termini, ad esempio, si esprimeva lo scorso 28 ottobre, nella trasmissione di Radio Rai 1 “Giù la maschera”, Luca Ricolfi presentato e accreditato come intellettuale di “sinistra”. A sua volta, la prof. Loredana Perla, presidente della Commissione di esperti insediata da Valditara per la revisione delle Indicazioni nazionali, ha giustificato le sue scelte, affermando: “Tornare al latino non è sbagliato, anche Gramsci approverebbe”[3].

In tal modo, la “riforma” annunciata da Valditara all’insegna dello slogan «Prendiamo il meglio del passato per guardare al futuro», smaccatamente rivolta al ritorno alla scuola duale di gentiliana memoria, e sopravvissuta, però, ad opera dei ministeri democristiani dell’Istruzione per tutti i lunghi anni del centrismo[4], fino alla riforma della scuola media unica del 1962 e oltre (il latino sparirà dai programmi perché incorporato nell’educazione linguistica solo con la legge 348 del giugno 1977 ma la scuola secondaria di secondo grado ne conserva l’impianto ancora oggi) viene così riverniciata e coperta “a sinistra”.

In realtà, nulla dell’ispirazione e dei contenuti del progetto ministeriale è più lontano da quanto il grande intellettuale sardo scrive nei Quaderni, affrontando i temi della cultura, degli intellettuali e dell’educazione delle classi subalterne.

Gramsci percepisce l’azione educativa in stretta relazione con le condizioni concrete dello sviluppo economico-sociale e per questo avverte l’esigenza di fondare il suo progetto educativo sull’analisi obiettiva dello sviluppo della società: il suo progetto di scuola unitaria non si limita quindi alle pagine del Quaderno 12 dedicate specificamente alla scuola, ma percorre l’intera sua riflessione e deve essere letto nel complesso processo di tipo politico, ma anche culturale, scientifico e tecnico attraverso il quale il proletariato impara a governare e a trasformare la realtà. È il “problema dell’egemonia” al quale egli dà un eccezionale rilievo e di cui individua il carattere intrinsecamente pedagogico[5].

È questo il contesto nel quale si colloca la critica della riforma Gentile del 1923, che per Gramsci aveva «istituzionalizzato» invece di eliminare la frattura che si era venuta determinando fra scuola e vita (e quindi fra scuola e società), nell’illusione di poter restaurare sull’astratto piano educativo-scolastico l’efficacia di una tradizione educativa che non trovava più rispondenza nelle trasformazioni ormai in atto nella società. Da qui la critica alla diffusione delle «scuole professionali specializzate, predicate come «democratiche», fin dall’inizio della carriera degli studi» […] che tendono «dunque ad eternare le differenze tradizionali»[6], per approdare ad una visione dell’educazione che mira a superare sia la visione della scuola “disinteressata” tradizionale, di cui veniva esaltata la superiorità, espressione di una tradizione umanistico-retorica, una scuola classista volta a riprodurre i quadri dirigenti delle classi dominanti, sia il sistema delle scuole popolari e professionali, riservate ai figli di operai e contadini (le classi strumentali). La questione del Latino non è, dunque, per Gramsci una questione “tecnica” ma riguarda l’idea complessiva di scuola:

“Nella vecchia scuola lo studio grammaticale delle lingue latina e greca, unito allo studio delle letterature e storie politiche rispettive, era un principio educativo in quanto l’ideale umanistico, che si impersona in Atene e Roma, era diffuso in tutta la società, era un elemento essenziale della vita e della cultura nazionale. Anche la meccanicità dello studio grammaticale era avviata dalla prospettiva culturale”. […] Non si imparava il latino e il greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente. […] Ciò non vuol dire (e sarebbe inesatto pensarlo) che il latino e il greco come tali, abbiano qualità intrinsecamente taumaturgiche nel campo educativo. (sottolineatura mia N.d R.) È tutta la tradizione culturale, che vive anche e specialmente fuori della scuola, che in un dato ambiente produce tali conseguenze. Si vede, d’altronde, come, mutata la tradizionale intuizione della cultura, la scuola sia entrata in crisi e sia entrato in crisi lo studio del latino e del greco.

Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà (sottolineatura mia N.d R.), ma non sarà agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità»[7] .

Nessuna nostalgica riproposizione della scuola tradizionale, dunque, in Gramsci e anzi, come osservava giustamente M.A. Manacorda, «Questa ripresa del discorso giovanile di esaltazione del latino ha dunque un senso totalmente diverso, anche se gli argomenti sono letteralmente gli stessi: ora è nulla più che un epitaffio, che celebra ciò che la scuola umanistica è stata, e non può più essere perché è mutata la realtà sociale»; rappresentava «una netta constatazione della crisi della vecchia scuola, ormai staccatasi dalla vita, […] (che si conclude) con la negazione di ogni «qualità taumaturgica» allo studio del Latino e una altrettanto netta affermazione sulla necessità di sostituire il latino e il greco come fulcro della nuova scuola»[8] :

La scuola unitaria è per Gramsci la soluzione alla crisi della vecchia scuola della tradizione umanistico-retorica e al crescente moltiplicarsi di scuole ed istituzioni educative giustificato dal proliferare delle specializzazioni tecniche della società moderna, conseguenti alla divisione del lavoro:

«La scuola unitaria o di formazione umanistica (inteso questo termine di umanesimo in senso largo e non solo nel senso tradizionale) o di cultura generale, (sottolineatura mia N.d R.) dovrebbe proporsi di immettere nell’attività sociale i giovani dopo averli portati a un certo grado di maturità e capacità alla creazione intellettuale e pratica e di autonomia nell’orientamento e nell’iniziativa»[9] .

