Dirigenti scolastici: sono in Piemonte i più stressati. C’entra forse il dimensionamento?

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di Nicola Puttilli

Sarà stato il 1985 o il 1986 quando il consiglio scolastico provinciale di Torino, che in quegli anni ebbi la ventura di presiedere, decise di procedere alla fusione delle scuole medie “Pavese” e “Casorati”.
Dopo tre decenni di ininterrotta e tumultuosa crescita si trattò della prima soppressione di un istituto scolastico, non a caso nella periferia sud di Torino, case popolari costruite in fretta intorno allo stabilimento di Mirafiori.
Da allora, a parte gli ultimi, ho seguito direttamente tutti i piani di dimensionamento che si sono succeduti nella provincia di Torino, nell’ambito del consiglio scolastico provinciale prima e a livello regionale poi nella consulta regionale per il diritto allo studio, istituita nel 2007.

Con precisione e puntualità tutte sabaude, le istituzioni scolastiche piemontesi sono state costantemente dimensionate secondo i parametri di legge.
Il crescente successo degli istituti comprensivi, nati per contrastare gli effetti derivanti dallo spopolamento nelle aree montane ma effettivamente in grado di rispondere a reali esigenze di continuità, ha inevitabilmente cambiato il quadro di riferimento.
A causa, tuttavia, del già avvenuto dimensionamento, non è risultato semplice, nel contesto urbano torinese in particolare, procedere alla loro formazione che, in effetti, si è realizzata con notevole ritardo rispetto ad altre realtà nazionali, semplicisticamente accorpando scuole medie e direzioni didattiche, raddoppiandone la dimensione.
Una volta deciso, il passaggio generalizzato ai comprensivi è avvenuto in tempi relativamente rapidi rispetto alla media dei tempi di cambiamento della nostra scuola, con annesso effetto di trascinamento sulle dimensioni delle secondarie superiori, secondo due modalità invece piuttosto consuete.
La prima è la casualità quasi assoluta e l’evidente assenza di progetto: gli istituti comprensivi hanno ormai soppiantato le altre tipologie (4.865 istituti comprensivi contro 313 direzioni didattiche e 121 scuole medie, dati MIM a.s. 23/24) senza un minimo di riflessione sulle dimensioni ottimali di un’istituzione scolastica, senza preoccuparsi di rendere omogeneo lo stato giuridico del personale docente, senza alcun percorso di formazione dedicato, senza prevedere funzioni di sistema adeguatamente strutturate e formate.
La seconda è l’impulso irrefrenabile a tirare i cordoni della borsa quando si tratta di scuola (escluse ovviamente le spese relative al PNRR che rispondono a logiche del tutto particolari ed eccezionali); da decenni la priorità del risparmio caratterizza le politiche scolastiche (quota di PIL dedicato praticamente dimezzata in poco più di due decenni), in questo caso si tratta di risparmiare (neanche tanto, ma tutto fa cassa) sui dirigenti scolastici e sul personale amministrativo.

Mancanza di visione, pressapochismo, tagli indiscriminati alla spesa. Si tratta, a ben vedere, delle stesse modalità che hanno caratterizzato il tormentato percorso delle autonomie scolastiche.
Nate per rispondere direttamente alle esigenze del territorio con proprie risorse finanziarie e di organico e presto abbandonate a se stesse, prive di risorse e caricate di ogni incombenza. Sono stati prontamente aboliti i provveditorati agli studi con le relative competenze, spesso pregevoli, che avrebbero potuto svolgere, trasformati in centri di servizio, preziose funzioni di supporto, per lasciare spazio alle direzioni regionali diventate tanti piccoli ministeri dispensatori di disposizioni e richieste continue.
Così come, con altrettanta celerità, sono stati aboliti gli IRRSAE che avrebbero potuto efficacemente affiancare le scuole in materie delicate e complesse come la formazione, la ricerca e la sperimentazione, relegando ancora di più le autonomie scolastiche in una condizione di pressoché totale solitudine.

Dimensionamento e autonomia scolastica, due problematiche diverse ma interconnesse sulle quali sarebbe urgente intervenire rimediando gradualmente, ma con chiarezza e determinazione agli errori del passato, se non si vogliono ulteriormente aggravare non solo le condizioni di lavoro dei dirigenti scolastici ma anche, e soprattutto, i problemi, già ampiamente presenti, di gestione e di funzionamento delle nostre scuole. Purtroppo i ministri che si sono succeduti a viale Trastevere in quest’ultimo quarto di secolo mai se ne sono fatti carico e meno che mai sembra intenzionato a farlo quello attualmente in carica, impegnato com’è a piantare le proprie bandierine ideologiche tra sovranità nazionale, made in Italy e voti numerici nella scuola primaria).
In un recente articolo comparso sul “Corriere della Sera”, a seguito di uno specifico sondaggio, si parla dei dirigenti scolastici come di una categoria professionale particolarmente stressata, si lamentano fra l’altro “sintomi depressivi come la perdita di interesse o piacere nelle attività, l’affaticamento mentale cronico (in grassetto nell’articolo), il pianto frequente e la reattività emotiva accentuata”.

Con i livelli attuali di complessità dirigere una scuola con 800 alunni è profondamente diverso dal dirigerne una con 1500, magari articolata in una molteplicità di plessi e chissà che, fra le altre cose, non sia stata anche la gestione approssimata e sbrigativa del dimensionamento a porre i dirigenti scolastici piemontesi al vertice della classifica dello stress.