Su tali linee guida si andò strutturando la politica scolastica del Partito comunista italiano negli anni ’50, gli anni della «scuola bloccata», la scuola dell’«ostruzionismo della maggioranza», secondo la definizione di Calamandrei. Dopo le iniziali incertezze dei primi anni del dopoguerra, segnati dal dibattito tra Concetto Marchesi e Antonio Banfi proprio sulla presenza del Latino nella scuola media, il Pci arriva nel 1955 a formulare la prima proposta organica di attuazione dell’obbligo scolastico di otto anni: una scuola «unica e senza latino» «in modo da far sì che la scuola dell’obbligo non si divida, […] in una scuola e in una sottoscuola»[10] per colpire alla radice l’impianto a «canne d’organo» della scuola gentiliana. Sono le stesse motivazioni che porteranno il PCI nel 1959 ad avanzare al Senato il primo Disegno di Legge che istituiva la scuola obbligatoria statale dai 6 ai 14 anni[11]. Nel 1962, il Pci, pur apprezzando i passi avanti contenuti nella legge istitutiva della scuola media unica, frutto di un compromesso tra DC e PSI, viste respinte le sue proposte, presentò una relazione di minoranza e votò contro la legge n. 1859, che tra gli altri limiti, oltre a conservare l’insegnamento obbligatorio del latino in seconda media e in terza come disciplina opzionale, ma obbligatoria per chi intendesse iscriversi successivamente al liceo classico, lasciava in vigore i vecchi programmi per tutte le altre materie.

È dunque davvero difficile vedere nella scuola delineata dal titolare del dicastero dell’Istruzione qualcosa capace di rispondere alle educative del presente e del futuro. Ciò che emerge è, invece, l’immagine nitida di una scuola che fa del ritorno al passato, del “recupero del patrimonio culturale della nostra tradizione” la chiave per rafforzare le differenze di classe in campo educativo, per cancellare ciò che ancora a stento sopravvive delle conquiste del movimento operaio, e procedere speditamente verso un modello di scuola che trova la sua fonte di ispirazione nei ministeri clericali degli anni ’50.

NOTE

  1. Stefano Zurlo, “Più storia dell’Italia ma senza ideologia“, Il Giornale, 15 Gennaio 2025
  2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 12, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, pp. 1543-1546
  3. L. Perla, “Tornare al latino non è sbagliato, anche Gramsci approverebbe”, La Repubblica on line, 17. 1. 2025
  4. L. Saragnese, I comunisti e la scuola -La politica scolastica del Partito Comunista Italiano dalla Liberazione al congresso di Rimini (1945- 1991, Roma, RedStar Press, 2022, pp. 74-121).
    Gonella (1950) indicava alle scuole un elenco di filosofi da studiare, che comprendeva Sant’Agostino, San Tommaso, Rosmini e Gioberti, ma non Spinoza, Leibniz ed Hegel; per Ermini (1955) la scuola aveva” come suo fondamento e coronamento, l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica», e con Segni era possibile il riconoscimento di 264 scuole cattoliche in un solo giorno (22 maggio 1953).
  5. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 10, § (43) Introduzione allo studio della filosofia, p. 1331;
  6. Cfr. A. Gramsci, Quaderno 12, Osservazioni sulla scuola. Per la ricerca del principio educativo,.» p. 1547-48;
  7. A. Gramsci, Quaderno 12, Osservazioni sulla scuola. Per la ricerca del principio educativo.» p. 1543-46
  8. M. A. Manacorda, a cura di, Introduzione a A. GRAMSCI, L’alternativa pedagogica, Roma, Editori Riuniti university press, 2012, p. 33
  9. A. Gramsci, Quaderno 12, Osservazioni sulla scuola: Per la ricerca del principio educativo, p. 1534;
  10. Cfr. M. Alicata, La riforma della scuola, Editori Riuniti, Roma, 1956. Per il dirigente del PCI, l’abolizione del latino nella scuola fino ai 14 anni non doveva significare cancellare la conoscenza e assimilazione della «classicità», stabilendo così un rapporto meccanico con l’insegnamento del latino, ma praticare un umanesimo moderno, non «fossile retorico formalistico», basato, essenzialmente, su una visione scientifica» (non «scientista») della realtà naturale ed umana
  11. Senato della Repubblica, Disegno di Legge Istituzione della scuola obbligatoria statale dai 6 ai 14 anni, n. 359, d’iniziativa dei Senatori Donini, Luporini, Fortunati, Pesenti, Granata, Cecchi, Marchisio e Mencaraglia, 21 gennaio 1959

 

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